mercoledì 4 novembre 2009

Articolo - LINEAMENTI DELL'EVOLUZIONE DEI SISTEMI UNIVERSITARI IN EUROPA

Le università quali sedi principali di elaborazione, organizzazione e trasmissione della cultura hanno assunto una posizione eminente in Europa intrecciando il lungo corso della loro storia con quello delle altre istituzioni. La ricerca universitaria, come la didattica, sono punti cardine per la produzione e la diffusione della conoscenza in grado di influenzare il progresso di ogni forma di attività umana (1). La scoperta, la conservazione, la ridefinizione e la trasmissione della conoscenza sono, infatti, direttamente connesse alla crescita del capitale umano (2). Nel quadro dell’evoluzione dei sistemi universitari in Europa le questioni essenziali che si pongono sono tre. La relazione tra cultura e sviluppo è la prima. Il confine tra il potere dello Stato e il potere delle Università, come presupposto per declinare i campi di applicazione dell’autonomia universitaria, è la seconda. Il rapporto tra la valutazione e l’autonomia è la terza questione (3). Si condivide in generale che la Germania, la Francia e l’Inghilterra, siano gli Stati dove si afferma un modello di università europea contemporanea. Sono gli stessi, non a caso, dove al tempo stesso avvengono le rivoluzioni che si definiscono, nell’ordine, filosofica, politica, industriale (4). Dalle origini al secolo XIX Le prime università appaiono in Europa intorno al XII secolo e hanno un’origine e un’organizzazione autonoma, distinta dal potere politico al quale tuttavia l’élite intellettuale del tempo partecipa autorevolmente. Non nascono per concessione del sovrano, come in quell’epoca avveniva per le istituzioni di natura pubblica. Prescindono perciò dal riconoscimen¬to del potere politico pubblico. Sono, infatti, istituzioni private, corporazioni di studiosi caratterizzate dal connubio tra maestri e studenti. Hanno come base fondante un patto associativo tra “mastri e scolari”. Così le università originano in epoca medievale, istituite su un atto di libertà e di autonomia della comunità degli scien-ziati e degli studiosi (3). “Gli scolari, in particolare, non avevano un collegamento territoriale basato sulla residenza nel luogo ove sorgeva l’università. Essi sceglievano i maestri per il loro merito e per la fama che li circondava. Essi, quindi, richiamati da nuovi maestri, si trasferivano presso gli atenei ove quelli tenevano i propri corsi. La mobilità degli scolari, pertanto, concorreva fortemente a rendere precario il rapporto delle università con i poteri pubblici locali”. Inoltre, non essendo istituzioni pubbliche, le università non appartenevano neanche ai singoli poteri nazionali. Per questo sembrerebbe più corretto inquadrarle nell’ambito di quelle istituzioni cosiddette internazionali (5). Nell’età feudale manca dunque alle origini delle università un rapporto privilegiato nei confronti dei poteri pubblici. Soltanto in seguito il potenziamento delle autorità locali e la sempre maggiore espansione delle città assumono un carattere vitale necessario allo sviluppo delle università che vi sono insediate. Si avvera così una profonda interazione nei rapporti tra le università e il mondo esterno. I poteri locali, man mano che assumono forme organizzative più complesse e radicate sul territorio, riescono a influenzare in maniera sempre più penetrante le università (6). Le università diventano istituzioni pubbliche con il Rinascimento, quando nascono come strumenti al servizio del potere pubblico, istituzioni “utili” ai sovrani (3). Un esempio è offerto dal più antico college dell’Università di Oxford, Christ Church, che nel XVI secolo fu ricostituito da Enrico VIII quando egli, diventato capo della chiesa anglicana, per questa via tentò di condizionare l’elaborazione della cultura nel processo di distacco dell’Inghilterra dal potere temporale dei Papi. Con l’affermarsi tra il XV e il XVII secolo di quello che è chiamato lo Stato moderno, avviene un progressivo accentramento del potere e della territorialità dell’obbligazione politica. Alle università sono richiesti nuovi compiti per formare personale preparato per l’amministrazione della giustizia e per la direzione e la gestione degli affari pubblici. Nel periodo conosciuto come il Secolo dei Lumi (XVIII secolo), l'Europa è testimone di notevoli cambiamenti socio-culturali. Le università, in maggioranza gestite da religiosi, sono ormai completamente asservite allo Stato. La loro autonomia è quasi azzerata e diventano sempre più finalizzate a fornire personale qualificato da destinare a interi apparati dello Stato moderno. Per l’accesso agli alti gradi dell’amministrazione è sempre richiesta un’istruzione universitaria. L’università è dunque una "scuola di comando", volta a formare le élite, e macchina indispensabile per produrre le tecniche e gli strumenti di governo da fornire allo Stato. Questa situazione si protrae fino agli inizi del XX secolo quando ancora il 10-20% dei dirigenti amministrativi di Paesi come la Francia, la Prussia, l’Italia, la Russia e la Gran Bretagna, proviene dall’Università (6a). Tutto ciò fa crescere l’importanza dell’università per lo Stato, ma quest’ultimo può direttamente imporre su di essa un controllo politico, funzionale ed economico. Ne deriva pertanto una forte perdita di autonomia perché, in sostanza, lo Stato si assicura il controllo dell’università mentre presiede alla sua organizzazione (1). La parte di grande rilievo che le Università hanno all’interno dello Stato e della società era stata convalidata già all’inizio del XVII secolo quando Giacomo I d’Inghilterra concesse loro una rappresentanza in Parlamento. In seguito, per due secoli e mezzo, nella più antica assemblea rappresentativa hanno trovato posto parlamentari prima designati e, poi, eletti dalle Università di Oxford, di Cambridge e da quelle scozzesi, e più tardi anche da quella di Londra. All’inizio del XIX secolo si può dire che le università sono assorbite all’interno dello Stato. Tuttavia cominciano anche a disegnarsi delle trasformazioni che consentono alle università di riguadagnare un certo grado di potere e perciò di autonomia. E’ ben vero che nel corso del XIX secolo si ha un grande sviluppo delle scienze giuridiche e amministrative, in particolare in Francia, in Italia e in Germania. In Gran Bretagna invece non si va di pari passo poiché vi è chi si oppone al diritto amministrativo ritenendolo il prodotto dei regimi assoluti (7). Infatti, come nel Primo Impero francese, instaurato nel 1804, il diritto amministrativo significa principalmente il rafforzamento del potere pubblico nei confronti dei cittadini, dei terzi contraenti e degli stessi dipendenti pubblici, nonché la centralizzazione dell'attività amministrativa in senso tendenzialmente monopolistico con eccesso di potere regolamentare dell’esecutivo. E’ intorno agli inizi del XIX secolo che generalmente si riconosce l’affermazione dell’istruzione universitaria come istituzione socialmente necessaria, e pertanto potenzialmente estesa a strati della popolazione sempre più larghi. Si riconosce parimenti che sono la Germania, la Francia e la Gran Bretagna (e gli Stati Uniti, assimilabili in questa situazione alla Gran Bretagna) i Paesi che vedono delinearsi i prototipi dell’università contemporanea e, a seguire, il suo peculiare processo evolutivo. Non casualmente in questi stessi Paesi avvengono contemporaneamente le rivoluzioni che si definiscono filosofica in Germania, politica in Francia, industriale in Gran Bretagna (4). In Germania e in Francia l’università è ristrutturata ab imis. In Germania su presupposti filosofici: la visione di un’università come comunità di liberi ricercatori, insegnanti e allievi che lavorano, in solitudine e in libertà, all’elaborazione di una scienza funzionale per sé (8). In Francia a partire da motivazioni politiche: le università sono abolite nel 1793 dalla rivoluzione francese e poi l’istruzione superiore è ricostituita su nuove basi fino all’istituzione napoleonica dell’università imperiale nel 1806. Entrambi i cambiamenti trovano comunque attuazione per decisioni dell’esecutivo. In Gran Bretagna, invece, il mutamento avviene più autonomamente con gradualità e non per intervento politico o per forti influenze culturali, ma, specie nella seconda metà del secolo XIX, per effetto dello sviluppo dell’industrializzazione, dunque per effetto delle stimolazioni socio-economiche della c.d. rivoluzione industriale. L’originalità e la validità delle idee ispiratrici delle trasformazioni dell’università in Germania sono confermate dal fatto che esse costituiscono, ancor oggi, parte integrante della politica per l’istruzione superiore anche in altri Paesi, sebbene i principi originali non siano sempre stati rispecchiati nella loro realizzazione pratica (9). In Germania gli anni decisivi per l’evoluzione del sistema universitario sono quelli del primo decennio del XIX secolo, durante i quali è W. Von Humboldt a reggere il dipartimento dell’istruzione e del culto del ministero prussiano dell’interno. Le idee guida, essenziali per il processo di realizzazione di un’università moderna ed efficiente, sono state innanzitutto quelle dedotte dalla nozione di università vista sotto il profilo di un’istituzione per l’educazione e la formazione accademica che interagisce con uno spazio culturale che travalica gli angusti confini del singolo Stato nazionale. E’ stata proprio l’idea di un “ente senza confini” a suscitare un forte interesse a livello internazionale. Molti Stati europei hanno impresso in questa direzione una forte spinta innovativa dalla quale mutuarono gli elementi strutturali più importanti. In effetti, il contributo maggiore per il superamento di un modello “nazionale” è derivato dalle idee di Humboldt, la cui essenza si può schematicamente condensare nell’unità dell’insegnamento e della ricerca, nella libertà delle arti e delle scienze e, soprattutto, nell’autonomia delle università di disciplinare i propri affari interni e accademici (10). Il tratto saliente del modello tedesco consisteva nell’unificare in una sola istituzione l’insegnamento e la ricerca scientifica in funzione di una preparazione, non puramente professionale e burocratica né completamente slegata dalle esigenze e dai bisogni del tempo, ma che fosse destinata alla crescita culturale della nuova borghesia tedesca in formazione. Gli altri punti distintivi, che hanno fatto del modello tedesco un esempio cui ispirarsi, sono la spiccata autonomia, la dichiarata libertà di ricerca, lo stretto collegamento fra scienza e insegnamento, e infine, ma non ultimo per importanza, la concomitanza delle proprie finalità con le esigenze concrete del potere politico. E’ lo Stato stesso, infatti, che fa convergere con le proprie le finalità dell’istruzione superiore. In Italia l’iniziativa al cambiamento è stata più politica che culturale: il prototipo è stato quello franco-tedesco, e tale in gran parte resterà per tutto il secolo (4). La legge Casati del 1859 imponeva infatti un principio centralistico e unificatore volto a rimediare alla grande disomogeneità del sistema universitario nazionale. Un’altra opinione è che l'impianto della legge Casati, pur inteso a garantire “un sistema medio di libertà”, fosse sostanzialmente ispirato dai principi di accentramento statalistico del modello francese napoleonico (11). Modello che si giustificava per porre rimedio a un sistema con un numero di università eccessivo per quei tempi. Nel 1861 vi erano ben 20 università nel nuovo Regno d’Italia, il Paese europeo con il maggior numero di università in rapporto alla popolazione (12) e, insieme, con grandi differenziazioni qualitative al suo interno (13). Differenziazioni dovute ancora nella prima metà dell’Ottocento all’assenza di uno Stato unitario come invece esisteva in Francia, Inghilterra e Germania. La legge Casati appariva funzionale più che alla garanzia delle libertà intellettuali o allo sviluppo dell’istruzione superiore, alla regolamentazione di alcuni tratti essenziali, organizzativi e funzionali, di un’attività da poco divenuta uno dei nuovi compiti dello Stato (3). Il tentativo di rendere omogeneo, centralizzandolo, il sistema nazionale universitario non ebbe tuttavia molto successo: agli inizi del XX secolo in più della metà degli atenei italiani vigevano ancora, di fatto, le normative e gli statuti risalenti a prima dell’unità. Altrettanto si può dire per i tentativi di introdurre ordinamenti autonomi, com’era nei propositi degli innovativi disegni di legge Baccelli, in particolare quello del 1885, n. 67 “Sull’autonomia delle Università, Istituti e scuole Superiori del Regno”. Peraltro Silvio Spaventa nei suoi interventi parlamentari dell’epoca giudicava un “pregiudizio” il concetto di autonomia delle università che solo quasi cinquanta anni dopo fu introdotto in un testo normativo con la Riforma Gentile. L’evoluzione nel XX secolo e l’affermarsi dell’autonomia E’ nel secolo XX che avviene la riforma di maggior spessore per effetto di un grande progressivo aumento delle iscrizioni, tale infine da potersi definire di massa. La tradizionale funzione sociale di formazione delle élite (“scuola di comando” per chi è destinato a gestire nello Stato tecniche e strumenti di governo) muta dunque in un insegnamento superiore di massa. E ciò avviene a causa dell’allargamento della domanda che s’impone abbastanza imprevedibilmente ma inesorabilmente come diritto all’istruzione universitaria (14) che ormai coinvolge quasi un terzo dei giovani al livello post secondario. In questo mutamento sono coinvolte, quali protagoniste del nuovo assetto politico-sociale, le grandi corporazioni produttive e finanziarie che connettono sempre più strettamente l’università alla civiltà industriale. L'università deve formare professionisti e stimolare le capacità produttive e perciò istituzionalmente diventa anche, e spesso prevalentemente, "scuola di mestiere" (15). In questo nuovo assetto, che rafforza il rapporto e la cooperazione tra mondo produttivo e accademia, la quale non è più solamente un braccio dello Stato, emerge una maggiore esigenza di autonomia e di emancipazione dai vincoli dei poteri pubblici. L’affermarsi dell’autonomia necessita tuttavia di una valutazione interna e di una esterna per garantire la qualità del funzionamento generale, dell’offerta formativa e della ricerca dell’istituzione, e per consentire di stabilizzare e incrementare i suoi finanziamenti. Il dibattito sull’autonomia delle università non riguarda la libertà accademica o scientifica, che in Italia è anche un principio sancito dalla Costituzione, ma la capacità gestionale delle università stesse. Le università hanno adesso raggiunto un’autonomia sia di carattere amministrativo, didattico e scientifico, sia finanziario. Ogni università ha una personalità giuridica e un bilancio proprio. La Gran Bretagna A garanzia delle autonomie, per lunga tradizione concesse alle istituzioni dell'istruzione superiore, la Gran Bretagna è sempre stata impegnata nello sviluppo di sistemi di verifica della qualità, e per questo motivo ha esercitato una grande influenza nelle riforme europee promosse in questo ambito. L’istruzione superiore si fonda tuttora sul radicato principio secondo cui l’autonomia accademica e finanziaria delle università è la migliore garanzia della libertà intellettuale del corpo accademico. Anche quando lo Stato diventa, dopo il secondo conflitto mondiale, il principale sovvenzionatore delle università, questa autonomia istituzionale si mantiene e si rafforza. L’ordinamento universitario ha come fondamento legale un Royal Charter (decreto reale che conferisce uno status speciale a un determinato organismo incorporato) che gli garantisce una notevole indipendenza dal controllo del Parlamento e l’autonomia nella gestione finanziaria. A seguito della crisi economica, dopo la prima guerra mondiale, il governo istituisce nel 1919 presso il ministero del Tesoro l’University Grants Committee (UGC), incaricato di distribuire con ampia discrezionalità una sovvenzione globale, in conformità a piani quinquennali presentati dalle singole università, e gestibile in piena autonomia senza particolari richieste di rendicontazione. L’UGC costituisce Il principale organismo governativo nelle relazioni con le università, facendo da “cuscinetto” tra il governo e le singole università, mettendole al riparo da ogni tipo d’ingerenza politica (3). All’autonomia corrisponde una scarsa dipendenza dai fondi pubblici. Fino agli anni 50 i finanziamenti statali alle università rappresentano solo il 30% delle loro entrate, e le università di fatto non sono tenute a render conto dell’impiego delle somme ricevute. Il resto proviene dalle rette versate dagli studenti, da donazioni, introiti d’investimenti, contributi pubblici e privati delle comunità locali. Dopo la pubblicazione del Rapporto Robbins, nel 1963, diventa operativa la riqualificazione come università dei dieci principali Colleges of Advanced Technology e la riorganizzazione del settore della formazione professionale all’insegnamento ai fini di ampliare considerevolmente il ruolo svolto dalle università (16). La crescita complessiva delle università e dei fondi a esse destinati impone, nel 1964, il trasferimento dell’UGC presso il Ministero dell’Educazione (Dept. of Education and Science - DES) dove sviluppa il proprio ruolo fondamentalmente consultivo, ma sostanzialmente decisionale, nell’allocazione delle risorse (17). Comunque il ministro del DES non ha il controllo effettivo sull’allocazione dei finanziamenti alle università, che alla fine degli anni 70 sono erogati per il 63% del totale dall’UGC. Ma anche il resto delle entrate (tasse di iscrizione - tuition fees -, rimborsate agli studenti dagli enti locali mediante borse di studio e altri incentivi, finanziamenti vincolati erogati dall’UGC per specifici investimenti - laboratori, immobili -, e dai Research Councils per le attività di ricerca) sono finanziamenti pubblici, cosicché nel complesso questi arrivano al 90%. Nel 1965 è varata la cosiddetta politica binaria, che prevede l’incremento maggiore nei polytechnics, di nuova istituzione, anziché nelle università. I polytechnics erano concepiti come istituti di istruzione post secondaria orientati verso le materie tecniche. Di recente hanno ottenuto l’equiparazione alle università e infatti è scomparsa dai loro titoli la stessa denominazione polytechnic (18). La creazione dei polytechnics avveniva mediante la concentrazione in un’unica istituzione di una serie di college presenti in una città o in una regione. I polytechnics facevano capo alle autorità locali competenti in materia di istruzione pubblica ed erano soggetti a stretto controllo nella gestione economica. I polytechnics non ricevevano direttamente dallo stato dei fondi da impiegare nella ricerca. Un periodo di cambiamenti sostanziali si ha dalla fine degli anni 70 agli inizi degli anni 90. Per ridurre la spesa pubblica, nel tentativo di contenere un’inflazione preoccupante, dai primi anni 80 le università sono assoggettate a una riduzione dei finanziamenti. La riduzione del totale delle entrate provenienti dall’UGC, per tutti gli anni 80, è ritenuta pari al 15% in termini reali. Di conseguenza la maggior parte delle università sono indotte a favorire un aumento delle entrate non provenienti dallo Stato, tanto che nel 1993 meno del 60% del reddito delle università deriva direttamente dallo Stato e diventa inferiore al 50% ai giorni nostri. La riforma dell’istruzione superiore intrapresa dal governo conservatore fin dall’inizio degli anni 80, culminata nell’Education Reform Act del 1988 e rinforzata dallo Higher and Further Education Act del 1992, è caratterizzata da una netta inversione di tendenza rispetto al passato, anche con l’abbandono della politica binaria. Il governo opera modifiche integrali insinuandosi nelle maglie organizzative e funzionali dell’intero sistema d’istruzione universitario tanto da imprimervi una forte influenza centralizzata. Svincola i polytechnics e i maggiori college dal controllo delle amministrazioni locali e li eleva allo status giuridico delle università, il che permette loro di avere propri organi di controllo e di gestire autonomamente le proprie finanze, ed emana una legge che abroga gli incarichi permanenti nella carriera universitaria. L’UGC è abolito e sostituito nel 1992 dal Higher Education Funding Council for England (HEFCE), un organo pubblico, legittimato a svolgere il suo mandato per l'autorità ricevuta dal Ministero dell'istruzione britannico, dal quale rimane, in ogni caso, completamente indipendente. Esso, al pari delle istituzioni universitarie, è svincolato da qualsiasi tipo di controllo politico diretto e svolge una funzione ampiamente paragonabile a quella di un intermediario tra le istituzioni universitarie e il governo. Detiene autorità in materia finanziaria, ma il suo operato si estende a tutti gli ambiti che dipendono direttamente dal finanziamento dell'istruzione superiore, in particolare l’insegnamento e la ricerca. Con l’istituzione del HEFCE si è inteso sottrarre, almeno in parte, al ceto accademico il completo controllo del nuovo organo. Per l'anno accademico 2007-2008 l'HEFCE ha distribuito circa 7,1 miliardi di sterline tra 275 istituzioni, che comprendono 132 HEI (Higher Education Institutions o Universities) e 143 FEC (Further education Colleges). I FEC offrono un'istruzione di tipo professionale specifica o generale e hanno diritto di rilasciare titoli di studio riconosciuti o di pari valore a quelli universitari. Lo HEFCE fa riferimento al governo e ha come compito principale di verificare che i fondi da esso stanziati siano allocati in maniera equa presso le istituzioni più meritevoli, sia le HEI che i FEC. Il rapporto con la QAA (Quality Assurance Agency for Higher Education) è il principale strumento a disposizione del HEFCE per monitorare gli standard di qualità dell'intero settore. La QAA è stata istituita nel 1997 allo scopo di garantire l'interesse pubblico per il mantenimento di standard elevati nell'istruzione superiore, tramite la definizione di linee guida chiare e condivise a livello nazionale. L'agenzia è un ente indipendente finanziato dalle università, dai college universitari e dai Funding Bodies governativi (19). Le HEI e i FEC hanno uno status di rilevante autonomia. I loro organi di gestione hanno il potere di decidere autonomamente riguardo a tutte le questioni amministrative. Ma sull'allocazione dei fondi messi a disposizione dal governo, per il mantenimento generale delle strutture, del personale e della ricerca, è lo HEFCE che decide in base ai risultati del Research Assessment Exercise (RAE) (20), un metodo di valutazione istituito nel 1986 e utilizzato esclusivamente per misurare ogni quattro anni la qualità della ricerca secondo criteri molto selettivi. Per la sessione 2008 ogni dipartimento ha sottoposto al RAE tutti i ricercatori "attivi", in ruolo il 31 ottobre 2007, e per ogni ricercatore quattro prodotti pubblicati nei sette anni precedenti. Per ognuna delle settanta aree disciplinari un panel, scelto in modo da essere rappresentativo della disciplina, sia come aree di ricerca, sia come reputazione internazionale, formula un giudizio di sintesi su ciascun dipartimento. La ricerca di bassa qualità non è finanziata e la ricerca di alta qualità viene notevolmente premiata (21). In tal modo dal risultato della valutazione dipende una percentuale molto alta del finanziamento complessivo (22). La Francia In Francia, sia la legge Faure (12/11/1968) che la legge Savary (26/01/1984) hanno affermato i principi di autonomia e pluridisciplinarietà delle università in opposizione alle Facoltà monodisciplinari precedenti al 1968, ma nessuno dei due principi era stato pienamente applicato. L’autonomia delle università ha comunque fatto passi avanti con la legge Savary, che prevede che le università possono stabilire i lori statuti e loro strutture interne con la maggioranza dei due terzi dei membri del Consiglio di Amministrazione. Al ministro spettava soltanto il compito di decretare gli statuti. Prima dell’ultima legge, n. 1199 del 2007 (LRU = Loi relative aux libertés et responsabilités des universités), quelle due leggi restano tuttavia la base del sistema di governance delle università (23). Questo modello francese di gestione, grazie alla presenza di tre consigli (d’amministrazione, scientifico, degli studi e della vita studentesca), faceva partecipare alle scelte tutte le categorie, compresi gli studenti, ma lasciava al rettore un ruolo assai limitato, non facilitava la coerenza della politica dell’università e rendeva impossibile la gestione autonoma delle risorse legate al personale. Ora, in una reale autonomia, un’università dovrebbe essere in grado di affermare il suo ruolo anche nella gestione delle risorse umane (6). Sulla ricerca la legge programmatica (2006-450 del 18 aprile 2006) è il testo fondamentale di riferimento che ha creato in Francia l’Agenzia per la valutazione della ricerca e dell’insegnamento superiore (AERES = Agence d’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur). L’agenzia è stata concepita per semplificare i meccanismi di valutazione e far conoscere le procedure di valutazione dei percorsi formativi e della ricerca, istituti di ricerca compresi. L’AERES è un’unica struttura che integra differenti campi di valutazione e raggruppa la maggior parte delle competenze di tre enti (CNE = Comité national d’évaluation, CNER = Comité national d’évaluation de la recherche, e MTPS = Mission scientifique, technique et pédagogique) incaricati della valutazione fino al 2006. In base alla legge sulla ricerca “Lo Stato tiene conto dei risultati della valutazione fatta dall’AERES … per determinare gli impegni finanziari da prendere con le università tra i contratti pluriennali”. L’AERES partecipa integralmente al processo di Bologna**, soprattutto accettando una valutazione esterna per il 2009 per restare membro ENQA (European Association for Quality Assurance in Higher Education), aprendosi così le porte di un riconoscimento internazionale attraverso l’iscrizione al registro europeo delle agenzie di valutazione (ENQAR)(24). La legge n. 1199 del 2007 (LRU) sull’autonomia delle università ha reso obsoleto il modello nazionale e permesso alle università di proporre programmi di propria scelta, favorendo una più articolata offerta formativa. La LRU riforma le norme di organizzazione e il funzionamento dell’università mediante una governance con Consigli più ristretti, ma soprattutto riconosce, attraverso una spinta più autonomista, maggiori poteri al Presidente delle università, compreso quello della gestione delle risorse umane. La definizione delle tasse d’iscrizione resta compito dello Stato e non vi è selezione all’ingresso dell’università come invece avviene nelle Grandes écoles. Ma le università che lo richiedono, e dimostrano di avere gli idonei requisiti, acquistano nuove competenze: globalità del budget, gestione dell’insieme dei salari, possibilità di reclutare con contratti di alto livello, modulazione dei docenti, possibilità di definire le politiche di punta, proprietà del patrimonio. ** I ministri dei Paesi partecipanti al processo di Bologna per assicurare la qualità dell’insegnamento superiore hanno adottato nel 2005 dei criteri messi a punto dall’ENQA: Standards and Guidelines for Quality Assurance in the European Higher Education Area. La Germania In Germania, con lo sviluppo industriale della seconda metà dell’Ottocento e con la necessità di maggiore specializzazione professionale, dovuta alla crescente espansione del mondo dell’economia che si rifletteva direttamente sul mercato del lavoro, si assiste alla fondazione di istituti di insegnamento a contenuto tecnico, le Technische Hochschulen (Scuole tecniche superiori o Politecnici)(25). Questi nuovi tipi di Hochschulen sono destinati ad acquistare, sul piano internazionale, la funzione di modello. La Technische Hochschule di Berlino fu presa a modello dall’Inghilterra e le Handelshochschulen (Graduate schools of management, Scuole di economia aziendale) furono prese a modello dal Giappone. Le Technische Hochschulen (TH), in un certo qual modo, entrano in competizione con le Facoltà universitarie. In proposito, si fa rilevare che l’istituzione di questi Politecnici se, da un lato, assicura una nuova dinamica al sistema educativo-formativo tedesco nel suo complesso, dall’altro, induce ad allentare quel vincolo che legava le università allo Stato (3). Quest’ultimo rilievo trova la sua logica spiegazione nella circostanza per cui l’istruzione offerta dalle Facoltà era rivolta alla formazione di una classe dirigente destinata ad essere assorbita nei ranghi dell’organizzazione statale, mentre quella fornita dai Politecnici, era finalizzata alla formazione di categorie professionali spendibili nel nascente mercato del lavoro che si stava sviluppando sempre più a seguito della crescente industrializzazione. Di conseguenza l’interesse dello Stato si è dissociato, coerentemente, sulle due parallele direttrici, sicché l’originario e invasivo controllo è stato via via allentato. Dopo la seconda guerra mondiale le TH sono state trasformate in TU (Technische Universitäten). Ad esempio, la Technische Universität München (TUM), l'unico politecnico in Baviera, è stata fondata nel 1868 con il nome di Königlich Bayerische Technische Hochschule München e il suo passaggio da Hochschule ad Universität è del 1970. Le TU fanno parte della TU 9, l'associazione che riunisce le principali 9 istituzioni universitarie tedesche a carattere di politecnico. Quando il legame tra lo Stato e le università comincia a sfumare, il potere di gestione amministrativa e di politica di indirizzo delle università si sposta dal centro alle periferie, e ciò comporta il trasferimento del controllo dallo Stato ai Laender. Un fenomeno analogo si produce nel campo dell’organizzazione della ricerca, mediante la creazione, da parte soprattutto dei grandi gruppi industriali privati, di istituti di ricerca applicata, che acquistano sempre più peso nello sviluppo scientifico tipico della Germania, con particolare riferimento alla chimica e alla fisica, le nuove scienze in forte espansione (25). La Technische Universität Darmstadt dell'Assia storicamente è stata la prima università al mondo a istituire un insegnamento in ingegneria elettronica. L’Italia Agli inizi del XX secolo, dopo che nella seconda metà del secolo precedente si era cercato di rendere uniforme il suo quadro normativo, il sistema universitario è oggetto di interventi legislativi che consolidano l’assetto centralistico e ignorano le tendenze autonomistiche. La legge 28 maggio 1903, n. 224 aumenta i finanziamenti, potenziando nel complesso l’attività e le strutture operative degli atenei senza per questo introdurre forme di autonomia finanziaria. D’altra parte erano assai vivaci nel dibattito politico e giuridico del tempo, posizioni decisamente contrarie a quelle autonomistiche e che rispecchiavano tendenze ai tempi nostri ancora forti anche se non sempre scoperte. I contrari all’autonomia temevano, come oggi, un progressivo indebolimento delle università minori anche in concomitanza con un congelamento della spesa statale e la creazione di meccanismi di concorrenza, seppure attenuata, tra atenei. Ma le posizioni antiautonomistiche paventavano anche le “eccessive ingerenze degli interessi e della politica locale in atenei almeno parzialmente sottratti al controllo diretto dello Stato” ma anche “lo strapotere delle Facoltà e, nelle Facoltà, di robusti gruppi professorali che avrebbero potuto agire in pratica senza vincoli”(26). Con la legge 12 giugno 1904, n. 253 (c.d. legge Orlando) si disciplina l’attività di nomina dei docenti, sottraendo ambiti di discrezionalità al ministro, e s’introduce un nuovo iter di reclutamento dei professori ordinari soltanto parzialmente rimesso alla discrezionalità delle Facoltà (27). La legge del 19 luglio 1909, n. 496 (c.d. legge Rava) rafforza il controllo politico-parlamentare centrale sul Consiglio superiore della pubblica istruzione, accentua la burocratizzazione dei docenti, disciplinando rigidamente il rapporto di servizio, garantendo l’effettiva e continua realizzazione dei compiti d’insegnamento. Inoltre vincola dal “centro” i contenuti dell’attività didattica, configurandone un quadro fissato legislativamente e gerarchizzato in materie principali e complementari. Con il R.D. 9 agosto 1910, n. 795 è approvato un Testo Unico di coordinamento delle leggi vigenti sull’istruzione superiore, che però riordina soltanto la disciplina affermatasi in quasi un secolo. Non accoglie le indicazioni di riforma espresse dal vivace dibattito politico, ma solo quelle che all’inizio del secolo si erano consolidate. Negli anni 20 s’impone la spinta a un riordino generale del sistema nel quale “si erano mantenute varie difformità”. Il processo normativo si riapre così verso un’organica riconfigurazione del complesso disciplinare dell’istruzione superiore per accogliere anche le istanze autonomistiche. Il ministro Gentile, infatti, nel 1923, coordina vari interventi normativi, definiti e ricordati complessivamente come “Riforma Gentile”, che riformano organicamente tutta l’istruzione pubblica compresa quella universitaria (“Disposizioni sull’ordinamento dell’istruzione superiore” R.D. 30 settembre 1923, n. 2102) (28). La riforma Gentile ha in primis il merito di distinguere le tre diverse funzioni dell'istruzione superiore, l’educativa, la scientifica e la professionale, anticipando l’orientamento di vari Paesi occidentali nella seconda metà del secolo. Inoltre la riforma concede margini d’autonomia gestionale e amministrativa alle università, pur escludendo il profilo finanziario: “Le Università..., hanno personalità giuridica e autonomia amministrativa, didattica e disciplinare nei limiti stabiliti dal presente decreto e sotto la vigilanza dello stato esercitata dal Ministro...”. Viene concessa la libertà di stabilire il contenuto dei curricoli e le denominazioni degli insegnamenti. Rilevante è poi la distinzione tra università regie o libere, che devono perseguire il progresso della scienza, e istituti regi, che sono scuole professionalizzanti (architettura, farmacia, ingegneria, veterinaria, agraria, economia), preposte alla formazione di tipo vocazionale. I tratti salienti della riforma Gentile (autonomia universitaria e distinzione tra istituzioni scientifiche e vocazionali) sono poi smantellati progressivamente dalla legislazione fascista degli anni 30, in particolare con il T.U. emanato con R.D. 31 agosto 1933, n. 1952. Questo corpo di norme autoritarie è l’ultimo importante intervento sistemico operato prima degli anni 80 quando due leggi (D.P.R. 382/80 e L. 168/89) segnano una tappa basilare nei settori dell’istruzione universitaria e della ricerca scientifica, con rilevanti “ripercussioni nei rapporti tra l’organo centrale Stato e l’organo periferico Università” (3). Molte funzioni, infatti, esclusiva prerogativa dell’organo amministrativo centrale, sono trasferite, in tutto o in parte alla competenza degli atenei. La legge n. 168 del 9 maggio 1989 riprende il processo di rinnovamento già sostanzialmente avviato con il D.P.R. 382/1980, che tra l’altro aveva istituito due nuovi ruoli (di associato e di ricercatore) e i dipartimenti. Con la 168/89, che vara il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (oggi Ministero dell’Istruzione, della Ricerca e dell’Università), si vede anche emanata finalmente una norma (art. 6, comma 2°) che testualmente afferma: “Nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’art. 33 della Costituzione e specificati dalla legge, le università sono disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento. E’ esclusa l’applicabilità di disposizioni emanate con circolare”. In questa nuova qualificazione le università non sono più identificate come “persone giuridiche-organi”, ma una volta qualificata la loro autonomia non come competenza di carattere generale, sono definite come enti pubblici non più ausiliari dello Stato, ma posti in una posizione di indipendenza. La quale non conferisce loro un’autonomia politica, bensì un’autonomia strumentale o funzionale riferita a un esercizio delle funzioni istituzionalmente attribuite e a una capacità di indirizzo relativa solo alla propria dimensione funzionale (29). Gli interventi previsti dalla citata legge 168, sono essenzialmente orientati verso due direttrici basilari: ristrutturazione organizzativa dell’apparato ministeriale e attribuzione di autonomia normativa e gestionale alle università. Ma la legislazione successiva ha riproposto un sostanziale incremento del potere ministeriale, con la possibilità di incidere all’esterno anche in modo prevalente (30). Il Ministero è riuscito a ricondurre a sé lo svolgimento di funzioni, quali ad esempio la disciplina sull’attuazione di leggi e di regolamenti, che sono invece palese prerogativa dell’autonomia universitaria. Il processo autonomistico ha trovato impedimenti anche nella molteplice quantità di leggi che ancora regolano il sistema “università”. Non è mai stato trasformato in legge un progetto di testo unico preparato da Cassese. Una legge del 1993, che è stata applicata a partire dal 1995, prevede un sistema che distribuire una “quota” del finanziamento delle università sulla base di criteri oggettivi compreso il “merito”, e una quota complementare su base “storica”, in proporzione al finanziamento dell’anno precedente. Fino alla metà degli anni 90 il grosso del finanziamento arrivava direttamente dal Tesoro che pagava gli stipendi e gli assegni fissi del personale di ruolo, indipendentemente dal numero dei laureati o degli iscritti, o da altri parametri. Quest’anno la “quota” non distribuita su base “storica”, che la legge chiama “quota di riequilibrio”, è stata del 7%, più di quanto previsto negli anni immediatamente precedenti, meno però della “quota” del 1998 che era il 9% (31). E’ comunque il primo passo di una riforma che per questa “quota” (che nelle intenzioni del Ministero dovrebbe raggiungere in futuro il 30%) intende privilegiare anche la qualità della ricerca scientifica sulla base della valutazione del CIVR (Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca) e, quando più avanti sarà operante, dell’ANVUR (Agenzia nazionale per la valutazione della ricerca). La sfida al miglioramento in regime di concorrenza amministrata In Europa l’università, dopo avere mantenuto nei secoli vincoli stretti prima con l’Impero, poi con i Comuni e lo Stato, nella seconda metà del 900 tende a liberarsene o almeno ad allentarli con una forte spinta autonomista (3). In proposito è rilevante la distinzione introdotta da Capano (28) tra autonomia sostantiva e autonomia procedurale. La prima concerne il potere dell’istituzione universitaria di determinare il contenuto della propria attività ovvero le finalità e i programmi di ricerca e curricolari. La seconda riguarda il potere delle istituzioni di istruzione superiore di definire i mezzi attraverso i quali perseguire i propri fini e i propri programmi. L’autonomia sostantiva ha a che fare con il grado di possibilità delle istituzioni universitarie di poter stabilire i propri curricoli, le priorità di ricerca, il “che cosa” della propria attività. D’altra parte l’autonomia procedurale riguarda il “come”, in altre parole “la libertà delle istituzioni universitarie di poter selezionare gli strumenti più adeguati al perseguimento di obiettivi istituzionali”. Si deve aggiungere che a differenza della libertà accademica che rimane essenzialmente individuale, l’autonomia sostantiva si esplica su un piano di azione collettiva in cui il “cosa fare” (le finalità, i programmi di ricerca e curricolari) è definito dai dipartimenti, dalla Facoltà e dagli organi centrali di governo. Becher e Kogan (32) hanno considerato la libertà d’insegnamento come una funzione delle istituzioni accademiche le quali devono agire come centro di riflessione e criticismo verso il sistema dei valori e le ideologie politiche dominanti. La sfida in regime di autonomia è rendere le università più competitive a livello sia nazionale che internazionale, potenziandovi l’organizzazione della didattica e della ricerca con un nuovo più proficuo rapporto con il principale ente finanziatore, lo Stato. E’ troppo semplice affermare che ciò può avvenire liberando gli atenei dal controllo finanziario a priori sostituendolo con quello a posteriori. I profili finanziari e regolamentari di questo nuovo rapporto Università-Stato non sono di facile definizione, come dimostrano specie i casi italiano e francese con le loro non ancora ben precisate o collaudate iniziative legislative. In entrambi i casi, la spinta autonomista tende a una maggiore efficienza del sistema mediante il rafforzamento dei poteri del Rettore (o del Presidente), che peraltro dovrebbe esserne investito con un’altrettanto rafforzata responsabilizzazione nelle sue attività gestionali. In questo sistema di autonomie, la rinuncia da parte dei governi nazionali a un controllo ravvicinato e burocratico delle università induce eterogeneità e differenziazione istituzionale, quindi attività didattiche e di ricerca non uniformi per qualità, quantità e costi. Tutto ciò può comportare dei rischi di degenerazione economica elevati giacché vengono meno le tradizionali protezioni finanziarie e di uniforme regolazione. In queste condizioni il rafforzamento delle strutture di governo istituzionale e la promozione di moderni sistemi manageriali all’interno delle università, costituiscono una garanzia per i governi nazionali, poiché fanno da contrappeso alla nuova filosofia del “governo a distanza”. Più recentemente, in merito alle relazioni Stato-Università i sistemi nazionali sono stati qualificati distinguendo due modelli base (33). Un primo modello è quello indicato come modello dello “state control”, caratterizzato dalla pesante interferenza delle burocrazie statali (ministeri, dipartimenti dell’istruzione, agenzie pubbliche) sulla gestione universitaria. Tuttavia, questo potere burocratico è bilanciato dall’elevata autonomia delle comunità scientifiche (istituti, dipartimenti, facoltà) in merito alle questioni più strettamente accademiche. Il secondo modello è definito come quello dello “state supervising”. Un modello in cui le burocrazie si limitano a una supervisione a distanza, non interferiscono direttamente né sulle questioni più strettamente accademiche né su quelle istituzionali e amministrative. In questo modello, gli Stati utilizzano vari dispositivi quali il sistema di finanziamento, la valutazione istituzionale, l’accreditamento dei corsi e delle strutture, per accrescere la qualità e la competitività del sistema. La «valutazione del sistema universitario» è scienza in forte ascesa soprattutto nel recentissimo presente. E poiché la valutazione si ripercuote inevitabilmente sugli strumenti finanziari, e questi, a loro volta, sulla maggiore o minore ampiezza di autonomia attribuibile agli atenei, è opportuno farne un cenno. Alla questione della forma di mercato più idonea per questo particolare “settore produttivo”, gli studi degli economisti rispondono con un modello fondato sulla cosiddetta concorrenza amministrata, detta anche «quasi mercato» (34, 35). La motivazione che ha portato alla scelta di un tipo di mercato a concorrenza amministrata è dovuta al fatto che nel sistema applicato all’università, ma anche ad altri tipi di mercati, la concorrenza non sempre genera effetti positivi. Ad esempio è erronea l’idea di aumentare il numero degli atenei e dei corsi di studio pensando che per questa via, di tipo tradizionale, si possa promuovere lo sviluppo della concorrenza. Infatti, nel caso dell’università, esistono, da un lato, costi fissi rilevanti e, dall’altro, un tempo molto lungo di recupero degli investimenti. Elementi questi che non giustificano un meccanismo concorrenziale fondato sull’aumento del numero delle imprese (gli atenei) operanti sul mercato, né del numero dei prodotti offerti (ad es. il numero dei corsi). Ciò premesso, il sistema di «quasi mercato», coniugando le esigenze specifiche dell’università, richiede la presenza di alcune condizioni fondamentali. La prima è la necessità di accreditare i produttori perché vi è una grande asimmetria informativa tra utente del servizio (studenti, professionisti, imprese) e produttore (ateneo), per cui un soggetto terzo (in genere un organismo pubblico) deve definire regole per ammettere i produttori al fine di garantire la presenza di requisiti minimi, gli standard minimi (con revisioni periodiche). La seconda condizione, invece, è che gli utenti possano e debbano scegliere tra i produttori (atenei) sulla base delle proprie valutazioni delle caratteristiche dell’offerta. Devono quindi potersi spostare sul territorio, e per usare un’espressione di moda, devono “votare con i piedi” (36). In proposito è stato opportunamente ricordato quel sistema originario tedesco del 1810, nel quale la notorietà dei docenti e la loro “capacità attrattiva” erano elementi fondamentali per aumentare il numero degli iscritti. Anche oggi si può rivalutare la circostanza per cui un ateneo, per emergere vincente nella corsa concorrenziale di un mercato sui generis come quello universitario, deve essere appetibile per gli utenti e perciò li deve attrarre e farli spostare sul territorio. Questa “mercatizzazione” dell’istruzione universitaria deve tendere all’abbattimento dei costi e all’aumento degli introiti (specie in tempi di tagli alla spesa) ma non dovrebbe innescare concorrenza al ribasso della qualità. Williams (37) riassume nello slogan “Save half - Make half” (per metà risparmia e per metà produci) la situazione per cui l’università punta a risparmiare tramite un incremento dell’efficienza pari alla metà della perdita subita nei finanziamenti statali e a recuperare l’altra metà attraverso un aumento delle entrate da altre fonti: ricerca applicata; corsi di breve durata a costo intero (principalmente programmi di aggiornamento professionale per persone già occupate nel mondo del lavoro); consulenza; aziende universitarie; parchi scientifici; affitto delle strutture per congressi, manifestazioni sportive ecc., offerte e donazioni. Prof. Paolo Stefano Marcato Alma Mater Studiorum – Università di Bologna Riferimenti (1) CASSESE S., L’ Università e le istituzioni autonome nello sviluppo politico dell’Europa, in Riv. trim. di dir. pubbl., 1990. (2) JARVIS P., Universities and corporative universities, Kogan, London, 2001. 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