domenica 25 febbraio 2018

INFORMAZIONI UNIVERSITARIE n. 2 26-02-2018


IN EVIDENZA

APPELLO PER UN’ALLEANZA FRA POLITICA E SCIENZA PER LA SALUTE E LO SVILUPPO DEL PAESE
E’ stato firmato da 40 scienziati e accademici un appello per un’alleanza fra politica e scienza per la salute e lo sviluppo del paese. Primo firmatario fra questi il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi. Gli scienziati alla luce del dibattito in queste settimane sentito nell’ambito della campagna elettorale sui temi della libertà di cura, vaccini e futuro del sistema sanitario nazionale, affermano di ritenere urgente “l’allineamento e il rispetto reciproco fra scienza e politica, che mai dovrebbero essere fazioni contrapposte: è dall’imprescindibile alleanza fra queste che dipendono la salute e lo sviluppo economico e sociale del paese. I firmatari dichiarano la totale disponibilità all’ascolto e alla circolazione dei dati scientifici a supporto di ogni decisione politica. Infine indicano il percorso da seguire in quello già avviato in questi anni con il ministro Beatrice Lorenzin. Fra i firmatari compare il farmacologo Silvio Garattini, il genetista Bruno Dalla Piccola, alcuni componenti dell’Iss e numerosi professori universitari. (Fonte: B. Cariddi, www.meteoweb.eu
21-01-18)

SEI SEMPLICI DOMANDE PER I LEADER POLITICI CHE SI CANDIDANO A GOVERNARE L’ITALIA NEI PROSSIMI CINQUE ANNI:
1) Come pensate di aumentare il numero dei laureati italiani, assai esiguo rispetto alla media europea, garantendo al contempo standard elevati di qualità didattica?
2) Come garantirete che le Università italiane siano finanziate sulla base del merito - premiando le più competitive a livello internazionale in fatto di ricerca, innovazione, didattica e terza missione – a fronte di un gap crescente tra atenei delle diverse Regioni italiane e in particolare tra Nord e Sud del Paese?
3) Che ne pensate della proposta di abolire i concorsi universitari, affidando alla responsabilità degli atenei e a una rigorosa valutazione a posteriori (con severe sanzioni per chi non seleziona sulla base del merito) il reclutamento dei docenti e ricercatori come accade nei paesi anglosassoni?
4) Qual è la vostra posizione sulla possibile abolizione del valore legale del titolo di studio e sul passaggio a un regime di libera competizione tra Università?
5) Come migliorereste l’efficienza amministrativa delle Università che oggi sono vincolate alle regole della Pubblica amministrazione?
6) Potreste tracciare l’identikit della figura ideale che vedreste come vostra ministra o vostro ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca?
(Fonte: Cesare Montecucco, Tomaso Patarnello, Telmo Pievani, Maria B. Rasotto, docenti dell’Università degli studi di Padova, IlSole24Ore 28-01-18)

NONOSTANTE LA DENIGRAZIONE IMPERANTE L’UNIVERSITÀ FORMA GIOVANI ADATTI AL MERCATO DEL LAVORO NEI PAESI IN ASSOLUTO PIÙ PROGREDITI
Si mettano una mano sulla coscienza tutti quegli italiani che – di solito dal “mondo del lavoro” – sparano a zero sulla nostra scuola e la nostra università, dando ai governi di ogni colore un pretesto per infierire su uno dei settori strategicamente più essenziali per la vita e per l’economia di un paese. Si rendano conto che la percentuale del PIL destinata a finanziare l’università è in Germania – a seconda del modo di calcolarla – da 2 a 4 volte la nostra, anche perché negli ultimi 10 anni è cresciuta del 23%; mentre da noi nello stesso periodo i governi l’hanno ridotta del 22%. Col risultato che ora siamo penultimi nell’Europa a 15 per il rapporto tra il finanziamento all’istruzione e il PIL. In questa situazione, e nonostante i vergognosi attacchi di ogni tipo subiti direttamente dal loro personale, scuola e università di fatto (grazie al quotidiano sacrificio di quello stesso personale) formano giovani adatti al mercato del lavoro nei paesi in assoluto più progrediti. Mentre il mondo delle aziende in Italia ai giovani non è capace di darglielo, un lavoro. Insomma, forse è il caso di ripensare chi è che non fa bene la sua parte. (Fonte: E. Lombardi Vallauri, temi.repubblica.it/micromega-online 10-01-18)

AL CERN L’ITALIA È IL PAESE CON IL CONTINGENTE PIÙ ELEVATO DI FISICI: 2600
Situato al confine tra Svizzera e Francia, il CERN è il più grande laboratorio al mondo di fisica della particelle e dalla sua fondazione, avvenuta nel 1954, è stato protagonista di importanti scoperte premiate anche con i Nobel per la Fisica, nel 1984 a Carlo Rubbia e da ultimo nel 2013 per la scoperta del bosone di Higgs. Oggi il CERN conta 22 stati membri più altri paesi extraeuropei associati e al suo interno lavorano circa 17 mila scienziati di 110 nazionalità. Fabiola Gianotti, da due anni direttore generale del CERN, prima donna a ricoprire questo incarico, durante la conferenza organizzata dall'Accademia dei Lincei dal titolo "Il CERN, un laboratorio mondiale per la ricerca e molto di più", ha detto: "L'Italia ha una presenza molto importante, è il paese con il contingente più elevato di fisici, circa 2.600 fisici sono italiani, non tutti dipendenti da istituti italiani, alcuni sono italiani all'estero, il che indica il contributo importante dell'Italia al CERN ma anche il beneficio che l'Italia trae in termini anche di formazione dei propri ricercatori". Una ricerca di frontiera, quella che si svolge al CERN dove si trova l'acceleratore di particelle più potente al mondo, il Large Hadron Collider (LHC), grazie al quale è stato scoperto il bosone di Higgs la cui importanza valica i confini della fisica, investendo la nostra vita quotidiana, come ha sottolineato Fabiola Gianotti: "Una delle domande che spesso mi viene fatta è se il bosone di Higgs cambierà la nostra vita. La mia risposta è: lo ha già fatto. Innanzitutto perché per arrivare a scoprire il bosone di Higgs abbiamo dovuto sviluppare tecnologie di punta in molti campi”. (Fonte: Il Foglio, ascanews 12-02-18)

NELLA CLASSIFICA DEI RICERCATORI PIÙ QUOTATI AL MONDO SONO PRESENTI 46 SCIENZIATI ITALIANI TRA I QUALI 4 DA UNIBO E 3 CIASCUNO DA UNIPV, UNITO E CNR
L’Highly Cited Reserchers 2017, la lista che analizza e calcola le citazioni riportate su articoli di stampa divulgativa specializzata, ha inserito 46 ricercatori italiani nell’elenco dei circa 3.400 studiosi che rappresenta il meglio della comunità scientifica internazionale. L’elenco riporta anche gli enti e atenei che ospitano i ricercatori inseriti nella speciale classifica: l’Università di Bologna ha registrato quattro nominativi, seguita dagli atenei di Pavia e Torino e dal Consiglio nazionale delle ricerche, con tre ciascuno. L’area disciplinare in cui l’Italia ottiene risultati migliori è la biomedicale. Considerando il podio, Bologna ottiene tre riconoscimenti nella categoria Clinical Medicine (Michele Baccarani, Michele Cavo e Nazzareno Galie) e uno nella Space Science (Andrea Cimatti); Torino due per la Medicina (Antonio Palumbo e Giuseppe Saglio) e uno per Plant & Animal Science (Paola Bonfante); Pavia due in scienza medica (Mario Cazzola e Silvia Giuliana Priori) e uno in Computer Science (Alessandro Reali). Si dichiara particolarmente orgogliosa per le sue due citazioni l’Università di Parma, presente nella lista con Giuseppe Mingione per Mathematics e Nicoletta Pellegrini per Scienze Agricole. È del Cnr l’unico informatico italiano: Marco Conti, dell’Istituto di informatica e telematica (categoria Computer Science), a cui si affiancano Vincenzo Di Marzo, dell’Istituto di chimica biomolecolare (Pharmacology & Toxicology), e Serena Sanna, dell’istituto di ricerca genetica e biomedica (Molecular Biology & Genetics). Il nostro Paese appare stabile come numero di Highly Cited Reserchers: nei precedenti tre anni gli studiosi italiani inseriti erano stati 49, 44 e 48. (Fonte: www.startmag.it 16-02-18)

COSA C'ENTRA UN AZZERAMENTO INDISCRIMINATO DELLE TASSE UNIVERSITARIE CON IL DETTATO COSTITUZIONALE?
Cosa c'entra un azzeramento indiscriminato delle tasse universitarie con il dettato costituzionale (Art. 34) che afferma "I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi"? Cosa c'entra con la precisa prescrizione "La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso"? Il Parlamento ha approvato l'esenzione totale dalle tasse universitarie agli studenti con una posizione Isee (l'indicatore del reddito familiare) entro i 13mila euro annui. Così, secondo dati raccolti dal Sole 24 Ore, un terzo degli studenti universitari già ha ottenuto l'esenzione dalle tasse. Tutti quelli che nelle stesse condizioni volessero iscriversi l'otterrebbero. E perché debbono studiare gratis anche gli altri? E perché poi proprio nel momento in cui molte università pubbliche cominciano a dotarsi degli strumenti per verificare e differenziare le classi di reddito, in modo da aumentare il numero delle borse di studio, evitando di scaricarne il costo sulle spalle di tutti i contribuenti? Ma poi, quali effetti avrebbe questa misura, in un paese dove lo Stato non ha affatto la capacità di ridurre la gigantesca evasione fiscale, sulla qualità già tanto scarsa di un servizio tanto prezioso e costoso? E questo disinteresse per la conseguenza non tradisce già un (certo inconsapevole!) disprezzo dei più elementari valori della conoscenza, della scienza, della ricerca, della critica, della responsabilità personale e dell'attenzione all'impegno e al merito - insomma dell'intero pensiero umanistico? Per non parlare dell'autonomia dell'Università dalla politica: ma che fine farebbe? (Fonte: R. de Monticelli, FQ 11-01-18)


ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE

L’ASN HA ABILITATO UN NUMERO DI CANDIDATI DI GRAN LUNGA SUPERIORE AI POSTI A DISPOSIZIONE: 45MILA DOCENTI TRA PROFESSORI ORDINARI (14.807) E ASSOCIATI (30.000)
Da uno studio del MIUR e del Senato, inserito in un emendamento alla Legge di Stabilità del senatore Fabrizio Bocchino, si evidenzia che il numero dei candidati abilitati effettivamente messi in ruolo o promossi, ad oggi, non sarebbe superiore al 10 per cento. Inoltre è stimato (in eccesso) in 600 milioni di euro il costo per la normalizzazione degli abilitati scientifici, anche in vista dei pensionamenti dei prossimi anni in ambito universitario. “Mentre oggi la promozione avviene superando un concorso locale nelle università, è auspicabile la creazione di una graduatoria nazionale di merito da dove pescare in automatico le nuove assunzioni. “Ciò aumenterebbe la trasparenza – affermano i firmatari della petizione “Abilitati a insegnare ma esclusi dall’università” -. Inoltre siano assegnati i posti per concorso nazionale ai migliori che scelgano poi loro la sede di servizio, e non assegnati alle sedi con criteri diversi da quelli del merito dei candidati”. (Fonte: www.corriereuniv.it 31-01-18)


CLASSIFICAZIONI DEGLI ATENEI

CLASSIFICA 2017-18 CENSIS DEGLI ATENEI STATALI E NON STATALI
Tra i mega atenei statali, ovvero quelli con oltre 40mila iscritti, la prima posizione del Censis va ancora all'università di Bologna, con un punteggio complessivo di 92,0. Seguono Firenze (88,2), Padova e Sapienza di Roma, che sono migliorate anche nella comunicazione, nei servizi digitali e nel livello di internazionalizzazione. L'università di Perugia (94,8 punti totali) continua invece a guidare la classifica dei grandi atenei statali (da 20mila a 40mila iscritti), grazie all'alto grado di internazionalizzazione. Con 91,6 mantiene il secondo posto l'università di Pavia, a cui si accodano Parma (89,6), la new entry Modena e Reggio Emilia e l'università della Calabria. E se tra i medi atenei (da 10mila a 20mila iscritti), è l'università di Siena a farla da padrona, dopo aver sorpassato in vetta Trento (rispettivamente 99,4 e 99,2 punti), tra i piccoli atenei (fino a 10.000 iscritti) primeggia nuovamente l'università di Camerino (97,2) davanti a Teramo (89,6). Stabile la classifica dei Politecnici, guidata da Milano (92,8 punti), seguito dallo Iuav di Venezia (88,2), poi Torino e Bari.
Non riserva sorprese nemmeno la classifica degli atenei non statali. Tra i "grandi" (10-20mila iscritti) è in cima l'università Bocconi (95,8 punti), seguita dalla Cattolica (89,4). Tra i medi (5-10mila) al primo posto c'è la Luiss (91,4). Tra i piccoli (fino a 5mila iscritti), compare la Libera università di Bolzano (108,8), e la Liuc-Università Cattaneo (93,4).
Interessante anche, per farsi un quadro più completo, la classifica in base ai singoli ambiti. Rimanendo tra i mega atenei statali, Bologna primeggia per l'internazionalizzazione e le strutture, Pisa nel campo dei servizi, Palermo nell'ambito della comunicazione e dei servizi digitali, Roma Sapienza per la spesa in borse di studio. (Fonte: http://www.censis.it/17?shadow_pubblicazione=120574   )


CORSI IN INGLESE

CORSI IN INGLESE. CONSIGLIO DI STATO: L'OBIETTIVO DELL'INTERNAZIONALIZZAZIONE NON DEVE PREGIUDICARE IL PRIMATO DELLA LINGUA ITALIANA
Il Politecnico di Milano con una sentenza del Consiglio di Stato ha perso la sua battaglia linguistica. Non è possibile impartire esclusivamente in lingua inglese interi corsi universitari. Del resto, già un anno fa la Corte Costituzionale si era espressa in tal senso: pur riconoscendo l'autonomia degli atenei, non è lecito sacrificare l'italiano a totale favore di una lingua straniera. I fatti sono noti: nel 2013 il Politecnico aveva deciso di passare all'inglese come lingua obbligatoria ed esclusiva dei corsi magistrali e di dottorato, prevedendo un piano per la formazione dei docenti e il sostegno agli studenti. Il Tar della Lombardia, a cui si era appellato un gruppo di docenti, aveva dato torto al Senato accademico. A quel punto l'ateneo e il ministero avevano fatto ricorso al Consiglio di Stato, da cui era stato sollevato un dubbio di costituzionalità. Ora la sentenza è definitiva e, appunto, inequivocabile. «L'obiettivo dell'internazionalizzazione» non deve pregiudicare il «primato» della lingua italiana come «elemento di identità individuale e collettiva», la parità nell'accesso all'istruzione e la libertà dell'insegnamento. La decisione del Politecnico avrebbe infatti precluso le lezioni agli insegnanti e agli studenti non anglofoni. Dunque, benissimo che si facciano singole lezioni in inglese o in altre lingue, non interi corsi. (Fonte: P. Di Stefano 31-01-18)

ITALIAN CONSIGLIO DI STATO, ITALY’S HIGH ADMINISTRATIVE COURT, PUSHES BACK ON THE RACE TOWARDS ENGLISH
Last Monday the Consiglio di Stato, Italy’s high administrative court, struck down the Polytechnic plan on constitutional grounds. While a triumph for the 98 professors who challenged it back in 2012, it raises a number of questions on the trade-offs that universities in Italy and beyond make as they race towards English in the name of internationalisation and global competition. Those trade-offs have become ever more salient in recent years in light of rising nationalism and a growing backlash against the progressive spread of English taught courses. In striking down the plan, the Consiglio di Stato applied principles laid down by the Constitutional Court last year to affirm an earlier decision of the regional administrative court. In the interim the court had asked for the university to provide documentation on the number of programmes offered in English, Italian or in both languages. The opinion, largely a compilation of quotes from the Constitutional Court with little additional rationale, affirms three principles that the goal of internationalisation cannot jeopardise: the primacy of the Italian language, the freedom of students to learn and the freedom of professors to teach. The Italian language, the court says, is a “fundamental element of cultural identity”, not only essential to transmitting the country’s heritage but a cultural asset in itself. Teaching courses solely in a foreign language would remove Italian from “complete branches of knowledge”. Moreover, it would deny students, without adequate language support, the freedom to choose their own training and future and prevent them from reaching “the highest grades in their studies”. Finally, it would affect how professors communicate with students and would discriminate against them in the assignment of courses based on criteria that have nothing to do with their competence in the subject matter they have been hired to teach. The university must now find a solution that maintains the institution’s competitiveness in both retaining Italian students and attracting foreign students who understand the value of an English-based degree in the global job market. The question now is whether the controversy fades from sight or the implications push to the boiling point a simmering debate over the proper place of English in academia.
(Fonte: R. Salomone, http://www.universityworldnews.com  03-02-18

CORSI IN INGLESE (1)      
L’ Accademia della Crusca esulta per la decisione con cui il Consiglio di Stato ha deciso che il Politecnico di Milano non può tenere corsi esclusivamente in lingua inglese. "Finalmente è arrivata la pronuncia definitiva che dà ragione totalmente e integralmente alla lingua italiana. Una bellissima vittoria", ha commentato il presidente dell'Accademia, Claudio Marazzini. Neanche fossero corsi di letteratura italiana, con studi approfonditi sul "Canzoniere" di Petrarca o sulle "Opere" di Lorenzo il Magnifico. Pazienza per quegli studenti europei che magari, invogliati dai corsi in inglese, avrebbero scelto un'eccellenza italiana per perfezionare la propria istruzione. Niente da fare neppure per quei tanti ragazzi italiani che finalmente avrebbero potuto entrare nella contemporaneità, usando correntemente l'inglese - cioè la lingua universale - per potersi poi presentare a un colloquio di lavoro internazionale quantomeno comprendendo le domande degli intervistatori. Se vorranno impratichirsi con la lingua dovranno fare da soli, perché qui in Italia non è possibile, nell'anno 2018, seguire un corso universitario totalmente in inglese, utile tra le altre cose ad alzare il rating delle università del nostro paese rispetto a quelle straniere. “La sentenza riguarda una specifica materia – ha spiegato Paolo Collini, rettore dell’UniTr - e specificamente il Politecnico di Milano. Mi pare che non dica che non si possono fare corsi in inglese ma solamente che occorre garantire una possibilità di scelta per lo studente”. (Fonte: ildolomiti.it 01-02-18)

CORSI IN INGLESE (2)
Ebbene, questo centro di malvagi distruttori dell'idioma nazionale, risulta primo tra le università italiane, nono in Europa e trentanovesimo nel mondo. Per usare una parola orrida che forse un giorno, i giudici, con scrupolosamente motivata sentenza, porranno fuori legge, il Politecnico di Milano è una "eccellenza" del nostro Paese. Ora, non vogliamo certo dire che il Politecnico primeggia solo in quanto vi si tengono corsi di laurea in inglese, cioè nella lingua franca e universale dei nostri tempi, soprattutto negli ambiti scientifici e tecnologici. Ma siamo convinti che il rettore, quando insieme al consiglio accademico ha deciso il passaggio dall'italiano all'inglese, è stato coraggioso, moderno, e lungimirante. (Fonte: Libero 01-02-18)

CORSI IN INGLESE (3)
La questione è presto detta: la giustizia ammini­strativa entra in ballo per il ricorso di alcuni docenti av­verso l'introduzione dell'in­segnamento in inglese ed esclusivamente in questa lingua per alcuni indirizzi di laurea. Il Politecnico di Milano avrebbe provveduto ad attivare corsi di aggior­namento nella lingua in­glese per docenti e allievi, in modo da consentire loro di seguire le lezioni e comprendere i testi. Tengo per me le con­siderazioni che il rifiuto di alcuni docenti di aggior­nare la propria conoscenza dell'inglese mi suggerisce. Ma sul resto non posso ta­cere, anche e proprio per la parità di accesso all'istru­zione e la libertà di insegna­mento. Anche chi protesta sa bene che la letteratura scientifica delle materie non umanistiche (e, in qualche caso, anche per queste, vedi la filosofia) è tutta in ingle­se, Le riviste di ricerca e di diffusione delle conoscenze tecnico-scientifiche sono in inglese. Tutti i ricercatori italia­ni, se intendono far cono­scere nel mondo i risultati dei loro studi e, magari, le loro scoperte, debbono pre­sentare i loro saggi, le loro monografie in lingua ingle­se, unico veicolo per essere letti e ascoltati ovunque nel mondo. E normale che conferenze scientifiche or­ganizzate da enti italiani si svolgano in inglese, sen­za che sia prevista alcuna traduzione simultanea. (Fonte: D. Cacopardo, ItaliaOggi 02-02-18)

CORSI IN INGLESE (4)
Le università italiane, fin dal Medioevo, sono un simbolo di autonomia dal potere. Tutelare la libertà di insegnamento dei singoli atenei, lasciarli competere con le migliori università mondiali per i migliori studenti, è obiettivo da non sacrificare in nome di un insensato sciovinismo linguistico.
La bocciatura del Consiglio di Stato rischia di ripercuotersi su tutto il sistema universitario italiano, con richieste - a questo punto legittime - da parte di docenti di altri atenei italiani che vorranno l’adeguamento del doppio binario linguistico dove presenti corsi di studio solo in inglese. Una reazione a catena che può creare non pochi problemi organizzativi, di budget e offerta formativa. L’adeguamento imposto dalla Consulta sarà sicuramente oggetto di confronto fra i vari rettori italiani (la CRUI) e il MIUR, come dichiarato dall’attuale rettore del PoliMi, Ferruccio Resta, al Corriere della Sera, poiché oltre al difficile automatismo, non c’è nessuna volontà di duplicare i corsi, con l’obiettivo di “garantire una formazione di qualità in un contesto anche multietnico per tutti gli studenti”. Sarà forse necessario un intervento in sede europea per aprire definitivamente all’insegnamento in lingua inglese nei corsi universitari e post-universitari. L’italiano si difende facendo dell’Italia un posto vivo, frequentato, ambito, non attraverso un’insensata chiusura burocratica mascherata da diritto costituzionale. (Fonte: P. Falasca, V. Giannico, likiesta 02-02-18)

PAESI IN EUROPA CON PIÙ CORSI DI LAUREA IN INGLESE
Negli anni l’offerta di percorsi di studio sia di primo che di secondo livello, così come di master e corsi post laurea, con didattica esclusivamente nella lingua di Shakespeare si è notevolmente ampliata. Perché, com’è risaputo, in questo momento storico l’inglese è la lingua globale. In Olanda, per esempio, tra percorsi di primo e di secondo livello, i corsi di laurea in inglese sono circa 1.500. Una cifra considerevole, specie se rapportata all’esigua superficie del paese, grande più o meno quanto Veneto e Lombardia messi insieme e con una popolazione che supera di poco i 17 milioni di abitanti. In Germania, su una popolazione di quasi 83 milioni, i corsi di laurea in inglese sono più di 1.200, ai quali vanno aggiunti circa 300 corsi di dottorato. Perfino in Francia, nonostante la proverbiale ritrosia nei confronti dell’inglese, ci sono 450 percorsi di laurea la cui didattica è esclusivamente in tale lingua. In Italia le università che propongono corsi di laurea con didattica in inglese sono 56. Nel complesso, i corsi di laurea in inglese sono oltre 300, con una prevalenza di percorsi magistrali. In alcuni casi si tratta di corsi di studio esclusivamente in lingua straniera. In altri, come nel caso della Libera Università di Bolzano, di percorsi trilingue, in italiano, tedesco e inglese. A essere erogati in lingua straniera sono per lo più corsi di laurea dell’area tecnico-scientifica e di quella economico-finanziaria, con una buona percentuale anche di corsi di laurea magistrale a ciclo unico in Medicina. PoliMi  ha tutti i corsi di dottorato in inglese e, su 45 indirizzi magistrali, 3 solo in italiano e 15 bilingui. Anche con questa scelta PoliMi ha scalato le graduatorie d’eccellenza, arrivando ad essere la nona università a livello europeo in ambito scientifico. A normare la lingua dell’offerta didattica deve essere un giudice e non l’autonomia universitaria? (Fonte: M. Russo, www.universita.it 01-02-18)

CHALLENGING THE MOVE TOWARDS ENGLISH IN EUROPEAN UNIVERSITIES
Rising nationalism and global scepticism, combined with Brexit and Trumpism, signal that English may be losing some of its appeal or legitimacy. The broader and perhaps more interesting question is whether the italian court decision, to push back on the race towards english courses, will give momentum to a backlash that slowly has been taking shape, especially in Northern European countries where English courses have been prominent.
This confluence of forces has spurred France’s President Emmanuel Macron to fill the void in world leadership, repeatedly forecasting that French will take its place as the number one language in the world. Notwithstanding the French bravado, English as the dominant lingua franca is not about to retreat in the near future. The global economy is far too dependent on it.
In the Netherlands, where 20% of bachelor programmes and 60% of masters programmes are taught in English, the organisation Better Education Netherlands (BON) has gathered close to 6,000 signatures on a ‘manifesto’ and has threatened to sue the Dutch government for failure to enforce a law requiring that education and examinations must be taken in Dutch, with few exceptions. A 2015 poll of Dutch university students found that 60% complained of lecturers whose English was incomprehensible. A report commissioned by the Dutch ministry of education and published in 2017 by the Royal Netherlands Academy of Arts and Sciences raised concerns about the quality of English language programmes. It advised universities to pay closer attention to the language skills of students and professors and to exercise more thought in selecting courses offered in English based on subject and learning objectives. More recently the rector of the University of Amsterdam called for a balance to be struck between Dutch and English courses.
In Germany academics have launched a campaign, ADAWIS, against the predominance of English in scientific publications. The Language Council of Norway has raised concerns that many students whose entire programme is in English may not have sufficient mastery of the language to succeed and that the vast majority of graduates enter the Norwegian labour market where English proficiency is not essential. A Manifesto in Defence of Scientific Multilingualism, originating in Spain and published in seven languages, has now gathered close to 8,000 signatures of well-known scholars throughout Europe. Aimed at the European Union, the manifesto challenges requirements from European scientific committees that funding proposals be written in English.
Whether the Polytechnic Institute of Milan’s decision to offer all graduate programmes in English will inspire any of these movements to seek a legal resolution remains to be seen. At the very least the several opinions that have emerged from the Italian courts in the course of the litigation provide a well-developed rationale and framework for moving forward the discussion on what is gained, what is lost and how the dangers can be mitigated when using English as a vehicle for ‘internationalising’ universities. (Fonte: R. Salomone, http://www.universityworldnews.com 03-02-18)

MODELLO POSSIBILE PER I CORSI BILINGUE
Immaginando un corso triennale, un modello possibile è quello adottato in molte università tedesche, che accolgono al primo anno gli studenti stranieri con un 100% di lezioni in inglese, accompagnate dall'obbligo di seguire corsi di lingua locale. Al secondo anno l'inglese scende all'80% con un 20% in lingua locale, e al terzo anno si termina con un 50% dell'una e dell'altra lingua. Così i locali possono rimanere bilingui e gli stranieri possono immergersi nella cultura del paese che li accoglie. (Fonte: M. L. Villa, La Repubblica 09-02-18)


DOCENTI

FOCUS DEL MIUR SUL PERSONALE DOCENTE E NON DOCENTE NEL SISTEMA UNIVERSITARIO ITALIANO PER L'ANNO ACCADEMICO 2016-2017
L'università italiana ha perso per strada in sette anni 4.650  professori e ricercatori (il 7,9%): erano 58.885 nel 2010-11, sono 54.235 nel 2016-17. In particolare, diminuiscono di quasi un quinto gli ordinari (da 15.169 a 12.156) e i ricercatori (da 24.530 a 19.737), mentre per effetto del piano straordinario, con le tornate di abilitazioni degli ultimi anni, gli associati segnano un più 16,7%. Salgono i titolari di assegni di ricerca, studiosi precari con contratti rinnovabili sino a 4 anni: sono cresciuti da 13.109 nel 2010-11 a 13.946 nel 2016-17 (+6,4%). In generale, tenendo conto anche di questo balzo in avanti degli assegnisti, i ricercatori arrivano così a superare i professori ordinari e associati: i primi salgono al 28,1%, gli altri si fermano al 26,2%. È la fotografia scattata dal MIUR nel Focus sul personale docente e non docente nel sistema universitario italiano appena pubblicato e che riguarda l'anno accademico 2016-2017.
Rispetto al 2010-11 la consistenza del personale universitario, pari a 125.600 dipendenti tra docenti e amministrativi, è diminuita del 6,5%. La riduzione coinvolge i professori (-7,9%), i collaboratori linguistici (-7,8%) e il personale tecnico amministrativo (-7,5% a tempo indeterminato; -13,8% a tempo determinato). A questi vanno aggiunti 25.770 docenti, non di ruolo, titolari di contratti di insegnamento nei corsi universitari. Le differenze di genere si fanno sentire. Se le donne costituiscono più della metà del personale tecnico-amministrativo (58,5%), tra i docenti e ricercatori la loro presenza scende al 40%. Ed è soprattutto ai vertici della carriera accademica che le donne sono poco rappresentate. Nulla di nuovo sotto il sole: le dirigenti sono il 40%. Per le docenti il rapporto parla di "segregazione verticale": la loro presenza diminuisce al progredire della carriera. Infatti, la percentuale di donne supera seppur di poco la metà tra i titolari di assegni di ricerca (50,7%), raggiunge quasi il 47% tra i ricercatori e, via via, si riduce al 37,2% tra i professori associati ed al 22,3% tra gli ordinari. La percentuale di donne afferenti al Grade A, corrispondente alla posizione di full professor (professori ordinari per l’Italia), in Europa è pari a circa il 21%. (Fonte: I. Venturi, R.it 16-02-18)

LA CIRCOLAZIONE DEI PROFESSORI. UNA CHIMERA
La circolazione dei professori da un ateneo all’altro – un tempo i «dotti» erano, per eccellenza, «vagantes» – è ormai diventata una chimera. Le carriere, tranne rare eccezioni, iniziano e finiscono nello stesso luogo dove si è vinto il primo concorso. E ciò accade, soprattutto, per ragioni economiche: gli stipendi sono legati alle università e per spostarsi è necessario che la sede ospitante copra i costi del nuovo docente. I progressivi tagli al Fondo di finanziamento ordinario (FFO) rendono ormai proibitivi questi passaggi e gli incentivi (una tantum) per facilitarli sono insufficienti. Le disastrose conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Se un professore ordinario va in pensione, sarà sostituito (a costo zero) dal collega associato o dal ricercatore in servizio nello stesso dipartimento. Il bisogno di rimpolpare bilanci magrissimi, spingerà le università a investire la quota del pensionamento in progressioni interne di carriera. E lo stesso imperativo economico, purtroppo, incoraggerà sempre più gli atenei a tenere le porte chiuse ai nuovi abilitati esterni. Ma il sapere, come i fiumi, ha bisogno di scorrere continuamente per mantenere vive e limpide le sue acque. (Fonte: N. Ordine, CorSera 30-12-17)

LA PIRAMIDE ACCADEMICA. ETA' MEDIA? 52 ANNI
Il mondo accademico, formato da 64.321 unità nelle università statali, si conferma a forma di piramide. I professori ordinari, che sono il 18,9%, rappresentano il vertice. Chi svolge quasi esclusivamente attività di ricerca (titolari di assegni e ricercatori) forma la base: sono il 51,6%. La distribuzione degli accademici per settori scientifico-disciplinari non è omogenea: in percentuale, il maggior numero di docenti e ricercatori afferisce all’area delle Scienze mediche (16,3%) mentre appena il 2% afferisce all’area Scienze della terra. La composizione di ciascuna area per qualifica evidenzia, inoltre, che nelle aree di Scienze giuridiche e di Scienze economiche e statistiche circa il 57% del personale docente e ricercatore è costituito da professori ordinari e associati, mentre a Scienze biologiche i ricercatori e i titolari di assegni di ricerca rappresentano poco più del 60% del personale. L'età media? È pari a 52 anni: si va dai 59 anni dei professori ordinari, ai 52 anni dei professori associati fino ai quasi 47 anni dei ricercatori. Includendo anche i titolari di assegni di ricerca l’età media complessiva scende a 48 anni. (Fonte: I. Venturi, R.it 16-02-18)

TAR SARDEGNA: ANTISINDACALE LA RITORSIONE CONTRO GLI ADERENTI ALLO #STOPVQR
La Sentenza del TAR Sardegna, sulla esclusione degli aderenti alla protesta “no VQR” da un bando avente a oggetto l’assegnazione di fondi destinati a nuovi progetti di ricerca predisposti dall’Università di Sassari, recita: «Orbene, una volta ricollegata la condotta degli odierni ricorrenti a una “protesta sindacale” - espressione, dunque, del diritto di sciopero - l’illegittimità dell’impugnata clausola di Bando appare piuttosto evidente. […] l’Università ha scelto di colpire gli scioperanti in modo indiretto e a notevole distanza di tempo, escludendoli tout-court dall’assegnazione dei nuovi fondi per la ricerca e in tal modo arrecando loro un vulnus di carattere professionale, oltre che penalizzando lo stesso interesse pubblico alla promozione della ricerca scientifica, giacché tale esclusione è intervenuta al di fuori di qualunque valutazione sulla “meritevolezza” o meno dei loro progetti di ricerca. (Fonte: Red.ne Roars 17-01-18)

DAL MOVIMENTO PER LA DIGNITÀ DELLA DOCENZA UNIVERSITARIA PROCLAMAZIONE DI UN NUOVO SCIOPERO E RICHIESTE DI FONDI PER IL FIS PER LE BORSE DI STUDIO E DI NUOVI POSTI PER DOCENTI E RICERCATORI
«Nella legge di Bilancio 2018 non riscontriamo risposte soddisfacenti allo sblocco definitivo delle classi e degli scatti sollecitato con lo sciopero dagli esami di profitto dal 28 agosto al 31 ottobre 2017»: questo l’incipit della lettera diffusa dal “Movimento per la Dignità della Docenza Universitaria”. Che innanzitutto chiede che gli scatti bloccati nel quinquennio 2011-2015, siano sbloccati a partire dal 1° gennaio 2015, come è stato previsto per tutti gli altri dipendenti pubblici, e senza chiedere arretrati. In più i professori in agitazione (proclamano un nuovo sciopero dal 1° giugno al 31 luglio 2018), chiedono che siano stanziati 80 milioni per incrementare il «Fondo integrativo statale per la concessione delle borse di studio» destinate agli studenti e che poi siano messe a disposizione risorse per procedere ai concorsi per 6000 posti da professori associati e 4000 da ordinari, «riservate almeno per il 90% a cambiamento di fascia o ruolo, nell'ambito della sede di appartenenza, del personale già in servizio». A cui aggiungere i fondi per 4000 posti da ricercatori di tipo B (il primo gradino per la docenza). (Fonte: IlSole24Ore 07-02-18)


LAUREE-DIPLOMI-FORMAZIONE POST LAUREA-OCCUPAZIONE

CHE COSA DEVONO SAPERE I NOSTRI LAUREATI QUANDO ESCONO DALL’UNIVERSITÀ
Secondo una mentalità meccanica e semplicistica, l’università non preparerebbe al lavoro perché non produce individui bell’e pronti, già impiegabili in una precisa posizione – miracolosamente indovinata fra le migliaia possibili. Cioè, individui che per un’altra posizione sarebbero inadeguati. In realtà non è di questo che c’è bisogno; ma nell’attuale lungo periodo di crisi economica questa sommaria accusa è servita molto bene a scaricare sul sistema dell’istruzione buona parte delle responsabilità che in realtà sono del mondo aziendale. Per ovvi motivi, la varietà dei compiti nel mondo del lavoro è tale, che chi pretendesse una preparazione specifica per il compito che gli toccherà dovrebbe indovinare in che stanza di che azienda lavorerà. Salvo che poi dopo un anno e mezzo verrà spostato ad altro incarico, e dovrà dedicare qualche mese a imparare quello. Anche per questo, ciò che l’università deve garantire non sono ometti e donnine che sappiano già svolgere uno o l’altro singolo incarico; ma persone che, avendo acquisito conoscenze generali nel settore che gli interessa, abbiano anche acquisito la capacità di imparare le cose – in larga parte imprevedibili – che gli serviranno in futuro. Questo significa che le persone devono uscire dall’università sapendo (1) che cosa vuol dire approfondire un problema quanto serve, senza accontentarsi di soluzioni approssimative; e (2) come andare a cercare le informazioni quando gliene servono di nuove che ancora non conoscono. I nostri laureati, che escono da un sistema universitario costretto a lavorare con risorse pari alla metà o a un terzo dei paesi concorrenti, trovano lavoro proprio in quei paesi dove le università sono finanziate il doppio o il triplo che da noi. Se non riescono a impiegarsi altrettanto facilmente in Italia la colpa, palesemente, non è dell’università italiana. (Fonte: E. Lombardi Vallauri, temi.repubblica.it/micromega-online 10-01-18)

SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA SULLA RETRIBUZIONE DEI MEDICI SPECIALIZZANDI 1982-90
La sentenza della Corte di Giustizia Europea, emanata il 24 gennaio, è un provvedimento che in sostanza riconosce ai medici, specializzandi nel periodo tra il 1982 e il 1990, il diritto di essere
«adeguatamente» retribuiti per avere seguito i corsi. Una data chiave, sorprendente per quanto sia lontana nel tempo, è il 31 dicembre 1982, ovvero la scadenza entro la quale gli stati membri della comunità Ue avrebbero dovuto in base a una direttiva comunitaria stabilire, attraverso una legge nazionale, quanto pagare i giovani medici che si impegnavano a conseguire la specializzazione. L'Italia ha mancato quell'appuntamento e solo nel 1990 ha disciplinato la remunerazione destinata agli specializzandi. Un ritardo contro il quale nel 2001 iniziano a fioccare i ricorsi al tribunale di Palermo di alcuni medici che chiedono la condanna sia dell'Università degli Studi sia dello Stato. Obiettivo della causa vedersi riconosciuta una remunerazione adeguata per avere frequentato i corsi o, in secondo ordine, ottenere un risarcimento per l'inadempienza italiana rispetto alla direttiva Ue. A seguire è una lunga vicenda giudiziaria con i medici che perdono in primo grado salvo ottenere, nel 2012, un risarcimento dallo Stato in base a una sentenza della Corte di appello di Palermo. A intervenire è anche la Corte di cassazione che ha sospeso il procedimento rivolgendosi, in via pregiudiziale, alla Corte di giustizia europea. L'ultimo atto è, dunque, la sentenza dei giudici lussemburghesi che stabilisce un'adeguata remunerazione per tutti i corsi di formazione specialistica, a tempo pieno o a tempo ridotto, iniziati a partire dal 1982. E ora il conto finale potrebbe essere a nove zeri. (Fonte: A. Ducci, CorSera 28-01-18)

CARENZA DI MEDICI DI MEDICINA GENERALE
Tra 10 anni saranno rimpiazzati solo 11.000 medici di medicina generale, con saldo negativo di oltre 22.000. L’inadeguatezza dell’attuale sistema dei corsi regionali di formazione in medicina generale rende necessario valorizzare questa figura medica con l’evoluzione in disciplina universitaria e la nuova costituzione di scuole di specializzazione (CorSera 21-02-18).
Come mai mancano all'appello tanti medici di medicina generale? «Assistiamo da anni a una sorta di imbuto formativo - spiega il Rettore dell'Università di Tor Vergata, già preside di Medicina e Chirurgia - circa 9mila studenti l'anno entrano nella facoltà di medicina, dopo 5 anni devono seguire una specializzazione o il corso per diventare medico di medicina generale o di base. A quel punto qualcosa non va: serve un maggior numero di fondi per la formazione post-laurea. I laureati ci sono: il 90% degli iscritti consegue il titolo in massimo sei anni, però poi devono specializzarsi e lì c'è il blocco. Solo il 70% ottiene un corso post-laurea e solo un migliaio per medicina di base. Eppure in Italia formiamo ottimi medici: ogni anno migliaia vanno a lavorare all'estero, circa 2mila solo in Inghilterra. Vuol dire che sono preparati». I contratti di formazione e specializzazione, nonostante siano ad oggi ancora pochi, in realtà sono aumentati rispetto a qualche anno fa: nell'anno accademico 2012-2013 i contratti coprivano il 55% dei laureati, negli ultimi due anni si è arrivati al 70%. Ma non basta, in vista dei pensionamenti si rischia il collasso del sistema sanitario di base. (Fonte: Il Messaggero 10-02-18)

LAUREE CON DOPPIO TITOLO (DOUBLE DEGREE)
Le lauree che forniscono un doppio titolo, in convenzione con un ateneo straniero partner, ormai fanno parte integrante dell'offerta didattica di casa nostra: i corsi sono circa 600 e raccolgono 28.966 iscritti (dato aggiornato al 2016 fornito dal MIUR). I bandi per iscriversi a questi corsi generalmente si aprono in primavera, ma ormai la tendenza è quella di anticipare sempre di più per meglio pianificare le risorse e sono in arrivo continuamente nuovi accordi. Quindi chi fosse interessato a partire già a settembre deve muoversi con anticipo. Tra gli ultimi, ad esempio, c'è quello appena presentato dall'università di Perugia, pronta a strutturare un corso di laurea magistrale internazionale in «Chimica sostenibile e dell'ambiente», in collaborazione con la Hebrew university di Gerusalemme. Da agosto dovrebbero aprirsi le iscrizioni per l'anno 2018-2019. Dal 19 febbraio, a Milano, sono aperte le iscrizioni per uno dei percorsi più nuovi, «Hospitality and tourism management - dual degree» che lo Iulm organizza insieme alla university of Central Florida e l'université Grenoble Alpes. I posti a disposizione sono 100. In questo periodo, all'università di Roma Tre, via al bando per il doppio titolo in “Economia e gestione aziendale - diplòme Inba-École internationale de management” insieme all'università francese di Troyes (iscrizioni dal 5 marzo, solo 3 posti a disposizione). A Trento, scade il 26 febbraio il bando per gli studenti di Finanza interessati alla doppia laurea presso la Erasmus university di Rotterdam. A Torino, scade invece il 9 marzo il bando per ottenere la laurea italiana e francese in Giurisprudenza, presso l'université Paris Descartes (5 posti) e presso l'università di Nizza Sophia Antipolis (15 posti). E sempre tra febbraio e marzo sono aperti bandi per lauree magistrali con doppio titolo all'università di Bergamo, dell'Insubria, di Siena, di Padova e di Verona. (Fonte: IlSole24Ore 12-02-18)

DAL PROSSIMO ANNO ACCADEMICO LE NUOVE LAUREE PROFESSIONALIZZANTI
Le «lauree professionalizzanti» debuttano nel prossimo anno accademico: si parte con 15 corsi in altrettanti atenei come mostra un monitoraggio appena effettuato dalla CRUI. Al momento le norme prevedono che le università non attivino più di un nuovo corso all'anno. Lauree, queste, che guardano allo sviluppo delle nuove frontiere di industria 4.0 e a settori tradizionali come l'edilizia o il settore alimentare (possibili anche partenariati con le imprese). E che, grazie alle convenzioni obbligatorie con gli Ordini, a regime saranno anche abilitanti per svolgere una professione, come quella di geometra o perito industriale (l'Ue ha previsto entro il 2020 l'obbligo del diploma di laurea per esercitare una professione tecnica). (Fonte: M. Bar., IlSole24Ore 01-02-18)


FINANZIAMENTI

PRIN. NUOVO BANDO CON CIRCA 390 MILIONI
Subito dopo Natale è stato pubblicato il nuovo Bando PRIN 2017. Per la prima volta da molti anni i finanziamenti sono consistenti (circa 390 milioni di euro), dal doppio al quadruplo di quelli generalmente disponibili nell’ultimo decennio (circa 105 milioni nel 2009; 95 milioni nel 2008; 170 milioni nel 2010-11, 39 milioni nel 2012, 92 milioni nel 2015). (Fonte: AGENPARL 17-01-18)
I PRIN rischiano di presentare le stesse criticità dei FFABR, ma su scala ben maggiore. L’idea che solo l’X% dei proponenti possa essere degno del finanziamento in base alle domande presentate è aberrante (M. Bella, Roars).

I LUDI DIPARTIMENTALI E L’EQUILIBRATA DISTRIBUZIONE DELLE RISORSE
Si è conclusa da pochi giorni la competizione (i c.d. ludi) per l’attribuzione dei cospicui fondi destinati ai cosiddetti «dipartimenti di eccellenza». L’università di Bologna ha un numero di «premiati» che è pari a quello di tutte le regioni del Sud e delle isole, tolta la Campania, per un totale superiore ai 113 milioni in cinque anni. A Palermo ne andranno poco più di 8. Per molti questa è semplicemente la logica della «meritocrazia»: all’Italia possono bastare cinque o sei «vere» università e poco importa la loro collocazione. Si tratta di una pericolosa semplificazione: una equilibrata distribuzione di strutture formative e di ricerca di alto livello è fondamentale per creare concrete opportunità di sviluppo economico e sociale su tutto il territorio nazionale, senza pretendere per questo che si facciano ovunque le stesse cose nello stesso modo. L’obiettivo principale di una valutazione rigorosa dovrebbe essere quello di individuare e superare le inefficienze e far progredire l’intero sistema e si possono riconoscere le punte di impegno e di qualità senza alimentare l’ossessione di classifiche da scalare con ogni mezzo per sopravvivere. (Fonte: S. Semplici, CorSera 15-01-18)

NEI C.D. LUDI DIPARTIMENTALI TANTI DIPARTIMENTI A PUNTEGGIO PIENO NELLA PRIMA FASE DELLA GRADUATORIA VQR SCAVALCATI NELLA FASE DI VALUTAZIONE PROGETTUALE
Pur tenendo in considerazione che la maggior parte dei progetti era stata presentata da Dipartimenti di Università del Nord, i Dipartimenti finanziati sono per l'87% del Centro-Nord. Scorrendo gli elenchi pubblicati dall'ANVUR e analizzando le statistiche, i Dipartimenti "vincitori" al Nord raggiungono il 57%, il Centro si attesta intorno al 30% e al Sud va la quota residua del 13%. Ma la selezione finale dei progetti sembra aver completamente rivoluzionato e sovvertito l'originale graduatoria VQR. Tanti Dipartimenti a punteggio pieno nella prima fase della graduatoria sono stati scavalcati nella fase di valutazione progettuale da parte della commissione che assegnava ulteriori 30 punti, e quindi non finanziati. La domanda che allora sorge spontanea è: se il meccanismo di valutazione VQR, per cui il MIUR impiega tante risorse economiche, è giusto, trasparente, oggettivo e meritocratico, i migliori Dipartimenti italiani nel giro di pochi mesi dalla prima fase di valutazione sono arretrati in capacità e competenze o non sono stati in grado di scrivere un progetto di sviluppo eccellente? O forse il problema sta nella fase di valutazione da parte della commissione, o nel circuito vizioso di un sistema che per come si è consolidato difficilmente potrà consentire di colmare il divario Nord-Sud? (Fonte: M. Bifolco, IlSole24Ore 31-01-18)

I DATI SEGRETI DELLA GARA TRA DIPARTIMENTI
La gara tra dipartimenti è avvenuta in due fasi. Nella prima fase sono stati selezionati 350 dipartimenti sugli 800 italiani sulla base dell’ISPD (Indicatore standardizzato di performance dipartimentale).
È Lucio Bertoli Barsotti che riesce a decifrare l’enigma dell’ISPD, rendendolo comprensibile a tutti: si tratta di una gara truccata che punisce le aree di ricerca con i migliori risultati bibliometrici a livello mondiale e premia quelle che arrancano nel confronto internazionale. Per esempio, un prodotto classificato “eccellente” in Fisica nucleare e subnucleare (FIS-04), quando trattato con la formula ISPD vale di meno di un prodotto classificato come “discreto” in economia dei mercati finanziari (SECS-P11). Detto in altro modo: ai fini della classifica tra dipartimenti, un prodotto eccellente in diritto tributario (IUS-12) vale come 4,4 prodotti eccellenti in fisica nucleare e sub-nucleare.
Nella seconda fase sono invece stati scelti i vincitori, sulla base di un punteggio complessivo in cui l’ISPD conta per il 70%, mentre il restante 30% è assegnato da una commissione di sette componenti, che giudica i progetti presentati dai dipartimenti che hanno superato la prima fase.
La prima fase del combattimento nell’arena si è svolta a porte chiuse, nel senso che sono stati pubblicati i risultati, ma nessuno ha potuto assistere e i cruenti duelli sono rimasti segreti. Fuor di metafora: i 352 dipartimenti (invece dei 350 previsti dalla legge – qui il rischio degli sciamani anvuriani si è rivelato giusto, perché nessuno avrebbe impugnato un allargamento destinato evidentemente a rimettere in carreggiata due dipartimenti che non potevano soccombere) sono stati selezionati sulla base di dati e calcoli che non è stato e non è tutt’ora possibile verificare e controllare, perché, semplicemente, questi dati l’ANVUR rifiuta di renderli disponibili invocando la disciplina dei dati personali (come se non fossero escogitabili, sol che si volesse, accorgimenti in grado di neutralizzare questo timore legalistico che paralizza i burocrati di via Ippolito Nievo, e come se non esistesse nella fattispecie un interesse all’accesso ai dati capace di controbilanciare i vulnera alla protezione dei dati personali dei partecipanti alla VQR). Roars ha fatto richiesta di accesso agli atti utilizzando la procedura FOIA (Freedom of Information Act, che permette l'accesso civico a tutti gli atti della Pubblica amministrazione) separatamente nei confronti di MIUR e ANVUR. MIUR ha risposto che il trattamento dei dati è compito di ANVUR. ANVUR ha risposto che non rende pubblici i dati. "Abbiamo chiesto l’accesso ai dati di base per la costruzione dell'Indicatore standardizzato di performance dipartimentale (ISPD), spiega Roars, per replicare i calcoli di ANVUR. Il MIUR sta distribuendo 1,35 miliardi senza che nessuno possa controllare la correttezza dei dati su cui è basata la distribuzione". (Fonte: Redazione Roars 05-02-18; V. Della Sala, FQ 13-02-18)

FFABR. ASSEGNATI SOLO 35 MILIONI SU 45
Nelle ultime settimane del 2017 sono stati assegnati i fondi del finanziamento per le attività base di ricerca (FFABR). Erano disponibili 45 milioni di euro per 15mila ricercatori e professori associati che potevano ottenere ciascuno 3mila euro a testa (art 1, comma 295 legge 232/2016). Molti hanno rinunciato a far domanda, non volendo o non pensando di poter concorrere. Soprattutto, si è interpretata l’indicazione di assegnare i fondi al 75% dei ricercatori ed al 25% degli associati sulle domande effettuate e non sugli aventi diritto, portando a distribuire solo 30 milioni di euro a circa 7500 ricercatori e 2500 associati. In una fase di generalizzata penuria di fondi di ricerca, non si sono perciò spese il 30% delle risorse a disposizione, pur di far trionfare un’inutile e incomprensibile logica premiale. (Fonte: AGENPARL 17-01-18)

SVUOTATO IL FONDO (FFABR) PER IL BONUS DI 3 MILA EURO?
Secondo il Foglietto Ricerca il Fondo per finanziare le attività base di ricerca (FFABR), di 45 mln per 15.000 finanziamenti individuali pari al 37% degli aspiranti (c.a 40.000), dal 2018, dopo vari tagli, sarà di soli 5 mln, sufficienti per c.a 1.650 erogazioni, meno del 5% dei candidati potenziali. (25-01-18)

RAPPORTO 2017 DEL PUBLIC FUNDING OBSERVATORY DELL’EUROPEAN UNIVERSITY ASSOCIATION
Italia, Lettonia e Spagna, «sistemi con tagli continuati all’istruzione universitaria presentano le caratteristiche di profili in via di peggioramento». Un peggioramento che giustifica un bel bollino rosso nell’infografica che riassume l’evoluzione dei finanziamenti pubblici. A suonare il campanello di allarme per l’Italia (e pochi altri paesi) è il Rapporto 2017 del Public Funding Observatory dell’European University Association: «The higher education systems under review follow various long-term funding trajectories over the period 2008-2016. Based on the analysis of the annual funding changes throughout the study period, several groups of systems that follow similar patterns can be identified. Systems such as Austria, Germany or Sweden show sustainable investment patterns, characterised by both significant and sustained funding growth. Other systems feature more limited, slower investment – Denmark, France and the Netherlands are among these. Comparatively few systems have embarked on a recovery pattern, whereby signs of investment can be detected after a period of important cuts, as is for instance the case in Iceland or Portugal. Finally, systems with continued cuts to higher education present characteristics of aggravating patterns (Italy, Latvia and Spain are some examples).» (Fonte: Red.ne Roars 16-01-18)

LA VALUTAZIONE E IL FINANZIAMENTO
“La valutazione non è un modo per ridurre i divari – ha sostenuto Alberto Baccini, Università di Siena – piuttosto serve a individuare università ritenute migliori di altre ed a concentrare lì le risorse. Chi dice che non lo fa mente.” Il meccanismo di finanziamento associato alla performance è un meccanismo non così diffuso in altri paesi, siamo uno dei pochi paesi ad usarlo in modo così radicale. E visto che questo modo di ridistribuire le risorse non è andato a buon fine, si è rincarata la dose, utilizzando lo stesso strumento per i dipartimenti di eccellenza. E a farne le spese sono stati i ricercatori, i docenti, tutti i lavoratori che fanno università tutti i giorni, la cui condizione è cambiata in maniera radicale. Questo sistema di valutazione non solo sta creando divari nel nostro Paese ma ci sta allontanando dai Paesi che fanno scienza in maniera solida”. (Fonte: Intervento di A. Baccini all’Assemblea Nazionale Università, Cosenza 23-24-01-18)

DAL MISE 38 MLN IN PIÙ PER LA REALIZZAZIONE DI ATTIVITÀ DI RICERCA INDUSTRIALE E SVILUPPO SPERIMENTALE IN CALABRIA, CAMPANIA, BASILICATA, PUGLIA E SICILIA
Il ministero dello Sviluppo economico (MISE) ha destinato nuove risorse per i progetti di ricerca e sviluppo, negli ambiti tecnologici identificati dal programma quadro di ricerca e innovazione Horizon 2020 nelle regioni Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Basilicata. Si tratta di un ulteriore incremento della dotazione finanziaria complessivamente pari a 38,1 mln di euro (di cui 34,8 mln a valere sul piano di azione coesione 2007-2013 e 3,3 mln a valere sul programma nazionale complementare imprese e competitività 2014-2020). Il tutto col decreto 18 ottobre 2017 (in attesa di essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale) del MISE. I 34,8 mln saranno utilizzati per la concessione di agevolazioni in Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, mentre i restanti 3,3 mln andranno in favore dei progetti in Basilicata. I progetti finanziabili dovranno prevedere la realizzazione di attività di ricerca industriale e sviluppo sperimentale, finalizzate alla realizzazione di nuovi prodotti, processi o servizi o al notevole miglioramento di prodotti, processi o servizi esistenti, tramite lo sviluppo delle tecnologie, riconducibili alle aree individuate dalla strategia nazionale di specializzazione intelligente. (Fonte: ItaliaOggi 26-01-18)

IN ITALY RESEARCHERS HOLD OUT LITTLE HOPE THAT THE NEXT GOVERNMENT WILL IMPROVE THEIR UNDERFUNDED RESEARCH SYSTEM
As campaigning ahead of Italy’s national election enters its final weeks, researchers in the country fear that budget cuts and declining interest in science will only continue — whatever the outcome of the vote on 4 March. A complex coalition government is likely to emerge. The country’s traditional centre-left and centre-right parties have splintered, and myriad small parties make up the ballot sheet, as well as the populist Five Star Movement. Topics such as immigration, the refugee influx and eurozone membership have dominated mainstream debates. But, apart from a battle over the nation’s compulsory vaccination programme, which was introduced last year, science has featured little in the campaigning — even as economists warn that Italy’s research system is in a precarious state. “We are on the verge of collapse,” says Mario Pianta, an economist at the University of Rome Tre, who helps to prepare Italy’s statistics on research and development (R&D) for the European Commission. Italy has hotspots of scientific excellence, such as in particle physics and biomedicine. But, unlike many other European countries, it has failed to modernize its science system in the past few decades. Budgets have constantly been low. Academic hiring practices can be complicated, and bureaucracy crippling, many scientists say. Research organizations have had little power politically, and have been unable to stem the rising influence of those who have demonized vaccinations and promoted charlatan cure-alls. The gap in scientific achievement and investment between the country’s wealthy north and poorer south is widening, helping to fuel regionalist and populist politics, says Raffaella Rumiati, vice-president of Italy’s national research-evaluation agency. (Fonte: I. Romano, Nature 554, 411-412, 2018)


RECLUTAMENTO

PROBLEMA PER LA STABILIZZAZIONE DI PRECARI NEGLI EPR
Il problema riguarda gli oltre 2mila precari che come spiegato in più di una dichiarazione ufficiale del governo dovrebbero finalmente trovare un posto stabile al Cnr, all’Istat e negli altri enti pubblici di ricerca (EPR). In ogni ente esiste un fondo ad hoc che serve a finanziare gli integrativi, cioè le voci della busta paga che non rientrano nella base rappresentata dal «tabellare». Nella prima versione della circolare sulle stabilizzazioni, diffusa a novembre dalla Funzione pubblica, si spiegava che i nuovi ingressi negli organici avrebbero potuto far crescere questi fondi. Ma la Corte dei conti ha posto il veto. Nel nuovo documento, spunta quindi una riga in cui si dice che «il trattamento economico accessorio graverà esclusivamente sul fondo calcolato ai sensi della normativa vigente». Tradotto, significa che l’ingresso di nuovi assunti in pianta stabile non può far crescere la somma complessiva che ogni ente destina agli integrativi: somma che quindi, dopo le stabilizzazioni, andrebbe divisa fra più persone. Con la conseguenza, matematica, di abbassare le buste paga di chi è già in organico. La soluzione più solida al problema passerebbe da una nuova norma, ma per approvarla ci vorrebbe un Parlamento nel pieno delle sue funzioni. (Fonte: G. Trovati, IlSole24Ore 30-01-18)


RICERCA

“ERRORS AND SECRET DATA IN THE ITALIAN RESEARCH ASSESSMENT EXERCISE. A COMMENT TO A REPLY
Italy adopted a performance-based system for funding universities that is centered on the results of a national research assessment exercise, realized by a governmental agency (ANVUR). ANVUR evaluated papers by using “a dual system of evaluation”, that is by informed peer review or by bibliometrics. In view of validating that system, ANVUR performed an experiment for estimating the agreement between informed review and bibliometrics. Ancaiani et al. (2015) presents the main results of the experiment. Alberto Baccini and De Nicolao (2017) documented in a letter, among other critical issues, that the statistical analysis was not realized on a random sample of articles. A reply to the letter has been published by Research Evaluation (Benedetto et al. 2017). This note highlights that in the reply there are (1) errors in data, (2) problems with “representativeness” of the sample, (3) unverifiable claims about weights used for calculating kappas, (4) undisclosed averaging procedures; (5) a statement about “same protocol in all areas” contradicted by official reports. Last but not least: the data used by the authors continue to be undisclosed. A general warning concludes: many recently published papers use data originating from Italian research assessment exercise. These data are not accessible to the scientific community and consequently these papers are not reproducible. They can be hardly considered as containing sound evidence at least until authors or ANVUR disclose the data necessary for replication. (Fonte: A. Baccini e G. De Nicolao, RT. A Journal on Research Policy and Evaluation, [S.l.], v. 5, n. 1, july 2017)

LA POLITICA DEL DISIMPEGNO, ANCHE DALLA RICERCA SCIENTIFICA
La politica ha mostrato il fiato corto, nell'incessante inseguimento di un quotidiano «mi piace», nella personale verticalizzazione della presenza mediatica. I decisori pubblici sono rimasti intrappolati nel brevissimo periodo. Il disimpegno dal varo delle riforme sistemiche, dalla realizzazione delle grandi e minute infrastrutture, dalla politica industriale, dall'agenda digitale, dalla riduzione intelligente della spesa pubblica, dalla ricerca scientifica, dalla tutela della reputazione internazionale del Paese, dal dovere di una risposta alla domanda di inclusione sociale, ha prodotto una società che ha macinato sviluppo, ma che nel suo complesso è impreparata al futuro. (Fonte: «Considerazioni generali» del 51° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2017)

L’USO DELL’IMPACT FACTOR DELLE RIVISTE PER LA VALUTAZIONE RIFIUTATO DAI RESEARCH COUNCILS DEL REGNO UNITO
I sette Research Council del Regno Unito, che finanziano circa 3 miliardi di sterline di ricerca ogni anno, hanno firmato la Dichiarazione di San Francisco sulla Valutazione della Ricerca (DORA), invitando la comunità accademica a smettere di usare l’impact factor delle riviste come proxy per la qualità della ricerca. I Research Council britannici si uniscono ai circa 13.000 studiosi e alle 450 organizzazioni che hanno firmato DORA che è stata promossa dall’ American Society for Cell Biology nel 2012 per invitare ricercatori, università, riviste, editori e finanziatori a migliorare il modo in cui valutano la ricerca.
Tra non molto l’Italia, commenta Roars (07-02-18), grazie ai ministri che si sono succeduti al MIUR e grazie soprattutto ad ANVUR, resterà il solo paese occidentale ad applicare massivamente, per ogni tipo di decisione (abilitazione scientifica, selezione dei commissari di concorso, collegi di dottorato, …), metriche basate sull’impatto delle riviste o su surrogati di tali metriche, come le liste di riviste per le aree non bibliometriche.


EXCELLENCE IS USED TO RANK RESEARCH AND UNIVERSITIES BUT IT IS A HARD TERM TO DEFINE
What does research excellence mean? How is it measured? When do we know that we have reached the required standard? These are difficult questions, but if the excellence agenda is to be taken seriously, they must be asked — even if they cannot be adequately answered.
A paper in Science and Public Policy makes the latest attempt to ask — and indeed answer — them (F. Ferretti et al. Sci. Publ. Pol. http://doi.org/ckpg , 2018). The authors interview a dozen experts — from policy wonks to researchers — about excellence and quickly reach two points of consensus. First, the idea of excellence as a measure of research quality makes many people uncomfortable. And second, these people — despite their discomfort — cannot suggest anything better, given that science and scientists must meet political demands of accountability and assessment. (Fonte: www.nature.com - https://tinyurl.com/yajru5hb 21-02-18)

CRITICITÀ DELLA RIFORMA GELMINI E DELL’ATTUALE VALUTAZIONE DELLA RICERCA
In un articolo di A. Graziosi su La Repubblica del 19-01 si parlava di una “buona” legge Gelmini, quando invece questa legge ha accentuato il localismo nelle assunzioni dei docenti, il cosiddetto “inbreeding”, che era e resta uno dei principali difetti del nostro sistema universitario. La riforma Gelmini ha anche ridotto da tre a due i ruoli (o fasce) della docenza, un’operazione che avrebbe potuto risultare priva di effetti negativi se fosse stata adeguatamente finanziata, ma che, in presenza di una diminuzione dei finanziamenti ha di fatto bloccato l’ingresso dei più giovani nei ruoli della docenza: i pochi fondi disponibili sono stati spesi per promuovere i molti (ma non tutti) meritevoli che appartenevano alla “terza fascia” che la legge aveva soppresso. Ma il danno a lungo termine maggiore della legislazione recente e dell’azione del Ministero e dei suoi organi (in particolare l’ANVUR) è quello causato dall’introduzione di parametri numerici gabellati per “oggettivi” per la valutazione della ricerca scientifica. Nessuna attività creativa può essere valutata “oggettivamente”, tuttavia se una autorità centrale condiziona assunzioni, promozioni e finanziamenti al superamento di “soglie” di parametri numerici, i ricercatori, in particolare i più giovani, saranno costretti ad inseguire i parametri, anziché seguire la loro curiosità e la loro personale valutazione di che cosa è, o può divenire, importante o significativo. (A. Figà Talamanca, Roars 01-02-18)


SISTEMA UNIVERSITARIO

LA MINISTRA PARLA DI UN PIANO DI LUNGO PERIODO PER L’UNIVERSITÀ
La ministra Fedeli, all’inaugurazione dell’anno accademico dell’UniPr, ha ribadito l’importanza di puntare sull’eccellenza universitaria: “Un piano di lungo periodo e non solo sotto campagna elettorale. Ci sono stati tagli importanti ma ora, dopo 10 anni di blocco, sono incrementati a 237 milioni i fondi per gli accessi agli studi, aumentati del 10% le borse di studio per dottorati, introdotta la tutela della maternità per le donne ricercatrici. Nel 2015 avevamo il livello più basso di risorse per l’università, ora vediamo una crescita del 6,4%, quasi mezzo miliardo in più. Il Governo nella legge di bilancio ha impegnato 50 milioni di euro per l’assunzione di nuovi ricercatori universitari di tipo B, nel nuovo piano sono stati impegnati altri 70 milioni per 1.300 ricercatori. Entro febbraio verranno consegnati i posti. Il 25% di queste risorse però deve essere impegnato per patto nell’assunzione nel breve futuro di altri 1.600 ricercatori di tipo B”. Tra gli obiettivi della ministra ci sono “importanti investimenti anche nel Mezzogiorno perché deve raggiungere gli stessi parametri di qualità che ci sono al Nord. Vorrei proporre inoltre, in accordo con l’ANAC per l’anticorruzione, un atto d’indirizzo per consolidare la trasparenza nella gestione dei luoghi della conoscenza e controllo dei bandi”. (Fonte: www.parmapress24.it 03-02-18)

LA POLARIZZAZIONE NEGLI ATENEI
La polarizzazione è esattamente ciò che sta avvenendo negli atenei italiani. «Al Sud, ma anche al Centro - Francesco Ferrante commenta a Linkiesta -  ci sono sempre meno risorse e i ricercatori sono incentivati a spostarsi verso i dipartimenti “migliori”, accentuando così il processo. La domanda che bisogna porsi è: se si parte da condizioni più difficili come si può migliorare se vengono sottratte le risorse? C’è da dire che un meccanismo meritocratico crea meno danni se le risorse complessive sono adeguate, per cui anche chi sta in basso nelle classiche riceve risorse adeguate. In Italia il Fondo di finanziamento ordinario è al di sotto degli standard internazionali e negli ultimi anni è stato ridotto di oltre il 15 per cento». Una recente analisi su Linkiesta a cura di Gianni Balduzzi ha sottolineato come uno dei principali problemi degli atenei del Sud sia la sproporzione tra l’alto numero di iscritti e il basso numero di laureati, oltre a un’eccessiva presenza di studenti fuori corso. «Sono favorevole alla valutazione e non sono contrario a che le risorse siano date ai più bravi - conclude Ferrante - però secondo criteri legati al principio del valore aggiunto». Per affrontare questo problema, nel mondo anglosassone sono state introdotte metodologie di valutazione basate sul concetto di “valore aggiunto”: si misura la performance a parità di condizioni». (Fonte: F. Patti, linkiesta.it 12-01-18)

RIFORMA DEL SISTEMA UNIVERSITARIO CATTOLICO
Il Papa vuole mettere ordine nel sistema universitario cattolico mondiale. Un ginepraio di 1365 università  a cui ai aggiungono centinaia di istituzioni collegate, facoltà di teologia e istituti per un totale di 64.500 studenti e 12.000 docenti. «Serve una coraggiosa rivoluzione culturale» per costruire una Chiesa in uscita, missionaria e moderna, sicuramente meno frammentaria di quanto non sia ora e più omogenea culturalmente. Con una visione generosa e aperta al mondo, all’ambiente, al tema migratorio. In Vaticano è stata presentata la Costituzione Apostolica Veritatis Gaudium con la quale il Vaticano rivedrà lo spirito e l’organizzazione del mondo accademico teologico. Il sogno del pontefice è di riuscire attraverso un percorso fatto di regole precise e contorni elaborati a rendere compatto l’insegnamento filosofico, teologico, canonico, pastorale. Nell’introduzione spiega che la Chiesa sta vivendo un cambiamento d’epoca che necessita di un «radicale cambio di paradigma». Poi fa sue le parole di Edgar Morin: «Bisogna ripensare il pensiero». Le università  potranno essere aperte solo dopo la valutazione dell’apposita Agenzia per la Valutazione e la Promozione della qualità, creata nel settembre 2007 da Papa Benedetto XVI, e che ora viene inserita nelle norme costituzionali. Si sfrutteranno le novità informatiche e telematiche per consentire una parte dello svolgimento dei corsi anche a distanza. Arrivano negli Statuti procedure per valutare le modalità di trattamento dei casi di rifugiati, profughi e persone in situazioni analoghe sprovvisti della regolare documentazione richiesta. Gli accorpamenti riguarderanno soprattutto gli atenei presenti a Roma per evitare "doppioni e falsa concorrenza". (Fonte: F. Giansoldati, Il Messaggero 30-01-18)

PUNTI PROGRAMMATICI PER L’UNIVERSITÀ
Considerati i problemi più gravi dell’Università italiana di oggi, si potrebbero proporre i punti programmatici sui quali occorrerebbe convergere: 1) Misure per il contenimento del localismo nelle carriere e per l’incentivazione della mobilità tra atenei; 2) Ripristino di una terza fascia della docenza a tempo indeterminato; 3) Ridimensionamento delle attribuzioni dell’Agenzia di valutazione, e rifiuto assoluto nei confronti dell’applicazione in automatico di parametri fintamente ‘oggettivi’ (penso alla ridicola classificazione delle riviste umanistiche in ‘fascia A’ e simili). A questi punti dovrebbe aggiungersi, ovviamente, il ripristino di un adeguato finanziamento del sistema. C’è una forza politica che, in vista delle prossime elezioni, proponga nel suo programma questi punti? (Fonte: F. Proietti, Roars 01-02-18)


STUDENTI. TASSE UNIVERSITARIE

8° RAPPORTO NAZIONALE FEDERCONSUMATORI SUI COSTI DEGLI ATENEI ITALIANI. COSIDEREVOLE FLESSIONE DELLE TASSE UNIVERSITARIE RISPETTO AL 2016 GRAZIE ALL'APPLICAZIONE DELLA LEGGE DI BILANCIO
Anche per l'anno accademico 2017-2018 l'Osservatorio nazionale Federconsumatori (ONF) ha analizzato i costi delle università italiane. Considerando che l'ammontare delle tasse si determina principalmente sulla base del reddito ISEE dello studente, sono state prese in considerazione 5
fasce di riferimento: per un reddito familiare di fascia 1 (6mila euro di ISEE), si rileva un costo medio annuo di 316,82 euro, mentre si arriva ad una media di 2.446,45 euro per quanto riguarda gli importi massimi. Cifre importanti ma che, secondo Federconsumatori, fanno registrare una considerevole flessione rispetto al 2016 grazie all'applicazione della legge di Bilancio che, per favorire l'accesso all'istruzione, ha introdotto consistenti agevolazioni per gli studenti a basso reddito nonché per i più meritevoli. Si tratta sicuramente di notizie positive sia per le famiglie con figli a carico sia per i singoli studenti, visto che si riduce il peso economico che grava sul proseguimento della carriera scolastica in ambito universitario. Gli studenti del primo anno con un ISEE inferiore a 13mila euro non sono tenuti al pagamento dei contributi di ateneo, mentre gli iscritti agli anni successivi devono soddisfare, oltre al requisito economico, anche un requisito di merito (almeno 10 crediti formativi al secondo anno e almeno 25 negli anni seguenti). La diminuzione più corposa si registra comunque nella fascia 2 (ISEE fino a 10mila euro), con importi che calano del 35,65%. Per la prima, terza e quarta fascia, il taglio è rispettivamente del 33,7, del 15,91% e dell'8,69%. Per gli importi massimi è valida invece la tendenza opposta, ovvero un aumento dell'8%. Le differenze maggiori invece sono state rilevate su base regionale: su redditi ISEE di prima fascia sono infatti le università del Sud a imporre rette più alte, con costi più alti fino al 15,04% di quelle delle università del Nord e del +7,18% rispetto alla media nazionale. (Fonte: http://www.educational.rai.it/materiali/pdf_articoli/39256.pdf  nov. 2017)

I RAGAZZI NON RESTANO LONTANI DALLE UNIVERSITÀ PER VIA DELLE TASSE UNIVERSITARIE
Se oggi la popolazione universitaria italiana e il numero dei laureati sono in coda alle classifiche europee, dipende da molte cose: la difficoltà del nostro mercato del lavoro; i bassi (talvolta grotteschi) salari d’ingresso; il costo di studiare e vivere in città diverse dalla propria, in assenza di adeguate residenze universitarie; la difficoltà logistiche dell'insegnamento (e alcune pratiche discutibili) di certe grandi università; l'inadeguatezza accademica di alcuni piccoli atenei locali.
Non raccontiamoci storie. Non è il livello delle tasse universitarie che tiene lontano i ragazzi.
Le tasse universitarie italiane sono, nel complesso, ragionevoli. Toglierle non ha senso: è demagogia, lasciamola ai politici. Per chi non può permettersele - stando attenti di non fare un regalo al papà che non dichiara i suoi redditi e presenta un imponibile risibile! - le università devono prevedere borse di studio. In una vera democrazia, nessun ragazzo dotato e volonteroso deve rinunciare agli studi per motivi economici. (B. Severgnini, CorSera 19-01-18)

SOSTEGNI DEL DIRITTO ALLO STUDIO E NON SOLO LE TASSE UNIVERSITARIE I PROBLEMI DEGLI STUDENTI
La questione non riguarda solo le tasse universitarie, ma anche i costi quotidiani della vita universitaria: dall'alloggio alla mensa, dai trasporti ai libri di testo, insomma tutti quei servizi compresi nel Diritto allo Studio. Rispetto ai paesi europei, l'Italia ricopre le ultime posizioni per finanziamento agli strumenti del diritto allo studio lasciando così le famiglie a reddito medio e basso spesso sole di fronte ai costi della vita degli studenti universitari. Basti pensare che ad oggi gli studenti che beneficiano di un sostegno di Diritto allo Studio sono in media il 25% in Francia, circa il 34,7% in Germania e solamente l'8% in Italia. Un 8% che oltretutto rappresenta solamente chi gode effettivamente di un sostegno per lo studio. In base alla normativa in vigore gli aventi diritto sarebbero il 10%, ma, a causa della mancanza delle risorse, migliaia di studenti restano privi della borsa di studio a cui hanno diritto. Quindi garantire la borsa di studio almeno a tutti coloro che oggi hanno diritto deve essere la priorità politica. Si ricorda come la responsabilità costituzionale di sostenere il diritto allo studio spetti alle Regioni sulla base del Titolo V della Costituzione, per competenza diretta, e allo Stato per la competenza perequativa, tramite il Fondo Integrativo Statale (FIS). A contribuire sono anche gli studenti stessi con il pagamento della tassa regionale che sostiene il DSU in maniera significativa. Mentre in Francia o Germania il finanziamento dello Stato supera il miliardo di euro, il FIS, consolidatosi intorno ai 150 milioni fra il 2004 e il 2008, è arrivato a 256 milioni nel 2009, scendendo poi sotto i 100 nel 2010 e 2011 per poi risalire e assestarsi intorno ai 160 milioni di euro negli ultimi anni. Segnali positivi di incremento che si sono confermati nell'ultima legge di bilancio con 20 milioni recuperati dalle borse di merito.
Per porre rimedio a questa distorsione è necessario dare finalmente attuazione completa e definitiva al decreto attuativo del DLgs. 68/2012, ovvero alla definizione di quei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) che obbligherebbe tutte le Regioni e lo Stato a contribuire in maniera proporzionale e certa al finanziamento del sistema del Diritto allo Studio. (Fonte: M. Carni, huffipost 21-01-18)

CON LA SOLA GRATUITÀ NON SI RISOLVONO I GRANDI E ANNOSI NODI E DRAMMI DELLE UNIVERSITÀ
La “questione università” è stata finalmente rimessa al centro del dibattito pubblico, con le sue mille difficoltà e contraddizioni, tirandola fuori dalle secche degli addetti ai lavori o delle periodiche campagne emergenziali e scandalistiche in cui era stata confinata. Naturalmente, con la sola gratuità (proposta da LeU) non si risolvono i grandi e annosi nodi e drammi delle università italiane. Occorrono più risorse, per il personale, per le strutture, e soprattutto per la ricerca. Occorre estendere e rafforzare il finanziamento per il diritto allo studio (borse, case dello studente, mense) proprio per evitare che la mobilità universitaria sia un privilegio per soli studenti abbienti. Mentre Germania, Francia, Paesi scandinavi non hanno esitato ad aumentare la quota di Pil riservata ad essa, l’Italia ha deciso di operare tagli su tagli, fino a recidere finanziamenti per più di 11 miliardi complessivi, ovvero una riduzione di circa lo 0,8% di Pil. Contemporaneamente ha introdotto un dannoso sistema premiale di valutazione degli atenei basato sull’assunto “più iscritti più soldi” (in questo consiste il sistema del cosiddetto “costo standard”), e introducendo discutibili criteri, quando non assurdi, di valutazione della ricerca (per imporre la logica della cosiddetta “eccellenza”) che hanno messo le università in conflitto tra loro. Inoltre, stiamo assistendo a come un sistema arbitrario per l’individuazione dei “dipartimenti d’eccellenza” (sistema sarcasticamente ribattezzato “ludi dipartimentali”), abbia operato una ulteriore discriminazione di una fonte importante di finanziamento (1 miliardo e 300 milioni per un quinquennio) che viene prevalentemente erogata ad atenei del Nord (58.9% dell’importo totale), mentre solo il 13.9% è stato attribuito a dipartimenti del Sud. Naturalmente giustificando questa sperequazione con criteri “oggettivi” di valutazione. (Fonte: F. Sinopoli, Roars 23-01-18)

DIRITTO ALLO STUDIO E DIRITTO ALLA LAUREA
Come affermato correttamente da Monica Barni, vicepresidente della Regione Toscana, non è sufficiente pensare all'eliminazione delle tasse universitarie, perché ogni studente affronta spese che vanno ben oltre. Occorrerebbero, in generale, politiche pubbliche capaci di far invertire la rotta a un certo modo di intendere e amministrare un'istituzione che è stata danneggiata, ormai da anni, da governi di ogni colore politico. Per come l'università viene ormai socialmente percepita, e istituzionalmente valutata, in discussione non sono più le virtù intellettuali, o l'impegno degli studenti, o i risultati da loro maturati, bensì, soprattutto, la capacità dei docenti e del sistema universitario di garantire, a chiunque s'iscriva, il conseguimento della laurea. Il diritto allo studio, tuttavia, non è diritto alla laurea. Essa non può trasformarsi in strumento di consolazione o gratificazione esistenziale, o emancipazione sociale, se non sancisce realmente e seriamente il raggiungimento di un determinato grado di conoscenza e cultura (D. Cadeddu, huffingtonpost.it 22-01-18)


VARIE

L’EREDITÀ DEL SESSANTOTTO
E’ trascorso mezzo secolo in un sol colpo dai tempi delle grandi contestazioni studentesche che sconvolsero il mondo universitario e tutta l'Italia. Un fiume in piena che ha lasciato vittime, speranze fallite, sogni infranti, macerie e tanta mediocrità. Indro Montanelli diceva che siamo abituati a ragionare con la testa rivolta all'indietro perché continuiamo a guardare al nostro passato invece di concentrarci sul futuro. Eppure certi «flash-back» possono essere, ancora oggi, molto utili per non ripetere gli errori già commessi: la lezione della storia. E proprio il grande Direttore - che, sull'onda di quei moti di piazza, lasciò in seguito il Corriere per andare a fondare il Giornale - aveva le idee molto chiare sulle grandi disillusioni della contestazione giovanile: «Il Sessantotto non può pretendere di averci lasciato crescite di civiltà. Io vidi nascere una bella torma di analfabeti che poi invasero la vita pubblica italiana e anche quella privata portando in ogni luogo i segni della propria ignoranza». Da parte sua, Norberto Bobbio definì il movimento del '68 «un'esaltazione collettiva», una specie di raptus che colpì migliaia e migliaia di ragazzi manovrati da leader improvvisati e pronti a contestare chiunque rappresentasse una qualsiasi autorità politica, professionale, morale. L'ultimo segretario del Pci definì la contestazione come parte integrante di un grande processo rivoluzionario: «I giovani si sono messi in cammino perché siamo entrati in una fase di movimento della lotta per abbattere il capitalismo». Cosa ha davvero lasciato in eredità il Sessantotto? È sufficiente riesaminare a freddo i risultati di quella che tanti hanno considerato una travolgente ondata libertaria per rendersi, invece, conto di una realtà molto amara: c'è stato solo un fiume carsico di mediocrità che ha minato le basi stesse della società finendo per intaccare certi principi fondanti come lo studio, la preparazione e il merito. (Fonte: G. Mazzuca, Il Giornale 14-01-18)

COPERTURA E ATTUABILITÀ DELLE PROPOSTE PER L’UNIVERSITÀ DEI PARTITI IN VISTA DELLE ELEZIONI
Il Sole24Ore ha analizzato il grado di copertura e di attuabilità delle proposte di quattro partiti o coalizioni: il Partito Democratico, centrodestra (Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia), Movimento Cinque stelle, Liberi e Uguali. Secondo quanto riporta il quotidiano economico, le proposte del Partito Democratico sarebbero realizzabili per il 50%. Quelle del centrodestra, invece, sarebbero attuabili per il 70%, ma sarebbero anche più generiche. Il 50% di copertura e attuabilità avrebbero  le proposte del M5S. La proposta è più selettiva e passa dall’aumento delle borse di studio al rafforzamento della quota premiale del fondo di Finanziamento degli atenei al tagliando per l’abilitazione scientifica nazionale. Il problema sarebbe trovare gli oltre 35 miliardi per portare la spesa per l’istruzione da 7,9 a 10,2 del Prodotto interno lordo. Solo il 40% di copertura e attuabilità per Liberi e Uguali. Sull’università Liberi e Uguali ha lanciato la proposta forte di rendere gratuita l’università abolendo le tasse universitarie. In pista anche abolizione o ridefinizione dei compiti dell’ANVUR. L’ipotesi di eliminare le tasse universitarie a tutti costa come minimo 1,6 miliardi, ma il costo potrebbe salire se aumentassero le iscrizioni. (Fonte: A. Carlino, www.tecnicadellascuola.it 21-01-18) 

DOPO IL CROLLO DELLA POSIZIONE ACCADEMICA DELL’AMBITO UMANISTICO SI STA AFFERMANDO UNA CONCEZIONE DEL SAPERE UMANISTICO “APPLICATA” O “APPLICATIVA”
L’effetto della grande crisi dell’università conferma che si sta dissolvendo l’idea della preminenza delle humanitates come chiave di lettura per interpretare la realtà, che sta perdendo di significato l’idea che la Storia sia utile per interpretare il presente, che la Filosofia faccia crescere e mantenga alto il senso critico, che la Letteratura penetri lo spirito dell’uomo e che la Classicità trasmetta quei riferimenti del pensiero che permettono a un individuo di rapportarsi a qualsiasi esperienza e problema. La diminuzione del corpo docente tra il 2007 e il 2017 è stata del 13 % circa, ma con effetti profondamente diversi tra i vari settori: mentre ad esempio gli organici dei dipartimenti di Ingegneria industriale e dell’informazione (Area 9 CUN) sono cresciuti del 3% e quelli di Economia (Area 12) dello 0,3%, altri settori scientifici non sono stati messi nelle condizioni di sostituire il (numeroso) personale posto in quiescenza. L’ambito umanistico (Aree 10 e 11) si è ridotto del 20%, perdendo oltre 2 mila degli 11 mila docenti in servizio nel 2007. Al suo interno, tuttavia, le differenze sono state notevoli e indicano alcune linee di tendenza culturali e scientifiche. I settori scientifico-disciplinari che hanno visto ridurre maggiormente i propri organici sono stati la Letteratura francese (-48%) e la Lingua e letteratura latina (-41%). Due fra i capisaldi della cultura europea occidentale otto-novecentesca stanno cioè crollando nella loro posizione accademica. Storia perde in dieci anni 1/3 della sua presenza universitaria. Un quarto e oltre dei docenti di Geografia, Filosofia e Storia delle letterature non sono stati sostituiti. Tuttavia, secondo i dati AlmaLaurea, a cinque anni dalla laurea l’occupazione dei laureati in scienze umani e sociali è dell’85% contro il 91% delle lauree scientifiche. Si sta affermando una concezione del sapere umanistico “applicata” o “applicativa”: ridimensionata la valenza formativa generale, si cercano le materie che oltre a insegnare consentano una specializzazione, anche professionale. Una lingua straniera è sempre più vista come un veicolo di comunicazione, e gli aspetti culturali sono diventati secondari. La diminuzione meno contenuta della media della Storia dell’arte sta, ad esempio, ad indicare che nello studio e nella tutela del patrimonio culturale va individuata una delle chiavi per salvaguardare e promuovere gli studi umanistici nel nostro Paese. Altri settori, quelli che studiano i nuovi media e la comunicazione visiva, resistono invece grazie al cambiamento che sta investendo il mondo della comunicazione e della rappresentazione iconica. Legato in qualche modo al “saper fare”, o meglio all’“insegnare come fare”, è anche l’incremento degli organici dei pedagogisti e degli psicologi, tra i quali si annidano tuttavia veri e propri infiltrati scientifici: gli Psicobiologi e psicologi della fisiologia aumentano addirittura di 1/3 il proprio numero. Questa tendenza può certamente essere letta anche in positivo, come una maggiore ricerca di concretezza e di investimento positivo del sapere acquisito nelle aule universitarie. (Fonte: A. Zannini, Il Mulino 19-01-18)
La tabella mostra percentualmente qual è stata la diminuzione del corpo docente (professori e ricercatori, comprese le nuove figure “a tempo determinato”) nel decennio della grande crisi dell’università 2007-201


UN CLIMA DI PLEBEISMO CULTURALE DI CLASSI DIRIGENTI SEMPRE PIÙ PLEBEISTICAMENTE ATTIVE CONTRO LA CULTURA E LA RICERCA CHE NON POSSONO CONTROLLARE
Se negli Stati Uniti presidenti conservatori ed antintellettuali – come Bush prima e ora Trump – hanno di fatto contrapposto al sapere critico delle università, quello di fondazioni ben finanziate da istituzioni private e corporation, in grado di sfornare report ed esperti di cui ci si è serviti per contrastare le scomode verità provenienti dal mondo scientifico radicato nei college più prestigiosi, così anche in Italia al definanziamento dell’università pubblica si contrappone il finanziamento di istituzioni di diritto privato, i cui vertici e docenti, di fatto controllati politicamente, risultano molto più docili di un mondo universitario i cui docenti possono muovere critiche al potere costituito. Si viene a creare in tal modo una doppia tenaglia: mentre l’università pubblica viene stritolata dalle maglie burocratiche e normative dell’ANVUR, le fondazioni di diritto privato finanziate con denaro pubblico sono sempre più libere di esplicare le proprie potenzialità e di dimostrare la propria “eccellenza”. L’opera di delegittimazione della conoscenza – che passa innanzi tutto attraverso un sistematico cammino di denigrazione dell’università pubblica e dei docenti che vi lavorano, al di là dei loro reali demeriti (che nessuno vuole nascondere) – ha finito per istallare anche nel nostro paese quel plebeismo cognitivo di cui Trump negli Stati Uniti sembra incarnare l’icona più esemplare. (Fonte: F. Coniglione, Roars 22-02-18)

DOVE LA PAROLA “INTERNAZIONALIZZAZIONE” È SCANDITA COL TIMBRO IMPLACABILE DELLA “DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA DELL’ATTO DI NOTORIETÀ” E I TONI IMPERATIVI DEL “MODELLO CONFORME”
Il nostro Ministero dell’Istruzione, sempre così attento ai problemi dell’internazionalizzazione dei nostri atenei, prevede una procedura da imporre a tutte le università del mondo, finalizzata alla stipula di rapporti di collaborazione internazionale, senza tenere in alcuna considerazione né le normative dei paesi con cui si stipulano questi accordi, né le esigenze  palesate dai rappresentanti legali a tutela di quelle istituzioni. Vi pare normale? Che speranze abbiamo – con questi metodi – di mettere in piedi un sistema universitario internazionale? (Fonte: N. Perotti, Roars 26-02-18)

LA RETORICA DELLE “ECCELLENZE”
L’appello all’eccellenza (parola che ha acquisito un’aura particolare, salvifica, quasi escatologica) non è rimasto questione semantica, ma si è tradotto in norme e indirizzi, con particolare riferimento a scuola e università, ma estendendosi all’intera sfera del made in Italy (per definizione, naturalmente, un’eccellenza). Il riferimento ideale all’eccellenza si è così tradotto nell’idea che ogni attività lavorativa debba essere concepita un po’ come un campionato sportivo, dove è giusto che nutrano aspirazioni di dignità solo quelli che insidiano la vetta. Di contro, tutti i ‘non eccellenti’ devono solo prendersela con sé stessi se non ottengono riconoscimento. Le varie introduzioni di ‘bonus premiali’ ai docenti della scuola, di aumenti premiali ai docenti universitari, di finanziamenti premiali ai dipartimenti e alle università, o similmente le risorse premiali previste nella ‘riforma della pubblica amministrazione’, ecc. vanno tutte in questa direzione, dove normalità è assimilata a mediocrità, mentre dignità e onorabilità sono riservate alle ‘eccellenze’. Il problema di questo modello non è che sia ‘meritocratico’ – e che dunque sia avversato da impaludati e retrogradi ‘antimeritocratici’. No. Il problema è che si tratta di un modello di società, e di azione collettiva, fallimentare. Nessuna società funziona sulla base di un pugno di eccellenze, e per definizione le eccellenze non possono se non essere una minoranza. La nozione di eccellenza è infatti una nozione differenziale: si è ‘eccellenti’ in quanto si è virtuosamente fuori dall’ordinario. L’idea che, per veder riconosciuta la dignità di ciò che si fa, si debba appartenere al novero degli eccellenti è la ricetta per un sicuro naufragio, e lo è proprio sul piano dell’incentivazione. Lodare e premiare l’eccellenza può avere un’utile funzione sociale, fornendo modelli motivanti per la gioventù in formazione, ma non può mai essere sostitutivo del più fondamentale e importante dei modelli, quello dove si coltiva semplicemente la capacità di fare bene il proprio dovere. (Fonte: A. Zhok, L’Espresso 07-01-18)

SI AVVIA LA RIFORMA DEI SETTORI SCIENTIFICO-DISCIPLINARI
La ministra Fedeli ha inviato una lettera ufficiale al Consiglio universitario nazionale chiedendogli «di avviare una verifica delle criticità relative all’offerta formativa per Classi di Laurea e di Laurea Magistrale nonché all’articolazione dell’attuale classificazione dei saperi in settori scientifico-disciplinari […], ai fini di una migliore interpretazione e capacità di governo da parte dell’offerta formativa erogata nei confronti dei cambiamenti costanti che caratterizzano le società contemporanee ... «i tempi sono ormai maturi per un intervento complessivo di semplificazione. E di questa semplificazione ce n’è obiettivamente bisogno: abbiamo quasi 380 settori scientifico-disciplinari (..), 150 classi di laurea o laurea magistrale alle quali afferiscono i 4454 corsi di studio attivati per l'anno accademico in corso 2017-2018». «Dobbiamo muoverci sulla direttrice delle flessibilità e dell’ammodernamento dell’offerta formativa affinché la riforma dialoghi con la riforma», ha aggiunto poi Carla Barbati, presidente del CUN. Il punto «è che i settori scientifico-disciplinari sono diventati un riferimento per la formazione, la ricerca, ma anche per il reclutamento. Per cui ora l’appartenenza a un settore è anche un criterio di valutazione. Dobbiamo lavorare affinché le cose cambino, quindi al loro riordino, a una ricognizione della classi di studio, pensando che si tratti dell'inizio di un percorso, non della coda». «L’obiettivo - ha precisato Marco Abate, Coordinatore Commissione Politiche per la formazione universitaria CUN - non è quello di attuare una riduzione, ma una razionalizzazione di un sistema ormai vecchio, per renderlo più efficiente e adeguato al contesto. I settori scientifico disciplinari hanno 20 anni, quelli concorsuali risalgono al 2011 ma riflettono una realtà superata. Speriamo di riuscire ad effettuare questo restyling entro aprile 2018, certamente ne imposteremo l'architrave, partendo come stiamo facendo dall'analisi di ciò che non funziona». (Fonte: B. Pacelli, IlSole24Ore 02-02-18)

DIRIGENTI DELLE PA. ORMAI SIAMO DIVENTATI UN ADEMPIMENTIFICIO DI FORMALITÀ
Si sono tenuti a Roma (25-26 gennaio) gli Stati generali della Pa, un evento organizzato dall'Associazione dei dirigenti delle pubbliche amministrazioni (AGDP) che vanta circa 500 aderenti tra I più alti burocrati dello Stato e degli enti territoriali. “La macchina pubblica rischia la paralisi, ormai siamo diventati un adempimentificio: contano solo le procedure e si perdono di vista i servizi, i risultati - spiega P. Savarino, presidente dell'AGDP -. Non servono altre riforme, altre leggi. La nostra proposta è quella di rendere vincolanti alcune pronunce della Corte dei Conti o del Consiglio di Stato”.


UNIVERSITÀ IN ITALIA

LA NUOVA FEDERAZIONE TRA SCUOLA SUPERIORE SANT'ANNA DI PISA, NORMALE DI PISA E IUSS DI PAVIA
A Pavia nasce ufficialmente la federazione tra Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, Normale di Pisa e Iuss di Pavia, iniziativa di cui si parla da tempo e che ha già incassato il via libera del MIUR. Per la città di Pisa, in particolare, si tratta di un passaggio storico, per quanto atteso, che vede concretizzarsi - dopo una fase recente di stretta collaborazione - l'alleanza tra due delle proprie realtà di eccellenza a livello nazionale e internazionale. Un dopo per rafforzare entrambe, ciascuna con le proprie specificità, nel contesto accademico non solo italiano e che offre sempre maggiori sfide alle istituzioni scientifiche e culturali del territorio. L'atto, sottolinea una nota congiunta dei tre atenei, «sarà il via ufficiale a una nuova realtà a tre pensata e voluta con tre precisi obiettivi: ottimizzare l'offerta formativa per i giovani capaci e meritevoli, rendere più visibile e competitivo il sistema nazionale della formazione avanzata; aumentare la competitività internazionale delle scuole». Ognuna delle tre scuole, come previsto, mantiene la propria autonomia ma la federazione prevede un unico consiglio di amministrazione, un unico collegio dei revisori e un unico nucleo di valutazione. (Fonte: Il Tirreno 23-01-18)

NECESSARIO IL MIGLIORAMENTO DELLE UNIVERSITÀ DEL SUD
Sul suo blog sul New York Times, il premio Nobel per l'Economia Paul Krugman si interrogava sui fattori che determinano il successo, nel tempo lungo, delle città e delle regioni. A suo giudizio, tra gli elementi sempre presenti nelle vicende di città e regioni che sono riuscite a conquistare e a mantenere nel tempo una buona posizione competitiva e un buon livello di reddito per i propri cittadini, c’è la presenza di un’istituzione universitaria. Nel tempo, il contributo che una università dà allo sviluppo economico della città e della regione in cui è insediata è fondamentale: attraverso l'insegnamento (e quindi una cittadinanza più colta e una forza lavoro più qualificata), la ricerca, sia di base che applicata a questioni specifiche, l'interazione con il territorio e le imprese. Questa riflessione vale moltissimo per le città e le regioni dell'Europa a un livello intermedio di sviluppo, e quindi per il Mezzogiorno: solo investendo in formazione, in conoscenza e in ricerca possono essere in grado di sviluppare un'economia diversificata e sana, in grado di tenere testa alla concorrenza dei paesi emergenti e di offrire lavoro ai propri giovani. Le università del Sud hanno, ancor più di quelle del resto del paese, e come tante istituzioni pubbliche, necessità di miglioramento. Ma la politica attuale tende a far somigliare il sistema universitario più al modello inglese (con poche sedi ottime, spesso per gli studenti più abbienti, e altre più modeste) che a quello tedesco, che mira ad una elevata qualità in tutte le città e tutte le regioni. Allora che fare delle università del Sud, chiuderle o metterle, soprattutto grazie a nuove risorse umane, in condizioni di rafforzarsi? Come e quando, visto che i meccanismi messi in atto producono effetti a cascata? Le domande, in fondo, sono semplici. Le conseguenze delle risposte sono decisive per il Mezzogiorno. Che, non dimentichiamolo mai, è l'area europea con la più bassa percentuale di laureati sulla popolazione giovane e in cui si investe sull'università meno di un terzo, procapite, di quanto si faccia nell'ex Germania Est. E che per questo ha un bisogno fortissimo di investimenti di qualità sulla formazione dei cittadini, sulla ricerca, sul trasferimento tecnologico. «È un lavoro lungo da fare e su cui ci vuole un piano integrato con un impegno forte da parte del governo e degli enti locali, per fare in modo che le università del Mezzogiorno possano essere un riferimento solido per i propri ragazzi». Senza un «piano integrato», insomma, non si riusciranno a «vincere - ha concluso il presidente della CRUI - anche una serie di diseconomie di contesto, legate alle minori opportunità di inserimento lavorativo che esistono nel Mezzogiorno e che spesso allontanano i nostri giovani». (Fonte: G. Viesti, M. Esposito, Il Mattino 23-01-18)


UE. ESTERO

EUROPA. FINANZIAMENTI ALLE UNIVERSITÀ
Sui 34 sistemi universitari presi in considerazione nella pubblicazione Public Funding Observatory Report 2017, solo 14 hanno ottenuto finanziamenti più consistenti nel 2016 rispetto al 2008, contando che più della metà di questi ultimi non sono però riusciti ad adeguare l’investimento all’aumento troppo consistente del numero di studenti. E, per dirla tutta, non siamo soli: ben 19 nazioni registrano oggi un contributo pubblico ancora più basso di quello d’inizio crisi. I sistemi universitari austriaci, tedeschi e svedesi mostrano un andamento finanziario sostenibile e consistente. Altri sistemi mostrano comportamenti ugualmente virtuosi ma meno efficaci, come quelli di Danimarca, Francia e Olanda, dove è tangibile un contesto di “austerità”. Si leggono invece chiari segni di ripresa in Islanda e Portogallo, stati in cui i tagli ai finanziamenti avevano assunto in passato un peso notevole. E poi ci siamo noi e chi, come noi, ha continuato a disinvestire, come la Spagna e la Lettonia. La vera sorpresa, però, viene dalla Turchia: la percentuale d’incremento degli universitari turchi: un +185,25% totalmente fuori scala rispetto agli elementi rappresentanti gli altri stati. E altissima è anche la colonna turca dell’istogramma che rappresenta l’incremento dei finanziamenti in percentuale, senza dubbio il più importante in Europa, ma che non riesce ad eguagliare l’enorme esplosione nel numero degli studenti. (Fonte: C. Mezzalira, IlBo 22-01-18)

UE. BORSE DI STUDIO PER IL FINANZIAMENTO DELLA RICERCA POSTDOTTORATO
A seguito dei bandi 2017 per il finanziamento della ricerca postdottorato dalle azioni Marie Skłodowska-Curie, la Commissione europea assegnerà borse di studio del valore complessivo di 248,7 milioni di euro a 1.348 ricercatori il cui lavoro potrebbe avere un impatto rivoluzionario sulla società e l’economia. Il Commissario per l’Istruzione, la cultura, i giovani e lo sport, Tibor Navracsics ha dichiarato: “Oggi riconosciamo il potenziale di 1.348 ricercatori eccellenti e dinamici su scala internazionale, che hanno affrontato una dura concorrenza internazionale per ottenere una borsa di studio. I progetti a cui lavoreranno affronteranno alcune delle maggiori sfide delle nostre società e contribuiranno a costruire un’Europa resiliente, equa e competitiva. L’Unione europea sta anche investendo in programmi di formazione alla ricerca altamente innovativi per dottorandi e ricercatori esperti, consentendo loro di sfruttare appieno il loro talento e alle organizzazioni che li sostengono di diventare più competitive su scala globale.” (Fonte: www.lavalledeitempli.net 01-02-18)

AUSTRALIA. METODO HELP PER GLI STUDENTI CHE DEVONO RIMBORSARE IL DEBITO
In Australia è stata promossa la versione degli student loan, che consente agli universitari di risarcire il proprio dipartimento solo ed esclusivamente se riusciranno a raggiungere un valore minimo di reddito, abolendo il tasso di interesse e con un adeguamento periodico al costo della vita. Se in America si contano quasi 1,5 trilioni di debiti per i laureati, in Australia si è trovato il metodo Help (higher education loan program), ovvero un prestito tramite il quale «il rimborso del debito sia obbligatorio solo per le persone con un reddito che supera la soglia minima». Un portavoce del governo australiano spiega che i debiti Help sono “prestiti accordati in funzione del reddito, per supportare l’accesso e la partecipazione all’educazione terziaria rimuovendo in anticipo le barriere per gli studenti”. Ovvero, lo studente che ha conseguito la laurea inizierà a pagare quando avrà un’occupazione tale da potergli permettere di risarcire gli studi. La soglia stabilita è di 55.874 dollari australiani per il 2017/2018, anche se dal giorno 1 gennaio la soglia scenderà a 45mila dollari e sarà ammesso un tasso di interesse pari all’1% per salire al 2% quando il reddito supererà i 51.975 dollari e al 10% oltre i 131.989 dollari. (20-01-18)

CHINA. CHINA HAS OVERTAKEN THE USA IN TERMS OF THE TOTAL NUMBER OF SCIENCE PUBLICATIONS BUT USA RANKED THIRD AND CHINA FIFTH FOR THE MOST HIGHLY CITED PUBLICATIONS
For the first time, China has overtaken the United States in terms of the total number of science publications, according to statistics compiled by the US National Science Foundation (NSF). The agency’s report, released on 18 January, documents the United States’ increasing competition from China and other developing countries that are stepping up their investments in science and technology. Nonetheless, the report suggests that the United States remains a scientific powerhouse, pumping out high-profile research, attracting international students and translating science into valuable intellectual property.
The shifting landscape is already evident in terms of the sheer volume of publications: China published more than 426,000 studies in 2016, or 18.6% of the total documented in Elsevier’s Scopus database. That compares with nearly 409,000 by the United States. India surpassed Japan, and the rest of the developing world continued its upward trend. But the picture was very different when researchers examined where the most highly cited publications came from. The United States ranked third, below Sweden and Switzerland; the European Union came in fourth and China fifth. The United States still produces the most doctoral graduates in science and technology, and remains the primary destination for international students seeking advanced degrees — although its share of such students fell from 25% in 2000 to 19% in 2014, the report says. The United States spent the most on research and development (R&D) — around US$500 billion in 2015, or 26% of the global total. China came in second, at roughly $400 billion. But US spending remained flat as a share of the country’s economy, whereas China has increased its R&D spending, proportionally, in recent years. (Fonte: www.nature.com 09-01-18)

USA. LA MAGGIORANZA DEI 4.724 ISTITUTI CHE DANNO UN TITOLO DI STUDIO SUPERIORE HANNO L'INTERA LEADERSHIP DEDITA AL MARKETING STUDENTESCO
L'immenso giro d'affari degli sport universitari e le capacità di reclutamento che offrono hanno portato le università prive di blasone e credenziali accademiche a investimenti di proporzioni surreali per attività senza alcuna rilevanza educativa. Si è sviluppato un modello di business universitario basato sull'aumento delle palestre pro capite, sulla moltiplicazione dei servizi ricreativi, sullo svago, sullo stadio più grande, sul marketing a sfondo climatico, sul ranking delle migliori feste, delle migliori confraternite, sulle borse di studio d'oro per atleti che non vedono una lezione nemmeno per sbaglio. L'allenatore della squadra di football della University of Alabama guadagna 11 milioni di dollari l'anno, cento volte di più del più pagato fra i suoi colleghi che stanno dietro la cattedra (M. Ferraresi, Il Foglio 16-02-18)


LIBRI. RAPPORTI. SAGGI

UNIVERSITALY. LA CULTURA IN SCATOLA
Autore: Federico Bertoni.  Ed. Laterza Collana: i Robinson / Letture, 2016, 150 pg.
Perché un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità, in cui l’automazione frenetica delle pratiche svuota di significato le azioni quotidiane? Questa è la domanda fondamentale da porre all’università italiana del XXI secolo.
Mutazioni antropologiche, narrazioni egemoni, logiche del potere e disegni politici più o meno occulti. Drogata da un falso miraggio efficientista, l’università sta svendendo l’idea di cultura e la ragione stessa su cui si fonda, ostaggio passivo e consenziente di indicatori astrusi, procedure formali, parole vuote che non rimandano a nulla e che si possono manipolare in base a interessi variabili – eccellenza, merito, valutazione, qualità, efficienza, internazionalizzazione. Serve una diagnosi lucida per denunciare le imposture e cercare gli ultimi punti di resistenza. Il libro parte da casi concreti e da un’esperienza maturata sul campo. Senza alcun rimpianto nostalgico per la ‘vecchia’ università ma con uno sguardo disincantato, si rivolge a chi ha una percezione vaga del presente, spesso distorta da stereotipi e pregiudizi. Quel che ne emerge è al tempo stesso un racconto, un saggio di critica culturale e un testardo gesto d’amore per il sapere, l’insegnamento e un’istituzione che ha accompagnato il progetto della modernità occidentale. (Fonte: presentazione dell’editore). Un commento di R. Simone: “L’ossessione per la valutazione e il ricorso a categorie manageriali nell’istruzione superiore finisce per tradursi soltanto in un continuo aumento del carico burocratico sui professori. La denuncia nel libro di Federico Bertoni”.

LA CONOSCENZA E I SUOI NEMICI
Autore: Thomas M. Nichols. Ed. Luiss University Press, 2018, 246 pg.
È il manifesto della rivoluzione dei competenti, vale a dire di quel recente moto di ribellione che vorrebbe rimettere le cose al suo posto: gli esperti parlano, gli americani con una bassa conoscenza di base ascoltano. Uno studio recente dice che gli abitanti degli Stati Uniti non sono più ignoranti di cento anni fa, ma per Nichols questo non è un dato consolante nemmeno un po': vuol dire che sono rimasti fermi allo stesso livello mentre tutto attorno a loro il mondo diventava sempre più sofisticato e sempre più difficile da capire, soprattutto se tutto quello che hai a disposizione sono un paio di pregiudizi rozzi orecchiati su Internet. La realtà è che c'è poco da fare: chiunque con un po' di buon senso e di intelligenza ammette che gli specialisti sono necessari e che anche un gesto naturale come fare colazione al mattino è in realtà il frutto di competenze incrociate che per la maggior parte sono al di là della nostra portata, perché non possiamo fisicamente occuparci di tutto e sapere tutto. La vecchia boutade "la specializzazione è per gli insetti", dello scrittore di fantascienza Robert Heinlein, è appunto soltanto una boutade e se abbiamo bisogno degli esperti per fare colazione, figurarsi quanto abbiamo bisogno di loro in altri campi. Eppure non vogliamo ammetterlo, anzi, la conoscenza altrui ci fa scattare la voglia di contestazione. Il fenomeno non è nuovo - avverte Nichols - "lo farei risalire alla fine degli anni Sessanta, come parte della cultura giovanile che è rimasta e che è cresciuta poi negli anni Settanta". Gli americani disprezzano il sapere, disprezzano gli esperti e in generale disprezzano chi ne sa più di loro. Ma adesso è un fenomeno in accelerazione e ce ne accorgiamo di più in tutti i campi, dalla politica alla medicina. Nel giro di pochi anni siamo saltati giù da un livello che era già basso e preoccupante - quindi: mancanza di informazioni e antipatia generica verso i competenti - e siamo atterrati al livello "disinformazione", superando di slancio il livello intermedio della "cattiva informazione". E non ci siamo fermati lì, perché poi siamo scesi al livello ancora sotto, quello dell'"errore aggressivo": la gente adesso non soltanto crede alle sciocchezze, ma si oppone a imparare di più pur di non abbandonare le sue convinzioni. È "la morte della competenza". Che infatti è il titolo originale del libro e suona molto più cupo di quello scelto per la versione in italiano. (Fonte: D. Ranieri, Il Foglio 16-02-18)

THE CASE AGAINST EDUCATION: WHY THE EDUCATION SYSTEM IS A WASTE OF TIME AND MONEY
Autore: Bryan Caplan. Ed. Princeton University Press 2018, 381 pg.
Per Caplan, il reale motivo per cui gli americani vanno al college è quello che gli economisti chiamano signaling, cioè l'acquisizione di credenziali che segnalano ai potenziali datori di lavoro un'abilità preesistente. Questa abilità, spiega Caplan, non ha nulla a che vedere con quello che gli studenti hanno imparato in classe, con i contenuti, ma è legata al fatto che i ragazzi sono passati attraverso un processo di selezione, hanno in qualche modo passato le loro ore in classe (non importa come), hanno consegnato i paper in tempo (non importa la qualità) e sono stati abbastanza disciplinati da arrivare alla laurea senza farsi cacciare. Sono segnali sufficienti per chi cerca professionalità medie per la classe media. Che i laureati abbiano nel frattempo cancellato qualunque informazione acquisita, se mai l'hanno acquisita, poco importa, non disturba il segnale. Il valore del college consiste nell'aver fatto il college, ed è questo paradosso circolare che apre spazi sterminati per strategie di investimento legate al packaging universitario più che al contenuto. (Fonte: M. Ferraresi, Il Foglio 16-02-18)

LA CLASSIFICAZIONE DELLE RIVISTE E LE ALTRE SEDI EDITORIALI IN RELAZIONE ALLE PROCEDURE DI ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE
Autore: Emilio Balletti. Rivista “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni“, Fasc. 3-4, 2016.
Si fotografano tecnicamente le determinanti giuridiche che fanno sì che – in un numero di casi che in assenza di correttivi non cesserà di crescere – il sistema finisca per lasciare al massimo consesso della magistratura amministrativa l’ultima parola sugli esiti del reclutamento universitario.
Di seguito la sinossi dei temi trattati:
1. Razionalità ed efficienza del sistema di reclutamento universitario per le aree non bibliometriche sulla base della classificazione delle sedi editoriali delle pubblicazioni.
2. La rilevanza della classificazione delle riviste e le altre sedi editoriali in relazione alle procedure di Abilitazione Scientifica Nazionale 2016. — 2.1. La selezione degli aspiranti commissari. — 2.2. Valori-soglia e valutazione di merito della qualificazione scientifica dei candidati.
3. La classificazione delle riviste delle aree non bibliometriche nel Regolamento Anvur 21 luglio 2016. — 3.1. La prima fase di cd. valutazione preliminare — 3.2. Il giudizio sulla qualità scientifica delle riviste alla luce dei cd. requisiti di processo e di prodotto.
4. Ambiguità e limiti della classificazione delle riviste e delle altre sedi editoriali sulla base dei risultati delle procedure di Valutazione della qualità della ricerca.
5. L’inadeguatezza della classificazione delle riviste e delle altre sedi editoriali a valere quale fattore di razionalizzazione e di miglioramento dell’efficienza del sistema di reclutamento universitario.
6. La selezione dei docenti universitari da parte delle comunità scientifiche e il rischio della sua devoluzione al potere giudiziario.

MEASURING RESEARCH: WHAT EVERYONE NEEDS TO KNOW
Authors: Cassidy R. Sugimoto and Vincent Larivière. Oxford University Press, 2018. 143 pg.
Information scientists Cassidy Sugimoto and Vincent Larivière crunch data to explore the changing nature of research, from uncovering science’s gender disparities to charting the impact of migration on citations. Now, they have written a guidebook, Measuring Research. They talk here about the misuse of citation metrics to judge individual researchers, the Wild West of indicators and the cultural bias of databases. Why did you write this book? “Seeing the gross misuse of bibliometrics, we both felt a need for an accessible manual to help people use them more responsibly. For scientists, it’s an overview of the way their output and impact is measured. For those who manage science, this book provides the tools necessary for interpreting bibliometric data and guidelines for responsible use of indicators”. (Fonte: R. Van Noorden,  www.nature.com 22-02-18)