martedì 18 novembre 2014

A proposito dei test di ammissione alla laurea magistrale in Medicina e Chirurgia

Lettera inviata dalla Giunta CRUI al Ministro Giannini circa i recenti sviluppi relativi ai test di ammissione alla laurea magistrale in Medicina e Chirurgia

Roma, 12 novembre 2014 Prot. 1153-14/P/rg

Sen. Prof.ssa Stefania Giannini
Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
E, p.c.
On. Beatrice Lorenzin Ministro della Salute

Gentile Ministro,

la Giunta della CRUI – riunitasi in via telematica in via straordinaria in data 12 novembre 2014 – preso atto della gravissima situazione che si è venuta a creare nell’ambito dell’area medica chiede all’On.le Ministro un incontro urgente. Chiede altresì un’interlocuzione anche al Ministro della Salute, che legge questa nota per conoscenza.
 In primo luogo, la situazione venutasi a determinare nelle Facoltà/Scuole di Medicina e Chirurgia a seguito delle pronunce della Magistratura amministrativa in accoglimento dei numerosissimi ricorsi presentati avverso gli esiti dei test di ammissione al corso di laurea a ciclo unico in Medicina e Chirurgia è del tutto insostenibile e pregiudica il regolare avvio dell’anno accademico. Di ciò hanno già documentato i Presidenti di Consiglio di corso di laurea magistrale in Medicina e Chirurgia.
 In secondo luogo, le innovate modalità di selezione alle Scuole di Specializzazione post- lauream, hanno determinato più di qualche criticità, a tutt'oggi imprevedibile nelle possibili conseguenze.
 Come premessa per un intervento tanto nelle condizioni di accesso al corso di laurea in Medicina e Chirurgia quanto alle Scuole di Specializzazioni, occorre che siano chiari i fabbisogni e le risorse e che su questa base siano determinate le relative demografie. Questo deve essere svolto di concerto con il Servizio Sanitario Nazionale e con il Ministro della Salute.
 Da anni le domande di accesso ai corsi in parola superano le relative offerte, tanto di posti quanto di borse. Per questo è indispensabile un percorso di selezione ispirato a criteri rigorosamente meritocratici. Siamo disponibili a discutere le diverse modalità possibili, fermo restando il principio di coerenza con le risorse disponibili, al fine di non pregiudicare la qualità per gli studenti e per i borsisti, secondo standard europei, e di consentire una programmazione adeguata agli Atenei.

Urge affrontare la questione nel suo complesso senza attendere altro tempo. Confidiamo in un suo immediato riscontro.

Cordiali saluti.

Stefano Paleari
Presidente della CRUI

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L’ACCESSO ALL'UNIVERSITÀ TRA NUMERO PROGRAMMATO, SOPRANNUMERO GIUDIZIARIO E DEMAGOGIA RICORRENTEPDFStampaE-mail

ottobre 2014
La regolamentazione delle immatricolazioni (numero chiuso o programmato o controllato) è stata per decenni, nella seconda metà del secolo scorso, un tema demonizzato dallo “sciocchezzaio ideologico e dalle fumisterie parademocratiche” (http://tinyurl.com/okoeuz8) al servizio di un’italica demagogia imperante che ha contribuito non poco al tentativo di squalificare l’università pubblica. Tuttavia, prima della liberalizzazione degli accessi all’università per tutti i diplomati dell’istruzione secondaria superiore (legge 11 dicembre 1969, n. 910, “liberalizzazione degli accessi universitari”) il numero chiuso era un tema su cui si sbatteva come contro un muro dato che gli accessi erano per legge preliminarmente discriminati dal tipo di istruzione secondaria frequentato. Con l’avvento dell’università di massa promosso da quella legge, il tabù demagogico dell’accesso indiscriminato si è rafforzato ma ha anche cominciato anno dopo anno a infrangersi contro la ragione. Che, vista la pletora delle iscrizioni, spesso sproporzionata ai contenitori e alla qualità dell’insegnamento, imponeva di valutare la possibilità dei singoli studenti di frequentare con profitto un determinato corso di studi regolato a misura di un definito numero di immatricolati,bilanciando le legittime attese dei giovani alle effettive disponibilità di docenti e strutture didattiche dei corsi. Le associazioni studentesche hanno tuttavia seguitato ad opporsi al numero chiuso, ritenendolo anche di recente “un abuso ingiustificato, che peggiora la qualità complessiva, favorisce i clientelismi, protegge le corporazioni e permette allo stato di non investire sull’università per quanto sarebbe necessario” (http://tinyurl.com/k48yyox).
Fino al 1999 è mancata una legge che disciplinasse in modo definitivo e omogeneo l'accesso ai corsi universitari a numero programmato. A fare chiarezza sulla questione è intervenuta dapprima la Corte Costituzionale che, già nel 1998 (sentenza 383, 27-11), ha dichiarato il numero programmato una misura legittima e non lesiva del diritto allo studio e, poco tempo dopo, la Legge 2 agosto 1999, n. 264 (Norme in materia di accessi ai corsi universitari) che ha stabilito i corsi universitari i cui accessi sono programmati a livello nazionale: Corsi di Medicina e chirurgia, Medicina veterinaria, Odontoiatria e protesi dentaria; Corsi di Architettura; Corsi di primo livello dell'area sanitaria; Corsi in Scienze della formazione primaria; Corsi universitari di nuova istituzione o attivazione, per un numero di anni corrispondente alla durata legale del corso; Corsi di laurea per i quali l'ordinamento didattico preveda l'utilizzazione di laboratori ad alta specializzazione; Corsi di diploma universitario (oggi sostituiti e riformati dai corsi di laurea triennali) per i quali l'ordinamento didattico preveda l'obbligo di tirocinio come parte integrante del percorso formativo.Per ogni corso di laurea ad accesso regolato, il Ministro stabilisce annualmente il numero massimo di posti disponibili sul territorio nazionale suddivisi per sede.
Va anche ricordato che l'istituzione del numero programmato in alcuni corsi universitari (Medicina e Chirurgia, Medicina Veterinaria, Odontoiatria e Protesi Dentaria) è norma di legge che recepisce raccomandazioni della Comunità europea volte ad armonizzare i sistemi di formazione nazionali e a rendere omogenee le caratteristiche professionali di figure come il medico o il dentista, in modo che possano muoversi liberamente nella Comunità Europea esercitando il proprio lavoro.
Nelle università il numero chiuso è ormai un dato acquisito e si è esteso da Medicina, Odontoiatria, Veterinaria e Architettura a moltissimi altri corsi di laurea, che, localmente, hanno iniziato ad applicare i test selettivi per l’immatricolazione: i corsi a numero programmato in tutta Italia sono oggi 1.687 su 4.311, il 39 per cento. L'Università di Padova, ad esempio, prevede a "numero controllato" Economia, Psicologia, Agraria, Fisica, Scienze dell'educazione. A Palermo il test per entrare a Scienze di base e applicate è stato affrontato da 4.045 candidati: 1.358 i posti disponibili. Alla Ca' Foscari di Venezia in 2.973 hanno provato a entrare alla fine di agosto ai sei corsi di laurea (linguistici ed economici) ad accesso programmato. L'Università di Parma ha diciotto corsi chiusi. Giurisprudenza è a numero chiuso a Roma Tre, a Firenze, a Catania, a Palermo. Biologia è nella totalità dei casi a numero chiuso. La partecipazione alla prova selettiva iniziale per i corsi dell'Università di Milano-Bicocca quest'anno ha segnato un +49,6 per cento. A Bologna i corsi con lo sbarramento erano 61 nel 2013 e quest’anno ad aprile al test per Medicina si sono presentati in 2.835 per 440 posti.L'Anvur, il guardiano della valutazione, segnala che nei corsi ad accesso programmato, come Medicina, ci sono tassi bassi di abbandono, un’elevata quota di laureati regolari e un minor numero di iscritti fuori corso (http://tinyurl.com/lk49c3l).
I test per l’accesso ai corsi e in particolare per l’accesso a Medicina e chirurgia sono entrati quest’anno nell’occhio del ciclone per l’effetto combinato di errori del MIUR e di ricorsi vinti dagli studenti davanti alla giustizia amministrativa.
A livello MIUR si è incappati nel (o non si è stati capaci d’impedire il) venir meno di uno dei principi cardini del test, l'anonimato: la modulistica stampata dal MIUR era facilmente decrittabile, con la possibilità di accoppiare il nome del ricorrente al codice personale della prova. In particolare il codice numerico aveva una prima parte uguale per tutti gli studenti della medesima aula e le ultime tre cifre, facilmente memorizzabili, individuavano il posto ed erano quindi abbinabili alla persona. È stato lo stesso MIUR a rendersi conto nei giorni precedenti il test del potenziale pasticcio e ha provato con telefonate a suggerire delle soluzioni agli atenei, come far imbustare separatamente il modulo con il nome e il codice. Ma le buste utilizzate dalle università, reperite all'ultimo momento utile, non garantivano la riservatezza perché erano leggibili in trasparenza. Una volta recuperati i moduli della persona da aiutare, era facilissimo correggere a penna le domande sbagliate perché la possibilità di ripensare le risposte date era esplicitamente prevista.
I Tar da parte loro hanno disposto in via cautelativa il diritto dei ricorrenti, come «risarcimento in forma specifica», a iscriversi anche se sono stati bocciati ai test e persino se non hanno risposto neppure a una domanda. In tal modo la lista dei 10.551 vincitori ufficiali del test per Medicina si è gonfiata di almeno 2.500 soggetti e altri 300 studenti potranno iscriversi ai corsi di Medicina a Palermo perché così hanno deciso i giudici del Consiglio di giustizia amministrativa. Ma il Tar del Lazio il 10 ottobre ha riconosciuto anche ad altri 2.500 ricorrenti il diritto all’iscrizione ai corsi di Medicina, Odontoiatria, Veterinaria e Architettura, numero che si somma alle precedenti 2.500 immatricolazioni obbligatorie, sentenziate a luglio e a settembre dopo il maxi ricorso presentato dall’Unione degli universitari (http://tinyurl.com/lxe3x6e ).
Oltre al “numero chiuso” l’Italia ha così inventato il “soprannumero”. Dunque gli studenti che hanno ottenuto un buon risultato al test, senza risultare tra i vincitori, si vedono scavalcare per un’ordinanza del Tar da chi ha fatto ricorso e magari non ha neppure ottenuto i 20 punti della sufficienza. Infine anche il Consiglio di Stato si è pronunciato sul ricorso di due studenti con una sentenza che recita: «A causa delle illustrate inadempienze riscontrate nell'attività dell'amministrazione - violazione dell'anonimato - le parti sono state illegittimamente private della possibilità di iscriversi alla facoltà cui aspiravano, subendo di conseguenza i relativi danni, anche in termini economici» (http://tinyurl.com/mk7x2w7).
Rimane la mesta constatazione che lo Stato non ha saputo né garantire la regolarità del concorso né ha preso provvedimenti idonei a rimediare in extremis alla situazione anomala. Non si può, infatti, giudicare un vero rimedio la circolare del MIUR del 23 settembre che ha disposto che i vincitori dei ricorsi al Tar del Lazio per l'ammissione in sovrannumero ai corsi di Medicina (sono 2.500) dovranno essere assegnati all'università in cui "risulta minimo lo scarto tra il punteggio del primo in graduatoria e il punteggio ottenuto dal ricorrente". Ovvero, tenendo conto delle sedi richieste dal candidato (escluso al test e riammesso da un Tar), la nuova matricola andrà là dove si avvicina di più ai voti dei migliori. Ma una nuova circolare del MIUR del 6 ottobre ha sbloccato il blocco delle iscrizioni laddove le ordinanze del Tar sono chiare ed esplicitano la sede cui fa riferimento il ricorso (caso di Bari). Se, invece, nei provvedimenti giudiziari non si fa espressa menzione della sede, bisognerà rispettare l'indicazione ministeriale precedente, cioè i ricorrenti dovranno iscriversi altrove rispetto alla sede scelta per il test e la destinazione sarà indicata dallo stesso ministero, attraverso una procedura telematica allestita sul sito del Cineca.
In definitiva, la prospettiva è di avere quest'anno studenti iscritti a Medicina appartenenti a quattro categorie (http://tinyurl.com/n5qphxa): la prima è quella dei bravi che hanno superato brillantemente il test; la seconda è quella di chi ha superato il test grazie all'aiuto di qualcuno che ha utilizzato i buchi nella garanzia di anonimato; la terza categoria è di chi si è iscritto grazie al ricorso al Tar in soprannumero ma aveva comunque raggiunto l'idoneità minima al test; la quarta infine è di chi è stato bocciato al test e magari ha ottenuto un punteggio negativo ma si è dimostrato tempestivo nel fare ricorso assicurandosi, senza alcun merito, l'ambitissimo diritto a intraprendere la carriera di studente in Medicina.
Per superare l'attuale test di Medicina, che ha mostrato dei limiti e ha sollevato contenziosi giudiziari, il ministro Giannini, nella campagna elettorale per le Europee, ha cercato di attenuare lo scontento dei candidati e delle loro famiglie, promettendo di abolire i test di accesso e prospettando un'altra soluzione, simile al modello francese (http://tinyurl.com/qjr7lsq). Nonostante le perplessità sollevate dagli ambienti accademici, ha consegnato alla Conferenza dei Rettori un documento che prevede un anno comune per tutte le matricole, una valutazione divisa in due semestri e alla fine della stagione una selezione dura per passare al secondo anno. Al ministro ha fatto eco un gruppo di deputati che in una nota (http://tinyurl.com/k42oq86) hanno affermato che “I test di accesso sono diventati un mero simulacro, non premiano il merito e sono un’ingiusta forma di sbarramento sociale". Dalla parte opposta dello schieramento politico un senatore ha sostenuto i diritti dei vincitori dei ricorsi ai Tar di essere comunque immatricolati nella propria sede. Evidentemente anche in Parlamento la demagogia, che ha come strumento il populismo, riemerge quando non si conoscono per incultura o si vogliono ignorare i problemi dell’università senza tener conto delle opinioni dei competenti e in particolare delle basi storiche non solo italiane dei test per gli accessi. Ma sull’ipotesi del superamento dei test d’accesso si leggono anche opinioni più meditate e realistiche come quella di A. Figà Talamanca (http://tinyurl.com/lt94mcp) che riporto quasi integralmente: “Se il primo anno di Medicina sarà aperto a tutti quelli che hanno conseguito un diploma di maturità … (possiamo ipotizzare che anche coloro che avevano preferito non affrontare i test si iscrivano a Medicina) gli immatricolati per il 2015 dovrebbero essere tra i settantamila e i centomila … Si dovrebbe modificare l'ordinamento didattico di Medicina in modo da rendere il primo anno compatibile con il proseguimento degli studi in altre discipline, con convalida, almeno parziale, degli esami sostenuti. Bisognerà anche vincere le resistenze dei docenti di altre ex-facoltà per indurli ad accogliere, senza troppi ‘debiti’, gli studenti che hanno compiuto il primo anno a Medicina. Alla fine, la soluzione giusta dovrebbe essere quella di riservare il primo anno di Medicina alle materie scientifiche di base (matematica, fisica, chimica, biologia), che dovrebbero essere impartite dai rispettivi dipartimenti a tutti gli studenti il cui curriculum le richieda, indipendentemente dal corso di laurea di iscrizione. Stiamo parlando però di cambiamenti che incontrerebbero molte resistenze e necessitano comunque tempi lunghi. L'apparato ministeriale, l'agenzia per la valutazione, e, specialmente, il mondo accademico non sembrano pronti ad affrontare problemi di questo tipo e di questa portata, meno che mai in così poco tempo”.

L’accesso agli studi di Medicina in alcuni Paesi europei
In Francia per diventare un docteur en médecine (medico specialista) gli studi, che comprendono anche l'equivalente della specializzazione italiana, durano tra i 9 e gli 11 anni. L’iscrizione a un corso di laurea richiede il conseguimento del baccalauréat, il diploma attribuito agli studenti a 18 anni, al termine degli studi superiori. L’iscrizione va effettuata a marzo, qualche mese prima del conseguimento del diploma. La differenza fondamentale rispetto al meccanismo italiano è che non esiste uno sbarramento per l’accesso al primo anno; inoltre i primi due semestri di studi non sono riservati ai soli aspiranti medici, ma sono validi per altri tre indirizzi: odontoiatria, farmacia e ostetricia. Dunque l’iscrizione è libera, e gli studenti iniziano il corso comune alle quattro discipline, ma la selezione arriva comunque molto presto. Già al primo anno, gli iscritti sono chiamati a una prova che si articola in due momenti al termine dei due semestri (in dicembre-gennaio e in maggio). Altra differenza capitale con l’Italia: l’esame non riguarda una pluralità di materie non tutte direttamente collegate agli studi, ma tocca esclusivamente le discipline studiate nel corso dell’anno. Qualora, al termine del primo anno, lo studente non passi gli esami, ha la possibilità di ripetere l’annualità, ma una volta sola; in caso di insuccesso, può cambiare indirizzo di studi all’interno delle professioni sanitarie. Superato lo sbarramento, lo studente prosegue negli studi medici (http://tinyurl.com/np545r9).Il sistema francese è un sistema che spegne le proteste per l'iniquità percepita della selezione al primo anno, ma che sposta a un anno dopo una selezione ben più dura.
Nel Regno Unito sono simili a quelle statunitensi le strategie adottate: le scuole mediche fissano annualmente i propri criteri di selezione, frutto della combinazione di requisiti scolastici pregressi, di conoscenze scientifiche di base e di qualità personali (ad esempio lettere di presentazione, interviste, etc.). In generale, i candidati in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore Gcse (General Certificate of Secondary Education) possono inoltrare la domanda di ammissione a 4 Scuole mediche di loro scelta attraverso l'Ucas (Universities and Colleges Admission Service). Saranno poi sottoposti a specifici test (http://tinyurl.com/n24bjdz): Clinical Aptitude Test (Ukcat); Biomedical Admission Test (Bmat); Graduate Medical School Admission Test (Gamsat). Solo i candidati che avranno superato il test previsto saranno convocati alla prova finale (l'interview), condotta da una commissione esaminatrice specializzata per accertare, oltre al possesso delle conoscenze teoriche (soprattutto chimica, fisica, biologia), eventuali esperienze professionali o di volontariato pregresse, la capacità di lavorare in gruppo e le motivazioni personali, che indirizzano i candidati alla professione medica.
In Germania è molto articolata per tipologia di ammissibili agli studi medici la strategia adottata, che è gestita da un organismo federale, l'Ufficio centrale per l'attribuzione dei posti nell'ambito dell'insegnamento superiore (Zentralstelle für die Vergabe von Studienplätzen - ZVS). Possono candidarsi i possessori dell'Abitur (Zeugnis der allgemeinen Hochschulreife), ma quote di posti sono riservate per il 2% agli studenti diversamente abili o con difficoltà socio-economiche (Heirtefeille), per il 20% ai Talented 20, che al diploma conclusivo degli studi secondari hanno riportato la media più alta della loro classe e per il 20% agli idonei degli anni precedenti in lista d'attesa da più tempo. Dopo l'abolizione del 1997, e stato reintrodotto il test Essai für Medizinische Studiengeinge, non obbligatorio, ma utile per migliorare il punteggio complessivo e la possibilità di essere positivamente selezionati nel corso dell'intervista conclusiva.
Modalità diverse per etnia riguardano invece la Svizzera dove la componente di lingua tedesca prevede - sul modello tedesco - il superamento di un test attitudinale. Per la parte di lingua francese e in Belgio l'accesso avviene senza particolari restrizioni, ma la selezione - analogamente al modello francese - è rinviata all'anno successivo e si basa sui risultati conseguiti nel primo anno di studi (http://tinyurl.com/n24bjdz).
In Spagna l'accesso a tutte le Facoltà universitarie è subordinato alla votazione riportata nel diploma di Bachiller e, per chi ha più di 25 anni - sulla base del Real Decreto 1892/2008 entrato in vigore dall'a.a. 2009/10 - al superamento di uno specifico esame denominato PAU (Prueba de Acceso a la Universidad) presso i singoli Atenei, destinato a valutare la maturità degli allievi, nonché le conoscenze e le competenze acquisite durante gli studi secondari. Il PAU è articolato in due fasi: una fase generale obbligatoria, che pone l'accento su quattro materie di base, e una specifica volontaria che può migliorare la votazione finale per l'ammissione universitaria (http://tinyurl.com/n24bjdz).

L’opposizione alla proposta del “sistema francese” per l’accesso ai corsi di Medicina e chirurgiaLa proposta del ministro Giannini di abolire per Medicina il test d’accesso ha sollevato molte perplessità e anche nette opposizioni in un’estesa platea non solo di accademici, rettori e presidi compresi, ma anche di ministri (ex o in carica) e di commentatori di cose universitarie sulla stampa e in rete. A favore solo le associazioni studentesche, ma non tutte, e alcuni parlamentari di destra e di sinistra nell’assordante silenzio di quasi tutti gli altri loro colleghi.
“Il modello francese così com’è non è applicabile, non ci sono risorse e strutture”, ha detto al Corriere dell’Università Maria Chiara Carrozza, ex ministro dell’istruzione, e ha aggiunto: ”Allo stato attuale non è applicabile, non ci sono le risorse e le strutture per affrontare un’immissione incontrollata di studenti al primo anno. Non dico che sia di principio infattibile, ma bisogna essere realisti e non demagogici”. Anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha espresso a controcampus.it il suo dissenso: “No, non sono favorevole all’abolizione dei test di accesso all’università” sia per le ovvie difficoltà organizzative e logistiche cui dovrebbero rispondere le università a fronte del prevedibile boom della popolazione studentesca (70-80mila unità secondo il ministro) sia per lo spettro di una possibile emorragia di camici bianchi, che finirebbero quasi tout court dalla laurea alla strada: aprire le porte della professione medica a una platea più ampia rischierebbe di congestionare un mercato dove, tuttavia, c’è sempre stata piena occupazione.Secondo il segretario della Conferenza dei corsi di laurea e delle professioni sanitarie, le proiezioni sul numero dei futuri laureati fanno già emergere un progressivo esubero degli stessi, con un valore complessivo di circa 9.000 in più dal  2014 al 2020.
Fra le opinioni raccolte da Universitas (http://tinyurl.com/n73cvsz)fra i rettori, particolarmente indicativa quella del nuovo rettore della Sapienza, Eugenio Gaudio: “Il problema, a mio avviso, si deve risolvere con un sistema di selezione a tre gambe: la valutazione del percorso scolastico precedente, la verifica delle attitudini mediante test psicoattitudinale, il normale concorso a test a scelta multipla. Il fatto di aver posto il numero programmato ha consentito di migliorare le performance dell’università italiana, almeno nel settore medico: il 90% degli studenti si laurea, il 60% si laurea in corso; le facoltà di Medicina italiane sono tra le migliori in ambito europeo; chi si laurea trova lavoro. Negli anni 70-80 si è formata una pletora medica, che non ha frequentato né lezioni né corsie, e non è stato un bene: e questo lo dico soprattutto da potenziale paziente”. A La Repubblica Eugenio Gaudio ha fornito un esempio: “Alla Sapienza di Roma sono 6 le aule grandi di Medicina, e 36 più piccole. I docenti? 72. Considerando il rapporto tra i posti a disposizione e le aspiranti matricole, il passaggio al sistema d’oltralpe richiederebbe 36 aule grandi, 216 piccole e 432 professori”. Carmine Di Ilio, rettore dell’Università di Chieti-Pescara: “Il sistema vigente può essere migliorato selezionando con maggiore cura le domande. Comunque l’utilizzo di un test a scelta multipla sulle medesime tematiche correntemente utilizzate, a mio avviso garantisce un’adeguata trasparenza e pone gli studenti nelle medesime condizioni iniziali”. “Che il sistema dei quiz vada migliorato lo pensiamo un po’ tutti - dice Cristina Messa, rettrice della Bicocca -. Ma la soluzione non è eliminarli. Semmai bisognerebbe puntare molto di più sull’elemento attitudinale, che è fondamentale nella nostra professione”. Dello stesso parere è Roberto Lagalla, rettore dell’Università di Palermo e vice presidente della Conferenza dei rettori con delega alla Medicina: “La selezione preliminare tramite i test va mantenuta. Il punto è che i test dovrebbero essere molto più coerenti con i saperi liceali”, e aggiunge che il sistema dei test, per quanto imperfetto, dà maggiori garanzie di obiettività di un esame orale che è molto più esposto a favoritismi e raccomandazioni. “Le mie riserve principali rispetto al modello francese sono due – ha sostenuto il rettore dell’università di Padova Giuseppe Zaccaria -. Per quanto riguarda l’ipotesi di un tronco comune alle diverse lauree mediche, io non sono per niente convinto che la fisica che serve ai medici sia la stessa che serve agli infermieri. Quanto poi al sistema di selezione dei ragazzi, temo che affidarsi a degli esami universitari anziché a dei test “ciechi” esponga i docenti a una serie di pressioni indebite”. Gli esami orali si trasformerebbero inevitabilmente in un mercanteggiamento per mandare avanti questo o quel ragazzo, indipendentemente dalle sue qualità. Tra le altre personalità di spicco della Medicina di cui universitas ha sentito l’opinione, Luigi Califano, presidente della Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università di Napoli Federico II: “Consentire l’iscrizione al primo anno a tutti gli studenti che ne facessero richiesta, creerebbe problematiche insormontabili legate sia alla logistica (carenza di spazi adeguati) sia alla didattica (carenza di personale docente). Le valutazioni alla fine del primo e del secondo semestre del primo anno dovrebbero poi essere assolutamente imparziali, cosa che non sempre avviene nel nostro Paese. Credo quindi che il sistema attuale, pur perfettibile in alcuni aspetti (tipologia dei quesiti, un maggiore e più efficace sistema di controllo), sia l’unico attuabile al momento”. Andrea Lenzi, presidente del Consiglio Universitario Nazionale (Cun) e della Conferenza permanente dei presidenti di corso di laurea magistrale in Medicina e Chirurgia: “Gli anni recenti di prove di ammissione hanno mostrato che vi erano evidenti differenze nei punteggi di accesso delle diverse sedi e questo aveva provocato un malumore diffuso. L’introduzione di una graduatoria nazionale consente di eliminare tali differenze. È necessario peraltro che siano approvate norme di sostenibilità economica per consentire alle famiglie le spese legate alla mobilità degli studenti, possibilità altrimenti riservata a studenti delle classi sociali più abbienti, in conseguenza alla scarsità di fondi e strutture riservate al cosiddetto diritto allo studio”.
In un articolo su lavoce.info (http://tinyurl.com/nn7lmj7) si sostiene che la proposta governativa presenta numerosi difetti che superano quelli della procedura attuale di ammissione, peraltro recentemente migliorata in modo significativo con la predisposizione di un’unica classifica nazionale dei risultati, che evita le iniquità e le inefficienze delle precedenti classifiche per ateneo. Tra i difetti della proposta si segnala in particolare: (1) I corsi del primo anno di medicina saranno invasi da un numero enorme di studenti, tale da rendere difficoltosa l’attività didattica tradizionale, anche solo per un problema di spazi, e tale da richiedere necessariamente tecnologie di e-learning, tutte da disegnare con costi considerevoli. (2) Il libero accesso al primo anno di medicina provocherà un immediato calo di iscrizioni ai corsi di laurea affini. (3) La diminuzione della qualità media degli studenti iscritti a Medicina al primo anno e la congestione degli spazi educativi danneggerà gli studenti bravi e in grado di continuare, per i quali il primo anno universitario si ridurrà a essere solo un lungo e costoso modo per segnalare la loro qualità con benefici minimi in termini di capitale umano. (4) Anche la qualità media dei docenti del primo anno, che dovranno necessariamente aumentare, potrebbe diminuire peggiorando le conseguenze negative di cui ai punti precedenti. (5) Sarebbe comunque necessario, alla fine del primo anno, un test standardizzato nazionale che soffrirebbe sostanzialmente degli stessi problemi di quello attuale, senza particolari benefici; il primo anno di studi in medicina diventerebbe a tutti gli effetti un inutile sesto anno di liceo con scarsi vantaggi.
Coloro che già frequentano una scuola di specializzazione medica hanno deciso di aderire alla petizione promossa dall’on. Filippo Crimì contro il progetto del ministro Giannini di procedere all’abolizione del test per l’accesso a Medicina (http://tinyurl.com/ohrpgqj). Rendendo noto il proprio sostegno all’iniziativa del deputato della maggioranza, Federspecializzandi sottolinea alcuni aspetti critici del modello francese. In primis, il fatto che il percorso formativo del primo anno di studi differisce notevolmente fra le diverse sedi del corso di laurea in Medicina e che “il superamento degli esami di profitto sia spesso affidato a valutazioni orali e quindi del tutto discrezionali da parte dei docenti”. Ciò, secondo gli allievi delle scuole di specializzazione, violerebbe il “principio della trasparenza e dell’oggettività della valutazione“, falsando gli esiti della selezione. Un altro dei motivi per i quali Federspecializzandi è contraria all’abolizione del test di Medicina è che “l’eventuale riforma dell’accesso a Medicina nella direzione del modello francese, richiederebbe da parte del MIUR un forte investimento in termini di rinnovamento e ampliamento delle strutture che ospitano la formazione”. Perché, secondo gli specializzandi – e anche i rettori – così come sono, esse non ce la farebbero a sostenere l’impennata del numero delle matricole.
La Conferenza Permanente delle Facoltà e Scuole di Medicina e Chirurgia, l’8 maggio ha approvato all’unanimità e inviato al Ministro Giannini una mozione (http://tinyurl.com/lctjexrsull’accesso ai corsi di Laurea di Medicina e Chirurgia per l’anno accademico 2015-2016, dove si sottolinea la necessità irrinunciabile del numero programmato e l'efficacia ed efficienza dell'attuale metodo selettivo; nell'ipotesi di una revisione, i firmatari affermano l'importanza dell’orientamento nella scuola secondaria, della valutazione del percorso scolastico e la necessità di una prova di valutazione specifica per Medicina, con domande a risposta multipla come quella attualmente in vigore.
A proposito del «sistema francese» proposto dal ministro Giannini, e in fase di elaborazione al MIUR, sarebbe facile ironizzare su questa improvvida moda esterofila, come si è visto di così scarsa popolarità. Se non fosse invece il caso di rimeditare la proposta in base a una notizia seria: in Francia proprio Geneviève Fioraso (secrétaire d'Etat à l'Enseignement supérieur) e la CPU (Conférence des présidents d'université) non ne vogliono più sapere, dopo anni di applicazione, del loro sistema (sélection des étudiants entre la première et la deuxième année de master, M1 et M2) ora elevato a modello per l’Italia (http://tinyurl.com/ml97anu). Il presidente della CPU Jean-Loup Salzmann ha qualificato la situazione attuale «stupide», mentre il tribunale amministrativo di Bordeaux ha stimato che la selezione degli studenti fra il primo e il secondo anno di corso (entre M1 et M2) è illegale. Il segretario di Stato all’istruzione superiore Fioraso ha messo sul tavolo la questione di anticipare di nuovo la selezione all’ingresso nel primo anno, anche sulla base di prerequisiti, e ha dichiarato a ‘Les Echos’ che, affrontando l’argomento degli accessi, vuole “sicuramente non lasciare più la selezione tra il primo e il secondo anno di corso”. Anche la Fage, un’organizzazione studentesca francese, sostiene un sistema di accesso post-bac da denominare Admission post-licence (dopo la secondaria superiore): tutti gli studenti dovrebbero presentare cinque domande d’immatricolazione e ne sarebbe accolta una in funzione del loro dossier. Il presidente della Fage Julien Blanchet: «Avoir une sélection entre M1 et M2 est ridicule». Si può aggiungere che la proposta di adottarla da noi lascia perplessi anche sulla correttezza della selezione se fatta con esami individuali in ambienti accademici non impermeabili a nepotismi e favoritismi.

Validità dei test e proposte alternative al sistema attuale di selezione per l’accesso a studi medici
Per l’accesso a Medicina nei Paesi anglosassoni (Nord America, Australia e Regno Unito) si utilizzano anche interviste e test psicometrici e si stanno diffondendo i centri di selezione, organismi accreditati in cui i candidati sono valutati da professionisti. Da revisioni sistematiche della letteratura emerge comunque che il risultato dei test sulle conoscenze ha un valore predittivo di oltre il 65%. La teoria dei test considera vari tipi di validità (http://tinyurl.com/o8j37tx), ma quelli più rilevanti in questo contesto sono essenzialmente due: la validità di costrutto (il test misura effettivamente le variabili che intende misurare?) e la validità predittiva (il test seleziona persone che hanno poi una carriera studentesca e professionale soddisfacente?). Il test misura capacità logiche e mnemoniche nell'assunto che le capacità richieste per ottenere un buon punteggio siano le stesse necessarie per usufruire con profitto del corso di studi: può sprecare un quarto della scala di valutazione con domande astruse, ma se fa buon uso dei tre quarti rimanenti può ancora essere valido. Se il suo fine è selezionare studenti che abbiano la massima probabilità di completare con successo il corso di studi e di diventare validi professionisti, minimizzando gli abbandoni, la sua validità predittiva e di costrutto sono misurabili. Uno studio è stato effettuato per i test di ammissione delle Facoltà di Ingegneria che aderiscono al Cisia (Consorzio Interuniversitario Sistemi Integrati per l'Accesso) e i dati raccolti (per il Politecnico di Torino) hanno mostrato una “significativa correlazione tra punteggio del test di ammissione e risultati nella carriera studentesca: punteggi alti al test correlano con voti alti agli esami, Laurea nei tempi previsti, basso rischio di abbandono”. E' importante notare che il test di ammissione di Ingegneria presenta lo stesso difetto già considerato per quello di Medicina, cioè la cattiva distribuzione dei punteggi, con la parte alta della scala di valutazione sostanzialmente spopolata; inoltre il punteggio del test di ammissione ha una correlazione molto debole con il voto di maturità. Uno studio analogo è in corso per i Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia. Giova anche ricordare che a Medicina “il tasso di abbandono precedente all'adozione del numero chiuso era di circa il 70% mentre quello attuale è inferiore al 30%. Sembra pertanto che i test di ammissione, sebbene alquanto inadeguati, abbiano ciononostante una buona validità predittiva e di costrutto”, ed è sicuramente giustificato sia cercare di migliorarli che monitorare costantemente la correlazione tra il punteggio in ingresso e la carriera universitaria fino alla laurea.
Una proposta, recentemente avanzata sul sito lavoce.info (http://tinyurl.com/nn7lmj7), è di modificare l'esame di maturità, introducendo moduli standardizzati per scegliere - secondo una graduatoria di merito redatta con criteri omogenei - gli studenti che proseguono nei corsi di laurea a numero chiuso, sistema, ad esempio, adottato fino a quest'anno in Spagna. Ogni ateneo (non solo per gli studi medici, ma anche per quelli in altre aree) stabilirebbe l’elenco di materie nelle quali uno studente dovrebbe sostenere l’esame e il punteggio minimo richiesto, materia per materia. Ad esempio la facoltà di medicina H potrebbe richiedere: italiano, inglese, con punteggi superiori all’80 e matematica, biologia, chimica e fisica con punteggi superiori al 90.
La scuola superiore, esordiscono gli autori della proposta, offre cinque anni di informazioni analoghe a quelle che sarebbero raccolte nel primo anno di studi con accesso libero ai corsi di Medicina previsto dalla proposta governativa. Meglio ancora sarebbe se nei cinque anni i nostri studenti potessero costruire gradualmente, á la carte, itinerari formativi diversificati a seconda delle loro doti e delle prospettive lavorative cui aspirano, tra i quali, in particolare, itinerari miranti a studi medici. Il vantaggio derivante dall’associare la procedura di ammissione alla performance scolastica (e non a quella del primo anno di università come nella proposta governativa) sarebbe la possibilità di intercettare studenti capaci e meritevoli che, per vincoli di bilancio familiari o altre ragioni socio-culturali, non continuerebbero gli studi oltre il liceo.
L'opzione alternativa, più realistica, è mantenere l'attuale schema della graduatoria nazionale, che nel complesso ha dato buona prova di sé, migliorando sensibilmente qualità e adeguatezza dei test. Se si aprono alle critiche degli esperti, l'attendibilità dei test può crescere nel tempo, rendendoli uno strumento affidabile e con garanzie di equità superiori a quella di altre soluzioni.
                                                                           Prof. Paolo Stefano Marcato
                                                           Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

lunedì 17 novembre 2014

INFO UNIVERSITARIE n. 10 18-11-2014

IN EVIDENZA

TEST PER L’ACCESSO A MEDICINA, IL CASO DEL PREMIO AI BOCCIATI
Un maxi ricorso che è stato celebrato come una vittoria storica contro il numero chiuso dai suoi promotori ma che, di fatto, si è tradotto in un danno oggettivo e soggettivo per chi il test lo aveva passato: oggettivo perché gli atenei sono andati in tilt a causa dell’ondata di nuovi immatricolati e soggettivo per il senso di ingiustizia nel ritrovarsi sorpassati da chi aveva ottenuto un punteggio molto peggiore del proprio. Il Miur a settembre aveva emanato una nota che metteva dei paletti molto stretti per i 5.000 riammessi dal Tar: potevano iscriversi, sì, in uno degli atenei che avevano indicato in sede d’esame, ma avrebbero dovuto optare per quello «nel quale risulta minimo lo scarto tra il primo in graduatoria e il punteggio del ricorrente». Vietato in altre parole iscriversi a Torino, dove quest’anno c’è stato il candidato con il punteggio più alto: (80,5) ma anche a Bari (76,7), a Bologna (73,3) e alla Statale di Milano (72,6). Porte aperte invece in Molise (50,7), a Sassari (51,8) o a Salerno (53,8). Per evitare nuovi ricorsi il 9 ottobre il ministero ha emanato un’altra nota che rovesciava la precedente permettendo ai ricorsisti di iscriversi nella loro prima scelta. Con buona pace di tutti gli altri studenti con la valigia, come la comasca Claudia Colombo: «Io con i miei 37,8 punti sono finita da Pavia a Torino Molinette: spendo 350 euro per una stanza ma sono in un’ottima università. Conosco una ragazza di Varese che aveva passato il test ma ha dovuto rinunciare perché era finita a Salerno. E poi sono scocciata perché l’arrivo di quelli che hanno fatto ricorso ci ha costretto a stare a lezione seduti per terra». Da Padova a Palermo non si contano i disagi che le ammissioni in sovrannumero hanno creato. Inizio dei corsi rinviato, aule stracolme, lezioni in videoconferenza. A Bari la facoltà si è ritrovata ad accogliere quasi il triplo degli studenti previsti dal bando: oltre 600 contro i 237 di partenza. Spingendo i «regolari vincitori di concorso» a sottoscrivere un manifesto di protesta che si concludeva — amaramente — così: «Vogliamo “solo” studiare». Quello che più fa arrabbiare è l’ingiustizia di un sistema che finisce per penalizzare chi segue le regole, giuste o sbagliate che siano. (Fonte: Blitz Quotidiano 10-11-2014)

LA CRUI: CON IL CAOS DEI RICORSI ACCOLTI DALLA MAGISTARURA AMMINISTRATIVA A RISCHIO L’AVVIO REGOLARE DELL’ANNO ACCADEMICO
Dopo le ripetute sentenze del Tar che ha ammesso nelle graduatorie di Medicina migliaia di ragazzi che non avevano passato il test, nelle principali facoltà italiane - scrivono in un documento approvato il 12 novembre i rettori in seduta straordinaria nella giunta della Crui - si è creata una «situazione gravissima» che mette addirittura a rischio l’avvio regolare dell’anno accademico. Si legge nel documento Crui: «La situazione venutasi a determinare nelle Facoltà/Scuole di Medicina e Chirurgia a seguito delle pronunce della Magistratura amministrativa, in accoglimento dei numerosissimi ricorsi presentati avverso gli esiti dei test di ammissione al corso di laurea a ciclo unico in Medicina e Chirurgia, è del tutto insostenibile e pregiudica il regolare avvio dell’anno accademico. Di ciò hanno già documentato i Presidenti di Consiglio di corso di laurea magistrale in Medicina e Chirurgia. In secondo luogo, le innovate modalità di selezione alle Scuole di Specializzazione post-lauream, hanno determinato più di qualche criticità, a tutt’oggi imprevedibile nelle possibili conseguenze». E proseguono: «Da anni le domande di accesso ai corsi in parola superano le relative offerte, tanto di posti quanto di borse. Per questo è indispensabile un percorso di selezione ispirato a criteri rigorosamente meritocratici. Siamo disponibili a discutere le diverse modalità possibili, fermo restando il principio di coerenza con le risorse disponibili, al fine di non pregiudicare la qualità per gli studenti e per i borsisti, secondo standard europei, e di consentire una programmazione adeguata agli Atenei. Urge affrontare la questione nel suo complesso senza attendere altro tempo». (Fonte: www.corriere.it/scuola/universita 12-11-2014)

È POSSIBILE ACQUISIRE TUTTI I DIRITTI DI UN PROFESSORE UNIVERSITARIO SENZA AVER MAI SUPERATO UN CONCORSO?
La risposta è sì. È contenuta nell’articolo della legge 114 dell’11 agosto scorso, misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari. E vale per pochi – e molto noti – personaggi. La storia riguarda la Scuola superiore dell’economia e delle finanze (Ssef) che, in nome della spending review, viene soppressa e confluisce nella Scuola nazionale dell’amministrazione (Sna). Il destino dei dipendenti della Ssef, però, non è lo stesso per tutti.  C’è chi – una dozzina di fortunati – acquisisce tutti i diritti di un professore universitario senza aver mai superato un concorso pubblico. E c’è chi invece – circa 50 dipendenti – viene “eliminato” perdendo anche i diritti acquisiti. Il comma 4 dell’articolo 21, dedicato alle Scuole di formazione, prevede che “i docenti ordinari e i ricercatori dei ruoli a esaurimento della Ssef … sono trasferiti alla Sna … e agli stessi sono applicati lo stato giuridico e il trattamento economico … dei professori o dei ricercatori universitari…”. Ma cosa significa “applicare” lo “stato giuridico” di un professore universitario? E soprattutto: a chi è dedicata questa norma? Quali sono le conseguenze di questa norma? Ilfattoquotidiano.it ha contattato diversi esperti di diritto amministrativo che concordano su un punto: la norma non esclude espressamente l’equiparazione di fatto tra i professori in questione e i docenti universitari che hanno superato un concorso. La legge di agosto non è una primizia. Una prima traccia dell’operazione, infatti, risale al 2000 ed è contenuta in un decreto del governo Amato. L’anno successivo, il Parlamento vota una legge che consente ai professori della Ssef di insegnare in qualsiasi università. Pochi mesi prima, però, il Consiglio di Stato aveva già posto un argine a questa deriva: l’acquisizione dello stato giuridico del professore universitario non poteva discendere da un decreto del ministero. È necessaria una legge votata dal Parlamento. E la legge, dopo 14 anni, finalmente è arrivata: ad agosto viene convertito il decreto che, pochi mesi prima, è stato varato dal governo. L’occasione è data dal taglio della spesa e dalla soppressione della Ssef. (Fonte:  L. Di Cesare, FQ 19-10-2014)

FINANZIAMENTI. DA QUI AL 2018 L’FFO CONTINUERÀ A DIMINUIRE
Una considerazione sull’FFO, basata su quella che pare l’interpretazione più probabile e più attenta alla lettera della disposizione nella Legge di Stabilità. Il “taglio Tremonti” avrebbe causato una riduzione dell’FFO di -170 milioni. Il “rifinanziamento” proveniente dalla legge di stabilità di
+150 milioni porta il taglio a -20 milioni. A questi si aggiungono -34 milioni per il 2015, -32 milioni per il 2016, -32 milioni per il 2017, +10 milioni ex Erzelli (anni 2016 e 2017). Il che porterebbe il saldo totale a -108 milioni, fra ora e il 2017, con l’FFO che solo dal 2018, ricomincerà a crescere (sempre grazie alle quote ex Erzelli) di 5 milioni/anno. È certo vero che queste cifre sono migliori di quelle di cui si è parlato solo poche settimane fa. E che anziché un immediato “taglio Tremonti” di 170 milioni ci ritroviamo con un “taglio Renzi” di 108 milioni fra il 2015 e il 2017, dunque spalmato su più anni e per questo più gestibile oltre che – sicuramente molti sperano – oggetto di possibile correzione (spes ultima dea). Resta il fatto che rebus sic stantibus, e se bene abbiamo compreso – da qui al 2018 – l’FFO continuerà a diminuire. (Fonte:  A. Banfi, Roars 25-10-2014)

RECLUTAMENTO. PUNTI ORGANICO E RICERCATORI
Il numero e il tipo di docenti di ciascun ateneo sono determinati in base ai “punti organico” assegnatigli dal Miur. Un ordinario “costa” 1 punto organico, un associato 0,7, un ricercatore tipico 0,5. Quando un docente va in pensione, i punti organico corrispondenti tornano al dipartimento di appartenenza (dal 2008 pesantemente decurtati, causa blocco turnover), che decide come reinvestirli. Le promozioni costano quindi dei preziosi punti organico, ma se a vincere è un interno si paga solo la differenza: quindi, in tempi di turnover normale, quando andava in pensione un ordinario con il suo punto organico si poteva assumere un nuovo ricercatore, far transitare un ricercatore ad associato e un associato ad ordinario, e in media avveniva proprio così. Negli ultimi anni, però, questo sistema si è vaporizzato. I docenti strutturati nelle università sono crollati verticalmente: da 60.000 a 50.000 in sei anni, praticamente turnover zero. Infatti, non solo il 50%-80% dei punti organico da pensionamenti è svanito nel calderone del “risanamento”, ma i ricercatori nuovi assunti, secondo la legge Gelmini del 2010, sono anche loro a tempo determinato (RTD). Ne esistono due tipi: il tipo A costa 0,5 punti, dura fino a cinque anni non rinnovabili al termine dei quali il mezzo punto torna al dipartimento; il tipo B invece è una sorta di tenure track: costa 0,7 punti che dopo tre anni, di norma, vengono convertiti stabilmente in un posto da professore associato e quindi non più disponibili fino alla pensione. Guardando la proporzione attualmente in servizio, più di 2000 sono RTDA contro soli 200 RTDB. Nel 2012 il Miur ha decretato che, per ogni posto da ordinario, si è obbligati a bandire anche un posto per RTDB, per garantire almeno un minimo di assunzioni in ruolo. Ma nella legge di stabilità c’è un comma, il 29esimo dell’articolo 28, che stabilisce che il vincolo di un TDB per ogni PO viene sostituito con il vincolo di fare un TD (A o B) per ogni PO. È più facile prevedere che gli atenei, per il differenziale di costo tra TDA e TDB (il primo costa 0,5 mentre il secondo 0,7 punti organico) siano portati a fare  solo TDA. Infatti, il quesito per la scelta sarà: giocarsi 0,7 punti per sempre, o investire 0,5 punti organico che torneranno indietro tra 3-5 anni, pronti per essere reinvestiti? (Ma è qui che dovrebbe intervenire la premialità se insiste il fattore eccellenza. Infatti, dovrebbe risultare premiante per il dipartimento incanalare come RTDB un dottore di ricerca eccellente verso la posizione di ruolo di associato invece di risparmiare 0,2 punti organico mantenendo un RTDA precario. Nota di PSM) (Fonte: www.ilfattoquotidiano.it 28-10-2014)

APPELLO CONTRO IL BLOCCO DEGLI SCATTI STIPENDIALI MERITOCRATICI DEI DOCENTI UNIVERSITARI
L’USPUR (Unione Sindacale dei Professori e Ricercatori Universitari) con questa nota della segreteria nazionale rilancia l’appello promosso dal “Comitato promotore contro il blocco degli scatti stipendiali”:
“In sostanza la richiesta di sblocco degli scatti stipendiali non è stata recepita nella legge di stabilità varata dal Governo Renzi e, per manifestare il nostro risentimento, si sta organizzando una manifestazione a Roma per sabato 29 Novembre prossimo, nella piazza di Montecitorio. Questa è l’occasione per dimostrare che anche noi docenti universitari abbiamo una dignità che ci porta a manifestare quando il Governo e il Parlamento non tengono in alcun conto le nostre richieste di essere ricevuti ed ascoltati per trovare una via di uscita dal blocco delle nostre retribuzioni rimaste ferme al 31 Dicembre 2010, con blocco rinnovato per il 2014 ed ora esteso anche per il 2015. Rimanere muti e insensibili di fronte a tali fatti significherebbe rinunciare ai propri diritti. Si ricorda che gli scatti stipendiali non sono più automatici ma soggetti a valutazione da parte dell’autorità accademica. In aggiunta riteniamo veramente punitiva la norma che considera le progressioni di carriera comunque denominate, eventualmente disposte nel periodo di blocco delle retribuzioni, con effetto solo ai fini esclusivamente giuridici. Su quest’ultima norma, se fossimo stati ricevuti ed ascoltati, si sarebbe potuto trovare un opportuno ritocco per una modifica che tenesse conto delle nostre richieste almeno per gli anni di rinnovo (2014 e 2015) del blocco degli stipendi”. (Fonte: A. Liberatore, segretario nazionale dell’USPUR 10-11-2014)


ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE

ASN 2012. “QUER PASTICCIACCIO BRUTTO” DEL CASO DEL SETTORE CONCORSUALE DI DIRITTO PRIVATO 12/A1
L’ASN, nella sua originaria configurazione, richiedeva – salvo eccezioni – che le commissioni comprendessero un membro equivalente a ordinario e proveniente da uno dei paesi OCSE. Da molte parti sono stati sollevati dubbi sulla competenza del commissario straniero e sull’equivalenza del suo ruolo accademico con quello di ordinario. Nel caso del settore concorsuale di diritto privato il Tar ha rilevato che il membro straniero non è dotato di qualificazione adeguata al settore relativo al diritto privato e pertanto il giudizio finale di non abilitazione dei candidati è illegittimo, e va annullato. Dei 448 partecipanti, coloro che hanno conseguito l'idoneità ad insegnare sono 129. Fuori ne sono rimasti 319 di cui 200 hanno già fatto ricorso. Il tribunale in sei casi si è già pronunciato e ha dato ragione ai ricorrenti. Inoltre il Tar ha ordinato che la Commissione, in composizione del tutto differente da quella che ha operato, procederà ad una rinnovata valutazione del candidato. Che ne sarà della prima tornata ASN? Qui si pongono gravi problemi di equità e di diritto: se la commissione non era composta in modo legittimo, è giusto che solo i ricorrenti, e per di più solo i ricorrenti sul punto specifico della competenza del commissario straniero, si vedano assegnati a nuova commissione? Questa è una domanda alla quale non è facile rispondere poiché è evidente che l’eventuale annullamento da parte del MIUR della prima tornata rispedirebbe in purgatorio i candidati abilitati, con l’esito di generare – prevedibilmente – ulteriore contenzioso. Inoltre sono già in corso procedure di reclutamento o avanzamento di carriera che coinvolgono idonei di diritto privato, giudicati da una commissione a quanto pare illegittima. Il risultato però sarà che candidati assegnati a nuova e diversa commissione che si vedano poi dichiarati abili si troveranno in una situazione di svantaggio perché le procedure si saranno già svolte a favore degli abilitati da parte della commissione illegittima. Insomma, un terribile pasticcio, di difficile soluzione, che nuoce ancora una volta al sistema universitario italiano e che danneggia, in un modo o nell’altro, decine di incolpevoli candidati. Il che sollecita un’ulteriore domanda: al di là del settore di diritto privato, cosa può accadere per tutti quegli altri settori (e ci sono, a quanto pare) nei quali risulta che il commissario straniero fosse o non qualificato quanto a rango accademico o non competente per il settore concorsuale? (Fonte: A. Banfi, Roars 11-11-2014)

ASN. INTERROGAZIONE AL MINISTERO SUI RICORSI DI CANDIDATI
Giovedì (scrive l’on.le M. Ghizzoni) ho avuto risposta all’interrogazione presentata al Ministero in merito ai ricorsi avanzati al TAR da moltissimi candidati dell’abilitazione scientifica nazionale. La risposta è ponderata ma non soddisfa. Il Ministero ha deciso di attendere i pronunciamenti definitivi del giudice amministrativo, ed eventualmente quelli di annullamento, invece di definire una chiara “via d’uscita” alle tante criticità della prima tornata dell’abilitazione scientifica nazionale. Da parte del Governo ci si aspettava, oltre a un’azione di autotutela, una volontà politica, che non c’è stata, per intraprendere la strada indicata dalla Commissione Istruzione già nella primavera scorsa. Si sarebbe potuto così alleggerire nei tempi e nei numeri il lavoro dei TAR (le sentenze arriveranno nell’autunno 2015), si sarebbero evitati probabili costi per il Ministero e si sarebbe chiarita più  velocemente la sorte di tanti aspiranti abilitati. Ho apprezzato, invece, che nella risposta si riconosca positivamente il lavoro svolto dal Parlamento per introdurre modifiche alle procedure dell’abilitazione a partire dalla prossima tornata. (Fonte: www.manuelaghizzoni.it 31-10-2014)


CLASSIFICAZIONI DEGLI ATENEI

UNA NUOVA CLASSIFICA MONDIALE DELLE UNIVERSITÀ, IL “BEST GLOBAL UNIVERSITIES” DEL SETTIMANALE U.S. NEWS AND WORLD REPORTS
È uscita una nuova, fiammante, classifica mondiale, a cura del settimanale U.S. News and World Reports. Il citato magazine statunitense ha avuto un ruolo pioneristico; infatti da oltre 30 anni compila graduatorie di College e Università americane contribuendo così a soddisfare l’esigenza di fornire dati e notizie su un “sistema” che comprende oltre 3.000 istituzioni di formazione terziaria. Tuttavia, all’irrompere dei primi ranking mondiali, fra il 2003 e il 2004, la scena fu presto occupata da altri attori, produttori di classifiche: cinesi, britannici, olandesi – anche questo è abbastanza noto. Ora, con un preavviso pubblico di poche settimane, il settimanale statunitense è entrato nell’agone con un proprio prodotto, il “Best Global Universities”, che mette in fila 500 Università, e – com’è abitudine, ormai – offre anche speciali classifiche per macrosettori scientifici (oltre che per aree geografiche e Paesi). Tralasciamo di spendere tempo nel commentare la classifica generale, capeggiata dai soliti grandi brand accademici, pur in ordine diverso, e passiamo a dare un occhio alla metodologia, non senza aver subito notato l’assenza della Normale di Pisa dai quartieri nobili: la classifica avulsa italiana ce la segnala anzi oltre il 500° posto generale, su un totale di 750 Università prese in considerazione. Questa nuova classifica fa sempre uso delle basi di dati di Thomson Reuters, ed anche delle sue survey reputazionali: la differenza con i World University Rankings del THE va quindi ricercata nella diversa definizione degli indicatori e del loro mix. Ecco la tabella di riepilogo:

La prima caratteristica che salta all’occhio, dalla sola lettura degli indicatori, è la dipendenza dalla dimensione istituzionale di svariati indicatori. Questo fatto, da solo, ci spiega l’assenza della Scuola Normale di Pisa non solo dai primi posti, ma proprio da tutta la classifica e al contrario ci illumina del primo posto, fra le italiane, della Sapienza (pur 139esima nella graduatoria generale). (Fonte: R. Rubele, Roars 03-11-2014)

LA SAPIENZA. PRIMA IN ITALIA SECONDO U.S. NEWS/THOMSON REUTERS
La Sapienza si colloca al 139° posto tra le università al mondo, prima in classifica tra gli atenei italiani, secondo il nuovo ranking internazionale prodotto da U.S. News/Thomson Reuters. In vetta alla classifica, pubblicata il 28 ottobre, è l’università di Harvard, seguita da Massachusetts Institute of Technology e dall’University of California-Berkeley. Tra le italiane, dopo la Sapienza si collocano Bologna e Padova, al 146° posto, seguite da Milano al 155°. L’agenzia U.S. News/Thomson Reuters ha preso in esame istituzioni di 50 Paesi, classificandole sulla base di 10 indicatori che hanno valutato l’attività di ricerca accademica e la reputazione, a livello complessivo e locale; particolarmente rilevanti nella metodologia adottata sono le pubblicazioni accademiche. (Fonte: www.primapress.it 29-10-2014)


DOCENTI

LE QUOTE DELLE DONNE NEI DOCENTI UNIVERSITARI
Secondo dati Miur 2013 in Italia le donne rappresentano il 36,1% dei professori universitari. Erano il 27,6% nel 1997 e appena il 14% nel 1959. La loro quota è massima tra i ricercatori, dove rappresentano il 45,6% dell’organico; la quota delle donne nel ruolo di associato si riduce al 35% e si riduce ancora di più tra gli ordinari dove le donne sono appena il 21,1%. Per sintetizzare questi dati si può utilizzare il Glass Ceiling Index (GCI) che è un indice sintetico di segregazione verticale. Esso è calcolato come il rapporto tra la quota di donne in una data posizione gerarchica e la quota di donne nella posizione gerarchica superiore. Tanto più l’indice è superiore ad 1 tanto maggiore è lo spessore del soffitto di cristallo, cioè tanto più difficile per le donne salire nella scala gerarchica. Nel caso del passaggio tra ricercatore ed associato l’indice GCI è pari ad 1,3: questo significa che la quota di donne nel ruolo di associato è inferiore del 30% rispetto alla quota delle donne nel ruolo dei ricercatori. L’indice GCI tra associato ed ordinario è pari a 1,66, cioè la quota di donne nel ruolo di ordinario è inferiore del 66% rispetto alla quota di donne associato. Complessivamente la quota di donne nei ruoli di ricercatore e associato è quasi doppia rispetto alla quota di donne ordinario (GCI=1,96). Nel 2010, i 27 stati dell’Unione Europea avevano un valore medio del GCI di circa 1,8 per la posizione più elevata nelle carriere accademiche, e nessun paese mostrava un valore vicino a 1. Per quanto attiene all’abilitazione scientifica nazionale, la quota di donne tra gli abilitati ad associato è stata del 39,3% e la quota di donne tra gli abilitati ad ordinario è stata del 28,9%. I risultati ASN appaiono del tutto in linea con quanto avvenuto nei concorsi locali 2008/2012 dove le donne rappresentavano il 38,2% dei nuovi associati ed il 26,3% dei nuovi ordinari. (Fonte: A. Baccini, Roars 28-10-2014)


DOTTORATO

UNA DICHIARAZIONE DEL CUN SUL DOCUMENTO ANVUR «LA VALUTAZIONE DEI CORSI DI DOTTORATO»
Roars ha segnalato ai lettori la dichiarazione del CUN sul documento ANVUR «La valutazione dei corsi di dottorato». Il CUN ritiene “opportuno un urgente e profondo ripensamento della valutazione dei Dottorati di ricerca, su basi più solide delle attuali e più condivisibili a livello nazionale e internazionale”, segnalando che le “criticità di carattere strutturale delle procedure di valutazione dei Corsi di dottorato potrebbero avere ricadute negative e durature sull’intero sistema universitario e sulla stessa capacità di innovazione, competitività e crescita dell’intero Sistema Paese”. Infine, il CUN “ritiene che occorra fare chiara distinzione tra il momento della valutazione e quello delle scelte politiche sulla ripartizione dei fondi, la cui responsabilità è comunque del Ministro”. (Fonte 04-11-2014)

IV INDAGINE SUL DOTTORATO E SUL POST DOC IN ITALIA A CURA DELL’ADI, L'ASSOCIAZIONE DEI DOTTORANDI E DEI DOTTORI DI RICERCA ITALIANI
L’indagine restituisce un quadro a tinte fosche del sistema universitario italiano e delle prospettive occupazionali dei ricercatori alla luce della “cura Gelmini”, del decreto ministeriale 45 del 2013 e delle linee guida per l'accreditamento dei corsi di dottorato dell'Anvur. I dati sono così riassumibili: nell'ultimo anno molte università hanno aumentato il livello di tassazione per gli iscritti ai corsi di dottorato; il sistema di reclutamento è sostanzialmente bloccato ed i livelli di remunerazione e di riconoscimento delle tutele sono nettamente inferiori rispetto ai migliori standard europei. Tali criticità sono aggravate da politiche di bilancio che hanno visto una drastica riduzione delle risorse destinate alla ricerca. Nel dettaglio, dal 2008 in poi gli atenei dello Stivale versano in una condizione di sotto finanziamento che acuisce le forme di precariato tra i ricercatori: basti pensare che nel 2013 la metà di loro non era inquadrabile in una figura professionale strutturata. Ed ancora: si registrano una contrazione dei posti messi a bando pari al 19 per cento e una riduzione delle borse di studio del 16 per cento, non compensate peraltro da forme di finanziamento privato.
I dati smentiscono seccamente la retorica secondo cui i dottori ed aspiranti tali sarebbero addirittura troppi: “Al contrario, sono troppo pochi – replica la senatrice accademica Ilaria Colazzo – e non va trascurata la situazione dei dottorandi senza borsa: intendiamo chiedere alla Regione Puglia, infatti, di destinare una borsa regionale a totale copertura di queste figure che, evidentemente, non funzionano. Quest’invenzione, fallimentare, si è dimostrata solo un escamotage per sfruttare gli studenti”. L’indagine non ha dimenticato di sottolineare anche le vistose asimmetrie tra il Nord ed il Sud del Paese, dovute a forme di finanziamento ben diverse, dimostrando come tre Regioni (Lombardia, Emilia Romagna e Campania) da sole detengano la metà dei posti italiani messi a bando. (Fonte: M. Schirinzi, www.lecceprima.it  04-11-2014)


FINANZIAMENTI

DIVARIO NEL FINANZIAMENTO DELLA FORMAZIONE TERZIARIA RISPETTO AGLI ALTRI PAESI EUROPEI
È documentato (Education at a Glance 2014) come l’Italia si sia caratterizzata come Paese con una spesa relativamente elevata nei segmenti iniziali dell’istruzione, comparativamente ad altri paesi europei. Tuttavia, questa percezione deve essere aggiornata alla luce dei dati più recenti. Notiamo come il nostro Paese superi (o sia in linea con) ancora le medie di spesa in area Oecd o Europa a 21 solo per i segmenti della scuola dell’infanzia e primaria, arretrando gradualmente a livello secondario e rimanendo distanziato in modo netto a livello terziario.
Il divario più consistente da colmare con i Paesi europei risiede chiaramente nella formazione terziaria piuttosto che nella scolarità dell’obbligo. L’investimento aggiuntivo di cui si parla nella proposta sulla “buona scuola” è pari alla metà di quanto attualmente viene destinato come Fondo di finanziamento ordinario per l’intero sistema universitario, e sarebbe quindi in grado di incoraggiare una ripresa delle iscrizioni universitarie ormai in declino da qualche anno. I corsi universitari sono tornati a essere affollati oltre misura, per via del calo degli organici non sostituiti negli ultimi cinque anni (-9294 nel quinquennio 2008-2013, pari a -15 per cento). Offrire agli studenti migliori condizioni di studio, oltre a prospettive di ricerca ai migliori dottorandi, può permettere una ripresa dell’offerta formativa senza scivolare negli eccessi che accompagnarono l’avvio della riforma del 3+2. Viceversa la destinazione dell’investimento aggiuntivo alla formazione primaria, sbilanciata più all’assunzione di insegnanti che alla messa a norma degli edifici rischia di dirottare risorse preziose e politicamente molto costose a un miglioramento del sistema scolastico che può essere molto marginale rispetto ai buoni risultati attualmente già conseguiti. (Fonte: D. Checchi, lavoce.info 31-10-2014)

COME CAMBIA IL SISTEMA DI ASSEGNAZIONE DEI FONDI ALLE UNIVERSITÀ
Da quest’anno i fondi assegnati in base al merito peseranno di più: la quota premiale sale infatti dal 13,5 al 18 per cento. È questa la novità principale del decreto di ripartizione del Fondo per il Finanziamento Ordinario (FFO), firmato dal ministro Giannini e inviato al vaglio della Corte dei conti, che introduce per la prima volta anche i cosiddetti «costi standard», un nuovo parametro legato a un complesso sistema di calcolo che dovrebbe servire ad archiviare definitivamente le storture legate alla distribuzione dei fondi su base storica.
In linea con gli anni scorsi, il Fondo di finanziamento ordinario ammonta, per il 2014, a poco più di 7 miliardi di euro. Ma la quota premiale quest’anno pesa sensibilmente di più (1,2 miliardi) e sarà calcolata tenendo in considerazione anche l’esposizione internazionale, con particolare attenzione alla partecipazione al programma Erasmus. Anche se il parametro principale resta quello legato alla valutazione della ricerca (che pesa per il 70%) ovvero alla «classifica» delle università licenziata non senza strascichi polemici a luglio 2013 dall’Anvur, l’ente di valutazione del sistema universitario.
Ma la vera novità riguarda il «costo standard» di formazione per studente in corso, pari a un miliardo per il 2014 (ovvero al 20 per cento della quota base, ma destinato a crescere nei prossimi anni, fino a coprire il 100 per cento nel 2018). Un sistema inedito che punta ad agganciare lo stanziamento delle risorse alla qualità dei servizi offerti agli studenti in modo da evitare, come invece è successo l’anno scorso, che la Bicocca di Milano (capolista nella classifica Anvur insieme al Bo di Padova) prenda meno soldi di quella di Messina che stava in fondo. Il costo standard viene calcolato attraverso una formula che mette in relazione i costi che gli atenei sostengono per i diversi corsi di studio (costi dei docenti, degli amministrativi e tecnici, di funzionamento) alla popolazione studentesca in corso, e solo in corso. Il Miur fa sapere che per evitare sperequazioni è previsto un correttivo territoriale basato proprio sul contesto economico e sottolinea che la «clausola di salvaguardia» che stabilisce un tetto massimo di riduzione dei fondi è stata abbassata passando dal 5 al 3,5 per cento del 2013, «ma nessuno scenderà sotto il 2,7 per cento». (Fonte: O. Riva, www.corriere.it/scuola/universita 31-10-2014)

FINANZIAMENTI. VECCHI VIZI DA CAMBIARE: FFO A FINE ANNO E CLAUSOLE DI SALVAGUARDIA
Di costi standard si favoleggia da anni, e con il decreto sui finanziamenti statali firmato dal ministro Giannini  l'università è il primo settore che prova davvero ad applicarli su larga scala. Di questo va dato atto al ministro e al Governo, ma anche ai rettori che non si sono messi di traverso a difendere l'esistente ma hanno sostanzialmente accompagnato l'avvio della riforma. Questo, però, è solo il primo passo, perché per dare realmente efficienza e trasparenza al sistema universitario il cammino è ancora lungo. La prima prova arriva dal fatto che oggi, a due mesi dalla fine dell'anno, stiamo discutendo dei fondi 2014, mentre qualsiasi principio di programmazione imporrebbe di far conoscere a ogni ateneo (a ogni pubblica amministrazione, in verità) all'inizio dell'anno le risorse che ha a disposizione, per poter decidere davvero come spenderle. Il decreto a fine anno, si dirà, è un vecchio vizio, e oggi è giustificato anche dalla profondità dei cambiamenti: tutto vero, ma dal 2015 bisogna cambiare. Un'altra prassi da abbandonare presto è quella delle «clausole di salvaguardia»: si possono scrivere i parametri di finanziamento più raffinati, ma se poi si decide che nessuno può perdere più del 2-3% dei soldi ricevuti l'anno prima, si finisce per perpetuare i vecchi sistemi. Anche queste cautele possono essere motivate con l'obiettivo di accompagnare il cambio di sistema, una giustificazione che può reggere quest'anno ma non il prossimo: se i criteri saranno quelli giusti, infatti, ogni euro perso da chi spreca sarà un euro guadagnato da chi fa più didattica e ricerca. (Fonte: G. Trovati, IlSole24Ore 01-11-2014)


FORMAZIONE. LAUREE. OCCUPAZIONE

AL VIA LA MODIFICA DEGLI ORDINAMENTI DELLE PROFESSIONI TECNICHE DEI DIPLOMATI
Vi è la necessità di armonizzare i vecchi regolamenti professionali, di periti e geometri, all'evoluzione della nuova normativa, riforma delle professioni e della scuola, operando una semplificazione (uno solo al posto di quattro). Ma soprattutto di chiarire se per gli accessi sarà sufficiente il titolo rilasciato dalla nuova scuola tecnica riformata dalla Gelmini o servirà una laurea triennale. Il punto è che secondo le norme che arrivano dall'Europa (mai applicate in realtà in Italia) per esercitare una professione intellettuale è necessario il possesso di una laurea triennale o di un titolo equivalente. Un titolo equivalente che, però, allo stato attuale in Italia non esiste, visto che gli Its, gli Istituti tecnici superiori, o gli Ifts, gli Istituti di formazione tecnica superiore, non solo sono strutturati su un biennio ma non sono tarati sul riconoscimento dei crediti formativi universitari.
Gli Its sono strutture speciali ad alta tecnologia costituite con l'intento di riorganizzare il canale di formazione superiore non universitaria. Pensati già dalla legge Bersani, confermati dalla Finanziaria 2007, gli Its sono stati introdotti nell'ordinamento nazionale dal dpcm del 25/1/08 e ripresi nel piano Industria 2015 dall'ex ministro dell'istruzione Gelmini. Insieme agli Ifts compongono la terza gamba dell'istruzione e della formazione tecnica, offrendo corsi biennali, riconosciuti a livello europeo, per formare tecnici specializzati in settori produttivi ancora poco conosciuti, dalla mobilità sostenibile alla comunicazione, dai beni culturali al made in Italy. Dunque le imprese che hanno fame di super-tecnici, hanno un nuovo bacino cui attingere. Ma il mondo delle professioni? Si è molto discusso sulla spendibilità di questo titolo per l'accesso all'albo e ancora se ne discute. Certo è che per renderlo quanto meno equipollente è necessario un provvedimento di riconoscimento dei crediti acquisiti negli Its, a livello universitario. Cosa che fino ad ora non è stata fatta. Nel frattempo al Miur si lavora alla modifica degli ordinamenti delle professioni tecniche dei diplomati, modifica necessaria alla luce di tutti gli interventi legislativi che sono intervenuti nell'ultimo decennio. Tra i più significativi: il dpr 328/01 che ha stabilito che agli esami di Stato si accede anche con la laurea triennale per queste categorie; la riforma degli istituti tecnici attuata dall'ex ministro Gelmini che ha razionalizzato gli indirizzi, raggruppandoli in un settore tecnologico con nove specializzazioni. E infine il dpr di riforma Severino (137/12) che, invece, è intervenuto in maniera significativa sul tirocinio professionalizzante riducendolo dai 24/36 mesi a un massimo di 18 mesi. (Fonte: ItaliaOggi 10-11-2014)

DOPPIE LAUREE. PIÙ DI 400 I CORSI CHE PORTANO AL DOPPIO TITOLO
I «double degree», le doppie lauree, stanno entrando in maniera massiccia nell’offerta formativa delle università: più di 400 i corsi che portano al doppio titolo, distribuiti a macchia di leopardo in atenei pubblici e privati, dal Sud al Nord. Garantiscono ai giovani laureati di sistemarsi più facilmente, in Italia o altrove, senza l’incomodo di sostenere esami aggiuntivi. «Sono percorsi formativi progettati con atenei di tutto il mondo, che prevedono lunghi periodi all’estero nei quali si sostengono esami in inglese o nella lingua del Paese di destinazione», spiega A. Cofler, responsabile del Settore Affari Internazionali dell’università Bicocca di Milano. Si può studiare Architettura al Politecnico di Milano e insieme anche in Messico, Venezuela, Turchia; Agraria a Padova e in Danimarca, ottenendo due titoli validi in entrambi i Paesi; Filosofia a Bologna e in Germania; Sociologia a Trento e in Spagna; Cooperazione internazionale alla Sapienza di Roma e in Colombia; Ingegneria delle Telecomunicazioni al Politecnico di Torino e in Cina. Centinaia di «doppie» porte, aperte sul mondo. «La tesi di laurea viene discussa in Italia, ma spesso c’è la partecipazione via Skype della commissione dell’università convenzionata, che può essere a migliaia di km di distanza» - spiega la docente milanese. E, alla fine, due pergamene (double degree, appunto), con timbro e firma dei diversi rettori, oppure un unico titolo «europeo», con curriculum integrato (joint degree), riconosciuto da tutti gli atenei coinvolti. Un diploma simile è una strada spianata per accedere a contesti internazionali, partecipare a concorsi, accedere a dottorati, inserirsi nel mondo del lavoro di un Paese straniero. (Fonte: A. De Gregorio, http://tinyurl.com/namdapj 11-11-2014)

POSTGRADUATE MOBILITY TRENDS TO 2024. DA DOVE VERRANNO E DOVE ANDRANNO, DA QUI A 10 ANNI, I LAUREATI CHE PROSEGUIRANNO I PROPRI STUDI ALL'ESTERO
È quello che cerca di stabilire il rapporto Postgraduate Mobility Trends to 2024, redatto dal British Council e pubblicato nei giorni scorsi. Quali gli scenari prevedibili? Come già negli ultimi anni, nel 2024 sarà ancora la Cina a sfornare il maggior numero di laureati che si sposteranno: si prevede che saranno in 338.000 a lasciare il Paese asiatico per continuare gli studi specialistici in un’altra nazione. Grazie a un cospicuo aumento demografico, il Paese con il più alto numero di giovani fra i 18 e i 22 anni sarà però l’India; quest’ultima avrà anche la maggior quantità di studenti al mondo, 48 milioni contro i 37 milioni della Cina: per approfondire gli studi, però, si sposteranno all’estero “solo” 209.000 laureati indiani.
L’aumento del tasso d’istruzione nel mondo si è verificato nel recente passato anche in risposta al bisogno di risorse umane qualificate nelle economie in espansione, soprattutto in Asia. Nel 2024 l’aumento percentuale più consistente di studenti post-lauream in uscita si verificherà presumibilmente in Nigeria (+8.3), India e Indonesia, paesi a economia crescente e saldo demografico decisamente positivo.
Situazioni molto diverse da quella dell’Italia, dove a una contrazione della natalità ne corrisponderà una relativamente maggiore del numero assoluto di iscrizioni all’Università a causa degli effetti di lungo periodo della crisi e della perdurante difficoltà del mercato del lavoro nell'assorbire adeguatamente professionalità elevate. E lo stesso pare debba accadere, sempre a causa della denatalità, in Germania e Russia, fra gli altri. Nel nostro Paese però è previsto un saldo comunque positivo nel campo della mobilità post-lauream, con 4.000 studenti laureati in uscita in più (+2,5%).
E se dall’Italia i giovani studiosi si muoveranno soprattutto verso la Gran Bretagna (in 7.000), la Germania (6.200) e gli Stati Uniti (1.800), a queste mete più che consolidate si aggiungeranno l’Australia e il Canada, con un aumento di spostamenti rispettivamente del +4,2% e +3,7%. Certo non c’è paragone, ragionando numericamente, con i grandi flussi che si muoveranno dalla Cina verso gli Stati Uniti (154.000 studenti), la Gran Bretagna (85.000) e l’Australia (44.000), o che sposteranno 138.000 studenti laureati indiani verso l’America e 24.000 verso l’Australia. Si è da tempo invece già modificata in modo rilevante la tradizionale direttrice India (e Pakistan) – Gran Bretagna, già avviata verso un forte declino negli ultimi anni, e destinata a indebolirsi ulteriormente. In sostanza, gli Stati Uniti continueranno a essere la meta preferita degli studenti laureati internazionali, che nel 2024 lì arriveranno in 407.000, con un aumento di 154.000 unità. Ottime performance sono previste anche per Gran Bretagna, che ospiterà 241.000 studenti, Germania con 113.000 e Australia con 112.000. (Fonte: C. Mezzalira, IlBo 30-10-2014)

OCCUPAZIONE DEI LAUREATI
Quando si parla di lavoro non tutte le lauree sono uguali. Esistono discipline che portano (molto) più facilmente a un impiego e altre meno, campi in cui il reddito è maggiore e altri ancora dove ci si deve arrangiare con quanto si trova. Qual è la situazione italiana? Il consorzio Alma Laurea ha raccolto proprio questi dati intervistando ex studenti di diverse facoltà italiane. Ecco cosa dicono tre anni dopo aver conseguito il titolo. L’occupazione, intanto: quanti sono quelli che lavorano? Nel 2013 a cavarsela meglio sono soprattutto medici e ingegneri, insieme ai laureati del settore scientifico. Subito dopo viene chi si occupa di insegnamento, che tra l’altro è l’unico campo di studio in cui l’occupazione dei neo-laureati è in crescita negli ultimi anni. Sono invece messe male le facoltà più “classiche”: fra i laureati in giurisprudenza lavora poco più di uno su due – di gran lunga l’ambito peggiore. Restano in fondo alla classifica, anche se le cose vanno già meglio, gli ambiti letterari e psicologia, insieme al settore politico-sociale (che comprende appunto anche scienze politiche). Negli ultimi quattro anni, comunque, la situazione è peggiorata praticamente per tutti. Ma in particolare l’occupazione diminuisce per i laureati in discipline economico-statistiche (-7,4 punti percentuale dal 2010), politico-sociali (-7,8) e letterarie (-8,6).

SVILUPPI DELLA PROFESSIONE MEDICA
Fare oggi una fotografia di come si svilupperà la figura del medico nei prossimi anni significa valutare e analizzare le possibili sfide future con le quali la professionalità medica dovrà confrontarsi e offrire un’analisi dei percorsi formativi che, sempre di più, dovranno adeguarsi alle richieste del “mercato". Pensiamo ad esempio al processo di invecchiamento della popolazione che ricercherà nel prossimo futuro geriatri, fisioterapisti, cardiologi.
In relazione al futuro della professione medica, quello che sembra preoccupare maggiormente riguarda la sempre più evidente carenza di camici bianchi in alcune aree specialistiche.
Leggendo alcuni dati del Sindacato ospedaliero italiano "Anaao Assomed", emerge come alcune specializzazioni siano più in crisi di altre. Lo studio parte da una considerazione di fatto:
tra il 2012 e il 2021 circa la metà degli ospedalieri italiani andrà in pensione, con un picco previsto per l'anno 2017 quando oltre 7mila medici chiuderanno i loro contratti. In totale saranno circa 61 mila i medici che in questo decennio potranno andare in pensione. A fronte di questa uscita, se ne specializzeranno solo 50mila. Di questi almeno il 30% deciderà di lavorare nel privato. Entreranno quindi 35mila medici, di cui 5mila faranno i medici di famiglia e non andranno in corsia. Le specializzazioni che secondo la ricerca di Anaao Assomed avranno maggiori carenze saranno Medicina interna, che in dieci anni vedrà uscire 4200 camici bianchi con un rientro stimato in 2250 unità. Segue Chirurgia Generale che in dieci anni avrà 950 specializzazioni in pneumologia (meno 580), Anestesisti (380 in meno) e poi i Pediatri, che tra gli ospedalieri e quelli di famiglia, subiranno una riduzione pari a 3400 unità. (Fonte: Il Messaggero 31-10-2014)

LAUREATI ESTERI IN ITALIA. UN IDENTIKIT
I laureati di cittadinanza estera che scelgono di studiare nel nostro Paese sono più frequenti nel gruppo linguistico (5,6%), in quello medico e odontoiatrico (4,9%). Mentre sono meno del 2% del totale i laureati esteri che scelgono di frequentare un indirizzo di studio nei gruppi di educazione fisica, insegnamento, geo-biologico, giuridico e psicologico. Tra gli atenei che aderiscono ad AlmaLaurea quelli in cui si registra una maggiore presenza di cittadini esteri sono: Perugia Stranieri (28,7%), Scienze Gastronomiche Bra (18,7%), Siena Stranieri (17,9%), seguiti da Bolzano (14,3%); i laureati di cittadinanza estera sono frequenti anche al Politecnico di Torino (12,1%), Trento (6,6%), Trieste (6,2%) e Camerino (5,9%). Dall’indagine emerge una maggiore presenza di laureati esteri negli atenei del Nord e del Centro Italia (4,6% al Nord e 4,2% al Centro, 0,9% al Sud, 0,5% nelle Isole). Secondo i dati di AlmaLaurea la quasi totalità dei cinesi arriva in Italia solo dopo aver concluso la scuola superiore (l'89%), mentre il 56% dei cittadini rumeni, il 43% dei cittadini delle Americhe e il 42% dei cittadini albanesi arriva in Italia prima di conseguire il titolo di scuola secondaria di secondo grado. Entrando nel merito del background familiare d'origine, i dati dell'Indagine mostrano che il contesto socioeconomico dei laureati esteri è tendenzialmente più elevato rispetto a quello degli stessi laureati italiani: 42 laureati stranieri su 100 hanno almeno un genitore laureato, è il 27% tra i laureati italiani. Tra i laureati esteri vi sono comunque delle differenze tra le diverse aree di provenienza: gli africani provengono da contesti culturalmente più svantaggiati; al contrario, provengono da famiglie con genitori molto istruiti i laureati americani (49%), i laureati provenienti dall'Asia e Oceania (il 45%; esclusa Cina), i cinesi (43%) e gli albanesi (34%). L’indagine mette inoltre in luce che durante gli studi universitari il 57% dei laureati esteri ha fruito di una borsa di studio, contro il 21% dei laureati italiani. (Fonte: AlmaLaurea e IlSole24Ore 03-11-2014)


RECLUTAMENTO

LA DIFFICOLTÀ DI PROMUOVERE UN ESTERNO COME ASSOCIATO
Far diventare un ricercatore professore associato “costa” 0,2 punti organico, assumere un associato di un altro ateneo o esterno ne costa 0,7. Facciamo un esempio: Un dipartimento di Milano ha 1,6 punti organico da spendere e 10 ricercatori abilitati. Un dipartimento di Roma ha 0,8 punti organico e 5 ricercatori abilitati. Se a Milano riescono ad assumere solo ricercatori dell'Università di Milano possono assumere 8 dei 10 ricercatori abilitati. La stessa cosa possono fare a Roma promuovendo 4 ricercatori locali a patto di riuscire a non assumere nessun esterno. Ma se per caso il miglior ricercatore abilitato di Milano vince un concorso a Roma il sistema va in tilt. A Roma i punti organico sono terminati e nessun abilitato romano potrà ambire alla promozione. In pratica Roma e Milano perdono 3 posti di associato per ogni esterno che vince. Non importa se sia un ricercatore di altra università (e quindi il saldo per il ministero sarebbe invariato!) o un precario o un cervello in fuga che vuole ritornare, l'importante è che non vinca. La perversione insita nel sistema è ovvia. La partita dei dipartimenti di Roma e Milano potrebbe finire con 3 vincitori di concorso (tutti esterni) o 12 vincitori (tutti interni)! Mettetevi al posto di un direttore di dipartimento, cosa cerchereste di ottenere? Possibile che non si possa immaginare un meccanismo di trasferimento delle risorse da un ateneo all’altro così che almeno per chi è già nell’accademia italiana assumere un esterno non rappresenti una iattura? (Fonte: P. Brunori, http://tinyurl.com/l3s8crn 03-11-2014)


RETRIBUZIONI

ESCLUSI DOCENTI UNIVERSITARI E DIRIGENTI DI POLIZIA DALLO SBLOCCO DEGLI SCATTI DI STIPENDIO
Lo sblocco delle promozioni e degli scatti automatici di stipendio legati alI'anzianità di servizio, promessi dal governo soprattutto a militari e Forze di polizia, è stato inserito nella legge di stabilità. Ma non si applicherà a tutti. Resteranno esclusi, almeno per ora, tutti i dipendenti pubblici «non contrattualizzati». A prevederlo è l'articolo 21 del disegno di legge che ha appena iniziato il suo iter alla Camera dei deputati. Si tratta delle posizioni di vertice della macchina statale. Nel caso della Polizia, per esempio, a non ricevere neanche il prossimo anno gli aumenti di stipendio legati agli scatti di anzianità, saranno i dirigenti generali, i questori e i primi dirigenti. Per i militari l'adeguamento non si avrà dal grado di colonnello in su. Ma fuori rimarranno anche altre categorie come i professori universitari, e, secondo la definizione della norma, potrebbe riguardare anche i ministri e i sottosegretari. Per tutti gli altri dipendenti pubblici, pur rimanendo bloccato per un altro anno il rinnovo del contratto, dovrebbe almeno riprendere la dinamica legata alla carriera, permettendo agli stipendi di salire nel caso in cui siano previsti scatti automatici o nel caso di promozioni di carriera. Secondo la relazione tecnica che accompagna la legge di stabilità, il blocco per dirigenti di polizia, docenti universitari e per le altre categorie non contrattualizzate del pubblico impiego, dovrebbe permettere un risparmio annuo di 40 milioni di euro. (Fonte: Il Messaggero 31-10-2014)
  
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA: SIAMO INDIETRO COME NUMERO DI RICERCATORI DECENTEMENTE PAGATI
I giovani ricercatori dovrebbero essere pagati decentemente. Questo l'appello lanciato da Giorgio Napolitano durante la cerimonia in occasione della Settimana della ricerca contro il cancro. "Siamo al settimo posto nelle classifiche sulla ricerca scientifica - ha ricordato il Capo dello Stato - ma scusatemi se tocco un tasto indecoroso: siamo indietro come numero di ricercatori e, soprattutto, siamo indietro come numero di ricercatori decentemente pagati". (Fonte: AGI 06-11-2014)


RICERCA. RICERCATORI

È L’AUTUNNO CALDO DELLA RICERCA
L’Europa è in crisi, ma forse quello che non era stato finora abbastanza chiaro è che a essere in crisi – profonda crisi – è il cuore pulsante della sua promessa di sviluppo: la Ricerca. Sappiamo anche che le condizioni della ricerca europea sono molto differenziate, con una netta contrapposizione tra i Paesi del centro e del sud dell’area, con quote di investimento sul PIL che variano tra il 3% (e talvolta lo superano) e poco più dell’1%. Ma le strette finanziarie imposte ai governi hanno creato un’ulteriore frattura e reso nel complesso molto più asfittico tutto il finanziamento a questa attività. Se ne è accorta molto bene la Francia, che ha voluto così lanciare l’allarme, con l’ambizione di contagiare l’opinione pubblica europea e creare un movimento di pressione per sollecitare un’inversione di tendenza. È l’autunno caldo della ricerca, che è iniziato con una grande manifestazione – quella della Francia, appunto – originale e d’effetto: dal 27 settembre al 18 ottobre i ricercatori dell’Università di Montpellier si sono cimentati in una maratona ciclistica con destinazione Parigi, per chiedere che sia almeno triplicato l’investimento nella ricerca di base. La risposta europea al richiamo dei francesi non ha tardato a farsi sentire. Nasce, infatti, quasi in parallelo, il manifesto promosso da nove ricercatori europei che denuncia, in modo forte e chiaro, lo stato di abbandono in cui versa la ricerca del vecchio continente, a cominciare dal titolo: Hanno scelto l’ignoranza. “Hanno scelto l’ignoranza” è anche il “mantra” che attraversa l’intero manifesto e che scandisce ogni singolo importante passaggio di un messaggio complesso. Quello che la ricerca è il fondamento di un nuovo modello di sviluppo basato sulla conoscenza; che il suo finanziamento non può seguire i cicli politici; che a lungo termine, l’investimento sostenibile in R&S è fondamentale perché la scienza è una gara sulla lunga distanza; che alcuni dei suoi frutti potrebbero essere raccolti ora, ma altri possono richiedere generazioni per maturare; che, se non seminiamo oggi, i nostri figli non potranno avere gli strumenti per affrontare le sfide di domani.  (Fonte: D. Palma, http://tinyurl.com/oh52utf 12-11-2014)

RICERCATORI. CON IL SISTEMA DEI PUNTI ORGANICO NON CONVIENE ASSUMERE CHI HA VINTO FINANZIAMENTI ESTERNI PER PROGETTI COMPETITIVI
La riforma Gelmini ha cancellato la figura del Ricercatore a tempo indeterminato, rendendo quello del Ricercatore un ruolo ancora strutturato all’interno dell’Università ma a tempo determinato. Tale figura precaria prevedeva però uno scivolo verso il ruolo di Professore associato per coloro i quali fossero riusciti a conseguire l’abilitazione scientifica nazionale a Professore di seconda fascia. Ma ecco che emerge il quesito cruciale: conseguire l’abilitazione è una condizione sufficiente o solamente necessaria per raggiungere il sospirato ruolo di Professore associato? Ed ecco la trovata: vengono predisposte due diverse figure di ricercatore a tempo determinato: uno di tipo A e uno di tipo B. Cosa cambia, solo una lettera? Tutt’altro. È solo il ricercatore di tipo B a vedere l’eventuale conseguimento dell’abilitazione come una condizione sufficiente per l’accesso al ruolo. Per il ricercatore di tipo A, invece, alla sua condizione già precaria, viene anche negata una prospettiva sicura in caso di conseguita abilitazione; questa infatti non costituisce un criterio sufficiente per l’accesso al ruolo e potrebbe finire per diventare solamente una riga prestigiosa da aggiungere al curriculum vitae. È finita qui? Affatto. Infatti, in base all’attuale sistema dei punti organico, di cui lo stesso C.U.N. nell’ultimo documento sul reclutamento auspica l’immediata soppressione, il costo che deve fronteggiare un Dipartimento per l’assunzione di un Professore associato corrisponde alla differenza tra 0.7 punti organico (il costo intero di un Professore associato) e il costo con cui il neo assunto già gravava sul bilancio del Dipartimento prima del passaggio di ruolo. Ciò implica che un ricercatore già finanziato dal Dipartimento (il cui costo è di 0.5 punti organico) necessita di soli 0.2 punti per il passaggio a Professore associato. Ma il costo per il passaggio di un Ricercatore finanziato su fondi esterni è invece pari a 0.7 punti organico, che è esattamente il costo della chiamata di un Professore associato esterno all’Università. Insomma, per l’assunzione di un ricercatore che sia stato capace di procacciarsi i fondi per la propria attività sulla base di progetti di ricerca finanziati da bandi esterni all’Università, il Dipartimento deve pagare più del triplo rispetto a un ricercatore già precedentemente  finanziato dal Dipartimento stesso. Appare evidente come il sistema di reclutamento che deriva dal farraginoso meccanismo dei punti organico esponga al rischio, concreto, di causare un’ingente perdita di personale qualificato a ciascun Dipartimento e di vanificare l’abilitazione scientifica nazionale di molti Ricercatori che hanno avuto la “colpa” di reperire autonomamente i fondi per la propria attività di ricerca. (Fonte: R. Giuntini, Corsera Scuola 19-10-2014)

RICERCATORI. SCARSE RISORSE E ANCHE NULLE PER LA RICERCA SUGLI EVENTI METEO
In Francia alla ricerca si dedica una percentuale doppia del prodotto interno lordo rispetto a quella investita nella Penisola, sempre intorno all’1 per cento. E nonostante cambino i governi, l’atteggiamento non cambia. Questo ci colloca al 32° posto su 37 dei Paesi dell’Ocse per gli investimenti nelle università. Eppure le capacità e i risultati emergono di continuo. All’inizio di quest’anno dei 312 Consolidator Grants assegnati dall’European Research Council 46 sono stati vinti da ricercatori italiani: un record, visto che erano solo due in meno rispetto a quelli ottenuti dai tedeschi. Gli stessi francesi e inglesi si erano attestati a un livello più basso. La maggior parte dei nostri ricercatori, e dei fondi a loro assegnati (50 milioni contro 20) nell’occasione, andranno però a centri stranieri dove i nostri scienziati svolgeranno il programma stabilito. Si continua a parlare (molto sommessamente) dell’ipotesi di riforma degli enti di ricerca, ma i piani del governo persistono in un distacco che promette poco di buono. Per fare un esempio d’attualità, è in corso a livello europeo un piano di ricerca sugli eventi meteorologici estremi nell’area mediterranea analoghi a quelli che hanno causato disastri e vittime a Genova. I ricercatori italiani interessati vi possono partecipare a titolo volontario senza essere pagati, perché, a differenza delle altre nazioni, non viene assicurato alcun finanziamento. Eppure i disastri si ripetono, e non è fatalità.
(Fonte: G. Caprara, www.corriere.it/scuola/universita 14-10-2014)        

RICERCATORI E ASSEGNISTI. CARRIERE BLOCCATE
Solo un ricercatore precario su 100 nelle università italiane ha davanti a sé una possibilità vera di stabilizzazione, gli altri 99 stanno perdendo tempo. O, più semplicemente, stanno preparando le valigie per andare altrove, a molti chilometri di distanza da un'Italia che, lontano dai proclami dei consigli dei ministri di governi di ogni colore politico, non riesce a fare nulla per i suoi cervelli.
L'Apri, associazione dei precari della ricerca, ha analizzato i dati attuali del ministero dell'università. Il ritratto che ne è emerso non è dei più lusinghieri per le università e per la politica italiana. Esistono 2450 ricercatori a tempo determinato di tipo A, cioè quelli che hanno durata triennale, rinnovabili per altri due anni e poi fine, si fermano lì, non possono fare altro. Ci sono 15.237 titolari di assegni di ricerca di vario tipo, in pratica persone che lavorano nelle facoltà come dei borsisti, dopo essersi procurati da soli i fondi per la loro attività ma che non otterranno mai alcuna stabilizzazione. Ed esistono 224 fortunati ricercatori a tempo determinato di tipo B, con contratti di tre anni, gli unici che possono portare alla promozione a professore associato se, al termine dei tre anni, avranno conseguito l'Abilitazione Scientifica Nazionale. Sono 224 persone in tutt'Italia, assunte con contratti basati su una legge del 2010 che ha portato ai primi bandi solo dopo tre anni di attesa, nel 2013. A queste condizioni, quasi 99 ricercatori su 100 saranno espulsi dal sistema accademico, una cifra ancora più negativa di quella dello scorso anno. (Fonte: F. Amabile, La Stampa 03-11-2014)

UN’ASSOCIAZIONE ITALIANA PER LA PROMOZIONE DELLA SCIENZA APERTA
L’accesso aperto alle pubblicazioni e ai dati della ricerca scientifica potenzia la diffusione su scala internazionale, comprime il tasso di duplicazione degli studi, rafforza l’interdisciplinarità, agevola il trasferimento della conoscenza alle imprese e la trasparenza verso la cittadinanza, aiuta a garantire la conservazione nel tempo. Redazione Roars riporta di seguito l’invito ad aderire alla prossima costituzione di un’associazione italiana per la promozione della scienza aperta. Il principio dell’Open Access (accesso aperto) vuole che i risultati – pubblicazioni e dati – della ricerca scientifica siano messi gratuitamente a disposizione del pubblico su Internet concedendo a ricercatori e lettori ampi diritti di riutilizzo. L’Open Access (OA) mira ad abbassare le barriere tecnologiche, economiche e giuridiche che si frappongono tra il pubblico e i risultati della ricerca creando discriminazioni all’interno della stessa comunità scientifica. Il principio dell’accesso aperto risponde all’imperativo morale della pubblicità della scienza e ai valori costituzionali di promozione dello sviluppo della cultura, della ricerca scientifica e tecnica, nonché della libertà accademica e scientifica. Molti sono gli ostacoli che si oppongono a un’effettiva, completa e sistemica attuazione delle politiche di apertura con riguardo alle pubblicazioni, ai dati, alle tecnologie (Open Source), e alle risorse formative on line (c.d. Open Educational Resources). Al fine di superare gli ostacoli, si ritiene necessaria la nascita di un soggetto giuridico che possa condurre, con flessibilità e rapidità, le azioni concrete necessarie a diffondere una cultura dell’apertura della scienza che colga pienamente le possibilità offerte dall’era digitale. Per questi motivi, si propone la costituzione di un’associazione italiana per la promozione della scienza aperta. La proposta è firmata da 23 docenti, vedi  http://tinyurl.com/q6advhj . Chi è interessata/o ad associarsi, è pregato di comunicarlo con una lettera di intenti entro il 31 gennaio al seguente indirizzo e-mail: roberto.caso@unitn.it. (Fonte: Redazione Roars 11-11-2014)

CINECA. IRIS. UN PASSO AVANTI VERSO L’ANAGRAFE DELLA RICERCA
Sotto il ministro Profumo per ragioni di razionalizzazione dei costi i consorzi italiani (Cineca, Cilea e Caspur-Ciber) si sono fusi in un unico soggetto che ha mantenuto il nome Cineca. Cineca aveva elaborato Ugov Ricerca (distribuito a 46 atenei) mentre Cilea aveva progettato Surplus (utilizzato da 8 atenei). Non aveva senso per il nuovo consorzio portare avanti due sistemi, per cui per circa un anno (il 2013) Cineca si è sforzato di metterli insieme creandone uno nuovo, IRIS. Un passo in avanti verso la tanto sospirata Anagrafe della ricerca. In che modo questo passaggio a uno strumento unico per tutti gli atenei si connette al discorso sulla futura anagrafe della ricerca? Se tutti (o quasi) gli atenei avranno un’anagrafe locale costituita da un repository istituzionale pubblico, se i metadati che descrivono le pubblicazioni saranno quelli richiesti dal Ministero per il trasferimento delle pubblicazioni all’anagrafe centrale (più altri utilizzati per scopi locali), se il Ministero riuscirà a dare agli atenei regole sulla validazione e sui prodotti da esporre per la raccolta a livello centrale, e a costituire un gruppo di lavoro che si occupi della qualità dei dati (ad esempio nel caso di pubblicazioni in coautoraggio fra più atenei o strutture), si potrà dire che questa architettura potrebbe già contribuire alla costituzione della nuova anagrafe della ricerca. La quale dovrebbe necessariamente (e finalmente) interfacciarsi con le anagrafiche ministeriali, con quelle dei progetti e con quelle dei dottorati. Tali interfacce potrebbero utilmente avvalersi di strumenti già adottati a livello internazionale, quali ad esempio identificativi persistenti per le pubblicazioni (DOI) e per i ricercatori (ORCID). (Fonte: P. Garimberti, Roars 24-10-2014)

RICERCA DI BASE. IMPORTANZA DELL’INVESTIMENTO DIVERSIFICATO
Non è un caso che i Paesi che investono la maggior percentuale del loro PIL in ricerca e sviluppo, oltre ad avere una maggior frazione di scienziati o ingegneri, sono quelli che sono appunto identificati come i leader tecnologici (da questa prospettiva l’Italia è invece più prossima ai Paesi in via di sviluppo). Il problema cruciale dell’investimento nella ricerca di base è che i rendimenti sono ad alto rischio e si hanno generalmente su scale temporali che non sono interessanti per il singolo individuo. È necessario peraltro ricordare che la ricerca di base rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente allo sviluppo economico: un aspetto diverso, ma ugualmente importante e strettamente correlato, riguarda la capacità di un Paese di utilizzare le scoperte della ricerca di base con la presenza di un sistema che supporti in modo sistematico i collegamenti tra scienza e industria. Per l’alto rischio intrinseco della ricerca di base – in cui non è mai chiaro in partenza quanto sarà il ritorno sulle risorse impiegate – è lo Stato che in genere si fa carico di questo investimento. Gli Stati Uniti sono un punto di riferimento in tal senso: nel Paese per altri versi paladino del libero mercato, la ricerca di base è finanziata dal governo federale per 40 miliardi di dollari l’anno, che si assume così il rischio dell’investimento. Un’analisi approfondita dei recenti prodotti della Apple, dall’Ipad all’Iphone, mostra infatti che la base tecnologica è fornita da scoperte della ricerca fondamentale degli ultimi due decenni che sono state finanziante dallo Stato (in gran parte americane ma anche di alcuni Paesi europei). Dunque, in questo come in molti altri casi, una gestione attenta ed efficiente della spesa pubblica ha permesso allo Stato di agire come investitore chiave per scommettere sulla ricerca ed assumersene l’alto rischio, riuscendo così a creare le condizioni necessarie per produrre innovazione e modellare i mercati del futuro. Uno studio quantitativo suggerisce che le strategie che premiano la diversità e la diversificazione, piuttosto che l’eccellenza, si rivelano essere più produttive. Il problema non è dunque finanziare ricercatori riconosciuti oggi come eccellenti; è piuttosto dare la possibilità di sviluppare quei progetti di ricerca che diventeranno eccellenti domani, ma che sono oggi sviluppati da ricercatori di “buona” (non ancora eccellente) qualità. Quindi, piuttosto che sperare di minimizzare il rischio puntando su poche linee di ricerca, è più efficiente diversificare. Proprio per questo i Paesi leader tecnologici, oltre ad avere la più grande produzione di articoli scientifici e di citazioni, non sono specializzati in pochi settori scientifici; hanno invece diversificato il più possibile il loro sistema di ricerca. La diversificazione rappresenta quindi l’elemento chiave che si correla con la competitività scientifica e tecnologica. (Fonte: F. Sylos Labini, Roars 25-10-2014)

RICERCATORI. PROSPETTIVE DI RECLUTAMENTO NELLE DISPOSIZIONI DELLA LEGGE DI STABILITÀ
Con l'art. 28, co. 28, il DdL Stabilità introduce la possibilità per le università “virtuose” di assumere ricercatori a tempo determinato (RTD) nella misura del 50% del personale (Professori di I e II fascia, ricercatori a tempo indeterminato) che ha cessato il servizio l’anno precedente e del 100% dei ricercatori che, sempre nell’anno precedente, hanno concluso il contratto di tipo "a".
Questa misura non può essere considerata una soluzione concreta al problema dei bassi livelli di reclutamento di ricercatori in Italia. In primo luogo perché essa farà sentire i suoi effetti solo a partire dal 2016, quando i primi contingenti di RTDa di una qualche entità termineranno il loro percorso. Il fatto che negli anni immediatamente successivi all'entrata in vigore della legge 240/2010 il reclutamento di giovani ricercatori abbia fatto registrare solo poche centinaia di nuovi ingressi, contribuirà certamente a neutralizzare l'efficacia immediata di questo tipo di soluzione.       
In secondo luogo, questa misura avrà un impatto molto disomogeneo sulle diverse realtà accademiche regionali. La IV Indagine annuale ADI su Dottorato e Post-doc ha messo in evidenza come nel 2013 ci siano state intere regioni in cui le Università hanno reclutato pochissimi RTDa o non li hanno reclutati affatto. Il Governo sembra ignorare l'elemento centrale della questione e cioè che, sempre nel 2013, le tre regioni che hanno reclutato più RTDa detenevano da sole il 50% dei posti messi a bando in tutta Italia. Oltre al suddetto intervento, il DdL (art. 28, co. 29) contiene una misura che intaccherà ulteriormente le possibilità di accesso al ruolo per i giovani ricercatori a tempo determinato. Viene infatti abolito il vincolo contenuto nel DLgs 49/2012 (art. 4, co. 9, l. c) che collegava il reclutamento di RTD di tipo "b" - l'unica figura che tramite un meccanismo di tenure-track prospetta un accesso al ruolo degli strutturati - all'assunzione dei docenti ordinari. Come già osservato in molte altre occasioni, dato il momento di profonda difficoltà economica, gli atenei si orienteranno verso la figura che richiede il minor aggravio e cioè quella del RTD di tipo "a", sprovvisto di tenure-track e più precario. (Fonte: www.dottorato.it/adi/notizie  25-10-2014)

RICERCA. NUOVE REGOLE PER IL CREDITO D’IMPOSTA
L'esecutivo ha stabilito nuove regole, rispetto al decreto Destinazione Italia del 2013, per il credito d'imposta che verrà applicato dal 2015 al 2019 a tutte le categorie di imprese che effettuano investimenti in attività di ricerca e sviluppo, anche in termini di personale: riguarderà il 25% delle
spese sostenute in eccedenza rispetto alla media dei medesimi investimenti realizzati nei tre periodi precedenti al 2015. La misura si può applicare fino a un importo massimo annuale di 5 milioni di euro per ciascun beneficiario, a patto che siano sostenute spese per ricerca e sviluppo almeno pari a 30 mila euro in ciascuno dei periodi d'imposta. Il credito arriva al 50% per le spese relative al personale altamente qualificato in possesso di un titolo di dottore in ricerca (iscritto a un ciclo di dottorato in un ateneo italiano o estero) oppure in possesso di laurea magistrale. (Fonte: Corsera 26-10-2014)

ASSEGNISTI E RICERCATORI TDA. PROROGHE?
Con la fine del 2014 e inizio 2015 sarà impossibile, se non muta la norma, prorogare i contratti di assegno di ricerca “Gelmini” (massimo 4 anni) e si presenterà il problema anche della proroga (massimo due anni) dei contratti da ricercatore a tempo determinato di tipo A (3 + 2 anni). Sul tema è in atto da mesi un’intensa opera di sensibilizzazione di tutti i soggetti istituzionali che possono esercitare una pressione sul MIUR perché modifichi le norme. La soluzione più semplice è l’eliminazione “tout court” dei limiti di 4 anni per gli ADR e di 12 anni totale. Si allunga il precariato? Può essere. Ma la scelta è tra una prosecuzione di un contratto a TD e … nessun contratto. Alla luce della situazione attuale del reclutamento accademico italiano, è assolutamente necessario chiedere un intervento al Ministro per abrogare o quanto meno sospendere la norma del limite dei quattro anni. Una norma inattuale, che se oggi riguarda poche centinaia di ricercatori (comunque non pochi), nell’arco di un biennio potrebbe creare migliaia di neoesodati. (Fonte 27-10-2014)

LIMITI TEMPORALI DEGLI ASSEGNI DI RICERCA E DEI RICERCATORI A TD. PROPOSTA DI SUPERAMENTO
A breve arriveranno a scadenza del limite massimo di 4 anni, previsto dalla legge Gelmini, gli assegni di ricerca attivati dal 2011. Lo stesso problema si porrà il prossimo anno per i contratti da ricercatore a tempo determinato per i quali arriveranno a scadenza i 5 anni previsti sempre dalla legge Gelmini. Per Pantaleo (FlcCgil) "è indispensabile, in via transitoria e fino alla definizione di un nuovo e più sensato sistema di reclutamento realmente finanziato, superare il limite temporale dei 4 anni per gli assegni di ricerca e quello dei 5 anni per i ricercatori a tempo determinato di tipo A e contemporaneamente avviare un profondo ripensamento delle figure a cavallo tra il dottorato di ricerca/specializzazione e l'accesso al ruolo della docenza". (11-11-2014)

CRISI DELLA RICERCA E DELL’INNOVAZIONE IN ITALIA. RAPPORTO ERAWATCH
E’ stato da poco pubblicato a cura della DG Research della Commissione Europea con il supporto del Joint Research Centre, il Rapporto ERAWATCH relativo all’analisi per il 2013 del sistema di Ricerca e Innovazione dell’Italia, redatto da Leopoldo Nascia e Mario Pianta. In linea con gli obiettivi generali dell’iniziativa ERAWATCH, finalizzata a fornire un supporto conoscitivo il più possibile articolato sullo stato delle politiche della ricerca e dell’innovazione nei Paesi europei nello spirito della realizzazione di un’area europea della ricerca (ERA, European Research Area), il Rapporto approfondisce lo stato di crisi della ricerca e dell’innovazione dell’Italia non solo come esito delle politiche di restrizione imposte ai bilanci pubblici, ma anche come effetto di una situazione di retroguardia di lungo periodo del “sistema” della ricerca e dell’innovazione nel nostro Paese. Particolarmente critica è la situazione della diminuzione dei finanziamenti pubblici alle università, che rende pressoché privo di efficacia il ricorso a forme di finanziamento “competitive” finalizzate ad aumentarne l’efficienza, e indebolisce dalla base l’intero sistema della ricerca e dell’innovazione. Al di sotto di una determinata soglia critica di finanziamento – emerge dall’allarme del CUN (Consiglio Universitario Nazionale) – l’Università non può che arrivare al blocco delle attività. E se proprio di efficienza si vuole parlare deve essere ricordato – così come sottolineato dallo stesso ANVUR – che la crescita della quota delle pubblicazioni scientifiche dell’Italia è una delle più elevate in Europa, al di sopra della media dei paesi dell’Unione e che la produttività scientifica delle università italiane compare nella parte alta delle classifiche europee. Il problema dell’Italia risulta inoltre acuito dalla debolezza dell’innovazione del suo tessuto produttivo incardinato da tempo su settori a medio-bassa intensità tecnologica. Anche in questo caso la crisi ha costituito un’aggravante, non solo deprimendo il potenziale di innovazione del sistema produttivo, ma anche condizionando al ribasso la domanda di alta formazione e di ricerca del Paese. Fonte: European Commission. A Science and Policy Report by the Joint Research Centre. ERAWATCH Country Reports 2013: Italy (L. Nascia e M. Pianta, 2014). Link al Rapporto http://tinyurl.com/ou7xnzk recensito da Roars 30-10-2014)

#SCIENCEBULLETCHALLENGE, L’INIZIATIVA “VIRALE” DEI RICERCATORI ITALIANI
#ScienceBulletChallenge è un’iniziativa nata da un gruppo di ricercatori precari dell’Università “Sapienza” di Roma. Utilizzando i canali del web 3.0, #ScienceBulletChallenge ha come unico obiettivo quello di denunciare le condizioni in cui versano i precari della Ricerca Pubblica Italiana e quindi la Ricerca Pubblica del nostro Paese. Cercando l’hashtag #ScienceBulletChallenge sui principali social network già si possono trovare i video girati da chi ha deciso di partecipare al gioco virale, ricercatori o simpatizzanti che vengono simbolicamente “colpiti” e fatti “sparire” da svariati “bullet”, a rappresentare la pioggia di colpi che – abbattutasi negli anni sulla ricerca – ha ridotto in macerie un intero sistema. La sfida, dunque, consiste nel lanciarsi, o farsi lanciare, un “bullet” per mostrare all’intero paese come, colpo dopo colpo, quella del ricercatore in Italia stia diventando una figura in via d’estinzione. Quello che tutti sanno è che la Ricerca nel nostro Paese versa in condizioni disastrose e che i cervelli migliori sono in fuga. Quello che invece pochi sanno è che in Italia la Ricerca faticosamente continua grazie a migliaia di ragazzi che restano e che ogni giorno, seppur certi della loro precarietà, procedono con quello che – nella pochezza generale – di buono è rimasto. L’indagine Ricercarsi 2014 (promossa dalla Flc Cgil e in corso di pubblicazione) ha stimato che solo il 6,7% dei ricercatori precari è stato assunto negli ultimi dieci anni. Ovvero il 93,3% è sopravvissuto grazie a contratti a tempo determinato o assegni di ricerca. Il 73,1% del campione preso in considerazione dal rapporto di cui sopra, non ha figli nonostante l’età media di 35 anni e nonostante il 57% sia rappresentato da donne. In gioco non c’è solo il futuro dei ricercatori. La Ricerca Pubblica è un bene da preservare perché significa tecnologia per tutti, cure migliori, costi ospedalieri minori, benessere. La ricerca migliora e allunga le vite di tutti. Perché non siamo solo seriosi topi da laboratorio. Perché ci piacciono le sfide. Perché vogliamo far sentire la nostra voce. Perché crediamo nei social e in un nuovo modo di fare rete. Sulla scia del tanto declamato #IceBucketChallenge, iniziativa che però non ha fatto altro che confermare lo stato dei fatti – invitando i singoli a donare a un soggetto privato –  #ScienceBulletChallenge vuole riportare l’attenzione sulla realtà. Accetta la sfida, gioca insieme a noi e aiutaci a diffondere l’hashtag #sciencebulletchallenge. Per informazioni sito web www.sciencebulletchallenge.it. (Fonte: Redazione Roars 06-11-2014)

RICERCATORI ITALIANI: INVESTIMENTI E STIPENDI SOTTO LA MEDIA EUROPEA
È necessario fare una prima distinzione tra i ricercatori universitari e quelli degli enti di ricerca. I primi, secondo analisi fatte in materia negli anni, possono arrivare a percepire una retribuzione lorda mensile iniziale di 1.705 euro per poi ottenere (a fine carriera) un compenso massimo di 5.544 euro. I secondi percepiscono una media di 2.400 euro con la possibilità di poter diventare (dopo tanti anni di una carriera evidentemente lenta) un dirigente di ricerca con uno stipendio di 7.500 euro al mese. Evidentemente non abbastanza. Tant'è che in molti preferiscono lasciare il nostro Paese per trasferirsi all'estero, dove i compensi sono più sostanziosi e dove fondi pubblici e privati investono (molto) di più rispetto a quanto accade qui in Italia. Il nostro è infatti tra i Paesi dell’Unione europea e del G20 a spendere di meno in Ricerca e Sviluppo, con un investimento – sostenuto da imprese, istituzioni pubbliche, università e organizzazioni private non profit - pari all’1,25% del PIL nel 2011 (19,8 miliardi di euro). Una percentuale più bassa rispetto alla media europea del 2,05%, e lontanissima dal target del 3% fissato dalla strategia Europa 2020.
Aumentare i compensi ai ricercatori potrebbe essere un riconoscimento nei confronti di una categoria che conta tra le proprie fila alcune tra le menti più influenti del mondo: 55 nostri connazionali sono stati inseriti nella classifica stilata dall'Istituto Thomson Reuters, che ha individuato i 3.200 ricercatori con più citazioni in lavori scientifici nel periodo 2002-2012 (The World's Most Influential Scientific Minds: 2014).
Secondo uno studio pubblicato dal Times Higher Education, che ha passato in rassegna le università di trenta Paesi, valutandole in base al rapporto tra il reddito d’impresa e il profitto derivato dalla ricerca privata, per ogni ricercatore sudcoreano vengono investiti 97.900 dollari. In Italia, che conquista un modesto 24° posto, un ricercatore 'vale' 14.400 dollari (cinque volte in meno rispetto agli olandesi, terzi in classifica con 72.800 dollari). Stipendi ed investimenti non rappresentano tuttavia le uniche note dolenti per l'Italia che, pur risultando tra i Paesi più abili a far crescere giovani talenti, non riesce a ‘trattenerli’ una volta conclusa la loro formazione.
L'Italia occupa infatti il 36° posto della classifica stilata dallo Human Capital Leadership Institute di Singapore (Global Talent Competitiveness Index) che ordina 103 Paesi a cui è possibile ricondurre l’86,3% della popolazione e il 96,7% del Prodotto interno lordo globale. Secondo lo studio in questione, qui da noi vi è una limitata mobilità sociale (77° posto), una scarsa disponibilità di venture capital ed è piuttosto difficile fare impresa (95° posto). Tutti fattori che inducono i ricercatori – italiani e non – a condurre la loro carriera professionale lontano dal nostro Paese. (Fonte: Tgcom24 13-11-2014)


STUDENTI

STUDENTI. DIRITTO ALLO STUDIO
«In Italia abbiamo un sistema di diritto allo studio largamente insufficiente e anacronistico», spiega Stefano Paleari, presidente della Crui, «Non è possibile che nascere in una regione piuttosto che in un’altra determini la fortuna o la sfortuna di poter studiare», spiega Paleari. Secondo il quale il sistema è completamente sbagliato, e andrebbe totalmente riorganizzato, eliminando quella componente regionale che lo distorce e lo rende spesso iniquo. «Bisognerebbe lanciare una consultazione tra Stato, Regioni e studenti, i tre soggetti coinvolti, e trovare qual è il modello giusto». Suggerimenti? «Secondo me bisognerebbe partire dal concetto di premi per i più virtuosi: se siamo riusciti ad arrivare ad un sistema per cui a regime il 18% del Fondo per le università andrà agli atenei competitivi, allora dovremmo trovare un metodo che permetta di assegnare anche le risorse per gli studenti in maniera analoga. Fare una riflessione sul diritto allo studio significa offrire a tutti le stesse possibilità e tutelare i ragazzi bravi ma indigenti … Basti pensare che mentre l’Italia spende in media 100 euro ad abitante per la spesa in istruzione universitaria, in Germania e Spagna si aggira sui 300, in Svezia supera i 600, in Norvegia i 700. Questo significa che paga all’Europa la propria parte come numero di abitanti, ma poi riceve in base al numero di ricercatori, che sono sempre meno. Per fortuna almeno in Finanziaria ci viene concessa la possibilità di assumere ricercatori con contratti triennali, e di reclutare professori ordinari: così almeno ci avviciniamo all’obiettivo, che è quello di ridurre l’età del corpo docente». (Fonte: Corsera Scuola 26-10-2014)

TASSE E SISTEMI DI SOSTEGNO NAZIONALI PER GLI STUDENTI NELL’ISTRUZIONE SUPERIORE EUROPEA 2014/2015
L’Italia è tra i Paesi europei con le tasse universitarie più elevate. Meno di uno studente su dieci riceve una borsa di studio e non sono previsti prestiti ma solo agevolazioni fiscali per le famiglie: è quanto emerge da una relazione pubblicata dalla rete Eurydice della Commissione europea, «Tasse e sistemi di sostegno nazionali per gli studenti nell’istruzione superiore europea 2014/2015». L’Italia fa parte del secondo scaglione per l’ammontare delle tasse (tra 1.000 e 5.000 euro l’anno) insieme a Spagna, Slovenia, Lettonia, Lituania, Ungheria e Paesi Bassi (ma Lituania e Ungheria forniscono molti sussidi per altri servizi come l’alloggio). Niente tasse invece nei tre Paesi scandinavi, Danimarca, Austria, Scozia e Grecia. La Germania è l’unico paese ad aver recentemente abolito le tasse universitarie, benché queste fossero state introdotte solo nel 2007. Le tasse più salate d’Europa sono nel Regno Unito, con oltre 10.000 euro per il primo ciclo di studi universitari e oltre 5.000 per il secondo. Alcuni Paesi prevedono una correlazione tra tasse e risultati modesti - chi resta indietro paga di più - come Repubblica Ceca, Spagna, Croazia, Ungheria, Austria, Polonia, Slovacchia ed Estonia. In Italia, invece, pagano le tasse universitarie l’88,5% degli studenti a fronte del 70% in Spagna e del 65% in Francia. Forti disparità tra i Paesi europei anche per quanto riguarda le borse di studio e i prestiti agli studenti. L’Italia rientra nei Paesi che prevedono borse di studio anche se ne beneficiano solo il 7,95% degli studenti in base al reddito o al merito. Modesto anche il loro ammontare, ovvero inferiori ai 5.000 euro l’anno, al di sotto di quanto viene dato in Francia, Spagna, Portogallo e Germania. In Finlandia, Danimarca e Svezia, invece, tutti gli studenti a tempo pieno e che rispettano determinati requisiti di merito ricevono borse. Le famiglie italiane possono beneficiare invece di esenzioni fiscali se hanno altri figli a carico che studiano mentre, contrariamente a molti Paesi europei, non sono previsti prestiti agli studenti. (Fonte: V. Santarpia, Corsera Scuola e Università 17-10-2014)

L’IMPORTANZA DI FREQUENTARE LE LEZIONI E DEL RAPPORTO DOCENTE-STUDENTE
Se gli studenti non vengono a lezione, come può un docente costruire un ponte fra i singoli, sempre più isolati davanti al computer o al telefonino, attratti magicamente da una rete di solitudini e non più da una fattualità di relazioni dirette, personali, fra compagni di studi o fra docente e studente? La frequenza a lezione è per me restituzione di quello che ho appreso, che ho avuto ma anche che non ho avuto e credo invece vada dato. È un ponte generazionale, è un modo per indurre a leggere altro, per approfondire, spostare l’angolo di visuale, per suscitare curiosità e capacità di porre in relazione temi e questioni, ma anche per prendere contezza di distanze incolmabili. Un’università che non faciliti al massimo la frequenza delle lezioni adottando ogni possibile stratagemma e anche richiedendo significativi sacrifici ai suoi docenti, e al tempo stesso esigendo la presenza e facendo di tutto per renderla piena di significato e di gusto, è un’università che accetta di perdere la relazione con il futuro, che si lascia respingere all’angolo. Che non crede nella forza dell’insegnamento e del rapporto diretto, personale, nel quale conta sapere e saper insegnare: anche su questa base i docenti vanno selezionati. L’esito in sede d’esame può non avere diretta relazione con la frequenza, ma qualcosa in chi ha frequentato resta comunque, se il professore è stato all’altezza del compito che gli sarebbe richiesto. Quello che resta è la traccia di un senso nella disciplina affrontata, un senso che rischia di sfuggire rarefacendo il rapporto del singolo con una materia che è un pezzo di mondo, di metodo, un grumo di temi e passioni, un accumulo di interpretazioni ed equivoci. Qualcosa che trasuda vita, quella vera, che è diversa da quella che si finge di vivere on line. (Fonte: M. G. Muzzarelli, www.unipd.it/ilbo 15-10-2014)

STUDENTI FUORI CORSO E COSTI STANDARD
Per l’assegnazione delle risorse alle università, il criterio adottato, quello dei costi standard, è condivisibile ma la sua applicazione è del tutto insoddisfacente. Il punto principale riguarda l’esclusione dei fuori corso dal calcolo del fabbisogno. Il presupposto è che la loro presenza sia dovuta a carenze delle Università. Riportando i risultati di un recente test, Ferrante mostra che, invece, è decisiva la qualità degli studenti al momento in cui entrano nelle Università. Criteri del tutto condivisibili applicati talvolta nel modo sbagliato producono effetti nefasti. Questo rischia di essere il caso del principio del costo standard, utilizzato per assegnare risorse alle università italiane attraverso il Fondo di Finanziamento Ordinario. Lo scopo del principio, del tutto condivisibile, è quello di evitare che si impieghino più risorse di quelle che l’esperienza ha dimostrato essere necessarie. Applicato alle università il principio consiste nel definire un’unità di misura per il calcolo del fabbisogno standard. Come risulta dalla bozza di decreto resa nota in questi giorni, il Ministero ha individuato tale unità nel numero di studenti in corso o regolari. Proprio questa scelta rischia di produrre effetti nefasti a partire da un principio condivisibile. I presupposti della scelta del Ministero sono due, entrambi erronei. Il primo è che gli studenti fuori corso non incidano sul fabbisogno di risorse; in realtà essi gravano sulle risorse della struttura universitaria non meno degli studenti regolari, perché si presentano più volte agli esami e necessitano spesso di maggiore assistenza. Il secondo presupposto è che la presenza dei fuori corso ha un solo responsabile: le università presso le quali sono iscritti e le loro carenze.
Gli studenti non regolari sono tali in realtà anche e soprattutto perché molto spesso presentano potenziali di resa inferiori, dovuti a carenze nelle competenze di base, derivanti a loro volta dagli ambienti socioculturali meno favorevoli di provenienza. Non di rado si tratta, infatti, di studenti che sono costretti a lavorare per mantenersi agli studi. Un’ampia letteratura, a cavallo tra l’economia e la psicologia, mostra che la tecnologia di formazione delle capacità cognitive e non cognitive si caratterizza per la cumulatività dei processi sottostanti e per la presenza di significative complementarietà e irreversibilità nella generazione delle competenze che alimentano gli apprendimenti lungo la filiera formativa. In particolare, con l’avanzare lungo la filiera, risulta sempre più difficile recuperare eventuali deficit di apprendimento. Altrettanto ampia e consolidata è l’evidenza empirica sul ruolo essenziale giocato dai fattori di contesto nei processi di apprendimento (famiglia di provenienza, ambiente sociale e scolastico), indipendentemente dalle istituzioni formative e dai docenti. (Fonte: F. Ferrante, Roars 23-10-2014)

BORSE DI STUDIO. NON GARANTITE 50MILA BORSE CON LA LEGGE DI STABILITÀ
Il decreto Sblocca Italia ha assoggettato i fondi per il diritto allo studio al patto di stabilità e, per via dei tagli che la legge di stabilità imporrà alle Regioni, c’è il rischio – paventano le associazioni studentesche – che non sia garantita l’erogazione di ben 50mila borse destinate agli studenti meno abbienti. Il coordinatore nazionale dell’UDU: “Questa è la morte del Diritto allo studio in Italia, altro che investire sulla scuola e sui giovani! Dopo aver trovato un’intesa che prevedeva minori tagli alle Regioni, mettendo però i fondi per il diritto allo studio sotto Patto di Stabilità, il Governo fa saltare l’accordo e reinserisce ulteriori tagli, rendendo impossibile per le Regioni spendere i 150 milioni di euro stanziati lo scorso anno dal Governo Letta, e cancellando, di fatto, 50.000 borse di studio”. E non è tutto, prosegue: “I 4 miliardi di tagli alla spesa, che diventano 5,7 con quelli già previsti da Monti e Letta, impediranno qualsiasi investimento regionale per il diritto allo studio nel 2015. Le Regioni dovranno scegliere se tagliare l’assistenza sanitaria ai cittadini o il futuro a decine di migliaia di studenti”. (Fonte: M. Russo, http://www.universita.it  20-10-2014)

BORSE DI STUDIO. COPERTURE IN RIDUZIONE
Le Regioni sono state costrette a privarsi dei Fondi FAS (Fondo per le aree sottoutilizzate) per un totale di 560 milioni per evitare il taglio dei trasferimenti statali. Per le Regioni prive di Fondi FAS (il Lazio su tutte), il Governo provvederà a decurtare la quota del Fondo Integrativo Statale per il Diritto allo Studio Universitario, causando una gravissima riduzione delle già basse percentuali di copertura delle borse di studio. Anche per le Regioni che non subiranno questo taglio, i fondi per il diritto allo Studio saranno comunque reinseriti all'interno dei vincoli del Patto di Stabilità Interno, mettendo a rischio la possibilità di erogare le borse di studio e costringendo le Regioni a ridurre la spesa in altri settori del welfare per rientrare all'interno dei vincoli". (Fonte: ANSA 06-11-2014)).

L’OPINIONE DELLE FAMIGLIE SU COSTI E QUALITÀ DELL’ISTRUZIONE ALL’ESTERO
Il report “The Value of Education: Springboard for success”, pubblicato lo scorso aprile a cura dell'ente di ricerca Ipsos MORI, indaga le opinioni dei genitori sull'istruzione dei propri figli in 15 Paesi, mentre la divisione Retail Banking and Wealth Management di HSBC riferisce di ulteriori ricerche sui costi dello studio confrontati in vari Paesi. Il legame tra le due indagini è spiegato in una nota di HSBC: «Accostando i risultati di The Value of Education con gli ultimi dati sui costi delle università all'estero si evince che, in generale, i genitori ritengono che le destinazioni costose tendano ad offrire una qualità d'istruzione superiore». Secondo l'indagine The Value of Education esistono, tuttavia, importanti variazioni regionali. In generale, gli Stati Uniti restano nell'opinione comune una destinazione qualitativamente elevata, con un 51% dei genitori che la classifica tra le prime tre nazioni, seguita da Regno Unito (38%), Germania (27%), Australia (25%) e Giappone (25%). L'indagine ha anche evidenziato che nei Paesi dove l'inglese non è la prima lingua molti genitori considerano la conoscenza di una lingua straniera il maggior benefit di un'istruzione all'estero. Per il secondo anno di seguito l'Australia risulta la meta più cara per gli studenti internazionali: sarebbero necessari mediamente 42.000 $ l'anno per coprire le tasse universitarie e i costi di vita. A seguire troviamo Singapore, USA, Regno Unito e Hong Kong. Superate le prime cinque o sei destinazioni, i costi iniziano a ridursi notevolmente. In India, la destinazione meno cara del ranking 2014, i costi medi annuali ammontano a più di 36.000 $ in meno rispetto all'Australia. L'89% dei genitori ha dichiarato l'intenzione di mandare i propri figli all'università e il 74% ha riferito che avrebbe preso in considerazione l'estero come meta di studio per dare loro un'istruzione universitaria migliore. «Mediamente, il 58% dei genitori crede che finanziare l'istruzione sia il migliore investimento», dice HSBC. «A molti, tuttavia, risultano gravosi la pianificazione e il sostegno finanziario. Dei genitori che finanziano l'istruzione dei propri figli, difatti, l'82% attinge alle proprie odierne entrate, più della metà vorrebbe aver iniziato a mettere da parte i soldi qualche tempo prima». (Fonte: E. Cersosimo, rivistauniversitas 23-10-2014)

STUDENTI. I COSTI DELLE RETTE UNIVERSITARIE
L’Osservatorio Nazionale Federconsumatori ha svolto un’indagine sulle imposte che gli studenti universitari sono tenuti a pagare per frequentare le principali università pubbliche italiane. La media nazionale è di 540 euro in prima fascia, 583 in seconda, 899 in terza (con Isee fino a 20 mila euro), di 1240 in quarta (Isee fino a 30 mila euro) e 2193 euro nella fascia di reddito più elevata. Si tratta, però, di medie, perché i costi sono differenziati fra atenei e regioni. Dall’indagine emerge infatti che le Università del Nord Italia impongono tasse più alte rispetto alle altre, con importi medi che superano, per la prima fascia, del +12,23% la media nazionale e del +12,89% le rette del Sud. Ad imporre i contributi più bassi (per tutte le fasce ad eccezione dell’ultima) sono le Università del Centro Italia: le tasse di questi Atenei fanno registrare uno scarto del 23,81% a confronto con le Università del Nord e del 12,53% rispetto a quelle del Sud. Sempre in riferimento alla prima fascia di reddito (quella più bassa, con Isee fino a 6 mila euro) il primato dell’ateneo più caro va a Parma: per frequentarla gli studenti devono versare contributi di 739,68 euro per le facoltà umanistiche e di 855,50 euro per le facoltà scientifiche. Segue Milano che prevede, per chi si colloca nella fascia di reddito più bassa, rette di 713,00 euro per le facoltà umanistiche e di 790 euro per quelle scientifiche. Non sempre ci sono tasse differenti per facoltà umanistiche e scientifiche (non è così per l’Università di Salerno, a Pavia, a Torino, a Bari, a Catania, a Pisa, a Firenze e a Bologna) ma per le università che applicano questa distinzione, uno studente della Facoltà di Matematica, in media, finisce per pagare tra il 5,24% e il 6,75% in più rispetto ad un suo collega di Lettere e Filosofia, a seconda della fascia di reddito di appartenenza. Rispetto allo scorso anno accademico gli importi relativi alla prima e alla seconda fascia di reddito fanno registrare un incremento medio rispettivamente del +2,51% e del +2,29%. La terza e la quarta fascia (con Isee rispettivamente fino a 20 mila euro e fino a 30 mila euro) risultano in lieve flessione, rispettivamente dell’1,58% e dell’1,40%, mentre gli importi massimi risultano in crescita del +4,03%. In media, conclude Federconsumatori, le rette universitarie sono aumentate dell’1,2% rispetto all’anno accademico 2013/2014. (Fonte: http://www.helpconsumatori.it  28-10-2014)


TEST UNIVERSITARI

TEST A MEDICINA. PARLA IL MINISTRO GIANNINI E S’ISPIRA ANCORA AL MODELLO FRANCESE
"Sto elaborando una proposta con un gruppo tecnico che comprende anche il Consiglio Universitario nazionale, la Conferenza dei Rettori, i rappresentanti degli studenti, che prevede l'eliminazione del test ma non del numero programmato". "Questo perché significherebbe sfasare il rapporto fra domanda e offerta e tornare indietro di molti anni, ma noi non vogliamo farlo. Ora significa mettere a punto tecnicamente questo percorso, il modello francese è quello a cui ci stiamo ispirando. Valuterò poi quale adottare. E' chiaro che serve consenso politico nel Governo poiché c'è una norma primaria da cambiare, ma sono pronta a fare questa proposta". (Fonte: AGI 23-10-2014) .

STUDENTI. LA SELEZIONE PER I CORSI DI MEDICINA
«Se a scuola fosse fatto un buon orientamento il numero di aspiranti medici si ridurrebbe almeno di un 1/4», insiste Andrea Lenzi, ex presidente del Cun, il consiglio universitario nazionale. «Va migliorata la qualità dei test d'ammissione, non far entrare tutti. Lo Stato non può permettersi di laureare un medico che non lavorerà da medico. Il numero chiuso, con obbligo di frequenza e esami scadenzati, è l'unico modo per garantire il risultato della laurea». Impossibile, dunque, tornare indietro, quando per diventare medici non c'erano né sbarramenti né test d'ingresso. Ma negli anni 70 e 80, senza selezione in ingresso né obbligo della frequenza, gli abbandoni superavano il 40%, oggi non si laurea appena lo 0,1% degli immatricolati a medicina. Resterebbe poi il problema alle scuole di specializzazione post laurea, che non riescono a sopportare più di 4 mila studenti ogni anno. Il sistema dei test, infine, sebbene imperfetto, dà maggiori garanzie di obiettività di un esame orale, più esposto a favoritismi e raccomandazioni. «Ci vuole quindi una prova preparata a livello nazionale», suggerisce Roberto Lagalla, rettore dell'Università di Palermo. E negli Paesi come sono organizzati? In Francia lo sbarramento è alla fine di un primo anno comune ai 4 indirizzi di medicina: passano il test solo 2 ragazzi su 20. In America gli aspiranti medici cominciano a prepararsi a partire dal liceo, perché a contare sono i voti alti a scuola: il 43% dei candidati viene ammesso, di questi il 60% ha un titolo di scuola superiore in biologia o scienze mediche. In Inghilterra tutto si decide con il colloquio individuale, che segue al test d'ammissione, però non decisivo. (Fonte: G. Micucci, ItaliaOggi 21-10-2014)

DIRITTO ALLO STUDIO E GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA
«E’ un’ingiustizia. La prova che in Italia la meritocrazia non esiste. Ma le pare giusto che io che ho passato il test, che mi sono impegnato, che ho sudato sui libri, abbia dovuto lasciare la mia città per andare a fare Medicina a Parma, spendendo 600 euro al mese per una stanza in convitto, e c’è gente che invece era stata bocciata ma grazie al ricorso al Tar si ritrova a fare l’università a due passi da casa, nella “mia” Brescia?». Antonio Baglioni è uno dei quasi 10 mila aspiranti camici bianchi che quest’anno hanno superato il famigerato test d’accesso alla facoltà di Medicina. A tentare la sorte erano in 63 mila, solo il 15 per cento ce l’ha fatta. Purtroppo, però, la prova dell’8 aprile scorso è stata travolta dai ricorsi: plichi manomessi, sospette copiature, anonimato violato per un autogol del Miur … Alla fine i giudici amministrativi hanno ordinato l’ammissione in sovrannumero di ben 5.000 studenti: bocciati all’esame, promossi dal Tar. Un maxi ricorso che è stato celebrato come una vittoria storica contro il numero chiuso in nome del diritto allo studio dai suoi promotori (Unione degli universitari in testa) ma che di fatto si è tradotto in un danno oggettivo e soggettivo per chi il test lo aveva passato: oggettivo perché gli atenei sono andati letteralmente in tilt a causa dell’ondata di nuovi immatricolati e soggettivo per il senso di ingiustizia bruciante nel ritrovarsi sorpassati da chi aveva ottenuto un punteggio molto peggiore del proprio. (Fonte: Corsera 1011-2014)

STUDENTI. GLI IDONEI NELLA GRADUATORIA NAZIONALE PER MEDICINA A BARI LAMENTANO CARENZE NELLA DIDATTICA
L'articolo 34 della Costituzione recita: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Ebbene, noi, superato il suddetto test in quanto idonei nella graduatoria nazionale, regolarmente immatricolati presso l'Ateneo barese, poco prima che i «giochi» fossero ufficialmente chiusi, ai sensi del bando di concorso e ormai certi dell'imminente inizio delle lezioni, abbiamo amaramente appreso che quanto ci spetta di diritto, è di fatto negato da un sistema capzioso in ogni suo ingranaggio. A seguito dell'esorbitante numero di ammissioni con riserva, avvenute nella sede in cui il ricorrente ha svolto il test e non distribuite sul territorio nazionale, si è dovuto far presto i conti con concreti problemi logistici: la facoltà si è ritrovata ad accogliere quasi il triplo degli studenti previsti dal bando, passando cioè dai 237 immatricolati iniziali a più di 600 iscritti. Nonostante gli obsoleti e mal funzionanti macchinari in dotazione, inizialmente, si è pensato di ovviare al problema con la teledidattica onde raggiungere e tutelare, nei limiti del possibile, l'insegnamento ad un così vasto numero di studenti. Tale proposta, però, non ha soddisfatto taluni docenti, i quali affermano che la tele-didattica potrebbe contribuire soltanto ad un peggioramento nella qualità dell'insegnamento. In forza di tanto, sono stati indetti i «bandi di vacanza» con procedura d'urgenza, aperti, quindi, anche a docenti di altri atenei, dei quali, allo stato, si ignorano le competenze. Nel rispetto dei tempi tecnici le lezioni sono state quindi ulteriormente rimandate a data da destinarsi, nonostante i nostri colleghi degli anni successivi abbiano già incominciato le lezioni da diverse settimane. Non solo dunque non ci è concesso il rapporto «un docente per 80 studenti», non solo rischiamo di fare lezione con un personale di ignote competenze, ma, a causa dei ritardi nell'inizio dell'anno accademico, ci viene negato il diritto allo studio. Noi, regolarmente iscritti (non con riserva) all'università di Bari, chiediamo, dunque, con fermezza il rispetto non di un mero interesse, ma di un diritto consacrato nella nostra Costituzione. Vogliamo «solo» studiare. (Fonte: Gazzetta del Mezzogiorno 22-10-2014)

ACCESSO A MEDICINA. PER MANTENERE LA QUALITÀ DELLA FORMAZIONE I RETTORI CHIEDONO UNA PROGRAMMAZIONE DEGLI ACCESSI NON UN’INVASIONE INCONTROLLATA
La Crui, Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, ha approvato ieri un documento in cui chiede al ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca Stefania Giannini di intervenire nella maniera più rapida ed efficace possibile, anche attraverso lo strumento del decreto legge, per sanare la grave situazione che si sta creando a causa delle migliaia di ricorsi vinti da studenti di medicina che non avevano passato il test d'ingresso. Viene così pesantemente penalizzata la qualità della didattica: corsi sovraffollati, aule strapiene certo non aiutano l'apprendimento di quelli che saranno i futuri medici italiani, chiamati a garantire elevati standard di professionalità. Oltretutto con i ricorsi, vinti grazie ad un cavillo, accedono alla frequenza anche studenti che avevano ottenuto punteggi gravemente insufficienti al test, con buona pace del concetto di merito e dei loro colleghi che hanno passato l'esame grazie allo studio. Nel testo si chiede al ministro di intervenire, permettendo eventuali sbarramenti anche negli anni successivo al primo, e di finanziare ulteriormente le Università chiamate a sopportare un carico di studenti ben maggiore di quanto previsto, con tutte le difficoltà organizzative ed economiche del caso.«Con questo documento - commenta il rettore Giuseppe Zaccaria - la Crui ha preso una forte posizione, ribadendo di essere per una programmazione degli accessi, non per un'invasione incontrollata come nel caso del corso di laurea in Medicina, che danneggia non solo gli Atenei, ma anche gli stessi studenti, rendendo impossibile fornire una qualità della didattica adeguata a quanto previsto dal loro diritto allo studio. Chiediamo quindi al ministro Stefania Giannini di mettere un argine a questa deriva incontrollata che colpisce Università e studenti meritevoli». (Fonte: Gazzettino Veneto 29-10-2014)

TEST DI MEDICINA. COME METTERE IN CRISI UN SISTEMA PERFORMANTE
Le migliaia di ripescaggi di chi non aveva superato il test di medicina per entrare in università - effetto della consueta sentenza del Tar - ci raccontano che non vi è certezza di nulla e pone per tutte gli atenei una serie di problemi. Eventi che ripropongono l'atavica diffidenza, tutta italiana, verso i test o, per essere più espliciti, verso ogni valutazione. Abbiamo sempre dubbi sui metodi utilizzati, sull'autorevolezza dei valutatori, possediamo costantemente un metodo migliore. I test nazionali di medicina hanno il raro pregio nel nostro Paese di mettere tutti gli studenti sullo stesso piano, di valutarne le potenzialità e di stendere con metodo oggettivo una graduatoria. Sistema che, favorendo una sana competizione, premia nelle scelte degli studenti le migliori università. Sembrerà una strada draconiana ma è sicuramente il metodo più utilizzato nel mondo. L'argomento che tenta di svalutare i test nella loro qualità è strumentale, non nel senso che siano perfetti, anzi tutt'altro, semmai vanno migliorati di anno in anno sapendo cosa va sondato in un futuro buon medico. Il principio deve essere difeso con forza, una società plurale e matura deve convivere con metodi di valutazione in campo formativo. La contrarietà a farsi valutare da enti esterni blocca ogni iter di selezione positivo di pratiche, persone, processi. C'è poi un problema tutto legato alle facoltà/scuole di medicina che nel nostro territorio (parliamo di migliaia di studenti) hanno punte di eccellenza formativa riconosciute a livello europeo, legate a grandi policlinici dove ricerca e clinica si fondono, e dove l'immissione di un numero impensato di nuovi allievi mina la qualità della didattica. L'abolizione futuribile dei test di ingresso come l'arrivo ora di tanti ripescati mette in seria crisi un sistema che soffre già difficoltà economiche ed organizzative. Ci si domanda çome mai, ancora una volta, un sistema performante in termini di risultati formativi debba essere messo in crisi da decisioni schizofreniche che non hanno mai un orizzonte di lungo termine. (Fonte: S. Bianco, Corsera Milano 31-10-2014)

TEST A MEDICINA. AI RICORRENTI AMMISSIONE PROVVISORIA E DECISIONE DEFINITIVA DEL TAR SOLO NEL PERIODO ESTATE 2015-INIZIO 2016
Negli esami per l'ammissione alle Scuole di Medicina delle Università sembra che non siano state assicurate le condizioni per garantire l'anonimato dei candidati. Alcuni candidati hanno fatto ricorso al Tar Lazio per far valere questa violazione di un basilare principio di correttezza amministrativa. Il Tar ha accolto la loro censura ordinando alle varie università, sia pure solo in sede cautelare, di "ammettere con riserva" i ricorrenti al primo anno del corso di medicina. Ciò significa che gli studenti in questione debbono essere ammessi solo in via provvisoria: successivamente il Tar, quando avrà potuto esaminare  tutta la documentazione, emetterà la sentenza finale. Solo in quel momento si saprà in via definitiva se gli studenti potranno continuare a frequentare i corsi o se, invece, il loro ricorso sarà respinto ed essi quindi dovranno "tornare indietro" e sostenere un nuovo esame di ammissione.
Il fatto è che il Tar Lazio ha rimandato la decisione definitiva su questi ricorsi ad un periodo che va dall'estate del 2015 ai primi mesi del 2016. Per tutto questo tempo gli studenti frequenteranno i corsi senza sapere se lo faranno utilmente o in modo del tutto inutile. E le Scuole di Medicina dovranno per intanto sopportare un grandissimo sforzo per poter accogliere e formare adeguatamente centinaia di studenti che superano il numero di coloro che erano stati correttamente previsti. Si dovranno istituire nuovi corsi, reperire nuove aule e attrezzare nuovi laboratori. E tutto ciò, se poi i ricorsi verranno respinti, sarà stato inutile.
A questo punto, mi pongo due domande. Innanzitutto: com'è possibile che il Ministero abbia organizzato gli esami di ammissione alle Scuole di Medicina senza curarsi di garantire l'anonimato dei candidati? Inoltre: perché il Tar Lazio ha fissato le udienze finali, nelle quali verranno assunte le decisioni definitive, ad un periodo tanto lontano, e in certi casi addirittura nel 2016? Sappiamo tutti benissimo che i Tar sono oberati di lavoro. Ma normalmente vengono seguiti dei criteri di urgenza, e quindi di priorità, che in questo caso parrebbero trascurati.
Si potrebbe forse pensare che il Tar abbia agito così ritenendo sin d'ora che i ricorsi saranno alla fine accolti e che quindi gli studenti continueranno regolarmente a frequentare i corsi. Ma, se così è, tanto valeva forse che il Tar emettesse le decisioni definitive subito, in modo da togliere ogni dubbio. (Fonte: La Repubblica Torino 31-10-2014)

SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE MEDICHE. ANNULLAMENTO E POI SALVATAGGIO DEI TEST D’ACCESSO
Il ministero dell’Istruzione aveva deciso di annullare le prove scritte del primo concorso nazionale per l’ingresso alle Scuole di Specializzazione in Medicina. Alla base della decisione quella che il dicastero ritiene una «grave anomalia» registrata nel fine settimana e confermata alle 8.52 di venerdì sera: sono state invertite le domande delle prove del 29 ottobre con quelle del 31. Uno scambio, spiega il Miur, causato dal Cineca (il Consorzio interuniversitario cui è stata affidata la gestione del test) e che «ha riguardato esclusivamente le trenta domande comuni a ciascuna delle due aree, Medica e dei Servizi clinici. Nessuna anomalia nei dieci quesiti specifici per ciascuna tipologia di scuola». Insomma, tutto da rifare. Più di 11.000 candidati (11.242 per l’esattezza, pari al 92,4% del totale degli iscritti) sarebbero dovuti tornare a rispondere il 7 novembre, stavolta in una sola giornata, a nuove domande.
Ma dopo una giornata di polemiche, il Miur fa dietrofront: «Le prove per l’accesso alle Scuole di Specializzazione in Medicina del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test». Lo annuncia il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini dopo aver riunito a Roma la Commissione nazionale incaricata questa estate di validare le domande del quiz. La Commissione ha vagliato i quesiti proposti ai candidati per l’Area Medica (29 ottobre) e quella dei Servizi Clinici (31 ottobre) stabilendo che, sia per l’una che per l’altra Area, 28 domande su 30 sono comunque valide ai fini della selezione. I settori scientifico-disciplinari di ciascuna Area sono infatti in larga parte comuni. A seguito di un confronto con l’Avvocatura dello Stato e del verbale della Commissione si è deciso di procedere, dunque, con il ricalcolo del punteggio dei candidati, neutralizzando le due domande per Area che sono state considerate non pertinenti dal gruppo di esperti. Ma la rivolta è partita e il caso ormai è esploso. Oltre all’annuncio di ricorsi e cause collettive, è intervenuto anche l’Ordine dei Medici che chiede «rispetto per i nostri giovani e per il loro impegno e le loro speranze». La Fp-Cgil Medici, sottolinea: «Non vogliamo tornare al passato: il concorso nazionale con un’unica graduatoria è frutto di una battaglia che ci ha visto impegnati in prima linea e che difenderemo nonostante l’inaudita incapacità dimostrata da chi doveva gestire il concorso. Certo non ci immaginavamo che una gestione quantomeno pressappochista trasformasse un successo in una pessima figura per il Miur e per la pubblica amministrazione. Noi saremo al fianco dei giovani medici che hanno subito un danno e continueremo a batterci per una prova nazionale che abbia la garanzia di una procedura trasparente e rispetti le norme: Si premi realmente chi merita». (Fonte: Corsera 02 e 03-11-2014)

SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE MEDICHE. POSSIBILI 6000 RICORSI
Saranno oltre 6 mila i giovani medici specializzandi che potranno ricorrere per richiedere l’ingresso in sovrannumero in seguito al caos dei test di ammissione alle scuole di specializzazione in medicina. Il maxi ricorso al Tar del Lazio per l’ingresso sovrannumerario sarà patrocinato dagli avvocati Michele Bonetti e Santi Delia, in collaborazione con la Fp Cgil Medici. Il Miur aveva annunciato l’annullamento delle prove del 29 e 31 ottobre a causa dell’inversione delle domande dell’area medica con quelle dell’area dei servizi clinici. Due giorni dopo, il ministro Giannini aveva fatto dietrofront annunciando che, per minimizzare il danno subito dai giovani medici, il Ministero d’accordo con l’Avvocatura di Stato, aveva trovato il modo di non far ripetere il test. Poiché solo due delle trenta domande proposte non erano coerenti con la rispettiva area, bastava neutralizzarle e ricalcolare così il punteggio dei candidati. Una soluzione che però non ha soddisfatto i medici specializzandi che a questo punto chiedono di essere accolti in massa: 12 mila borse di studio per i 12 mila candidati di quest’anno. (Fonte: Corsera Scuola e Università 09-11-2014)

SPECIALIZZAZIONI, TEST DI ACCESSO, ABILITAZIONE. UN SUPERLAVORO PER I TAR
Dopo che il ministro Giannini ha deciso di ricalcolare il punteggio del concorso nazionale per l’accesso alle Specializzazioni di Medicina, moltissimi candidati si sentono danneggiati a causa dell’annullamento delle due domande erroneamente scambiate nei test. E minacciano ricorsi al TAR che, se accolti, permetterebbero a buona parte degli 11.242 interessati di ottenere una sospensiva per essere ammessi alle borse di specializzazione, nonostante ce ne siano solamente 5 mila a disposizione. «Un caos che si andrebbe a sommare a quello già visto per l’ingresso al primo anno di Medicina – commenta Fabrizio Premuti, Presidente di Konsumer Italia −. Quest’anno, sono stati quasi 6 mila i candidati ammessi dal TAR, che si sono aggiunti ai 10 mila vincitori dei test dello scorso aprile. Con il risultato che le aule traboccano di studenti e che la Facoltà di eccellenza dell’Università italiana rischia il collasso».
A rischiare il collasso, però, ci sono anche le aule dei tribunali amministrativi: «Sì – prosegue Premuti − stanno piovendo ricorsi al TAR (più di 3 mila solo per la prima tornata) contro i giudizi di inidoneità per la procedura di abilitazione scientifica degli aspiranti docenti universitari. Alcune sentenze, depositate la scorsa settimana, hanno già accolto i ricorsi parlando esplicitamente di “illegittima formazione della Commissione nazionale per l’assenza dei requisiti di qualificazione” e di “carenze nella motivazione del giudizio negativo espresso”. Il Miur ha deciso di consentire a chi non è stato giudicato idoneo nelle tornate precedenti (2012 e 2013) di ripresentarsi alla prossima sessione primaverile (dal 1° marzo 2015) per riprovare l’esame di abilitazione, e di allungare la validità del titolo da 4 a 6 anni. «Il problema è che la maggior parte delle sentenze non arriverà prima dell’autunno 2015, mentre gli atenei (come l’Università di Bari) stanno già attivando le procedure di chiamata – conclude il Presidente di Konsumer – di docenti che non ne avrebbero diritto, mentre altri penalizzati da valutazioni illegittime rimangono a casa. È la morte della meritocrazia e la vittoria del nepotismo». (Fonte: AGENPARL Roma 05-11-2014)


VARIE

SU NATURE UNA LETTERA APERTA “HANNO SCELTO L’IGNORANZA”
Una lettera aperta dal titolo “Hanno scelto l’ignoranza“, scritta da Francesco Sylos Labini con altri otto colleghi europei, dalla Spagna, al Portogallo, alla Gran Bretagna e alla Francia, è stata pubblicata l’8 Ottobre in versione ridotta da Nature e per estratto su molte testate, tra le quali Le Monde, The Guardian, El Pais e La Repubblica. La lettera, che ha ricevuto più di 12.000 adesioni, fa riferimento ai «responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’UE». Nell’ambito della mobilitazione italiana, che ha preso il nome “Per la Scienza Per la Cultura“, sono stati promossi incontri, presidi e seminari in tutta Italia. Si vedano le slides presentate da Giuseppe De Nicolao all’Università Statale di Milano (16 e 17 ottobre 2014) e a Pavia, Sala del Broletto, 16 ottobre 2014. (Fonte: G. De Nicolao, Roars 18-10-2014)

LA VALUTAZIONE PREMIALE SOTTOVALUTA LA DIDATTICA
In occasione della conversione in legge del decreto 24 giugno 2014, n. 90, deputati e senatori hanno votato un emendamento con il quale si ribadiva che «la qualità della produzione scientifica dei professori reclutati dagli atenei all’esito dell’abilitazione scientifica nazionale è considerata prioritaria nell’ambito della valutazione delle politiche di reclutamento». Si lascia così implicitamente al buon cuore di questi professori la qualità del servizio garantito ai loro studenti, a partire dal tempo dedicato a lezioni, ricevimento, tesi. E non si offrono certamente ai Rettori solide ragioni per considerare prioritaria la lotta alla sistematica sottovalutazione dei doveri appunto didattici dei docenti. Un articolo pubblicato su una rivista con un impact factor elevato aiuta a risolvere ogni problema … Lo Schema del decreto di riparto del Fondo di Finanziamento Ordinario per l’anno 2014 ha confermato, dal punto di vista di questa scelta che ben può dirsi strategica, la granitica coerenza dell’azione di questo governo rispetto a quelli che lo hanno preceduto. La «quota premiale» sale al 18 per cento del totale delle risorse disponibili e viene assegnata secondo queste percentuali: a) il 70 per cento in base ai risultati conseguiti nella Valutazione della qualità della ricerca (VQR 2004-2010); b) il 20 per cento in base alla Valutazione delle politiche di reclutamento (cioè, per quanto appena detto, in base ad un criterio sostanzialmente identico al primo); c) il 10 per cento in base ai risultati della didattica con specifico riferimento alla componente internazionale. Nella migliore delle ipotesi, dunque, questo è il rapporto che il governo riconosce fra il valore dell’insegnamento e quello della ricerca, assumendo peraltro, sulla base di argomenti che rimangono misteriosi, e giusto per citare un paio di possibili esempi, che il numero dei corsi offerti in lingua inglese e quello degli studenti stranieri, quale che sia la loro provenienza, valgono come indicatore della qualità della didattica e ci rassicurano sul fatto che i professori vanno davvero in aula a fare lezione. (Fonte: S. Semplici, Roars 20-10-2014)

LEGGE DI STABILITÀ 2015. EFFETTI SULL’UNIVERSITÀ
Per le università si mitiga con 150 mln il taglio del FFO già previsto di 170 mln di euro per il 2015, ma le risorse aggiuntive vengono assegnate sulla base di criteri “premiali” molto discutibili nei loro presupposti di fondo. Allo stesso tempo si introduce un nuovo taglio mascherato, però, da riduzione delle spese per acquisti di beni e servizi. La condizione ormai drammatica dei nostri atenei continuerà a produrre danni per primi agli studenti, penalizzati anche dal restringimento del diritto allo studio che rischia di subire un nuovo colpo con la riduzione delle risorse a disposizione delle regioni. Anche il personale, sia tecnico-amministrativo sia docente, è penalizzato da condizioni di lavoro in continuo peggioramento sul piano sia professionale che salariale. Si conferma, infine, il blocco del reclutamento che provocherà una vera e propria  emergenza nei nostri atenei perché sono ormai imminenti le scadenze di migliaia di assegni e contratti a termine a causa delle norme della legge 240/10. Come effetto dei blocchi stipendiali un professore ordinario può perdere fino a 100.000 euro a fine carriera, un giovane ricercatore a tempo indeterminato reclutato nel 2008 fino a 60.000 La legge di stabilità risponde al dato del fallimento della "tenure track all'italiana" con la cancellazione del vincolo che lega il reclutamento di professori di I fascia al numero di ricercatori a tempo determinato “di tipo B”.  (Fonte: FlcCgil 31-10-2014)

LA SEMPLIFICAZIONE DEL SISTEMA UNIVERSITARIO SECONDO IL CODAU
Dal 25 al 27 settembre 2014 si è svolto il XII convegno annuale del CoDAU (Convegno dei direttori generali delle amministrazioni universitarie), un’associazione attiva nell’ambito del management delle amministrazioni universitarie: un luogo di confronto e studio in cui si cerca di rispondere ai quesiti che derivano dalla complessità interna al sistema stesso e dall’applicazione di un articolato quadro normativo di riferimento. Il 29 maggio è stato eletto alla guida del CoDAU per il triennio 2014-2017 Cristiano Nicoletti. Nell’intervista ha risposto a domande tra le quali: Da dove, secondo Lei, potrebbe prendere il via il percorso di semplificazione del sistema universitario italiano? Quali gli ambiti di applicazione? Risposta: “Il sistema universitario sta maturando la convinzione che troppe regole generino contesti non equi. Penso ad esempio all’avviato meccanismo di valutazione della qualità per la didattica, compreso il dottorato, e al sistema di qualità per la ricerca in fase di avviamento. Ritengo che in entrambi i casi si sia rilevato un eccessivo appesantimento interno rispetto ai benefici ottenibili”.
Nel corso del Convegno sono emersi percorsi alternativi da seguire, orientati tra l’altro allo snellimento delle procedure di accreditamento e alla revisione della normativa che disciplina i Nuclei di Valutazione, la cui funzione risulta talvolta sovrapposta a quella dei Presìdi di Qualità. Il recupero di un’autonomia del comparto universitario può contribuire al rispetto di tutte le condizioni che lo Stato pone in tema di trasparenza e anticorruzione, svincolando dall’equiparazione, di fatto, tra gli atenei e gli enti locali. Semplificazione non vuol dire vuoto normativo. Gli atenei si stanno impegnando per trovare il modo di essere trasparenti, di combattere la corruzione, senza “morire” sotto adempimenti di difficile applicazione, riuscendo invece ad essere performanti nelle loro azioni. (Fonte: rivistauniversitas 20-10-2014)

DISTINGUERE L'UNIVERSITÀ DALL'ISTRUZIONE SUPERIORE IN GENERALE
L'università è ancora in grado svolgere un importante servizio sociale? Oppure la sopraffazione burocratica e i tagli indiscriminati ne ostacolano la missione originaria di formazione e ricerca? Occorre un chiarimento preliminare: distinguere l'università dall'istruzione superiore in generale. Nell'attuale società complessa e tecnologica l'università copre solo una piccola parte di un territorio molto più vasto, della ricerca e dell'alta formazione professionale, organizzato direttamente, a partire dall'inizio del secolo scorso, dagli Stati e dalle grandi imprese trans-nazionali. L'idea di
università suppone invece il principio dell'autogoverno, dell'autonomia della ricerca e della
didattica viste come componenti inseparabili: formano, come diceva John Henry Newman, un
regno della conoscenza che deve essere distinto, sovrano, non dipendente dal potere politico ed
economico. Così se si può dire che l'università adempie, nonostante tutto, ad un suo ruolo sociale, penso che essa abbia perso quasi del tutto il ruolo costituzionale, di sede del potere critico che ha esercitato per secoli nello sviluppo della civiltà occidentale. Burocrazia e tagli della spesa non sono cause, ma conseguenze di questa trasformazione. (Fonte: da un’intervista a Paolo Prodi, Universitas 133, 28-10-2014)

LE PERSONE PIÙ FELICI SIEDONO SUI GRADINI PIÙ ALTI DELL’ISTRUZIONE
Il Rapporto sulla felicità commissionato dalle Nazioni Unite non ci annovera tra i paesi più felici. La palma della felicità sta nelle mani dei Paesi scandinavi. A far salire la mongolfiera della felicità non è solo il reddito. Interviene anche l’istruzione a rendere felici le persone e, con loro, il Paese. In quel Rapporto si legge che le persone più felici siedono sui gradini più alti dell’istruzione, oltre la soglia della laurea. A essere meno felici, gli individui privi d’istruzione formale. Ancora di meno i laureati che Einaudi vedeva trascinati dal valore legale della laurea nel baratro della disoccupazione intellettuale. La chimera del posto di lavoro per tanti nostri giovani laureati è un laccio stretto al collo della felicità. È poi, ai giorni nostri, un nodo scorsoio pensare che il titolo legale dia diritto a un posto possibilmente pubblico. È, infine, a soffocare la felicità è il desiderio di scendere, copiando o comprando la tesi, la scala dell’istruzione anziché arrampicarsi in alto avvalendosi delle proprie forze. Tonificano la felicità i giovani tanto istruiti quanto dotati d’ignoranza creativa, quella che segue la conoscenza, e così ambiziosi da tradurre l’apprendimento in nuove imprese. Giovani, insomma, pronti a dar lavoro anziché a cercarlo; decisi a prendere l’ascensore della conoscenza unita all’ignoranza creativa che li porterà a piani alti dell’imprenditorialità innovativa. Un ascensore tutto da costruire. (Fonte:  P. Formica, Corsera 21-10-2014)

COME MIGLIORARE I RAPPORTI TRA ISTITUZIONI DI ISTRUZIONE E IMPRESE
Come uscire dalla crisi? Affrontando i nodi della mancata corrispondenza tra la formazione e il lavoro e puntando sull'internazionalizzazione, ha sintetizzato Harald Hartung, capo dell'unità International Cooperation and Programmes della Direzione Generale Educazione e Cultura della Commissione Europea. La domanda di istruzione superiore è in crescita e la tipologia della popolazione studentesca sta cambiando (maggiore mobilità, nuovi Paesi, come ad esempio la Cina). Pertanto mobilità e curricula internazionali (per docenti e studenti), digital learning, cooperazione, partnership strategiche tra istituzioni di istruzione e imprese sono le chiavi per andare incontro al futuro: bisogna quindi ripensare l'istruzione, come suggerisce la strategia Rethinking Education lanciata dalla Commissione Europea. Tutto questo diventa attuabile innanzi tutto semplificando le procedure burocratico-amministrative (a cominciare dal riconoscimento dei titoli e delle competenze trasversali conseguiti fuori dal proprio Paese), fornendo un efficiente servizio di counselling, potenziando le strutture residenziali, informando di più e meglio. (Fonte:
I. Ceccarini, rivistauniversitas ottobre 2014)


ATENEI. IT

UNIBO.  IL RETTORE PARLA DI LIVELLO MINISTERIALE «SOFFOCANTE», DI VINCOLI DI SPESA, BILANCIO UNICO, REQUISITI ANVUR RIGIDI E ASTRATTI, E DELLA QUOTIDIANA RESA DI FRONTE AI TAR
«Fare di più e fare meglio si può e si deve». Lo dice due volte il rettore Ivano Dionigi nel suo discorso, davanti ai 33 nuovi professori emeriti dell'Alma Mater. Una sorta di discorso di fine mandato per il Magnifico che inizia il suo ultimo anno al vertice dell'Alma Mater. Davanti ha l'accademia. L'aula magna di Santa Lucia è piena di docenti per una cerimonia molto sentita, non solo simbolica. Dionigi attacca dicendo di capire sempre meno questo Paese in cui «un calciatore o un allenatore vale dieci, cento, mille volte di più di un nostro ricercatore»; un Paese «che ha deciso di creare la virtù per decreto e di affidarsi in tutto e per tutto a leggi e circolari, e soprattutto a vincoli e a burocrazia, il tutto perché non ha fiducia nel cittadino». Parla del livello ministeriale «soffocante», di vincoli di spesa, bilancio unico, requisiti Anvur rigidi e astratti,«senza dire della quotidiana resa di fronte ai Tar: penso solo alla riammissione a Medicina di centinaia di ricorrenti che ci crea problemi immani». «Ma è tutta colpa del ministero e dei ministeri? - si chiede Dionigi -. L'Ateneo non ci mette del suo a complicare, appesantire, irrigidire?» E inizia così un'analisi del processo di riordino delle strutture in cui «alcune responsabilità non sono ben definite, la macchina è faticosa e alcuni regolamenti non aiutano, rallentano le procedure e duplicano i processi». «Per questo - scandisce - conosco bene, e non mi sorprendono, la critica e il grido di insofferenza in proposito». Dionigi spiega che di fronte a tanta complessità «ho ritenuto opportuno spingere sull'acceleratore dell'accentramento e della regolamentazione. Altrimenti, avremmo corso il serio rischio di non decollare, di non approdare». Questo ha consentito di mettere in sicurezza 209 corsi di laurea, invertendo il rapporto numerico a favore delle magistrali, e di portare in porto centinaia di concorsi. «Ora  - spiega  - dopo una sperimentazione e verifica triennale, ritengo che siamo nelle condizioni favorevoli e agevoli per correggere e migliorare il compito svolto: chi vi parla aveva l'onere della pagina bianca». Fare di più e meglio «si può e si deve», incalza Dionigi. «Senza dimenticare mai la nostra priorità - precisa -, vale a dire gli studenti, e non lasciando per strada nessun docente, di qualunque fascia, e nessuna disciplina, sia essa scientifica, tecnologica, medica, umanistica o sociale. L'Alma Mater non è la Normale né un Politecnico: è uno Studium generale, dove tutti hanno pari dignità scientifica e culturale. Qui siamo tutti chiamati alla massima responsabilità e generosità e, aggiungerei, a metterci anche la faccia». (Fonte: M. Amaduzzi, Corriere di Bologna 29-10-2014)

UNIBO. CERTIFICAZIONE UNWTO.TEDQUAL
L'Organizzazione mondiale del turismo, agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa del coordinamento delle politiche turistiche, ha assegnato la sua prestigiosa certificazione UNWTO. Tedqual Themis al Corso di laurea in Economia del turismo e al Corso di laurea magistrale internazionale in Tourism Economics and Management dell'Università di Bologna, Campus di Rimini. La UNWTO.TedQual Certification è l'unica certificazione internazionale sul turismo e ad oggi sono solo poche decine in tutto il mondo i corsi di laurea che possono vantare questo titolo. (Fonte: http://tinyurl.com/k9lfgzn ottobre 2014)


UE. ESTERO

UE. L’IMPATTO DEI MODELLI DI FINANZIAMENTO PUBBLICO E PRIVATO DELL’ISTRUZIONE SUPERIORE SU STUDENTI E ISTITUZIONI
"Do changes in cost-sharing have an impact on the behaviour of students and Higher Education Institutions", è una pubblicazione curata per la Commissione Europea dal DZHW (Deutsches Zentrum für Hochschul-und-Wissenschaftsforschung) e da HESA (Higher Education Strategy Associates). Si tratta di un'indagine per capire se e come i differenti modelli di finanziamento del sistema universitario possano influire sui comportamenti della popolazione studentesca e delle singole istituzioni. Dallo studio emerge che nei Paesi dove i finanziamenti privati sono aumentati, non è significativamente calato l'apporto pubblico: sotto il puro profilo finanziario sono emersi scarsi risultati dall'aumento della tassazione universitaria, adottata in periodi diversi in Austria (2001), in Germania (2006/07) e nel Regno Unito (1998, 2006, 2012), che hanno bilanciato l'aumento della tassazione con maggiori benefici a favore degli studenti. Non sempre l'accresciuto gettito delle tasse studentesche si è tradotto in un miglioramento dei servizi a loro riservati: molte istituzioni hanno preferito utilizzarlo a favore dell'ampliamento delle strutture, dell'accoglienza di altri studenti e per l'avanzamento della ricerca scientifica strategica. Difficilmente le Istituzioni di istruzione superiore che ricevono maggiori introiti dagli utilizzatori privati diventano più responsabili nei loro confronti: si guarda più al risultato che alla formazione. In Finlandia circa l'80% della nuova popolazione universitaria si è indirizzata tra il 1995 e il 2000 verso una sorta di Politecnici (Ammattikorkeakoulu), più sensibili alle richieste del mondo del lavoro, come è avvenuto anche in Austria dove le Fachhochshulen, istituite sul modello tedesco, hanno assorbito oltre due terzi della nuova utenza. È cresciuta ulteriormente tale tipologia anche in Germania (+58%); al contrario, solo in Canada e nel Regno Unito vengono ancora preferite le Università tradizionali. (Fonte: M. L. Marino, rivistauniversitas 11-11-2014)

HI-TECH, INVESTIMENTI IN R&S E NELL’UNIVERSITÀ. DIFFERENZE NELLE AREE TEUTONICA, ANGLO-FRANCESE E MEDITERRANEA
Il numero di ricercatori ogni 1.000 lavoratori nell’area teutonica (Germania (Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia, Islanda, Austria, Svizzera) è pari a 8,0: inferiore rispetto a Usa (9,0) e Giappone (12); ma quasi il doppio rispetto all’area mediterranea (4,5). La Germania e i paesi che le ruotano intorno esportano beni e servizi ad alta tecnologia per un valore che nel 2012 è stato di 337 miliardi di dollari: pari al 5,8% del Pil. Maggiore di quello dell’area anglo-francese (190 miliardi, pari al 3,6% del Pil) e molto, ma molto maggiore rispetto a quello dell’area mediterranea (37 miliardi, pari ad appena l’1,0% del Pil). È anche per questo che la bilancia tecnologica dei pagamenti segna 34 miliardi di attivo per l’area teutonica, solo 9 miliardi di attivo per l’area anglo-francese e ben 31 miliardi di passivo per l’area mediterranea (14 miliardi dei quali a carico dell’Italia). Da notare che l’export hi-tech dell’area mediterranea è inferiore anche a quello dell’area orientale (58 miliardi). L’export hi-tech dipende anche dalla capacità d’innovazione. E qui la creatività del nord d’Europa è schiacciante. Nell’area teutonica in un anno si producono 254 brevetti per milione di abitanti: 2,4 volte più che nell’area anglo-francese e addirittura 5,4 volte in più che nell’area mediterranea. Nel nord Europa hanno scelto di investire, appunto, sull’educazione e sulla ricerca: non c’è paese di quell’area che abbia investimenti in R&S inferiori al 2,0% del Pil (con l’unica eccezione dell’Olanda). Alcuni (Svezia, Finlandia) hanno investimenti nettamente superiori al 3,0%. Non c’è paese che non investa moltissimo nell’università. Grazie a questi investimenti i paesi dell’area teutonica si sono dati una specializzazione produttiva diversa da quella dell’area mediterranea e anche, in parte, dell’area anglo-francese. Producono ed esportano una quantità molto maggiore – forse la maggiore al mondo, in termini relativi – di beni ad alta tecnologia. (Fonte: P. Greco, Scienza in Rete 20-10-2014)

TASSE E BORSE DI STUDIO, DIFFERENZE FRA LE UNIVERSITÀ EUROPEE
In Finlandia e Danimarca, a Cipro e a Malta tutti gli studenti universitari accedono a una borsa di studio. In Islanda, invece, le borse di studio non esistono per niente. La Germania è il solo Paese ad aver abolito le tasse universitarie, mentre l’Inghilterra le ha alzate nel 2012, tanto che ora sono le più alte d’Europa. Sono solo alcune delle tante disparità fra i sistemi universitari dei Paesi europei, come emerge da un recente report della Commissione Europea che fa il punto su tasse universitarie, borse di studio e prestiti per gli studenti. Così, mentre la Germania si aggiunge al novero delle nazioni dove l’istruzione è gratuita, insieme a Turchia, Grecia, Cipro, Malta, Scozia e paesi Scandinavi, come detto è l’Inghilterra a presentare le tariffe più salate. Anche in Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Paesi Bassi e Slovenia gli studenti pagano tasse relativamente elevate all’iscrizione, e in tutti questi Paesi (tranne l’Olanda) la percentuale di quelli che accedono alle borse di studio è inferiore al 50%. Sono nove, infine, le nazioni che correlano le tasse ai risultati ottenuti: in Estonia (da quest’anno), Spagna, Croazia, Ungheria, Austria, Polonia e Slovacchia, a pagare sono solo gli studenti che rimangono indietro negli studi. (Fonte: M. Rosin, http://www.west-info.eu/it ottobre 2014).  Download European Commission – National student fee and support systems in European Higher Education 2014/2015 – ottobre 2014

UNIVERSITÀ DIGITALE. PROGETTO EMMA (EUROPEAN MULTIPLE MOOC AGGREGATOR)
A livello europeo negli ultimi due anni è in atto un processo di emulazione di quanto sta accadendo negli Stati Uniti, e dal 2012 sono state avviate una decina di piattaforme di MOOC (Massive Open Online Courses), che però sono “country based”, con una forte connotazione territoriale, a partire dal limite rappresentato dalla lingua. Se si vuole ragionare a livello europeo dunque, per superare questa barriera, è necessario ricorrere al multilinguismo. In quest’ottica è nato il progetto EMMA, il nuovo European Multiple MOOC Aggregator, che il 29 settembre ha lanciato i primi 10 MOOC multilingue, disponibili in 8 diverse lingue, tra cui anche l’estone, con traduzione e trascrizione dei contenuti. L’Università Federico II di Napoli riveste il ruolo di coordinatrice del progetto. “Era un passo necessario per entrare in un mercato nuovo, internazionale, prevalentemente presidiato dalle università americane – spiega Rosanna De Rosa –. In termini pedagogici, EMMA vuole rispettare le differenze culturali che caratterizzano l’ampio bacino europeo, dunque i contenuti variano in base all’utente. Non sono presenti solo 8 diverse lingue, ma abbiamo pensato a modelli e approcci pedagogici diversi, con l’intento di coniugare l‘aspetto ‘massive’ con la dimensione individuale, perché siamo convinti che l’apprendimento, anche in un ambiente social, resta un fatto individuale”. I principali utenti dei MOOC non sono gli studenti universitari, bensì laureati o lavoratori che desiderano accrescere le proprie competenze o aggiornarsi professionalmente. Non si propongono dunque come risposta a quella domanda di innovazione didattica che arriverà a breve nel mondo accademico dai nuovi “studenti digitali”. La cosa però, non sembra preoccupare: “Internet non è un ambiente per lo studio, è uno spazio anarchico, per fare la rivoluzione, è uno spazio di libertà. I quasi nativi digitali, come li chiamo io, hanno ben presente la distinzione degli strumenti e dei rispetti utilizzi, usano la rete quando serve, ma per studiare il libro è ancora il mezzo dominante. In fondo sono due lingue, una cartacea, una digitale; gli studenti di oggi le conoscono entrambe, sarebbe sciocco perderne una a discapito dell’altra. Quello che si sta cercando di fare è integrare i due linguaggi”. (Fonte: L. Indemini, www.agendadigitale.eu 06-11-2014)

STUDIO DI WEALTH-X SULLE UNIVERSITÀ CHE SFORNANO MULTIMILIARDARI
L’Università che ha sfornato il maggior numero di multimiliardari sta infatti in Pennsylvania (Penn, http://www.upenn.edu/), tra l’altro è uno dei più antichi e rinomati atenei degli Usa. Ben 25 super ricchi degli oltre 2mila globali hanno frequentato questa Università mentre gli indirizzi più ambiti, Yale e Harvard, sono al secondo e terzo posto della classifica degli atenei fabbrica-ricchi. Princeton, secondo l’analisi di Wealth-X, si ferma al quinto posto, dietro alla University of Southern California. 
Certo è che gli atenei degli Stati Uniti rimangono un indirizzo di successo. Nelle classifiche di Whealt-X occupano 16 posizioni tra le prime 20. Anche i Paesi emergenti iniziano a scalare le classifiche. L’India, con Mumbai, è in nona posizione del ranking mondiale: dalle sue aule sono usciti, negli ultimi anni, 12 multimiliardari.  L’Europa rimane indietro. Tra le prime 20 posizioni non ci sono atenei tedeschi, italiani o francesi. Mancano persino nomi prestigiosi come Oxford o Cambridge. La bandiera europea è difesa soltanto dal Regno Unito con la London School of Economics and Political Science: nelle sue aule si sono formati 11 supermiliardari. (Fonte: La Stampa 31-10-2014)

FRANCIA. INUTILITÀ DELL’IMPOSIZIONE DELLE COMUNITÀ DI UNIVERSITÀ (COMUE)
Le monde universitaire semble actuellement tout entier tourné vers les créations de Comue, les communautés d'universités et d'établissements. Il s'agit vraiment d'une couche administrative inutile: les Comue ne feront rien de plus que ce que les établissements pouvaient faire auparavant par la voie de relations contractuelles. Le carcan institutionnel imposé à tous n'ajoutera aucune capacité d'action supplémentaire et ne créera aucune volonté de coopérer là où il n'y en a pas. Même chose du côté des écoles de commerce consulaires, auxquelles on propose un nouveau statut qui sans doute allégera les procédures, mais ne générera ni activité supplémentaire ni capacité nouvelle d'innovation. On se félicite d'un nombre accru de bacheliers à l'entrée des universités. En réalité, c'est plutôt inquiétant, compte tenu des taux d'échec en licence toujours aussi élevés.
On annonce des créations de postes fictives, puisque le ministère recommande lui-même de ne pas pourvoir ces postes. Et bien sûr, on entend de nombreux universitaires se plaindre de la disette budgétaire qui frapperait particulièrement universités et laboratoires. Loin de ces agitations et protestations de principe, quelques faits concrets montrent les voies vers lesquelles il faut résolument se tourner. Une très sélective Conférence des universités intensives en recherche s'est créée, rompant avec la sacro-sainte uniformité de la CPU. Plus intéressant encore, onze présidents de petites et moyennes universités, ce sont leurs propres mots, revendiquent un modèle alternatif à celui de la concentration. Dans le cadre d'une autonomie accrue, il faut encourager les établissements à afficher chacun son excellence propre, sachant que chacun ne peut être excellent dans tout. Il faut que le système se diversifie. Favorisons délibérément l'émergence de quelques universités de recherche, transcendant les clivages entre grandes écoles, universités et organismes de recherche. Ces clivages franchouillards sont la vraie cause du manque d'attractivité et d'efficacité de notre système. Et si des regroupements doivent avoir lieu, laissons-les se faire par la volonté des établissements, et pas en imposant d'en haut un carcan identique pour tous. (Fonte : B. Belloc, Les Echos 03-11-2014)

FRANCIA. TAGLI E RITARDI NEI FINANZIAMENTI ALL’UNIVERSITÀ
Les fonctionnaires de l'enseignement supérieur menacés de ne pas toucher leur salaire en novembre et décembre, pour cause de rigueur budgétaire? Bercy, qui présente aujourd'hui le projet de loi de finances rectificative pour 2014, envisagerait 2,2 milliards de coupes budgétaires. Et caresserait l'idée de faire quelques économies sur le dos des universités. La quatrième et dernière part de leur dotation annuelle, qui couvre la masse salariale (120.000 personnels, dont 91.700 enseignants et chercheurs) et le fonctionnement, n'a pas été versée dans son intégralité en octobre.
Un «trou» de 200 millions constaté par les agents comptables qui, s'il n'était pas comblé, mettrait dans le rouge les deux tiers des établissements, selon Jean-Loup Salzmann, président de
la Conférence des présidents d'université (CPU). «Les universités sont, comme tous les autres opérateurs de l'État, sous le feu de Bercy», expliquait-il dans un courrier daté du 28 octobre aux chefs d'établissement. Du côté du ministère de l'Enseignement supérieur, on se veut rassurant. « Il n'y a jamais eu d'inquiétudes ou de menaces concernant le versement de ces salaires. Nous avons fait valoir auprès de Bercy, auprès du premier ministre et du président de la République (...) que la jeunesse (...), la recherche et l'éducation restaient les priorités de ce gouvernement parce qu'ils conditionnent l'avenir », a indiqué lundi sur France Inter Geneviève Fioraso, la secrétaire d'État à l'Enseignement supérieur. «Les universités ont atteint leurs limites budgétaires», résume Rachid El Guerjouma, président de l'université du Maine, qui décrit sur le territoire des gels de postes à grande échelle et des projets suspendus. «Nous ne pouvons plus tirer sur les ressources propres, sauf à augmenter les droits d'inscription, comme dans les pays anglo-saxons. Le gouvernement doit donc faire ses choix. S'il veut conserver un modèle de service public, il devra mettre les moyens». (Fonte : C. Beyer, Le Figaro 12-11-2014)

UCRAINA. UNA NUOVA LEGGE DI RIFORMA DELL’UNIVERSITÀ
Come altri Paesi ex-sovietici, negli anni '90 l'Ucraina aveva tentato almeno nominalmente di cambiare il sistema fortemente legato al controllo statale nell'organizzazione e nella gestione delle università, nelle nomine dei docenti e nei programmi di studio. Ma la corruzione endemica, il plagio, la vendita di esami e diplomi di laurea, come denunciato da numerosi osservatori, erano rimasti drammaticamente diffusi in molti atenei del Paese. Nel 2005 il governo si era impegnato ad adeguare l'Ucraina al Processo di Bologna e introdurre il sistema di crediti europeo, ma tale cambiamento non è mai stato realmente avviato. Nel 2008 l'Ucraina si era dotata di nuovi test di ammissione per le matricole universitarie che avrebbero dovuto rendere più trasparente l'ingresso, ma la crisi economica e i drastici tagli nell'istruzione superiore avevano in realtà causato nuove frodi e un sistema di tangenti e di elargizioni informali ai docenti per favorire l'entrata delle matricole. Nel dicembre 2013 attivisti e docenti manifestarono per giorni a Kiev per chiedere l'autonomia delle loro università e l'applicazione di quegli impegni. La disputa che ha preceduto l'approvazione della legge può esser considerata come una battaglia per procura sulla spaccatura fra filorussi e filoeuropei che attraversa il Paese, sostiene Edmund Klein, ricercatore al Centro di Ricerca per gli studi dell'Europa dell'Est dell'Università di Bremen: "Ci sono state - spiega - tre diverse proposte di legge: una influenzata dal sistema universitario russo-sovietico e sostenuta dal governo; un'altra disegnata sul modello europeo proposta dall'opposizione e una terza stilata da un gruppo di esperti provenienti dalle università e dalla società civile, sulla base della quale la nuova legge è stata finalmente adottata”. (Fonte: M. Borraccino, rivistauniversitas 03-11-2014)

IRAQ. IL C.D. STATO ISLAMICO CANCELLA INTERE FACOLTÀ E DIPARTIMENTI ALL’UNIVERSITÀ DI MOSUL
Con una circolare del 18 ottobre l’Ufficio dell’Istruzione, come è stato ribattezzato a Mosul il ministero dell’Istruzione superiore, detta una serie di regole «per avviare le procedure necessarie a preparare gli esami per tutte le specializzazioni tranne per quelle non corrispondenti al dettame della Sharia». Sotto la mannaia del Califfato cadono le facoltà di Legge, Scienze politiche, Archeologia ed Educazione fisica. Chiudono i battenti anche l’Accademia di belle arti, il dipartimento di Filosofia e quello degli Enti turistici e alberghieri. La motivazione è sempre la stessa: questi argomenti sono incompatibili con i dettami della legge islamica. Perché è evidente, come è già successo in altre dittature, che al cambiamento politico deve fare seguito anche una rivoluzione culturale, sociale ed economica che, nella visione dei leader del c.d. Stato Islamico, è una chiusura totale rispetto ai valori intoccabili del mondo moderno. A leggere la circolare ci si chiede cosa sarà possibile ancora insegnare dato che tra le materie vietate nello Stato Islamico ci sono: democrazia, cultura, libertà e diritti. Sotto accusa anche la storia e la geografia: «Durante gli esami - è scritto nel testo - non si potranno porre domande sugli interessi bancari, sui principi patriottici o etnici, sui fatti storici falsi oppure sulle spartizioni geografiche che non sono conformi alla Sharia islamica». La lettera, scritta su carta intestata con il logo dell’Is, è rivolta a «tutto il personale docente, amministrativo e impiegatizio dell’Università e degli Istituti di Mosul» che sarà obbligato da subito a rispettare le nuove regole. Tra queste al primo posto figurano «le imposizioni della Sharia in merito alla separazione tra maschi e femmine». Classi separate, quindi, con insegnanti esclusivamente dello stesso sesso. (Fonte: www.corriere.it/esteri  25-10-2014)

USA E ITALIA. L’ANDAMENTO DEL FUORICORSO NELLE UNIVERSITÀ
Hanno avuto recentemente risalto le classiche sulle università con meno (Politecnico di Milano, 28,4% e IUAV, Venezia, 28,7%) e con più (Potenza e L'Aquila, 53%) studenti in ritardo, pubblicate dall'Anvur nel rapporto 2013. E il numero complessivo, benché ingente – secondo le rilevazioni di AlmaLaurea in Italia sono circa 700.000 gli studenti fuori corso – non sembra in sé giustificare tanto allarme, al contrario del pesante calo delle immatricolazioni verificatosi dopo il 2003. In Italia si laureano infatti in corso il 40% degli studenti e il 45% delle studentesse, una percentuale per nulla così bassa nel panorama europeo, e concludono gli studi oltre i quattro anni dopo la durata legale soltanto il 13% di loro, un numero dimezzato rispetto al 2000 e che rappresenta il più basso mai registrato, come attesta sempre AlmaLaurea con il rapporto 2014, con un progressivo e costante miglioramento.
Se nel nostro Paese questo fenomeno è, perlomeno, ben conosciuto, negli Stati Uniti, dove è altrettanto diffuso, è però assai meno discusso. Solo circa il 39% di universitari americani riesce a ottenere una laurea entro i quattro anni previsti dall’ordinamento, che è simile a quello europeo prima che si attuasse la riforma del 3+2. Più del 40% non completa gli studi nemmeno in sei anni. Esistono tutta una serie di ragioni personali, strutturali e normativo-culturali dietro a questo fenomeno”. Ad esempio, anche negli Stati Uniti è pressoché impossibile laurearsi in ingegneria, e in altre discipline altrettanto complesse, in meno di cinque anni. Accade poi che tante matricole inizialmente iscritte a un corso di studi finiscano per cambiare una o più volte durante gli anni di università, dovendo ogni volta superare gli esami obbligatori del nuovo indirizzo e quindi mettendoci di più ad arrivare alla laurea. Si stima che tra il 50% e il 70% degli iscritti modifichino il proprio corso di laurea almeno una volta, con una maggioranza che finisce per ricominciare da capo, o quasi, almeno tre volte. “Negli anni sessanta, si pensava che solo un terzo dei diplomati di scuola superiore sarebbe andato al college – dice Hurtado – Ora invece ci aggiriamo sul 70%, una popolazione tra l’altro molto più diversificata di un tempo”. Non a caso, la percentuale di studenti che finiscono fuori corso o, addirittura, lasciano prima di laurearsi, è molto più alta tra questi “ultimi arrivati”. Tra i giovani neri solo il 20,5% completa l’università in quattro anni, con il 60% che non finisce nemmeno entro sei. Tra gli ispanici, il 29% si laurea in tempo e poco più della metà in sei anni. Questi risultati così mediocri derivano senz’altro anche dalla preparazione insufficiente che questi giovani ricevono alle superiori, giacché la qualità della scuola pubblica americana varia enormemente di zona in zona e gli istituti migliori si concentrano quasi esclusivamente nei quartieri popolati dalla classe medio-alta. Il gruppo non-profit Complete College America ha stimato che un anno di università in più viene a costare, allo studente medio di un ateneo pubblico, 63.718 dollari tutto compreso (dati citati da TIME). (Fonte: V. Pasquali, www.unipd.it/ilbo 17-10-2014)

USA. GLI ATENEI COME ORGANIZZAZIONI NON-PROFIT GODONO DI UN TRATTAMENTO FISCALE DI FAVORE PER GLI ENDOWEMENT (450 MILIARDI DI DOLLARI NEL 2013)
Per il combinato di una legislazione particolarmente favorevole e dell'evoluzione della gestione degli endowment - i patrimoni frutto delle donazioni di privati ed ex studenti che costituiscono la base dell'autonomia economica di gran parte delle università americane - la finanza d'investimento, anche nei suoi aspetti più aggressivi, gioca un ruolo primario nel loro funzionamento. La classificazione degli atenei come organizzazioni non-profit si traduce, infatti, in un trattamento fiscale di favore: pagano imposte sul reddito e sugli immobili molto ridotte quando non ne sono completamente esenti. È questo uno dei tanti modi con cui il governo federale e dei singoli stati sovvenziona il sistema nazionale dell’istruzione, e tale normativa determina un margine di redditività davvero alto all'impiego dei fondi disponibili, tanto maggiore quanto più questi sono ingenti. Un meccanismo che sta sollevando un coro di critiche, provenienti anche da economisti, secondo cui la detassazione, per quanto nobile in principio, rappresenta in realtà un uso inefficiente e profondamente iniquo dello strumento fiscale, che avvantaggia gli atenei già molto ricchi e di conseguenza non fa altro che alimentare la spirale della disuguaglianza. Le assemblee legislative degli stati di Washington e del Massachusetts stanno addirittura considerando di modificare le proprie norme per fare versare almeno un po’ di tasse anche alle università. In particolare, a provocare l’ira di esperti e media è il quadro fiscale che riguarda gli endowment il patrimonio accumulato dagli atenei. Si tratta, in pratica, di fondi di investimento cui gli ex-studenti e altri sostenitori possono contribuire con proprie donazioni. Sono strutturati in modo tale da preservare l’ammontare investito originariamente, che cresce con ogni offerta, mentre i guadagni da loro generati finiscono nel bilancio dell’amministrazione ordinaria e sono spesi per la gestione delle attività accademiche. Per quegli atenei che hanno saputo dotarsi di endowment cospicui, soprattutto quelli dell’Ivy League, si tratta di una favolosa macchina da soldi. Secondo dati pubblicati a gennaio dalla National Association of College and University Business Officers (NACUBO), gli endowment universitari si aggiravano a fine 2013 sui 450 miliardi di dollari, in crescita dell’11,7% sull’anno precedente.  A renderli ancor più ghiotti si aggiunge un elemento essenziale: il fatto che sono esentasse. Se in teoria il sistema è pensato per offrire sostegno economico all’istruzione superiore nel suo complesso, in pratica se ne avvantaggiano realmente solo una manciata di college facoltosi. Gli endowment sono, infatti, distribuiti tra i vari atenei in maniera estremamente diseguale. 25 università sulle 835 considerate nell’analisi di NACUBO vantavano l’anno scorso fondi corrispondenti al 52% del totale. Da sola, Harvard ha un Endowment di 32,3 miliardi di dollari, seguita da Yale con 20,8 miliardi, l’università del Texas con 20,4 miliardi, Stanford con 18,7 miliardi, e Princeton con 18,2 miliardi. (Fonte: V. Pasquali, www.unipd.it/ilbo 22-10-2014)


LIBRI. DOSSIER

INTERNATIONAL HIGHER EDUCATION N. 77, FALL 2014
È l'ultimo numero del trimestrale del Center for International Higher Education. Vai al sito per scaricare la pubblicazione https://www.bc.edu/research/cihe/ihe.html. Testo integrale

RIACCENDERE I MOTORI – INNOVAZIONE, MERITO ORDINARIO, RINASCITA ITALIANA
Autore: Gianfelice Rocca. Ed. Marsilio, Venezia 2014, pp. 146.
L'Italia possiede una straordinaria capacità di innovazione, un incredibile capitale di creatività e di esperienza, che risiede in un comparto importante della nostra economia: le imprese medium tech. Tipiche del manifatturiero tedesco così come di quello italiano, sono le fabbriche di un'innovazione incrementale, non distruttiva, ma costruita, mattone dopo mattone, sulle esperienze del passato, valorizzando quello che Gianfelice Rocca chiama "merito ordinario". Una forte presenza medium tech ha conseguenze di ampia portata, per tutta la società. Non ultima, consente di mantenere in piena attività l'ascensore sociale. Frutto dell'esperienza di lungo corso a capo di un grande gruppo in ambito internazionale, il libro segna una presa di posizione decisa nel dibattito sulla crescita e sul ruolo dell'industria. È la testimonianza della passione per la lettura dei macro-fenomeni che hanno mutato il volto del globo e alla luce dei quali anche le politiche pubbliche dovrebbero essere ricalibrate. Lasciando da parte quelle interpretazioni eccessivamente sbrigative che oggi fanno la parte del leone nel dibattito economico, Rocca descrive dinamiche e fatti, fornisce argomenti e idee e dimostra che la globalizzazione non ci obbliga necessariamente a un destino da comprimari. Ma dovremo essere capaci di partire dai nostri punti di forza, da politiche che possano valorizzarli, da un cambiamento culturale che esalti ciò che funziona nel nostro Paese e sappia farne un esempio per tutti. Talvolta, però, alcuni discorsi sembrano un po’ approssimativi. Ad esempio, l’insistenza nel ritenere il medium tech (il settore manifatturiero) – sicuramente molto importante – il settore su cui puntare per risollevare le sorti italiane, ci sembra venata qua e là da una fiducia forse eccessiva. I discorsi sulla mobilità dei ricercatori, sul merito e sulla valorizzazione tanto dei giovani quanto dei silver workers contengono elementi di verità, ma sono portati avanti in modo un po’ superficiale: il tono generale è più da intrattenimento televisivo che non da tesi accuratamente documentate (anche se numerosi grafici corredano gli argomenti esposti). Siamo sicuri che la scarsa attrattività dei nostri atenei si risolva approntando corsi in inglese (spesso tenuti da docenti con una preparazione linguistica imbarazzante)? Problemi che pesano molto sulle nostre università – autonomia, allocazione delle risorse, politiche di reclutamento, rapporti con le imprese, solo per citarne alcuni – riteniamo avrebbero richiesto una trattazione più accurata. (Fonte: presentazione dell’editore e recensione di L. Sabatini su rivistauniversitas, ottobre 2014)

30 ANNI DI DOTTORATO DI RICERCA. L’ORA DEL 2+3
Autori: Nicola Vittorio, Giampaolo Cerri. Prefazione di Luigi Berlinguer - Exòrma, Roma 2013, pp. 31.
Nicola Vittorio e Giampaolo Cerri con questo volume scattano un’istantanea dello stato di salute dei nostri dottorati (introdotti nel 1980 ma attivati, nella sostanza, nel 1983), nati con finalità di innovazione scientifica e di raccordo strategico con il mondo delle professioni, ma progressivamente sacrificati alle ragioni (spesso insondabili) degli equilibri accademici, forieri di scelte che non sempre hanno salvaguardato qualità ed efficacia della formazione, anche dottorale.
Delineata la via europea all’innovazione, descritta evidenziando l’impegno della Commissione Europea per il dottorato (programma Marie Curie), gli autori si soffermano sull’istituzione delle scuole di dottorato in Italia e sui differenti modelli organizzativi elaborati da Cnvsu, Miur, Crui e Convui (Coordinamento dei nuclei di valutazione), che danno conto delle problematiche relative all’assetto logistico e formativo dei corsi. Questa intensa dialettica ha spinto il Ministero a emanare il nuovo regolamento del 2013, che vincola l’accreditamento dei corsi al rispetto di requisiti minimi ben precisi, a partire dalla composizione del collegio dei docenti, selezionati dall’ateneo sulla base del curriculum e della loro congruità scientifico-disciplinare rispetto alle linee scientifiche e curriculari dei dottorati. Il nuovo percorso dovrebbe rendere i nostri dottorati più appetibili e competitivi a livello internazionale, nel segno della qualità, della trasparenza, della qualità, dell’occupabilità e della mobilità. Tutti fattori opportunamente evidenziati dagli autori del libro, che hanno il merito di aver sintetizzato in maniera agile e chiara i primi trent’anni di vita del nostro dottorato, con lo sguardo rivolto all’immediato futuro: «A quasi 15 anni dall’applicazione della prima grande riforma europea del nostro Paese – piaccia o no ma il “3+2” questo è stato – si tratta di fare un passo ulteriore per tenere ancora il ritmo di quanto l’Europa sta facendo. Dopo tre lustri di “3+2” è venuto il momento di pensare alla costruzione del “2+3”». Un invito che gli autori corroborano con dovizia di dati e con una proposta conclusiva di dieci idee, enunciate «per ricominciare a ragionare di università e del suo ruolo nella società della conoscenza», proiettata verso orizzonti cognitivi e culturali in continuo divenire. (Fonte: A. Lombardinilo, rivistauniversitas  giugno 2014)

IL GOVERNO MANAGERIALE DELLE UNIVERSITÀ. Dal direttore amministrativo al direttore generale
A cura di Sandro Mainardi, Claudia Piccardo, Enrico Periti,  Il Mulino, Bologna 2013, pp. 232.
La legge di riforma dell’Università, conosciuta come «Legge Gelmini», è entrata in vigore all’inizio del 2011. Molte le novità che sono state introdotte, soprattutto a livello di governance. Una in particolare si mostra come novità assoluta: il ruolo del Direttore amministrativo, così come lo si è conosciuto nel corso degli anni, è sostituito da quello di Direttore generale, individuato come «organo» dell’Ateneo insieme al Rettore, al Consiglio d’amministrazione, al Senato accademico, al Nucleo di valutazione e al Collegio dei revisori dei conti. Al Direttore generale viene attribuita la «complessa gestione e attivazione dei servizi, delle risorse strumentali e del personale tecnico-amministrativo dell’ateneo». Come interpretare il nuovo ruolo in rapporto alle esigenze degli atenei, organizzazioni complesse che devono sempre più affrontare la loro missione con lo sguardo alla razionalizzazione e standardizzazione dei costi, alla gestione delle risorse umane per competenze, alla performance dell’intera organizzazione? Un interrogativo cui questo volume vuole contribuire a rispondere, fornendo numerosi e stimolanti spunti di riflessione. (Fonte: presentazione dell’editore)

QUALE UNIVERSITÀ?
Gian Candido De Martin (a cura di). Dossier in “Dialoghi”, anno XIV, n. 2, aprile-giugno 2014.
«L’università è un cantiere aperto, nonostante (oppure anche in parte a causa delle tante riforme anche recenti). Essendo del tutto evidente l’esigenza imprescindibile di progetti chiari per il futuro, di cui debbono essere protagoniste principali le stesse università, anche per favorire percorsi attuativi realmente condivisi e capaci di migliorare la qualità della formazione universitaria, in una prospettiva sempre più internazionale». Così Gian Candido De Martin nella sua introduzione al dossier «Quale università?» - pubblicato in Dialoghi n. 2/2014 (il trimestrale promosso dall’Ac in collaborazione con l’Istituto “Vittorio Bachelet” e con l’Istituto “Paolo VI”) -  che prosegue il filo del discorso sulle istituzioni formative, «dopo l’attenzione dedicata alla scuola nel precedente dossier, cerchiamo ora di affrontare la questione dell’università, prendendo in esame i nodi principali che riguardano, a vario titolo, queste sedi di “istruzione superiore”, spesso ultrasecolari e anteriori all’ordinamento dello Stato unitario». Nodi e interrogativi da cui non si può prescindere (quale idea di università abbia senso oggi, quale governo delle università, quale formazione nell’università, quale internazionalizzazione dell’università) sono al centro dei contributi di Andrea Aguti, Mario Brutti, Luciano Corradini, Monica Del Vecchio, Giorgio Grasso, Andrea Lavazza, Sara Martini, Rita Pilotti, Gian Cesare Romagnoli e Giuseppe Tognon. Tognon richiama i suoi colleghi a una considerazione positiva e creativa dell’analisi educativa dei bisogni generazionali e invita ad adottare la personalizzazione didattica, il service learning, il metodo cooperativo, l’uso delle tecnologie, la diffusione massiccia di piattaforme librarie digitali, l’utilizzo di un solido sistema mutualistico di tutoraggio tra pari. Il primo e più grave problema della nostra università – conclude Tognon – è pedagogico, di cultura dell’insegnamento e di cura dell’apprendimento, oltre che di condivisione del piacere di studiare e di discutere. Il contributo di Andrea Aguti arriva a fornire sull’università sei “indicazioni di senso”. La prima è la ricerca della verità come fine fondamentale dello studio universitario. La seconda riguarda l’utilità della conoscenza acquisita in università. La terza guarda alla finalità formativa che non può limitarsi all’acquisizione di competenze e abilità professionali. La quarta si concentra sul rapporto tra ricerca e insegnamento. La quinta postula l’unità, la coerenza e la relativa semplicità che dovrebbero caratterizzare l’insegnamento. L’ultima ricorda che il fine generale è rendere migliore e più significativa la vita dell’uomo. (Fonte: C. Finocchietti, rivistauniversitas ottobre 2014)

AUTONOMIA E RESPONSABILITÀ DELL'UNIVERSITÀ. GOVERNANCE E ACCOUNTABILITY  
Lorenzo Alberto Cassone e Lorenzo Sacconi (a cura di). Giuffrè Editore 2013, 226 pg.
Il mondo dell'università italiana attraversa una fase continue riforme legislative. La causa ultima risiede nella richiesta da parte della società che l'università, finanziata (ma sempre meno, in verità negli ultimi anni) dallo Stato, 'renda conto' dell'efficacia delle sue attività in relazione alle sue finalità e ricadute d'interesse pubblico. Nondimeno, le riforme sono accompagnate da comunicazioni volte a screditarla. Per valutare l'attuazione delle riforme è indispensabile fare attenzione ai temi della governance e dell'accountability dell'università, e porli in relazione ai due principi di autonomia e di responsabilità sociale. Vi sono differenti impostazioni a tale proposito. Da un lato, vi è l'interpretazione dei cambiamenti secondo schemi di governance che tengono in considerazione la natura di bene pubblico dei prodotti, i costi e i benefici della cooperazione tra diversi stakeholder in un contesto di investimenti specifici e complementarietà essenziali tra il capitale umano impiegato in didattica e ricerca, l'incompletezza dei contratti con i relativi rischi di opportunismo, e soprattutto la necessità di bilanciare molteplici interessi. Il che rende l'università un'organizzazione che richiede una governance multi-stakeholder e democratica, nel senso che la governance serve a raggiungere equi bilanciamenti tra interessi e impedisce l'abuso di un potere sull'altro. In questo contesto l'accountability degli atenei serve a 'rendere conto' ai vari stakeholder, depositari a gradi differenti di diritti di partecipazione e informazione sulle decisioni. Dall'altro lato, secondo i dettami ormai un po’ datati del New Public Management, vi è l'intenzione di implementare sistemi di gestione, pensati per le imprese private attraverso gli occhiali del modello principale-agente, di fatto, limitando l'autogoverno delle università attraverso l'introduzione di uno spazio di potere affidato a soggetti esterni (rappresentanti dei principali), e riducendo le faculty ad agenti di tali controllori esterni. Secondo questa impostazione, il controllo dell'università dovrebbe essere prevalentemente esterno e la rendicontazione dovrebbe essere quindi rivolta ai controllanti esterni, ovvero i 'principali' dell'università. Con analisi empiriche e teoriche, questo volume nella prima parte studia le trasformazioni in corso, cercando di stabilire quale dei due modelli suddetti sia più fondato. L'idea di università autonoma e socialmente responsabile verso gli stakeholder è alla base (nella seconda parte) dell'analisi dei principi e delle esperienze di rendicontazione sociale (bilancio sociale) delle Università Autonomia e responsabilità sociale dell’Università. (Dalla presentazione di F. Bellezza)