domenica 20 febbraio 2011

GLI STATUTI E GLI ORGANI DIRETTIVI NELLA RIFORMA UNIVERSITARIA

La riforma universitaria1 (L. 30 dicembre 2010, n. 240, G. U. 14 gennaio 2011, n. 10, S.O.) all’art. 2 richiama l’art. 6 c. 2 della L. 9 maggio 1989, n. 168 (“le università sono disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento”) e dispone che le università statali provvedano, entro sei mesi, a modificare i propri statuti in materia di organizzazione, di organi di governo e di articolazione interna.
Il nuovo statuto, in prima applicazione, deve essere predisposto da apposito organo, istituito con decreto rettorale, composto da quindici membri, tra i quali il rettore con funzioni di presidente, due rappresentanti degli studenti, sei designati dal senato accademico e sei dal consiglio di amministrazione. Dunque la riforma prevede che la modifica degli statuti sia un processo guidato dall’alto, affidando il compito di stilarla a una commissione di soli quindici membri, tra cui due studenti. Il nuovo statuto è adottato con delibera del senato accademico, previo parere favorevole del consiglio di amministrazione. I vecchi organi collegiali decadono al momento della costituzione di quelli previsti dal nuovo statuto. L’università che non avrà provveduto entro sei mesi avrà un tempo supplementare di tre mesi, scaduti i quali dovrà affidarsi a una commissione di tre componenti, nominati dal ministero, che scriverà le modifiche statutarie.
Gli organi di governo, che nello statuto devono trovare una nuova composizione e un nuovo ruolo per uniformarsi alla legge 240/10, sono il Rettore, i cui poteri aumentano, il Senato accademico (SA), i cui poteri si affievoliscono e il Consiglio d’Amministrazione (CDA), che si rafforza come organo di vertice con l’attribuzione di quasi tutte le decisioni più importanti. Al vertice dell’ateneo, il Rettore autorevolmente propone, il SA dà pareri, ma chi decide in sostanza è il CDA.
Anche il Nucleo di valutazione diventa un organo dell’università e con un ruolo rafforzato. Sulla sostituzione del direttore amministrativo con il direttore generale è plausibile che si tratti di un mero cambiamento del nome al direttore dell’ateneo, senza che ciò implichi l’assunzione di maggiori responsabilità, posto che quelle responsabilità sono in capo a tutti i dirigenti apicali ai sensi dell’art. 21 del T.U. n. 165 del 2001, e specialmente dopo la legge Brunetta2.


Il Rettore

Al Rettore (art. 2, comma 1, lett. b, c, d) è attribuita la responsabilità del perseguimento delle finalità dell’università secondo criteri di qualità e nel rispetto dei principi di efficacia, efficienza, trasparenza e promozione del merito. Il Rettore deve essere eletto tra i professori ordinari in servizio presso le università italiane, ma la scelta delle procedure di elezione (l’elettorato attivo) è demandata alle università, nei loro statuti; in caso di elezione di un professore appartenente ad altro ateneo, l’elezione si configura anche come chiamata e concomitante trasferimento nell’organico dei professori nella nuova sede; dura in carica per un unico mandato di sei anni, non rinnovabile; può subire una mozione di sfiducia proposta dal SA con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti (v. funzioni SA - art. 2, comma 1, lett. e).
Qualora risulti eletto rettore un professore appartenente ad altro ateneo, tale elezione si configura anche come chiamata e concomitante trasferimento nell'organico dei professori della nuova sede, e comporta pure lo spostamento della quota di finanziamento ordinario relativo alla somma degli oneri stipendiali in godimento presso la sede di provenienza del professore stesso. Inoltre il posto resosi vacante può essere coperto solo in attuazione delle norme vigenti in materia di assunzioni.
Si è espresso il parere che la possibilità di eleggere il Rettore tra i professori ordinari in servizio presso qualunque università italiana, portando al seguito la copertura finanziaria per lo stipendio, significa che “la norma dei sei anni si applica su ogni singolo ateneo e non al Rettore”3.
Sebbene non dotato di specifici e diretti poteri decisionali, il Rettore acquista comunque maggiore capacità operativa poiché il SA e il CDA, essendo organi ristretti nel numero dei membri, diventano meglio controllabili da parte sua. Egli presiede il SA, mentre può non essere presidente del CDA. Ma con la riforma diventa sempre più una figura-cerniera tra i due organismi collegiali. Dato che la riforma affida allo statuto la decisione sulla modalità d’ingresso dei membri nel CDA tra “designazione” o “scelta”, si presume che il Rettore possa avere un peso decisivo sui nuovi ingressi, e perciò ne guadagnerebbe la sua forza nel CDA, unico organo deliberante dell’ateneo.
A chi osserva che sei anni in carica sono un tempo molto lungo, che “non aiuta lo spirito di servizio piuttosto che gli investimenti personali”4, si risponde che si tratta comunque di una situazione molto diversa al confronto con certe ultradecennali permanenze in carica finora consentite. Alla domanda “in quale altro ordinamento giuridico la stessa persona, il Rettore, presiede l'organo costituente (la commissione statuto), gli organismi parlamentari (il CDA e il SA) e dirige uno Stato (cioè l'ateneo)”5, si obietta che nell’università ciò è possibile poiché è una comunità dotata di autogoverno. Si ribatte che questo governo è ispirato a un principio monarchico e che “il rettore-sovrano è un ritorno al passato, per certi aspetti addirittura al passato pre-autonomia”4, quando il diretto rapporto ministro-ministero-rettore aveva un discreto peso nei piani di sviluppo degli atenei. Tuttavia, è eccessivo ipotizzare addirittura che “un’alleanza rettore-direttore generale (ex direttore amministrativo) possa essere sufficiente per creare una dinastia4.
Non è invece infondato intravedere un'influenza dominante del Rettore sul CDA anche perché di regola egli gode dell'appoggio della maggioranza del SA. Di conseguenza è verosimile attendersi la concentrazione nelle mani del vertice dell'ateneo di un rilevante potere d’incidenza sulle scelte amministrative, d’indirizzo didattico e scientifico e sull'attività di controllo.
A fronte della sua presente gestione dedita a comporre i frammentati interessi interni all’ateneo, la riforma conferisce indubbiamente al Rettore una maggiore autorevolezza nella sua funzione di far prevalere nell’ateneo una guida strategica ai fini di sviluppare il programma di mandato.


Il Consiglio di Amministrazione (CDA)

Il CDA degli Atenei è attualmente composto dal Rettore, dal pro rettore, dai rappresentanti di docenti, ricercatori e studenti. Accanto a questi siedono in CDA rappresentanti degli enti locali (quali il Comune, la Provincia, la Regione), della Camera di Commercio e un rappresentante del Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca. L’attuale CDA è un organo rappresentativo che per com’è formato non può che riflettere anche gli interessi corporativi delle sue varie componenti.
Con l'entrata in vigore della riforma il CDA è ridotto a undici componenti e almeno tre dovranno essere esterni, privati. Inoltre, il direttore amministrativo termina la sua carriera per lasciare il posto alla figura del direttore generale, un manager cui farà capo la complessiva gestione e organizzazione dei servizi e delle risorse, compreso il personale dipendente.
La distinzione attuale tra SA e CDA vede il SA quale organo di governo scientifico e didattico delle Facoltà, mentre il CDA è l’organo gestionale. In pratica, tuttavia, le competenze gestionali non sono ben assortite tra SA e CDA, e la distribuzione dei poteri accentua il ruolo del SA rispetto a quello del CDA.
La riforma innova sensibilmente prevedendo che tutte le funzioni siano attribuite al CDA, il quale decide su tutto: linee di ricerca e offerta didattica, conseguentemente reclutamento e gestione del rapporto dei docenti. Al CDA spetta la responsabilità della spesa, dell'esercizio del potere disciplinare, delle assunzioni e dei costi della gestione. Si tratta pertanto non solo di un organo di natura tecnico-finanziaria, ma soprattutto di un organo con poteri decisivi per quanto attiene al reclutamento, l'attivazione e la soppressione dei corsi e delle sedi.
La riforma lascia agli statuti la decisione sulla modalità d’ingresso nel CDA, a parte il Rettore, membro di diritto, e la rappresentanza degli studenti che deve essere elettiva. Gli altri componenti entrano nel CDA tramite “designazione” o “scelta”, secondo modalità previste dallo statuto, tra candidature individuate tra personalista italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo gestionale ovvero di un’esperienza professionale di alto livello con una necessaria attenzione alla qualificazione scientifica culturale.
Occorre, dunque, che la commissione statuto individui, per la scelta dei consiglieri di amministrazione, meccanismi convincenti che assommino competenza e rappresentatività. In ipotesi, i consiglieri potrebbero essere scelti dai direttori di dipartimento o dai presidenti dei corsi di laurea. Sempre in ipotesi, in base al nuovo statuto, si potrebbe arrivare alla completa esclusione dei professori ordinari in servizio, tranne il rettore, dal CDA, che potrebbe pertanto essere costituito prevalentemente da personalità esterne all’università. Certo, nessuno si augura che si arrivi a una designazione maggioritaria operata da organismi istituzionali o imprenditoriali, con il rischio di tentativi di spartizione politica della gestione dell’università.
La riforma obbliga a includere tra i membri del CDA un numero limitato di soggetti (almeno 3 su 11, o 2 se il CDA è meno numeroso) che non appartengano ai ruoli dell’ateneo, ma eventualmente ai ruoli di altri atenei o ad altre pubbliche amministrazioni. Questa previsione ha innescato critiche e polemiche anche durante l’iter della legge. Ma i CDA dell’università, a partire dalle norme del 1973, e fino ai quelli istituiti in base alla Legge 168 del 1989, hanno sempre avuto un numero elevato di membri esterni, in rappresentanza degli enti locali, e di altre istituzioni. E obiettivamente si osserva6 che il risultato di questa partecipazione “non è stato brillante, ma nemmeno devastante; si è verificato per lo più un generale assenteismo accompagnato da interventi occasionali per difendere interessi particolari”. Per evitare queste possibili derive lo statuto dovrebbe “rendere difficile la nomina di un membro esterno privo di una rilevante esperienza d’insegnamento universitario e/o di direzione d’istituzioni scientifiche”. Non si può comunque sottovalutare la difficoltà di cooptare figure indipendenti disponibili ad assumersi serie responsabilità amministrative nella gestione di un’università.
Obiettivi dichiarati della scelta di includere membri esterni nel CDA sono “aprire al mondo produttivo e del territorio l’università” e “accentuarne la gestione manageriale”.
La visione ottimistica è che un organo non più dominato da interessi corporativi possa meglio decidere in conformità a obiettivi strategici di medio e lungo termine. A questo fine la presenza di personalità esterne potrebbe essere vantaggiosa, come hanno dimostrato le performance di atenei di altri Paesi europei che hanno sperimentato questa via7. Non si tratterebbe di "privatizzare" l'università pubblica, come enfatizzano alcuni. Piuttosto di offrirle l’opportunità di aprirsi all'esterno sfruttando competenze e punti di vista non legati a interessi settoriali di breve termine. Ci sarebbe anche meno “ricattabilità” del corpo docente sul Rettore, che di quel corpo fa parte, mentre personalità di competenza esterna avrebbero più possibilità di valutare con oggettività determinate problematiche. E di evitare quei clientelismi che non di rado hanno dominato certe università, quando “il Rettore è diventato anche il controllore del controllato”. Il CDA si dovrebbe preoccupare di valutare la congruità delle decisioni dei professori e del Rettore.
La visione pessimistica parte dalla constatazione che il SA è ridotto a meri compiti consultivi e che il CDA ha l’ultima parola anche sulle questioni accademiche e sulla ricerca: la possibile influenza esterna, anche di natura politica e clientelare, avrebbe campo libero. Per tutte le decisioni che riguardano l’offerta didattica, la ricerca e i servizi agli studenti, sarebbe perciò necessario che lo statuto rafforzi il peso del SA.


Il Senato accademico (SA)

Dopo aver tracciato le attribuzioni del CDA, per quelle del SA il campo si restringe, dato che le sue funzioni risultano depotenziate, cioè declassate a quelle di mero suggeritore, privo di poteri. Infatti la riforma configura per il SA competenze spesso ridotte alle sole funzioni consultive, in altre parole la competenza a: 1) formulare proposte e pareri obbligatori in materia di didattica, di ricerca e di servizi agli studenti, di attivazione, modifica o soppressione di corsi, sedi, dipartimenti, strutture di raccordo (ex Facoltà) tra dipartimenti (art. 2, c. 2, l. c); 2) approvare il regolamento di ateneo; 3) approvare, previo parere favorevole del CDA, i regolamenti, compresi quelli di competenza dei dipartimenti e delle strutture di raccordo tra dipartimenti, in materia di didattica e di ricerca, nonché il codice etico; 4) a svolgere funzioni di coordinamento e di raccordo con i dipartimenti e con le strutture di raccordo tra dipartimenti; 4) a esprimere parere obbligatorio sul bilancio di previsione annuale e triennale e sul conto consuntivo dell’università.
Lascia perplessi l’esclusione del SA dall'attribuzione, affidata invece al solo CDA, del potere di attivare e sopprimere corsi e sedi (art. 1, c. 2, l. f). Sono decisioni che dovrebbero, infatti, essere assunte in conformità a valutazioni non solo amministrativo-contabili, ma anche e soprattutto didattico-scientifiche. Tali valutazioni dovrebbero spettare piuttosto al SA: è almeno improprio affidarle totalmente al CDA i cui componenti non saranno necessariamente docenti universitari.
Funzione apparentemente di rilievo del SA è di proporre al corpo elettorale, con maggioranza di almeno due terzi dei suoi componenti, una mozione di sfiducia al Rettore non prima che siano trascorsi due anni dall’inizio del suo mandato. Ma il mandato unico senza la prospettiva della riconferma, potrebbe intendersi come una riduzione di peso delle componenti accademiche nel controllo del Rettore8. Sarebbe importante dare al SA più incisive capacità di verifica e controllo sul mandato del Rettore proprio con riferimento agli obiettivi presentati nel programma di mandato. Ma ci vorrebbe ben altro che il rinvio a un’improbabile sfiducia dal basso per responsabilizzare in pieno il Rettore. Egli dovrebbe invece rispondere direttamente a un più autorevole centro del sistema (il ministero) di sue inadempienze gravi nel rispetto di un programma concordato e dei “principi di efficacia, efficienza, trasparenza e promozione del merito”.  


Lo Statuto

In prima applicazione, lo statuto contenente le modifiche statutarie previste dalla riforma è predisposto da apposita commissione istituita con decreto rettorale composta da quindici componenti: il Rettore con funzioni di presidente, due rappresentanti degli studenti, sei designati dal SA e sei dal CDA. Proporre meccanismi convincenti, in base a competenza e rappresentatività, per la scelta dei consiglieri di amministrazione è il compito più delicato della commissione statuto, posto che il CDA è l’organo di vertice cui spettano le decisioni più importanti.
In merito alle modalità di scelta dei membri di tale commissione e nonostante la pur chiara norma dettata dalla legge per la scelta, si è sviluppato negli atenei un ampio e talvolta esasperato dibattito con interruzioni di sedute del CDA e del SA e occupazioni di aule da parte degli studenti.  
Si è proclamato che la commissione costituisce il perno fondamentale di una fase costituente che mal si accorda con un sistema di nomine dettate dalle istituzioni centrali dell'ateneo. Solo la massima democraticità nell'individuazione dei suoi membri, che preveda la rappresentanza di tutte le componenti, inclusa quella dei precari della ricerca, e la più ampia possibile partecipazione pubblica, potrebbero investire la commissione di autorità e legittimazione. Si è suggerito che i componenti della commissione, che dovranno essere designati dal SA e dal CDA, siano prima individuati con procedure che coinvolgano l’intera comunità accademica, attraverso, ad esempio, l’indicazione, da parte delle strutture dell’Ateneo (facoltà e dipartimenti) di rose di nomi, dalle quali il SA e il CDA possano scegliere tali componenti. Si sono levate lamentele in certi atenei perché non è stata preventivamente effettuata, nonostante vari Presidi lo avessero espressamente chiesto, alcuna discussione dei criteri che dovrebbero presiedere all’individuazione dei nomi, e neppure una discussione di possibili candidati. A Trieste è stato lo stesso Rettore a convocare gli stati generali e a legittimare l'elezione diretta da parte di professori, ricercatori e personale tecnico-amministrativo. Un sindacato ha invitato a fare di questo passaggio (la commissione per la definizione dei nuovi statuti) un’opportunità di rinnovamento, di qualificazione e di riforma democratica del sistema, anche “a dispetto dello spirito della Legge”9.
Non è, per l’esattezza, nello spirito della Legge un’investitura dei membri della commissione diversa dalla designazione (da designare = proporre o destinare qualcuno a un incarico; indicare qualcuno con esattezza) che non è elezione, che è procedura diversa. Designazione è procedura propria di una democrazia rappresentativa, quando un corpo elettorale esercita i suoi poteri, non direttamente, ma attraverso rappresentanti già selezionati.  
E’ stato reso noto (27-01-2011) che il SA dell’università dell’Aquila10 ha replicato in maniera assai convincente a chi, in ragione della “funzione costituente” cui sarebbe chiamata la commissione statuto, sosteneva l'opportunità (se non la necessità) di indire apposite elezioni: 1) è erronea la premessa iniziale secondo cui tale commissione svolgerebbe una “funzione costituente”: la commissione svolge solo funzione istruttoria di predisposizione per il SA e per il CDA delle modifiche statutarie imposte dalla legge di riforma; 2) la commissione non gode di assoluta discrezionalità nella scrittura delle modifiche statutarie giacché trova, proprio nella legge di riforma, direttive e criteri molto stringenti (dal numero minimo di docenti per la costituzione di un dipartimento, alla composizione e alle funzioni di CDA e SA, ecc.); 3) la disposizione legislativa in questione non parla per nulla di “elezione” dei membri (che invece sono “designati” dal SA e dal CDA) e l'eventualità (non prevista, ma neppure esclusa dalla disposizione in oggetto) di un’elezione di tali membri introdurrebbe un elemento disfunzionale in ragione proprio della funzione istruttoria assegnata alla commissione. Le modifiche statutarie proposte dalla commissione devono, infatti, essere oggetto di deliberazione del CDA e del SA; una legittimazione di tipo elettorale di tale commissione finirebbe per contrapporre quest'ultima ai due organi competenti (SA e CDA) in caso di emendamenti che questi volessero introdurre. L'investitura elettorale di un organo istruttorio si pone, infatti, in netto contrasto con la funzione (istruttoria appunto) al medesimo assegnata, giacché pone le premesse di una contrapposizione irriducibile di legittimazione fra lo stesso e l'organo decidente che in un secondo momento è chiamato ad adottare la relativa decisione.


Prospettive 

La riforma mira a rompere l’autoreferenzialità e il potenziale conflitto d’interessi che vede attualmente i decisori degli organi di vertice a poter decidere direttamente o indirettamente anche su proprie particolari istanze e situazioni. La discontinuità sarebbe l’attribuzione di più poteri ai CDA aprendoli anche a membri esterni. Si può essere d’accordo con chi ritiene che questa scommessa è stata già fatta, e persa, con le fondazioni bancarie e le Asl, diventate spesso un refugium peccatorum di notabili locali11. Ma la paventata ‘aslizzazione’ degli atenei non pare realistica dato che nel CDA, anche se esiste la possibilità che non vi entrino professori universitari salvo il Rettore, è improbabile che lo statuto vi preveda una maggioranza di membri esterni al sistema universitario.
Non si esce, tuttavia, da derive autoreferenziali soltanto con norme di prevenzione. Occorre anche e soprattutto agire a posteriori con una valutazione gravida di conseguenze economiche. Lo si ripete ormai da anni, fino alla noia. Ancora una volta la soluzione migliore è non regolamentare ciò che male risponde ai regolamenti, ma valutare inflessibilmente ogni ateneo (meglio ogni dipartimento) e penalizzare altrettanto inflessibilmente quelli che non hanno soddisfatto, negli ultimi tre - quattro anni, semplici e chiari criteri finanziari, scientifici e didattici.
Ma quale è la situazione dei fondi da distribuire su base meritocratica? Il totale ripartito del fondo di finanziamento ordinario (FFO) 2010 degli atenei statali ha subito una riduzione delle risorse, rispetto al 2009, di 279 milioni € (-3,72%), e per di più tale FFO è stato assegnato soltanto a fine esercizio (DM n. 655 del 21/12/10)12. Nel FFO è stata tuttavia incrementata la quota destinata alla premialità degli atenei, passata da 523,5 milioni € a 720 milioni €. Nella ripartizione di questa quota sono state applicate le stesse percentuali del 2009: 34% in rapporto alla "qualità dell'offerta formativa e dei risultati dei processi formativi" (244,8 milioni €) e 66% in rapporto alla "qualità della ricerca scientifica" (475,2 milioni €).
Ma si può obiettare che spendere un poco di più in meritocrazia senza adeguati incentivi ha scarsi effetti, anzi effetti quasi nulli se gli incentivi servono solo a compensare i tagli operati ai migliori. Si è scritto di “premi con beffa finale13 in quanto il MIUR ha voluto adottare un sistema di riequilibrio antimeritocratico: ha stabilito che gli atenei con i risultati migliori (come quelli di Torino e Trento) devono rinunciare al “premio” (3,3 milioni € a Torino e 850.000 € a Trento) per aiutare le università penalizzabili.
Se si fosse applicato il principio di meritocrazia, molti atenei in dissesto finanziario e con performance scadenti avrebbero subito un taglio di risorse superiore al 10%. Per alleviare questa “penalità” il MIUR ha deciso di usare i fondi degli atenei più meritevoli affinché i tagli non superino il 5,5%. Per di più il criterio di valutazione usato (VTR = Valutazione Triennale della Ricerca), che per la “quota premiale” dedicata alla ricerca si fonderebbe sull’analogia di principio con il rinomato Research Assessment Exercise (RAE) britannico, non è stato considerato soddisfacente, o perlomeno non efficace come il RAE, da un attento lavoro di analisi pubblicato in un recente volume14. Il MIUR ha in sostanza attivato un processo di valutazione troppo timido per incentivare la qualità degli atenei, mentre avrebbe dovuto improntare “una macchina di valutazione, grande, affidabile e inflessibile”, ovviamente dotandosi di “un apparato valutativo molto ampio, competente e serio”15.
E’ ben vero che quest’anno nel testo del decreto c.d. milleproroghe approvato dal Senato manca la proroga degli "sconti" nel calcolo della spesa in stipendi degli atenei (in base a un "computo ridotto" del personale medico per le università con Facoltà di Medicina) e che di conseguenza, per il peggioramento del rapporto AF(assegni fissi)/FFO oltre il limite di legge del 90%, 36 atenei rischiano il divieto di fare nuove assunzioni16. Ma questa penalizzazione non ha a che fare con la valutazione della qualità scientifico-didattica.
Una via a costo zero per assumere docenti che migliorino le performance di un ateneo sarebbe quella di trasferimenti che non gravino sul budget per assunzioni eventualmente bloccato. La proposta è che i singoli docenti universitari siano resi “comodatari del proprio budget”17. Basterebbe autorizzare gli atenei, soggetti a valutazione positiva da parte dell'ANVUR, a coprire posti di ruolo tramite trasferimento di professori e ricercatori da altro Ateneo con contestuale trasferimento della risorsa retributiva. La precondizione necessaria è che gli atenei che bandiscono i posti per trasferimento siano incentivati ad aumentare la propria qualità dal punto di vista della didattica e della ricerca oppure che i trasferimenti possano avvenire solo se vincolati sulla base di progetti di alto livello scientifico confermati da valutazioni dell’ANVUR. Ma non ci si può nascondere che una tale rimozione dell’ingessatura della mobilità accademica sarebbe poco gradita e fortemente avversata da interessi localistici di carriera. E’ anche vero che la soppressione nel 1994 dell'organico nazionale ha reso possibile le "promozioni in sede" anche nelle grandi sedi metropolitane, senza il passaggio per sedi periferiche come avveniva spesso in precedenza.
La riforma delega il governo (art. 5, c. 5) ad assegnare «fino al 10%» del FFO per gli incentivi ed è fondata opinione che qui soprattutto si potrà giudicarne il successo. Ma è ancor più fondata l’opinione che per una seria valutazione della produttività scientifica quel massimo dovrebbe essere trasformato in un minimo, imponendone poi una distribuzione con criteri impietosi. Criteri peraltro di difficile applicazione, come si è visto, anche perché una valutazione affidabile e rigorosa nella distribuzione degli incentivi e delle penalizzazioni è avversata potentemente da tanti che vogliono finanziare di più i peggiori per "portarli al livello dei migliori". E’ purtroppo non confutabile che “la valutazione finalizzata all’assegnazione di parte del finanziamento pubblico viene sempre operata in modo tale da non ‘premiare’ davvero le università migliori e da ‘non danneggiare’ troppo le università peggiori”18. Ed è questa opposizione alla vera concorrenza tra atenei che politicamente ha finora avuto buon gioco nell’ingessare il sistema impedendo che almeno alcuni nostri atenei possano svettare nelle più quotate classificazioni mondiali. 

Prof. Paolo Stefano Marcato
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna