lunedì 15 settembre 2014

INFO UNIVERSITARIE n. 8 15-09-2014


IN EVIDENZA

UNIVERSITÀ. IN SINTESI IL RAPPORTO OCSE 2014 “EDUCATION AT A GLANCE”
L'occasione per un confronto internazionale sullo stato dell'istruzione è fornita dal consueto rapporto annuale dell’Ocse, presentato il 9 settembre. Si tratta di "Education at a Glance 2014"  che raccoglie i dati su 34 nazioni sviluppate con un sistema di governo democratico e un'economia di mercato. Un ritratto con luci e ombre per l’Italia. Di seguito in sintesi i dati del rapporto relativi all’università.
Spesa pubblica per l’istruzione. Tra i 34 Paesi esaminati, l'Italia è l'unico Paese che ha registrato una diminuzione della spesa pubblica per le istituzioni scolastiche tra il 2000 e il 2011 ed è l'unico Paese dov'è stata registrata la riduzione più cospicua del volume degli investimenti pubblici: il 5%. L'Italia dedica a scuola e università una spesa totale pari al 5% del Pil (dati 2011), e ciò ci colloca al quintultimo posto della classifica stilata dall'Ocse.
Con l'avvento della crisi, proprio nel momento in cui tutti gli altri Paesi hanno investito sulla conoscenza (+25% la Germania, +41% la Finlandia, tra i paesi Ocse la media è del 38%), il nostro paese ha tagliato la spesa del 3%. Si investe appena il 9% rispetto al 13% dei Paesi Ocse e al 12% dei 21 Paesi Ue. Tra il 1995 e il 2011 la spesa per studente nella scuola primaria, secondaria e post secondaria non terziaria è diminuita del 4%. Se nell'insieme la spesa per studente della scuola dell'infanzia e primaria è in linea con la media Ocse (8.448 dollari contro 8.296), quella per studente della secondaria è inferiore del 7% (8.585 dollari contro 9.280), e per gli studenti universitari è addirittura del 28% più bassa (9.990 dollari contro i 13.958 della media dei Paesi industrializzati).
Iscrizioni all’università. Solo il 47% dei 18enni si avvia a iscriversi a un ateneo, contro il 51% del 2008, allargando quindi le distanze sia rispetto alla media Ocse che ai 20 Paesi del G20, dove il tasso di iscrizione è del 58%.
Diplomi e Lauree (Tabella A1.3). La percentuale di 25-34enni con istruzione terziaria supera il 39% nella maggior parte dei Paesi Ocse, mentre tra i 55-64enni ciò accade soltanto in Canada, Israele, Federazione Russa e USA. In Brasile soltanto il 14% dei 25-34enni ha un’istruzione terziaria e meno del 14% dei 55-64enni la possiede in Brasile, Cile, Repubblica Ceca, Italia, Messico, Polonia, Portogallo e Turchia. Nonostante la riduzione degli iscritti all'università, il livello di istruzione in Italia  è complessivamente aumentato (è cresciuta la percentuale di laureati di 25-34 anni, soprattutto tra le donne). Ma la percentuale dei senza diploma (28%) è la terza più alta dell’Ocse, dopo Portogallo e Spagna, e resta molto al di sopra del 17,4% della media Ocse. Il tasso dei laureati, pur essendo salito dall'11% al 22%, è invece il quartultimo tra i Paesi presi in considerazione (34esimo su 37). In Italia vi sono anche differenze regionali: i 30-34enni che completano un’istruzione terziaria (anno 2011) variano dal 15% in Campania al 27% in Puglia (dati Eurostat). Il punteggio medio in matematica di un laureato italiano tra i nostri adulti (289 punti) è lo stesso di un diplomato coetaneo di scuola superiore finlandese (292), olandese o giapponese (286).
Differenze di genere. Segnali di miglioramento arrivano invece sulle differenze di genere: da noi il divario tra laureati maschi e femmine è inferiore rispetto ad altri Paesi. Per esempio, il 40% delle nuove lauree in ingegneria è stato conseguito da donne (in Germania sono solo il 22%).
Dottorato di ricerca (Secondo il rapporto Ocse “Doctoral graduates are those who have obtained the highest level of formal education, and typically include researchers who hold a Ph.D”). In base a dati del 2012, l’1,6% in media dei giovani nei Paesi Ocse avrà conseguito il dottorato di ricerca in confronto all’1% del 2000. I Paesi con il più alto tasso di dottorati sono la Repubblica Ceca, la Danimarca, l’Irlanda, l’Italia, la Nuova Zelanda, la Repubblica Slovacca e la Gran Bretagna, Paesi dove il numero di dottori di ricerca è aumentato almeno dell’1% fra il 2000 e il 2012. Sebbene il tasso di dottori di ricerca tra le le donne sia inferiore (1,5%) rispetto a quello dei maschi (1,7%), in numerosi Paesi la proporzione di donne che ottengono il dottorato è maggiore di quella dei maschi. In Finlandia, Italia, Latvia, Portogallo e USA la prevalenza rispetto ai maschi delle donne dottori di ricerca e dello 0,2%. (Fonte: http://www.oecd.org/edu/Education-at-a-Glance-2014.pdf 09-09-2014)
  
FONDO DI FINANZIAMENTO ORDINARIO (FFO) DELLE UNIVERSITÀ 2014. QUOTA PREMIALE AL 18%. PREVISIONE SPESA FFO 2014: 7.010.580.532 EURO
Il ministro Stefania Giannini, scrivendo alla CRUI per anticipare i provvedimenti in agenda per il sistema universitario, ha dichiarato di voler introdurre una “rivoluzione” nell’attribuzione del FFO ai diversi atenei a partire dal 2014*: sostituire progressivamente, nel giro di 5 anni, la quota base “fissa” ad una quota derivata dal “costo standard di formazione per studente in corso”. Una rivoluzione che avvantaggerebbe soprattutto quegli atenei particolarmente efficaci nel gestire l’amministrazione, che cioè riescono a smaltire le pratiche di un maggior numero di studenti con un costo minore. La quota premiale sarà inoltre ampliata già dal 2014 fino al 18%, e ripartita per le percentuali di seguito indicate: 10% sulla base dei risultati di internazionalizzazione della didattica; 70% sulla base dei risultati della VQR (Valutazione della Qualità della Ricerca); 20% in base a valutazione delle politiche di reclutamento. Sarà inoltre mantenuta una quota dell’1,5% del FFO totale per interventi perequativi. Infine, per evitare particolari squilibri, sarà mantenuta la soglia di salvaguardia del 3,5%: nessun ateneo potrà cioè ricevere meno del 96,5% del FFO dell’anno precedente.
*Secondo lo schema di decreto trasmesso dal MIUR per i pareri di competenza il 10-09-14 (vedi http://tinyurl.com/l5ubsjo) la previsione di spesa per l’FFO 2014 è di 7.010.580.532 euro in cui sono compresi:
-       Interventi quota base FFO: il 20% di 4.911.407.231 euro assegnati in proporzione al peso di ciascuna università come risultante dal modello del Costo standard di formazione per studente in corso.
-       Assegnazione per finalità premiali: 1.215.000.000 euro (18%).
-       171.748.716 euro per la chiamata di professori di seconda fascia, secondo le procedure di cui agli articoli 18 e 24, c. 6, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 relativi al consolidamento del piano straordinario per le chiamate di professori di seconda fascia finanziate negli esercizi finanziari 2011 - 2012 - 2013.

I TEST PER L’ACCESSO ALL’UNIVERSITÀ HANNO BUONA VALIDITÀ PREDITTIVA E DI COSTRUTTO 
Uno studio è stato effettuato per i test di ammissione delle Facoltà di Ingegneria che aderiscono al Cisia (Consorzio Interuniversitario Sistemi Integrati per l'Accesso) e i dati raccolti (per il Politecnico di Torino) hanno mostrato una significativa correlazione tra punteggio del test di ammissione e risultati nella carriera studentesca: punteggi alti al test correlano con voti alti agli esami, laurea nei tempi previsti, basso rischio di abbandono. E' importante notare che il test di ammissione di Ingegneria presenta lo stesso difetto già considerato per quello di Medicina, cioè la cattiva distribuzione dei punteggi, con la parte alta della scala di valutazione sostanzialmente spopolata; inoltre il punteggio del test di ammissione ha una correlazione molto debole con il voto di maturità. Uno studio analogo è in corso per i Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia. Giova anche ricordare che a Medicina il tasso di abbandono precedente all'adozione del numero chiuso era di circa il 70% mentre quello attuale è inferiore al 30%.
Si rileva pertanto che i test di ammissione, sebbene alquanto inadeguati, mantengano ciononostante una buona validità predittiva e di costrutto, ed è sicuramente giustificato sia cercare di migliorarli che monitorare costantemente la correlazione tra il punteggio in ingresso e la carriera universitaria fino alla laurea. Sarà sempre possibile argomentare che i dati raccolti finora sono insufficienti per dare una valutazione definitiva; ma per il momento il nostro provvisorio giudizio è che il test di ammissione all'università, pur coi suoi ovvi difetti, non funziona poi così male. (FQ, 12-09-2014)

RECLUTAMENTO. TROPPE DUE FIGURE DIVERSE DI RICERCATORI A TEMPO DETERMINATO
Su Il Sole 24 Ore anche Dario Braga constata il fallimento della “tenure track all’amatriciana” (questa la profetica definizione che era stata data dai meno sprovveduti) e rilancia una proposta in larga parte sovrapponibile a quella del CUN: «Alla prova dei fatti due figure diverse di Rtd (A e B) sono davvero troppe. Teniamo il Rtd come canale di accesso (tenure track), semmai portandolo a 5 anni, e rinunciamo al Rtda (che, de minimis, andrebbe comunque svincolato dai punti organico). Allarghiamo per converso la possibilità di utilizzare gli assegni di ricerca in modo più efficiente e flessibile rimuovendo il limite dei quattro anni ma, introducendo, al contempo, un gradino salariale che garantisca dopo il quarto anno incrementi salariali consistenti e compensativi. Se poi proprio volessimo “cambiare verso” dovremmo superare la logica di gestire il personale mediante “punti organico” lasciando agli atenei la libertà di lavorare sui loro bilanci in funzione delle risorse reali e non sulla base di programmazioni virtuali.» (Fonte: D. Braga, IlSole24Ore 04-08-2014; G. De Nicolao, Roars 05-08-2014)

XXX CICLO DEL DOTTORATO DI RICERCA. DA 12.338 POSTI NEL 2013 A 9.189 POSTI NEL 2014 (- 25,5%)
I dati relativi all’accreditamento dei corsi di dottorato per il XXX ciclo sono stati resi noti Il 30 luglio dall’ANVUR. Il XXX ciclo bandisce 9.189 posti complessivi, di cui 2.049 senza borsa. In ogni ateneo italiano avremo in media 113 posti a bando, di cui 25 senza borsa. Con i suoi 903 corsi accreditati, il XXX ciclo conferma la riduzione dell’offerta dottorale provocata lo scorso anno dal DM 45/2013, quando – per soppressione e accorpamento – si era passati dai 1.557 corsi del XXVIII ciclo ai 919 del XXIX. Inoltre solo il 2,87% dei corsi di dottorato del XXX ciclo è organizzato in collaborazione con imprese italiane, mentre è del tutto irrisoria la presenza di aziende dall’estero. Il vincolo di copertura con borsa è di almeno il 75% dei posti a bando, come adottato dalle “Linee Guida” su indicazione dell’ANVUR. L’introduzione di questa misura – di per sé auspicabile – senza la necessaria previsione di una dotazione finanziaria aggiuntiva, non poteva che risolversi in un’emorragia di posti a bando. Tra il 2013 e il 2014, infatti, si è passati da 12.338 a 9.189 posti, con una diminuzione del 25,5%. Come era prevedibile, per soddisfare il vincolo del 75% le università hanno scelto la strada più semplice ed economica: agire sul contingente delle posizioni bandite piuttosto che aumentare le borse. Così, risulterà definitivamente compromessa la posizione dell’Italia, che già nel 2012 si attestava al terzultimo posto su 28 Paesi europei per rapporto tra dottorandi ogni 1000 abitanti. Lo stesso Rapporto ANVUR mostra come, nel 2013, solo l’1,5% dei dottorandi senza borsa ha beneficiato di un assegno di ricerca e il 4,9% di una copertura derivante da altre risorse. In più anche sui dottorandi senza borsa del XXX ciclo continuerà ad abbattersi  una tassazione ritenuta iniqua che procura un gettito,  in media, di solo poco più di 18.000 euro per ateneo. L’ADI (Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani) auspica il superamento del dottorato senza borsa finanziando la copertura totale dei posti banditi e la cancellazione delle tasse di iscrizione e frequenza ai corsi. (Fonte: A. Bonatesta, http://tinyurl.com/mfn4w6k 13-09-2014)

RETRIBUZIONI. CHI PAGA IL CONGELAMENTO DEI CONTRATTI NEL PUBBLICO IMPIEGO
Il congelamento dei contratti è storia che va avanti ormai da una decade – dalle manovre “lacrime e sangue” di Giulio Tremonti (anno 2010) – e ha permesso finora allo Stato di risparmiare circa 12 miliardi di euro (stime della Ragioneria) grazie alle proroghe di volta in volta approvate. Quella annunciata ieri per il 2015 ne vale altri 2-3. A dicembre scorso, la legge di stabilità targata Letta-Saccomanni aveva confermato anche per il 2014 il blocco dei rinnovi contrattuali e degli stipendi individuali compreso il comparto sanitario. A queste si aggiungeva un’ulteriore diluizione dei tempi per incassare le buonuscite (il Tfr), con importi erogati in più tranche e più piccole. Cosa cambia? Che nel frattempo i soldi tenuti in caldo dallo Stato non si rivalutano, e questo comporta una perdita per il dipendente fino al 6-7 per cento del totale, e che solo la deflazione (i prezzi che scendono) può rendere meno dolorosa. Il risparmio dello Stato fa da contraltare al salasso pagato dagli statali. A fronte di una retribuzione pro capite di 34.576 euro, secondo la Cgil il mancato adeguamento dei contratti è costato in media ai lavoratori pubblici 4.800 euro, 600 dei quali solo per il 2015. Calcoli generosi se si considera che la Uil e il sindacato di base stimano una perdita media di 3000 euro l’anno. Secondo il Sole 24 Ore, gli insegnanti hanno perso 3.300 euro, i docenti universitari 9.500 (4.598 i ricercatori) e i medici 7.500. Questo se si parla di impiegati. Ma l’austerità è costata anche ai dirigenti, da quelli di prima fascia della presidenza del Consiglio (11.661 euro) a quelli degli Enti non economici (21.203 euro). Soldi che non torneranno mai più, e che ovviamente avranno un riflesso negativo anche sulla condizione previdenziale (con minori contributi versati e quindi, pensioni più basse). Negli ultimi cinque anni le buste paga sono rimaste praticamente ferme grazie al congelamento delle retribuzioni individuali, con alcune eccezioni (Regioni autonome e magistratura). (Fonte: C. Di Foggia, FQ 04-09-2014)


ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE

ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE. NUOVE PROCEDURE DAL 2015
E’ stato approvato in commissione Affari Costituzionali alla Camera dei deputati un importante emendamento al decreto sulla P.A. che riforma l’Abilitazione scientifica nazionale dei docenti universitari.  “Il nuovo sistema – afferma il ministro Giannini – rende più snella la selezione e responsabilizza gli atenei: la qualità delle loro assunzioni peserà sulla quota premiale del Fondo di finanziamento che ricevono ogni anno. In attesa che il decreto diventi legge – chiude Giannini – il Ministero sta già lavorando ai provvedimenti attuativi per far partire quanto prima la terza tornata di abilitazioni con la nuova procedura”.  L’emendamento approvato prevede, fra l’altro, che la terza tornata sia indetta entro il prossimo 28 febbraio 2015. La durata dell’abilitazione sarà di 6 anni e non più di 4. Serviranno 10 e non più 12 pubblicazioni minime per partecipare. La domanda potrà essere presentata in qualunque momento dal candidato. Con un regolamento del Miur si stabilirà il tempo limite entro il quale chi fa domanda dovrà essere valutato. Chi non è abilitato potrà ripresentarsi per lo stesso settore e per la stessa fascia di docenza trascorsi 12 mesi dalla precedente candidatura. (Fonte: www.corriereuniv.it 28-07-2014)


CLASSIFICAZIONI DEGLI ATENEI

CLASSIFICA ARWU (ACADEMIC RANKING OF WORLD UNIVERSITIES) 2014
La classifica Arwu, elaborata dalla Shanghai Jiao Tong University, per l'edizione 2014 prende in considerazione 5 parametri: premi internazionali (Nobel e special Medal) di ex studenti (10%) o di ricercatori della singola Università (20%), le elevate citazioni in Thomson-Reuters (20%), le pubblicazioni “Nature & science” (20%), le pubblicazioni tecnologico-sociali (20%). Questi parametri sono poi correlati con lo staff accademico, dando un ulteriore parametro di produttività pro-capite (10%). Va rilevato che non vi è una valutazione specifica dell’area umanistica. Sulla base dei punteggi conseguiti, facendo pari a 100 il punteggio totale dell’Università migliore (Harvard) vi è una graduazione delle Università tra 1 e 100 specificando i punteggi totali. Nelle fasce 101-150, 151-200, etc. le Università sono inserite in ordine alfabetico, senza specificare il punteggio totale ma indicando il valore dei sei parametri dai quali comunque deriva la possibilità di stimare la posizione di ciascun ateneo. Da questo calcolo, nella fascia 151-200 Roma-Sapienza è al n. 152 con 20.1 punti (con punteggi concernenti i parametri rispettivamente di 11.8, 13.3, 5.1, 11.6, 53.4, 17.9), posizione buona soprattutto per la produttività pro-capite, migliorata sensibilmente negli ultimi anni, mentre sono peggiorati i valori relativi a citazioni e “Nature & science”, conseguenza diretta del definanziamento della ricerca italiana. Dopo la Sapienza (20.1 punti) le altre Università italiane in questa fascia hanno 19.1 punti (Pisa), 18.4 (Milano Statale), 18.2 (Padova), 17.2 (Torino), 16.9 (Bologna). Seguono nella fascia 201-300 Firenze (15.5) e il Politecnico di Milano (15.4) e nella fascia 301-400 Napoli-Federico II (13.2), Pisa-Scuola Normale (12.7), Roma-Tor Vergata (11.2), Milano Bicocca (11.1). Infine nel range 401-500 vi sono Parma e Pavia (10.9), Ferrara (10.8), Trieste (10.7), Genova (10.5), Perugia e Università Cattolica del S. Cuore (10.3), Palermo (9.9) e Cagliari (9.6). (Fonte: www.uniroma1.it 19-08-2014)

CLASSIFICAZIONE DELLE UNIVERSITÀ. NON MALE QUELLE ITALIANE
Se si vanno a valutare le università che privilegiano la qualità della ricerca scientifica si vede che le università italiane non vanno poi così male. Ad esempio in quello della National Taiwan University (NTU Ranking) vi è un’università tra le prime 100 (Milano statale), 5 tra le prime 200 e così via, per un totale di ben 26 università tra le prime 500. E tra queste ci sta anche Catania, che occupa il 389° posto. Aggiungiamo che nel ranking ARWU (vedi nota seguente) vi sono 21 università tra le prime 500, occupando così l’Italia il quinto posto al mondo per numero di università in classifica (a pari merito con Francia e Canada), dopo gli USA, la Cina, la Germania e il Regno Unito. In sostanza, sono un quarto delle università italiane (pubbliche e private, anche mettendo tra queste ultime le più improbabili ed escludendo solo le telematiche). E se consideriamo le università statali, anche valutando che le private in queste classifiche fanno una ben magra figura (in quasi tutte le classifiche è presente solo la Cattolica di Milano), siamo al 34,5%. È una percentuale molto elevata, se si considera che le prime 500 università al mondo (ce ne sono circa 17.000) sono la crema delle università e se si tiene conto del fatto che invece le università di ricerca USA (pubbliche e private) tra le prime 500 sono il 32,6% e, in particolare, del fatto che la spesa per il sistema universitario italiano rapportata al PIL è la penultima in Europa. Insomma è come dire che buona parte delle università italiane si colloca nel top del 3% mondiale. (Fonte: redazione Roars 23-09-2014)

CLASSIFICAZIONI DELLE UNIVERSITÀ. L’ITALIA NEL TOP 3% DI TUTTE LE UNIVERSITÀ DEL MONDO
Se si volesse dar credito alle classifiche internazionali degli atenei (nonostante le loro falle scientifiche e le distorsioni che inducono nelle politiche formative nazionali), l’Italia ne uscirebbe tutt’altro che bocciata. Nel mondo ci sono circa 17.000 atenei. Sapere che 21 università italiane entrano nel top 500 (classificazione ARWU - Academic ranking of world universities), significa che l’università italiana – nonostante una spesa rapportata al PIL che è la penultima in Europa – vede una parte non piccola delle sue università collocarsi nel top 3% di tutte le università del mondo, un risultato che poche nazioni possono vantare. A chi lamenta l’assenza degli atenei italiani dal top 100, va ricordata la valutazione di un’esperta di higher education come Ellen Hazelkorn: per entrare tra i top 100 un ateneo deve spendere annualmente qualcosa come 1,5 miliardi di Euro. E se guardiamo al gradino più alto del podio, le spese operative annuali di Harvard nel 2012 ammontano a 3 miliardi di Euro, il 44% dell’intero Fondo di Finanziamento Ordinario italiano. (Fonte: G. De Nicolao, Roars 19-08-2014)

CLASSIFICA ARWU DELLE MIGLIORI UNIVERSITÀ PER LO STUDIO DI SPECIFICHE MATERIE
L'Arwu (Academic ranking of world universities) dell'ateneo Jao Tong di Shangai, oltre alle 500 eccellenze tra le università mondiali, ha diffuso anche la classifica delle 200 migliori università per lo studio di specifiche materie. Nel settore della matematica, l'Italia conta in lista 13 atenei. Milano, Pisa e la Sapienza rientrano nel top 100 (76esimo-100esimo posto), a seguire il Politecnico di Milano, la Normale di Pisa, Padova, Pavia e Parma. Tra la 151esima e la 200esima posizione vi sono la Sissa e il Politecnico di Torino - che non rientrano però nella classifica generale - Bologna, Calabria e Tor Vergata.
Bologna incassa un ottimo risultato con il 50esimo posto mondiale tra le facoltà di fisica. Buono anche il risultato dell'Università di Padova (51esimo e 76esimo posto) e della Sapienza (76-100). Nella classifica delle migliori 200, ci sono anche la Normale, Firenze, Pisa, Torino (101esima-150esima posizione). E Ancora Catania, Genova, Bicocca, Federico II, Pavia, Tor Vergata e Trieste (151esimo-200esimo posto). Milano e Torino, invece, secondo l'Arwu, sono i migliori per lo studio della medicina e a livello mondiale si piazzano tra il 76esimo e il 100esimo posto. Seguono Bologna e Padova (101-150), Firenze, Genova, Federico II, La Sapienza (151-200).
L'Università Bocconi, assente nella classifica generale, è al 101-150esimo posto delle università mondiali per l'insegnamento dell'economia. La statale di Milano si piazza invece tra il 151-200/mo posto. Sono le uniche due italiane nella classifica mondiale. Insegnamenti come computer e tecnologie contano solo 4 atenei nostrani nel top 200 e non ai primissimi posti: Politecnico di Torino, Sapienza (101-150), Politecnico di Milano e Università di Trento (151-200). (Fonte: www.rainews.it 16-08-2014)

CLASSIFICA CENSIS 2014 PER L’AREA DI SOCIOLOGIA E SCIENZE POLITICHE
Nella classifica Censis per l’area di Sociologia e Scienze Politiche 2014 primeggia l’Università di Bologna, che si conferma una vera eccellenza nel settore, ottenendo il primo posto con il punteggio massimo: 110/110. Al secondo – con un ottimo 108,5 – c’è  Trieste, mentre al terzo si piazza Siena (102,5). La graduatoria valuta la qualità dei corsi di laurea di I° livello afferenti alle seguenti classi: Scienze del Turismo (L-15); Scienze dell’Amministrazione e dell’Organizzazione (L-16); Scienze della Comunicazione (L-20); Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali (L-36); Scienze Sociali per la Cooperazione, lo Sviluppo e la Pace (L-37); Servizio Sociale (L-39); Sociologia (L-40). Poco più indietro, dal quarto al decimo posto della classifica Censis per l’area di Sociologia e Scienze Politiche 2014, finiscono nell’ordine Trento (101,5), Padova (99), la Statale di Milano (96,5), Macerata (96), Firenze (95,5), Genova (95) e la coppia formata da Torino e la Bicocca di Milano, che ottengono entrambe 93 punti di media. La zona centrale della classifica Censis per l’area di Sociologia e Scienze Politiche 2014 è occupata, invece, dagli atenei di Sassari (91) e Urbino (89,5), dall’Università del Piemonte Orientale (88,5), da Pisa (86,5), Roma Tre (86) e Perugia (85,5). Nella seconda parte della graduatoria si piazzano Cagliari (85), “La Sapienza” di Roma (81,5), le università del Salento (79,5), della Calabria (77,5) e del Molise (75), il duo Catania-Palermo (appaiate, con una media di 74) e la “Federico II” di Napoli (73,5). Il terzetto di coda della classifica Censis per l’area di Sociologia e Scienze Politiche 2014 è formato, infine, da Bari (72,5), Messina (70) e Salerno, di nuovo all’ultimo posto, con un punteggio medio pari a 67. (Fonte: M. Russo, www.universita.it 20-08-2014)

CLASSIFICA CENSIS 2014 PER L'AREA DI PSICOLOGIA
L’Università di Bologna guarda tutti dall’alto in basso nella classifica Censis per l’area di Psicologia 2014. Con 110 punti di media – il massimo possibile – l’ateneo si conferma al primo posto nella graduatoria che giudica i corsi di laurea triennale appartenenti alla classe di Scienze e Tecniche Psicologiche (L-24), finendo davanti all’Università di Padova (104), che guadagna una posizione rispetto all’anno scorso ed è seconda, e alla coppia formata da Torino e Trento (tutt’e due con 103), che condividono il terzo posto. Ai piedi del podio della classifica Censis per l’area di Psicologia 2014 si è collocata Milano-Bicocca (97,5) e subito dopo il terzetto composto di “La Sapienza” di Roma, l’Università di Firenze e quella di Pavia (a pari merito, con 97 punti), seguito da Trieste (95). Le posizioni centrali della classifica Censis per l’area di Psicologia 2014 sono occupate da Pisa (94,5) e Genova (appaiate con 93,5), dalla “Federico II” di Napoli (92,5), dagli atenei di Bergamo (91,5), Bari (89,5) e Parma (89,5) e dall’Università del Salento (86).
Nelle posizioni medio-basse della classifica Censis per l’area di Psicologia 2014 sono finite, invece, le università di Urbino e Perugia (a pari merito con 83,5), Cagliari (83), Chieti e Pescara (81,5), la Seconda Università di Napoli e  Messina (entrambe con un punteggio di 79). Infine, le ultime tre posizioni della graduatoria sono spettate al duo Palermo-Catania, terzultimo con 78,5 punti, a Verona, penultima con 76, e all’Università dell’Aquila, anche quest’anno ultima del gruppo con una media pari a 71,5. (Fonte: universita.it 24-08-2014)

CLASSIFICA CENSIS 2014 PER L’AREA DI SCIENZE MOTORIE
Nella classifica Censis per l’area di Scienze Motorie 2014, l’Alma Mater, con 101,5 punti, precede Torino, che è seconda con una media di 99, e Udine, i cui 98,5 punti valgono il terzo posto.
Nella top ten della classifica Censis per l’area di Scienze Motorie 2014 ci sono anche, nell’ordine, Urbino (96,5), Roma “Foro Italico” a pari merito con Pavia (95,5), Cassino (93,5), Verona (91,5), la Statale di Milano (90) e Cagliari (89). A centro classifica si sono piazzate, invece, l’Insubria (88,5), Perugia e Brescia (entrambe con 88 punti), Roma “Tor Vergata” (87,5), Firenze (87), Messina (86,5), Padova (86), Ferrara (85,5) e Parma (83,5). Nella parte bassa della classifica Censis per l’area di Scienze Motorie 2014 sono finite, invece, L’Aquila (83), gli atenei di Genova (81), Catania (80), Chieti e Pescara, l’accoppiata Foggia-Napoli “Parthenope” (tutt’e due con 77,5) e Università di Bari. Infine, le ultime tre della classifica Censis per l’area di Scienze Motorie 2014 sono Pisa (75), l’Università del Molise, fanalino di coda a pari merito con quella di Palermo (72). (Fonte: universita.it 24-08-2014)

CLASSIFICA ARWU. CATEGORIA ENGINEERING-TECHNOLOGY
L’Academic ranking of world universities (Arwu) edizione 2014, prodotto dall’Università Jiao Tong di Shanghai (Cina), colloca il Politecnico di Milano al primo posto in Italia e al 18° in Europa (con un balzo di 23 posizioni rispetto al 2013) nella categoria Engineering -Technology. Con questo risultato il Politecnico di Milano entra nel ristretto «club» degli Atenei che sono classificati nelle prime 100 posizioni al mondo nei più autorevoli ranking internazionali (oltre ad Arwu, Qs-topuniversities, che classifica il Politecnico al 28° posto, e Times higher education, che lo classifica all’83°), di cui fanno parte solo 15 atenei europei. In questo gruppo, il Politecnico è il solo ateneo di un Paese latino insieme a sette università inglesi (Oxford, Cambridge, Imperial College, Manchester, Bristol e Southampton), due dei Paesi scandinavi (Dtu di Copenhagen e Kth di Stoccolma) e cinque dell’Europa centrale (Tu Monaco, Tu Eindhoven, Ku Leuven, Eth Zurigo ed Epfl Losanna). La presenza nella parte alta della classifica (le prime 100 università al Mondo rappresentano il migliore 0,5% degli atenei mondiali) in tutti e tre i ranking citati sopra è particolarmente significativa: in questo modo si certifica la posizione di eccellenza di questi atenei, indipendentemente dai diversi parametri che sono utilizzati dai singoli ranking per misurare la qualità della didattica e della ricerca. Il Politecnico di Milano ha scalato infine oltre 50 gradini nella classifica complessiva mondiale Arwu, raggiungendo il 240° posto, la migliore posizione mai occupata dal momento dell’istituzione del ranking. (Fonte: milano.corriere.it 19-08-2014)

CLASSIFICAZIONI DELLE UNIVERSITÀ. LUCI E OMBRE
La metodologia adottata per la classifica Arwu dall’Università Jiao Tong di Shanghai punta su dati facilmente accessibili e di forte impatto intuitivo, ma assai parziali. La qualità della didattica, per esempio, è valutata solo sulla base del numero di premi Nobel e medaglie Fields (il "Nobel" della matematica) che ciascun ateneo annovera tra i suoi laureati. Essere una "fabbrica di Nobel" è un fattore di ovvio richiamo, ma i Nobel sono solo 847 in tutto dalla fondazione del premio e le medaglie Fields appena 56, un campione non particolarmente significativo per valutare la qualità della didattica nel suo complesso, che però pesa per il 10% nella formula Jiao Tong. Poiché il numero di Nobel e Fields che insegnano o hanno insegnato in un'università incide addirittura per un quinto sul ranking complessivo in quanto indicatore di prestigio del corpo docente, è chiara la difficoltà strutturale di migliorare sensibilmente la propria posizione, difficoltà esacerbata per molti atenei italiani dal fatto che Jiao Tong, e questo di nuovo si spiega con le sue finalità, non considera le scienze umane.
Rankings ne esistono ormai molti, un po' di tutti i tipi. Alcuni, come ad esempio il noto QS, attribuiscono molto peso al fattore reputazionale, cioè, di fatto, a un sondaggio tra addetti ai lavori, poco affidabile e comunque soggetto a manipolazione (Sole 24 Ore del 9 settembre 2011). Altri, come il Times Higher Education, ricorrono ad un paniere più articolato di indicatori. L'Unione Europea ha deciso di intervenire promuovendo la creazione dell’U-Multirank (www.u-multirank.eu), che invece di produrre una hit parade unica offre la possibilità di confrontare i profili degli atenei in diversi settori di attività (ricerca, trasferimento tecnologico, orientamento internazionale, collaborazione regionale). L'obiettivo è di spostare l'attenzione dalle classifiche ai dati, e la piattaforma, varata da poche settimane, raccoglie, in effetti, dati interessanti e più analitici. (Fonte: A. Schiesaro, IlSole24Ore 27-08-2014)


DOTTORATO


DOTTORI DI RICERCA IN AZIENDA. 16 MILIONI DAL MIUR AL PROGETTO «PHD ITALENTS»
Ha avuto il via libera del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), il finanziamento del ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca destinato al progetto «PhD ITalents» che prevede la selezione di 136 giovani dottori di ricerca da inserire, per un periodo non inferiore ai due anni, in imprese fortemente orientate all'innovazione e alla ricerca.
L'iniziativa, che sviluppa un nuovo modello di placement dei dottori di ricerca, è realizzata in stretta collaborazione con la Fondazione della Conferenza dei Rettori delle Università italiane (Crui) e con Confindustria. Il finanziamento totale è di 16.236.000 euro, di cui 11 milioni stanziati dal Miur attraverso il Fondo integrativo speciale per la ricerca e il resto da privati. (Fonte: scitech.diariodelweb.it  06-08-2014)


FINANZIAMENTI

FINANZIAMENTI. LA «QUOTA PREMIALE» SALE AL 18% DEL FFO
Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini l’ha annunciato e lo aveva fatto sapere con una lettera al presidente della Conferenza dei rettori, Stefano Paleari, già a fine luglio. Da quest’anno i riconoscimenti economici per gli atenei più meritevoli peseranno di più: la quota premiale del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) passa, infatti, dal 13,5 al 18% (ovvero da 819 milioni a 1,3 miliardi). Contemporaneamente la clausola di salvaguardia che fissa un tetto al taglio che possono subire gli atenei da un anno all’altro scende dal 5 al 3,5%. «È un fatto importante. La cifra per le università che si mettono in gioco su base competitiva aumenta in modo sensibile sia in termini percentuali che in numeri assoluti», commenta Paleari. Certo, sul fronte della misurazione del merito, siamo ancora indietro. Manca un sistema di valutazione compiuto della qualità della didattica. Al momento l’unico parametro certo è quello relativo alla ricerca, licenziato dall’Anvur dopo anni di lavori (e non senza strascichi polemici) a luglio 2013 ed è relativo al periodo 2004-2010. Un «canone» da aggiornare, e senz’altro perfettibile, ma pur sempre un primo passo per la valutazione delle nostre università.
Se la «quota premiale» sale al 18%, il grosso dei finanziamenti (75%) resta comunque in capo alla cosiddetta «quota base», cioè ai parametri fino ad ora di spesa storica che, trascinandosi nel tempo, hanno finito per creare anche grandi disparità economiche fra gli atenei del tutto svincolate dal merito. È così che l’anno scorso l’università Bicocca di Milano (che nella classifica Anvur sulla qualità della ricerca era risultata prima a pari merito con l’università di Padova) ha ricevuto — in proporzione al numero di studenti — meno soldi di quella di Messina che stava in fondo alla classifica. Proprio per arginare queste storture, il ministero lancia un nuovo sistema di calcolo della quota base incentrato sui cosiddetti «costi standard» in modo che la dote cui ha diritto ciascun ateneo sia strettamente collegata al numero di corsi di laurea che ha acceso, a quanti sono i suoi studenti e docenti e al rapporto fra gli uni e gli altri. (Fonte: Corsera 07-09-2014)

FINANZIAMENTI. NELL’UE SOLO LA BULGARIA SPENDE MENO IN NOI PER L’ISTRUZIONE UNIVERSITARIA.
Negli ultimi anni buona parte degli atenei italiani ha ridotto alcuni squilibri e il sistema universitario è stato ricondotto su un sentiero di sostenibilità economica, nonostante il calo delle risorse a disposizione. Dal 2009 il finanziamento complessivo del MIUR al sistema universitario si è ridotto, infatti, di un miliardo di euro: -13% in termini nominali, -20% in quelli reali. L’investimento “appare nel complesso insoddisfacente nel confronto internazionale” e ANVUR chiede una “riflessione ampia”. Ma alla fine c’è un suggello rassicurante: tutto quanto si è svolto all’insegna del principio ispiratore dell’autonomia responsabile. In tutto questo bel discorso, viene omesso un punto essenziale, che ANVUR invece ricordava: in Italia la spesa in istruzione terziaria in rapporto al numero degli studenti è inferiore a quella media dei Paesi OCSE (-30%). Essendo l’Italia ai minimi europei per percentuale di laureati e avendo una spesa media per studente del 30% inferiore a quella media dei paesi OCSE, appare difficile giustificare i recenti tagli in nome della sostenibilità economica. Spendere meno di così è proprio difficile. E, infatti, nell’UE solo la Bulgaria spende meno in noi per l’istruzione universitaria. (Fonte: G. De Nicola, http://tinyurl.com/k4lqc6h  28-08-2014)


FORMAZIONE. OCCUPAZIONE

LA CLASSIFICA DELLE LAUREE CHE FANNO TROVARE LAVORO PIÙ RAPIDAMENTE
Stilata a partire dai dati raccolti dal consorzio AlmaLaurea, la classifica delle lauree che fanno trovare lavoro prima vede il trionfo di Odontoiatria. Ben il 97,4 per cento dei dentisti a cinque anni dalla laurea ha un’occupazione e, particolare non trascurabile, anche la loro retribuzione media è tra le più elevate: 1.976 euro mensili. I medici, invece, se la passano un po’ peggio: per raggiungere i colleghi dentisti sia a livello di tasso di occupazione che a livello di guadagni, i laureati in Medicina devono attendere un po’ di più, anche perché devono prima completare le specializzazioni. Dopo cinque anni dal conseguimento del titolo, i medici hanno una retribuzione media di 1.740 euro. Il primato di Odontoiatria rispetto alla percentuale di occupati al compimento dei cinque anni dalla laurea è condiviso con Scienze infermieristiche (anche in questo caso, si arriva al 97,4 per cento). Nella classifica delle lauree che fanno trovare lavoro più velocemente brilla anche Ingegneria. Cinque anni dopo aver concluso un corso di laurea di II livello, in media gli ingegneri guadagnano 1.676 euro, con un tasso di occupazione pari al 91,8 per cento. La parte del leone la recita Ingegneria meccanica (94,3 per cento di occupati, poco meno di 1.800 euro il guadagno medio), seguita da quella informatica (93,7 per cento, 1.665 euro) e quella biomedica.
A cinque anni dalla laurea specialistica/magistrale se la cavano bene anche i laureati in Informatica, che risultano occupati al 92 per cento e guadagnano mediamente 1.559 euro. Nella classifica delle lauree che fanno trovare lavoro, è in una posizione interessante anche Economia, specialmente per quanto riguarda il settore inerente alla gestione aziendale: in questo caso il tasso di occupazione è pari al 91,7 per cento, mentre la retribuzione media è pari a 1.512 euro al mese.
Non va tanto male neppure agli architetti, che nella classifica delle lauree che fanno trovare lavoro possono vantare un buon piazzamento grazie all’88,4 per cento di occupati. Bene anche gli interpreti, che hanno un lavoro nell’87,6 per cento dei casi (anche se la loro retribuzione media si ferma a soli 1.164 euro) e i laureati del settore agrario (84 per cento, con guadagni mensili pari a 1.185 euro in media).
Nulla di esaltante, invece, per ciò che concerne il tasso di occupazione dei laureati in Giurisprudenza a cinque anni dal conseguimento del titolo: in questo caso la percentuale si ferma al 76,7 per cento, mentre il guadagno medio è di 1.217 euro il mese. Anche peggio se la passano i laureati in Lettere, che lavorano solo nel 67,9 per cento dei casi e hanno una retribuzione di 1.019 euro. Ma, come emerge dalla classifica delle lauree che fanno trovare lavoro prima, sono gli archeologi i più penalizzati: per loro il guadagno medio è di appena 981 euro il mese, mentre la percentuale di occupati cala al 58,7. (Fonte: universita.it 28-07-2014)

FORMAZIONE PROFESSIONALE. MANCA UN SISTEMA UNITARIAMENTE STRUTTURATO E ORGANIZZATO
In Italia, stando all’analisi di G. Ballarino e D. Checchi, nn. I-III/2013 della “Rivista di Politica Economica”, non esiste nulla che possa essere confrontato con il sistema duale tedesco; non esiste un sistema di formazione professionale unitariamente strutturato e organizzato. Ne esistono tre: il sistema degli istituti tecnici, quello degli istituti professionali e quello della formazione professionale. I tre sistemi sono cresciuti in modo disorganizzato. All’inizio dello scorso decennio è stato messo a punto un progetto di riforma, ma le resistenze del mondo della scuola e le contrapposizioni di origine ideologica - politica e anche quelle tra governo e regioni hanno impedito che la riforma fosse portata a compimento, col risultato che gran parte della formazione professionale risulta ora affidata alle regioni, che hanno organizzato i corsi secondo criteri diversi; in tal modo, secondo Ballerino e Checchi, con riferimento alla formazione professionale “sembra esserci più variazione tra regioni in Italia, dove la repubblica è ‘una e indivisibile’, che in Germania, dove la repubblica è federale”. Questa situazione e il suo perdurare sono destinati a creare non pochi ostacoli sulla via dell’acquisizione ai titoli professionali di un valore occupazionale del tipo di quello garantito dal sistema duale istituzionalizzato in Germania. In Italia, le riforme del mercato del lavoro (riforme Treu e Biagi) hanno incentivato le imprese a privilegiare la “flessibilizzazione esterna”, col ricorso a rapporti di lavoro di nuova istituzione, che ha disincentivato l’investimento delle imprese nella forza lavoro giovane, senza alcun risultato di rilievo sul piano della produttività, in quanto le stesse imprese hanno trovato conveniente percorrere la “scorciatoia” del contenimento al ribasso del costo del lavoro. Ciò è accaduto perché in Italia il rapporto tra sistema dell’istruzione professionale e mondo del lavoro, e in particolare il completamento dell’apprendistato dei giovani all’interno delle imprese, sono sempre stati affidati all’iniziativa individuale, o tutt’al più a quella locale, mai all’iniziativa statale concertata con le organizzazioni datoriali e sindacali. Anche a livello di istruzione terziaria, il rapporto tra Università e mondo del lavoro è stato del tutto trascurato ed assegnato all’iniziativa periferica delle singole Università. Nel complesso, in Italia, le riforme del sistema educativo e formativo sono state bloccate dall’eccesso di conflittualità ideologica del sistema politico; è stata persa così l’opportunità che il possibile Processo-Bologna avviato anche in Italia servisse a razionalizzare il mercato del lavoro e ad approfondire i rapporti tra scuola e sistema economico. (Fonte: G. Sabattini, www.avantionline.it 08-09-2014)

IL MASTER IN EUROPA E IN ITALIA
In tutta Europa, i Master sono ciò che da noi si chiama Laurea Magistrale; si tratta cioè, nelle situazioni nelle quali si sono adottati i titoli a più livelli previsti dal “Processo di Bologna”, del 2° livello dei titoli universitari formalizzati, ovvero, nelle situazioni “pre-Bologna”, di un “curricolo lungo” con Tesi finale (come nel nostro “vecchio ordinamento”), analogo all’attuale LM a ciclo unico. Perfino la Francia, sempre ostile ai termini inglesi (chiama ordinateur ciò che in tutto il mondo è il computer), indica il sistema dei tre livelli di titoli universitari come L/M/D (Licence/Master/Doctorat).
Invece in Italia (e questo ci viene spesso contestato negli incontri europei finalizzati a una comparabilità dei diversi ordinamenti universitari) indichiamo con Master i percorsi formativi, non disciplinati a livello nazionale (privi perciò del famoso “valore legale”), che le Università possono liberamente istituire in aggiunta ai Corsi di studio che conferiscono i titoli accademici.
Gli Atenei hanno stabilito proprie regolamentazioni in merito, ma di fatto l’istituzione e la gestione di essi è molto individualistica. (Fonte: G. Luzzatto, http://tinyurl.com/m2gqujn 06-09-2014)

METTERE LA QUALITÀ DELL’INSEGNAMENTO E DELL’APPRENDIMENTO IN CIMA ALL’AGENDA DEL CAMBIAMENTO
A partire dalla Legge Gelmini, in un crescendo di decreti, circolari e provvedimenti di allocazione delle risorse a livello nazionale e locale, si è consolidato un modello nel quale tutti gli incentivi alle strutture (o sarebbe meglio dire le possibilità di ottenere semplicemente un trattamento meno punitivo rispetto al taglio comunque certo dei finanziamenti) sono stati concentrati sui “prodotti” della ricerca. E allo stesso criterio ci si è ispirati per definire le valutazioni dalle quali far dipendere la carriera accademica dei singoli. La didattica è diventata, nella migliore delle ipotesi, oggetto di un lip service di circostanza. Alcuni fra gli opinionisti più influenti, frequentatori abituali dei salotti televisivi più ambiti e delle colonne dei giornali più letti (evidentemente – va da sé – per la migliore qualità delle loro idee e dei loro argomenti), teorizzano apertamente la necessità di non far perdere tempo alle intelligenze più brillanti che ancora sopravvivono nei nostri atenei costringendole alla fatica di ore di lezione o, peggio ancora, esami, ricevimento, assistenza a tesi, con il corollario di tutte le incombenze che possono (devono) essere lasciate senz’altro ai meno capaci. La formula raffinata di questa convinzione è l’auspicata differenziazione fra research e teaching universities, che ha certamente i suoi pregi (oltre ad alcuni difetti), ma è spesso confusa con l’idea che nelle prime i professori non insegnino e dunque – semplicemente – cessino di essere tali. È vero invece che l’Europa ci chiede di mettere la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento in cima all’agenda del cambiamento. Così si esprime, senza possibilità di equivoci, il Rapporto presentato alla Commissione nel giugno del 2013 da un gruppo di esperti, promosso dalla Commissaria per l’educazione e la cultura Androulla Vassiliou: questa qualità è «assolutamente cruciale» per ottenere i laureati «capaci di pensiero critico, creativi e flessibili che daranno forma al nostro futuro». (Fonte:  S. Semplici, Roars 27-07-2014)

LAUREE INCONSUETE
Skuola.net fa una lista dei corsi di laurea inconsueti che si possono trovare nei nostri atenei:
Scienze e Cultura della gastronomia e della ristorazione all'Università di Padova; Informazione Scientifica sul Farmaco e Scienze del Fitness e dei Prodotti della Salute all'Università di Camerino; Tutela e benessere dell´animale all'università di Teramo; Scienze e management dello sport e delle attività motorie all'università di Napoli Parthenope; Discipline dello spettacolo dal vivo, all'Università di Bologna; Informatica Umanistica all'università di Pisa; Verde ornamentale e tutela del paesaggio, all'università di Bologna; Scienze del mare e del paesaggio naturale, all'università di Roma Sapienza; Tropical rural development - Sviluppo rurale tropicale, presso l'università di Firenze. Corso di laurea triennale in Videogioco grazie alla partnership tra Link Campus University e Vigamus Academy. (Fonte: www.tecnicadellascuola.it 03-08-2014)

LAUREATI. DATI EUROSTAT E ALMALUREA
Facendo pari a 100 la spesa per ogni laureato italiano, la Francia spende 175; la Spagna 180; la Germania 207; la Svezia 225 (fonte OECD, 2013; la spesa è in dollari a parità di potere d’acquisto). La spesa pubblica e privata per Ricerca e Sviluppo come percentuale del PIL in Italia è 1,26 (0,68 sostenuta dalle imprese); in Spagna è 1,39 (0,72 sdi); nel Regno Unito 1,80 (1,10 sdi); in Francia 2,24 (1,41 sdi); in Germania 2,80 (1,88 sdi); in Svezia 3,39 (2,33 sdi).
La popolazione italiana di 25-34 anni con istruzione universitaria è del 21 per cento! La media dei paesi UE21 è del 36 per cento (39 per cento fra i paesi dell’OECD). La Commissione Europea ha fissato l’obiettivo del 40 per cento di laureati nella fascia 30-34 anni per l’anno 2020; il Governo italiano ha rivisto l’obiettivo puntando al massimo al 26-27 per cento.
Fra il 2007 e il 2012 in Italia la quota di occupati nelle professioni a elevata specializzazione (secondo la classificazione internazionale, la definizione comprende 1. legislatori, imprenditori e alta dirigenza; 2. professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione) è scesa al 17% mentre in tutta l’UE è cresciuta da poco più del 21 per cento al 24 per cento (Fonte Eurostat).
Gli occupati con qualifica di manager con la scuola dell’obbligo o titolo inferiore, in Italia sono il 28 per cento contro l’11 per cento della UE, il 5 per cento della Germania, il 13 per cento del Regno Unito e il 19 della Spagna. I manager con laurea o titolo superiore mentre nell’UE sono il 53 per cento, e nessun paese scende sotto il 51 per cento, in Italia sono solo il 24 per cento (Fonte Eurostat 2012).
Secondo le stime di AlmaLaurea soltanto il 30 per cento dei 19enni s’iscrive alle università, provenendo da famiglie più favorite. Il restante 70 per cento dei giovani non accede agli studi universitari spesso per l’assenza di una seria politica del diritto allo studio. (Fonte: A. Cammelli, Roars 10-08-2014)

DOPPIE LAUREE IN CRESCITA
Le doppie lauree sono tra noi sempre più diffuse. Valgono in Italia e in Austria, in Italia e in Tunisia. Anche in Italia e a Cuba. Ti laurei contemporaneamente in un ateneo italiano e in uno associato, nel resto del mondo. Serve un robusto percorso in lingue straniere (inglese o l'idioma parlato nell'ateneo bis, livello B1 o B2 certificato), alcune materie condivise, un accordo bilaterale tra senati accademici e si aprono nuove opportunità di lavoro. Da noi e nel secondo Paese.
Sono davvero pochi gli atenei in Italia che oggi non prevedono la doppia laurea, ma è dal 1997 che l'Università di Trento - sempre in alto nelle classifiche nazionali e tra le italiane meglio piazzate nei ranking internazionali - ha sottoscritto accordi con atenei stranieri in tutto il mondo, coinvolgendo ogni suo dipartimento. La permanenza all'estero va da due a quattro semestri, le destinazioni sono in Germania e Francia, Spagna e Portogallo, Olanda e Repubblica Ceca, ma anche Stati Uniti e Cina. Ancora nel 2008-2009 la doppia laurea valeva in un ateneo su tre: in ventinove potevano offrire il "double degree" di primo o secondo livello. Oggi sono raddoppiati. E' importante avere un buon punteggio negli esami sostenuti. Metà del corso di laurea viene seguito nella propria università, gli ultimi due anni in media, con i relativi esami e l'eventuale formazione in azienda, si svolgono nei dipartimenti convenzionati all'estero. Al ritorno lo studente avrà finito un unico corso di studi con due diplomi di laurea. Il Politecnico di Milano ha una fitta rete di accordi grazie all'iniziativa Time (Top industrial managers for Europe), che vede la partecipazione di 46 università tecniche prestigiose nel campo dell'ingegneria. Ci sono destinazioni in Canada, Brasile, Argentina e Colombia. Buone opportunità per chi sceglie ingegneria sono date anche dall'Università di Brescia che per il corso di primo livello in ingegneria dell'informazione e per otto corsi di secondo livello permette di conseguire il doppio titolo in Francia e negli Stati Uniti. Così la Cattolica di Piacenza. La Luiss di Roma ha attivato il "double degree" in International management con l'università di Shanghai in Cina. La Bocconi di Milano ha un corso interamente in inglese in management, che permette di conseguire un doppio titolo, in Italia e in India. La Bicocca si è consorziata con l'Università cubana. Roma Tre con la John Cabot (che, tra l'altro, ha sede a Roma nel quartiere di Trastevere). (Fonte: www.repubblica.it 28-08-2014)


RECLUTAMENTO

IL RECLUTAMENTO DIMENTICATO
Alle criticità dell’università italiana si deve aggiungere una sconcertante incapacità delle politiche di riforma dell’accesso al primo “gradino” accademico, che ha scientificamente prodotto importanti conseguenze. Prima fra tutte, la drastica riduzione dei concorsi per ricercatore, a cui bizzarramente non fa da contrappeso un aumento delle variegate tipologie di ricercatori post doc. Basti pensare che le borse post lauream dal 2010 al 2012 sono diminuite, passando da 6.565 a 3.092, e le borse post dottorato (ex lege 398/1989) sono state abolite dalla legge 240/2010 (art. 29, comma 11, lettera B). E che non si tratti solo di una conseguenza del definanziamento delle università è provato dal fatto che non abbiamo assistito a un fiorire di concorsi di ricercatore a termine con la tipologia tenure track.
Siamo di fronte, in buona sostanza, al sostanziale licenziamento di un’intera generazione dall’accesso all’università intesa come chance professionale e avvio alla carriera docente. Peraltro, l’emarginazione dei giovani consente paradossalmente a una politica sempre tentata dalla demagogia di mettere alla berlina l’invecchiamento della docenza come segno inequivocabile dei privilegi del baronato, nascondendone la natura di risultato lucidamente preparato e perseguito. A ben vedere, le curve di pensionamento già in atto, e quelle del triennio davanti a noi, pongono invece un duplice problema, solo apparentemente contraddittorio: scomparsa antropologica dei giovani, se non nella forma delle anime morte del precariato, e irrimediabile crisi della seniority universitaria. Impossibile non intravvedere gli effetti destrutturanti connessi a un’insensata mancanza di programmazione nel ricambio della docenza apicale, con possibili rischi ai fini della continuità e specificità scientifica, ma anche per un’adeguata expertise ai fini della governance delle Istituzioni accademiche. (Fonte: M. Morcellini, IlBo 22-08-2014)

ANTICIPANDO IL PENSIONAMENTO DEI DOCENTI NON SI FA PIÙ SPAZIO AI GIOVANI UNIVERSITARI
I risparmi consentiti da norme sulla riduzione dell’età del pensionamento dei docenti sono di entità trascurabile, perché i docenti collocati a riposo – anche se escono dal bilancio delle università – passano a carico dell’Inps, restando in ultima analisi a carico dello Stato; e per gran parte di loro le pensioni saranno vicine agli attuali stipendi, perché calcolate per lo più con il metodo retributivo.
L’assunzione di giovani ricercatori o giovani docenti non è dunque facilitata sul piano finanziario dal pensionamento anticipato di chi li ha preceduti in queste funzioni. Semplicemente, così facendo si aumenta la spesa pubblica, scaricando i costi sul sistema pensionistico, come si è fatto dagli anni ’60 fino alla riforma Fornero, contribuendo in modo sostanziale ad accumulare gli oltre 2.000 miliardi di debito pubblico che ci affliggono. Noi riteniamo giusto assumere nuovi ricercatori e nuovi professori, perché investendo sulla ricerca di qualità si investe sul futuro, ma bisogna farlo razionalizzando la spesa, non attraverso “partite di giro”.
Quanto, infine, all’esigenza di ringiovanire le strutture di governance degli atenei, la legge 240 sull’università già impedisce di eleggere come direttore di dipartimento o come rettore un docente che andrebbe in pensione durante il mandato. Per diminuire l’influenza dei docenti più anziani, sarebbe sufficiente estendere questa norma alle commissioni di concorso (sia nazionali sia locali), escludendo dall’elettorato passivo i docenti ordinari con più di 65 anni. (Fonte: P. Ichino, Europa 01-08-2014)

CONCORSI LAMPO. UN’INTERROGAZIONE PARLAMENTARE
Il caso è stato sollevato dal quotidiano 'Il Secolo XIX', che racconta - come poi riportato nell'atto parlamentare - della commissione targata Ecampus alle prese con la nuova selezione degli insegnanti di quest’università telematica, legata al Cepu. La commissione, formata da quattro professori di diverse materie, e dal direttore generale, ha aperto e chiuso otto concorsi in poco più di nove ore, valutando complessivamente 19 candidati e proclamandone 8 vincitori nelle materie di ingegneria, giurisprudenza, storia contemporanea e filosofia politica. Sono stati necessari quindi solo 28 minuti e mezzo per ogni nuovo docente universitario. Risulterebbe che nessuno dei cinque commissari sia inquadrato nei settori scientifico-disciplinari messi a concorso e quindi nessun commissario possiede sulla carta la competenza per selezionare i candidati. I concorrenti non sarebbero stati sottoposti alla valutazione, prevista per legge, delle pubblicazioni scientifiche, dei curricula, delle attività didattiche perché, riferisce il rettore dell'Ecampus, tutti i candidati avevano già superato l'abilitazione scientifica nazionale e per il regolamento interno dell'ateneo la valutazione scientifica non è necessaria''. Tuttavia, obiettano i senatori di Sel nell'atto parlamentare, ''l'abilitazione scientifica nazionale rilascia un certificato d’idoneità, non una cattedra, è una pre-selezione, cui segue il concorso, bandito dall'università interessata, che prevede una valutazione dei partecipanti, della loro carriera, delle attività didattiche''. E' per questo che Sel vuole sapere se il ministro Giannini ''non ritenga di dover effettuare un'indagine nelle università telematiche riconosciute, verificare i regolamenti e le pratiche in uso''. E ''se non ritiene che il mancato rispetto delle leggi, da parte di queste università, non costituisca una disparità di trattamento e se non creda necessario rivedere i riconoscimenti alle suddette università''. (Fonte: ASCA 02-08-2014.)

UNIVERSITÀ. DIMAGRITA E INVECCHIATA
Con riferimento all'Università e al bisogno della "staffetta generazionale" richiamata dal ministro Madia, i dati sul numero e sull'età media dei docenti e dei ricercatori parlano molto chiaro: gli ultimi 5 anni ci consegnano un'università dimagrita e invecchiata. Dal 2008 e fino alla fine del 2013 il numero di docenti e di ricercatori è diminuito del 12 per cento. Se si tolgono i ricercatori a tempo determinato, figura con un contratto a termine, il calo è addirittura del 15 per cento. Certo, i più anziani sono andati in pensione; si pensi che il numero di professori ordinari (i cosiddetti "baroni") si è ridotto del 27% così com’è calato il numero di professori associati e di ricercatori a tempo indeterminato. Ma dei giovani non si è vista traccia. E infatti l'età media è continuata a crescere fino agli attuali 52 anni. Un invecchiamento per tutte le categorie. I numeri quindi, e non le opinioni, ci dicono che l'università è il comparto pubblico che è dimagrito di più ed è pure invecchiato. E quest'anno assisteremo a un nuovo record in negativo essendo il turnover fermo al 50 per cento. (Fonte: S. Paleari, IlSole24Ore 04-08-2014)

PROFESSORE JUNIOR. PROPOSTA DEL CUN
Il CUN ritiene che per rafforzare l’assetto della docenza universitaria sia necessario ripensare la disciplina di accesso al ruolo di professore. Reputa altresì doveroso il rispetto dei principi costituzionali secondo i quali l’accesso ai ruoli pubblici deve avvenire mediante efficaci procedure di selezione di natura comparativa, idonee ad accertare il possesso delle competenze e delle professionalità necessarie al miglior assolvimento dei compiti e delle responsabilità, che, nell’unitarietà̀ della funzione docente, il nostro ordinamento assegna alle diverse fasce. A tal fine pertanto propone che: sia superata la duplice figura RTDa e RTDb; sia istituita una nuova figura di Professore a tempo determinato, titolare di una posizione di durata quinquennale, per l’accesso alla quale, previa idonea selezione pubblica comparativa che comprenda la valutazione delle competenze scientifiche e didattiche, è richiesto il possesso del titolo di dottore di ricerca; il professore a tempo determinato sia confermato a tempo indeterminato con il nome di Professore Associato, previa acquisizione, entro i cinque anni, dell’ASN che ne certifica la maturità scientifica. La disponibilità delle risorse necessarie in caso d’inquadramento in ruolo deve essere assicurata dall’ateneo nel momento in cui si costituisce il rapporto di lavoro con il professore a tempo determinato; nel rispetto dell’autonomia universitaria, il consiglio di amministrazione, acquisito il parere del consiglio di dipartimento, proceda all’inquadramento nel ruolo di professore associato. Il consiglio di dipartimento, solo con motivata delibera approvata a maggioranza assoluta degli aventi diritto, può proporre al consiglio di amministrazione di non procedere all’inquadramento;
il Professore a tempo determinato abbia gli stessi diritti e prerogative degli attuali professori associati e ordinari per quanto riguarda gli aspetti legati alla ricerca (responsabilità di progetti nazionali e internazionali), sia membro effettivo del consiglio di dipartimento, abbia l’elettorato attivo alle cariche accademiche e che assuma gradualmente incarichi didattici e organizzativi coerenti con quelli dei professori di ruolo. Il CUN propone di rimettersi all’esempio tedesco che ha introdotto, con la riforma della docenza del 2001, la figura dello Junior Professor come primo livello della docenza. Pertanto il CUN propone di dare al nuovo Professore a tempo determinato la denominazione di Professore Junior. (Fonte: CUN e Roars 05-08-2014)


RETRIBUZIONI

DOCENTI. SCATTI SUL MERITO. UNA VICENDA PARADIGMATICA SULL’INDIVIDUAZIONE DEI MERITEVOLI
A partire dalla finanziaria del 2008 (legge 133/2008) l’ultimo governo Berlusconi aveva dimostrato di riconoscere l’importanza dell’università come capitolo di risparmio per la spesa pubblica. Nessuno perciò si stupì eccessivamente quando nel mirino delle “razionalizzazioni” entrarono gli adeguamenti stipendiali del personale universitario per gli anni 2011-2012-2013 (articolo 9, comma 21, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122). Un mancato adeguamento che ha danneggiato soprattutto quei ricercatori (RTI) e professori entrati in ruolo da poco, per cui il mancato passaggio alla successiva classe stipendiale corrisponde a una perdita percentualmente più significativa rispetto a quella dei colleghi più anziani in ruolo.
Il Governo ha però disposto un fondo una tantum per ammorbidire l’impatto di questi mancati introiti – nonché, possiamo presumere, per “educare” ricercatori e professori all’avvento della nuova era in cui gli avanzamenti di carriera dovranno avvenire non più sulla base dell’età accademica ma soprattutto del merito (vedi ad es. il fondo per la premialità previsto dall’art. 9 della 240/2010). Il fondo per questi “premi” (di consolazione), disposto nell‘articolo 29 comma 19 della Legge Gelmini (240/2010), ammonta a 118 milioni di euro, di cui 18 per il 2011 e 50 per i due anni successivi. Per conoscere come vanno distribuiti questi soldi, bisogna attendere il decreto interministeriale 314 dell’11 luglio 2011, il quale dispone che i 118 milioni siano distribuiti tra gli atenei in base al numero di candidati papabili (ovvero tutti quelli che si sono visti bloccare l’aumento di stipendio); che, entro gli atenei, le risorse vadano ripartite equamente tra le diverse fasce in base al numero di soggetti ammissibili per ogni fascia (con possibilità di deroga di massimo un terzo di questo ammontare); che ogni ateneo debba individuare i “meritevoli” di ottenere queste risorse. Per leggere come si è svolta la pratica per individuare i meritevoli in un importante ateneo occorre avere la pazienza di leggere qui http://tinyurl.com/nlvks87  (28-07-2014)

RETRIBUZIONI. UN APPELLO AL PRESIDENTE DEL CDM
Una rete trasversale di più di 16 mila docenti di circa 80 università in tutta Italia ha inviato un appello al premier Matteo Renzi. Attualmente i docenti universitari, a partire dai più giovani ricercatori per finire ai professori ordinari, in «virtù del blocco degli scatti stipendiali di merito, danno al Paese in media ben 180 euro netti ogni mese. E tale situazione persiste da quasi quattro anni. I docenti universitari in questi quattro anni hanno già dato un contributo notevole al risanamento del Paese (oltre mezzo miliardo di euro). Non chiedono nulla per i quattro anni passati, ma chiedono con forza che da inizio 2015 si torni alla situazione normale». Nel documento i docenti, oltre a sollecitare la cessazione del blocco degli scatti stipendiali a partire dal gennaio 2015, chiedono il «riconoscimento, ai fini giuridici, del quadriennio 2011-2014. In assenza di una risposta positiva del governo, i docenti metteranno in atto una serie di azioni che culmineranno nel blocco degli esami e delle tesi di laurea». (Fonte: www.lettera43.it 10-09-2014)


RICERCA. RICERCATORI

RICERCA. SITUAZIONE CRITICA DEGLI INVESTIMENTI NEL SUD EUROPA
La dinamica della crisi ha messo in luce un vero circolo vizioso: l’austerità non ha fatto altro che accentuare divergenze strutturali tra le economie dell’eurozona, che a loro volta precedono perfino l’introduzione della moneta unica. I differenziali di crescita tra paesi europei sono, infatti, chiara espressione di un’area fortemente disomogenea sotto il profilo delle strutture produttive e della loro capacità di generare reddito e occupazione. Tali differenziali sono in misura significativa riconducibili alla dinamica della produttività, che dipende sempre più dalla capacità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche e di innovazione del sistema produttivo da parte di ciascun paese. In tal senso si rileva uno scarto positivo e netto tra le economie del centro e nord Europa – sia di grande sia di piccola dimensione – e quelle dell’area mediterranea (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo), associato alla diversa consistenza degli investimenti in ricerca e sviluppo in rapporto al PIL, e più in generale alla diversa capacità dei “sistemi nazionali di innovazione” di attivare un circuito virtuoso tra crescita del bacino delle conoscenze scientifiche e tecnologiche e crescita del potenziale d’innovazione del sistema produttivo. Nello specifico, la bassa intensità degli investimenti in ricerca e sviluppo sul PIL nei paesi del sud Europa risulta particolarmente critica se rapportata alla sola componente industriale (BERD, Business Enterprise Research and Development), né il distacco rispetto ai paesi del nord si è ridotto significativamente nel corso del tempo. Ciò traduce una situazione di sostanziale stallo dell’area sud europea: la bassa intensità di spese in ricerca attribuibili all’industria, è, infatti, la dimostrazione più evidente della presenza del tutto marginale nel tessuto produttivo di settori avanzati, nei quali è più elevata la propensione all’investimento in ricerca. Questa marginalità dei settori avanzati implica a sua volta una crescente marginalità dei paesi del sud Europa nei mercati internazionali – essendo aumentata globalmente la domanda di prodotti “ad alta intensità di conoscenza” – con una perdita complessiva di competitività che ne condiziona il potenziale di sviluppo economico. (Fonte: D. Palma, Science and Society di Aspenia online 30-08-2014)

IL BONUS DEL GOVERNO MONTI PER RICERCATORI IN AZIENDA DOPO DUE ANNI IN GAZZETTA UFFICIALE
Ci sono voluti poco più di due anni, ma alla fine il credito d’imposta rivolto a quelle aziende che puntano sulla ricerca – assumendo (a tempo indeterminato) un laureato o un dottore di ricerca – è arrivato in Gazzetta ufficiale. Correva l’anno domini 2012, il quinto dall’inizio della crisi, e la presidenza del Consiglio dei ministri era affidata al premier Mario Monti. Il decreto legge Sviluppo, contenente misure «urgenti» per il futuro dell’Italia, iniziava il suo viaggio in quel mare magnum della legislazione che l’ha portato solo adesso all’approdo finale. «Chi, nell’estate del 2012, ha assunto un “cervello non in fuga”, da metà settembre – precisa il Sole 24 Ore – potrà richiedere di beneficiare del credito d’imposta previsto dal decreto legge “sviluppo” (Dl 83/2012)», iniziando a intascare il promesso bonus pari al 35% del costo (per 12 mesi) del ricercatore per l’azienda. L’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) rivela che «nel 2012 i dottori di ricerca che hanno conseguito il titolo nel 2006 sono prevalentemente immobili, ossia non hanno mutato la regione di residenza rispetto a quella dove hanno vissuto prevalentemente fino a 18 anni o a quella ove hanno conseguito il dottorato». Solo il 7,5% dei dottori di ricerca è espatriato (una percentuale comunque assai notevole, soprattutto perché non trova un corrispettivo in quei ricercatori che dall’estero approdano annualmente nel Bel Paese), mentre il 12,2% ha spostato la propria residenza in un’altra regione (italiana).
Quei ricercatori che hanno deciso di portare il proprio cervello all’estero sono stati premiati con uno stipendio mediamente superiore del 50% a quello nostrano, e si tratta prevalentemente di «dottori che hanno intrapreso studi inerenti al ramo tecnico-scientifico», che per «veder realizzate le proprie aspirazioni di ricerca necessitano di ambienti lavorativi troppo spesso non presenti in Italia». E il resto, la grande fetta dei dottori di ricerca che rimane in Italia? Secondo l’Isfol, in questo caso l’identikit parla di un ricercatore iscritto a un albo, che esercita la propria professione in contesti lavorativi «solidi ma chiusi (si pensi agli ordini dei medici, dei farmacisti, dei notai, ecc.)» e il cui successo «spesso è condizionato da regole informali o è legato a “eredità familiari”». «Il nostro Paese – chiosa l’Isfol – continua a caratterizzarsi per la scarsa efficienza allocativa del capitale umano, in conseguenza anche della mancanza di interventi sistemici sul fronte dell’innovazione e della ricerca che assumono un ruolo ancor più rilevante in periodi di recessione economica». (Fonte: L. Aterini, www.greenreport.it 12-08-2014)

RICERCATORI. ACCESSO AL BONUS PER L’ASSUNZIONE IN AZIENDE
Il 15 settembre sarà disponibile sul sito del ministero dello Sviluppo economico l'applicazione online per la presentazione delle domande di accesso al credito d'imposta acceso dal Dl 22 giugno 2012, n.83 (Gazzetta Ufficiale n.147 del 26 giugno 2012, supplemento ordinario n.129). Il credito d'imposta è riservato a tutti i titolari di reddito di impresa che assumano a tempo indeterminato personale altamente qualificato, e cioè in possesso di dottorato di ricerca o laurea magistrale nelle discipline tecnico–scientifiche. Il bonus coprirà il 35% dei costi per l'assunzione. Il bonus è articolato in fasce: per le assunzioni del 2012 ci sono 25 milioni, 33 milioni circa per quelle del 2013; per l'anno in corso 35,4 milioni, stessa cifra per quelle dell'anno prossimo. (Fonte: IlSole24Ore 11-09-2014)

RICERCA. PROGETTI SIR. PERCHÉ SONO IN RITARDO
Il 23 gennaio scorso, usciva il bando SIR (Scientific Independence of Young Researchers), il corrispettivo nostrano del bando Starting Grant dell’European Research Council (ERC). Per ciascun macrosettore, le commissioni sarebbero dovute essere formate da 3 componenti, designati entro una rosa di 9 nominativi proposta dal consiglio scientifico dell’ERC. Passano i mesi, ma non si sa ancora nulla. Il MIUR: «Ci sono dei ritardi, che non dipendono però da negligenze del Ministero». l’ERC: «An answer on this matter has already been sent». Il MIUR: «Non è possibile rendere nota la motivazione della mancata comunicazione della rosa [perché] tale motivazione non ci è stata comunicata». L’ERC: «Over a year ago, MIUR requested to be granted access to the database of ERC peer reviewers [...] As explained at that time to the Italian authorities, this wish could however not be met». In sintesi, da più di un anno era stato fatto presente al MIUR che l’ERC non avrebbe potuto fornire la rosa di nominativi e diffondere le informazioni dei propri commissari. Inoltre veniva chiaramente suggerito, se proprio si volevano ‘utilizzare’ i revisori ERC, di andarsi a guardare i nominativi sul sito. Da più di un anno! (Fonte: L. M. Paternicò, Roars 01-08-2014)

RACCOMANDAZIONE CUN SULLO SPAZIO EUROPEO PER LA RICERCA
Il CUN raccomanda che, particolarmente nell’occasione del semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’Unione Europea, il nostro Governo si faccia promotore d’iniziative e di azioni volte ad assicurare: l’armonizzazione del Sistema Europeo dell’Istruzione Superiore, dando così piena attuazione agli obiettivi del «Bologna Process», tramite l’adozione di politiche che consentano di giungere al mutuo riconoscimento dei titoli di studio universitari, ivi compreso il dottorato di ricerca;
il mutuo riconoscimento automatico dei titoli di abilitazione per l’accesso alla docenza universitaria, attraverso l’adozione di direttive che determinino le condizioni di equivalenza, nel rispetto della diversità dei sistemi di Istruzione Superiore nazionali; la definizione di un quadro europeo delle posizioni dei docenti e dei ricercatori delle Università, atto a facilitare il mutuo riconoscimento di livelli e carriere per favorire la mobilità tra gli Atenei europei. (Fonte: CUN 25-06-2014)

RICERCA. L’ACCESSO APERTO ALLA LETTERATURA SCIENTIFICA
I vantaggi dell’accesso aperto alla letteratura scientifica sono noti ai più e possono essere brevemente elencati come: pari opportunità nello svolgimento della ricerca, riduzione dei costi alla ricerca pubblica (Houghton et al., 2009), aumento della produzione scientifica (Willinsky, 2005), aumento delle citazioni (Wagner, 2010; Opcit Project, 2012) e coinvolgimento del pubblico non-scientifico (Swan, 2010). Da tempo si sente parlare di Open Access, Open Data, Open Science, intesi come stimolo per lo sviluppo della scienza, come strumento per l’individuazione della “bad science” e delle violazioni delle norme di comportamento in ambito scientifico, come esigenza di trasparenza e di integrità del sistema della Scienza e infine di accountability nei confronti della società. E’ anche noto quanto la questione degli Open Data sia da tempo cruciale per l’Agenda Digitale per l’Europa e nei processi innovativi dell’Area Europea della ricerca. Ma cosa sono i dati della ricerca di cui si parla in questi documenti? E l’Italia?
In Italia il tema degli open research data è ancora poco trattato. Ne troviamo traccia nella policy sull’open access della Fondazione Cariplo, ma ancora poco è stato fatto rispetto agli strumenti a supporto delle attività connesse: come costruire un data management plan, come (e dove) archiviare i dati, come garantirne l’accessibilità e la conservazione. Senza dubbio affrontare il tema della archiviazione e conservazione dei dati della ricerca come singola istituzione risulta poco sostenibile, si tratta dunque di un tema da affrontare in maniera consortile. Certamente un coordinamento a livello nazionale o di consorzi di atenei potrebbe essere un buon punto di partenza, ma anche l’utilizzo di modelli e procedure ed esperienze già sviluppati presso altri paesi europei. (Fonte: P. Galimberti, Roars 29-08-2014)

SCIENZE SOCIALI. LA RICERCA DEI GIOVANI ITALIANI È LARGAMENTE PRODOTTA ALL’ESTERO
A Vienna si è tenuta la decima edizione della “European Social Science History Conference”, il più importante congresso di scienze sociali in Europa. La nota positiva: gli italiani erano presenti in numero abbastanza consistente al convegno e continuano a produrre ottima ricerca in tutti i campi delle scienze sociali. La nota negativa: la ricerca degli italiani (specialmente dei più giovani) è largamente prodotta all’estero – e non in italiano. Le capacità di ricerca scientifica acquisite nel percorso accademico si scontrano con la difficoltà di entrare in un sistema che, nella sempre più drammatica assenza di fondi, sta diventando discriminante sotto il profilo economico. Nonostante lo sforzo pluridecennale di democratizzare l’università, essa, soprattutto nell’ambito cruciale delle scienze umane e sociali, sembra ormai ben avviata a ritornare nell’alveo elitario, e a tratti dilettantistico, nel quale è stata per secoli. (Fonte: C. Viglietti, Roars 09-08-2014)


RIFORMA UNIVERSITARIA

RIFORMA UNIVERSITARIA. EFFETTI DELL’ABOLIZIONE DELLE FACOLTÀ
I nuovi dipartimenti sono più numerosi delle vecchie facoltà, e nei grandi e mega atenei (ventotto sui sessantasei atenei statali) il rettore deve ora negoziare con un numero di capi-struttura che è circa il doppio rispetto a prima della riforma. Ma soprattutto, questi interlocutori hanno uno status molto diseguale fra loro, perché solo alcuni dei direttori sono presenti nell’organo che rappresenta la comunità universitaria (il senato accademico), a causa del tetto numerico e delle modalità di composizione di quest’organo previste dalla legge.
Per ovviare a questa disparità nella capacità di rappresentanza e di interlocuzione, molti grandi e mega atenei hanno istituito un organismo che non è previsto dalla legge: l’assemblea dei direttori di dipartimento. In questo modo, però, anziché semplificare, hanno ulteriormente complicato la governance dell’ateneo aggiungendo un organo a quelli previsti, con il rischio che si sovrapponga alle competenze che la legge assegna al senato accademico e al consiglio di amministrazione, e quindi si creino tensioni interne. (Fonte: M. Regini, http://www.lavoce.info 23-06-2014)

RIFORMA UNIVERSITARIA. LA RIORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA NEI GRANDI E NEI PICCOLI ATENEI
La riorganizzazione amministrativa è uno degli aspetti meno dibattuti, ma più importanti, nel determinare le conseguenze dell’attuazione della legge 240 negli atenei. L’effettivo rafforzamento del vertice di ateneo è strettamente legato, oltre che alla ridefinizione degli organi centrali, alla reale capacità di governo dei processi amministrativi e di controllo del personale amministrativo dislocato nelle unità organizzative locali (dipartimenti e strutture di raccordo). E la costituzione dei dipartimenti ha rappresentato un’occasione importante per rivedere entrambi. Con la riforma si riscontra, com’era possibile aspettarsi, una netta diminuzione del personale assegnato alle strutture di raccordo, che scende dall’11,4 per cento (assegnato alle facoltà) al 2,6 per cento, con un rafforzamento del personale assegnato ai dipartimenti, che passa dal 32,5 per cento pre-riforma al 37,9 per cento dopo la riforma, e in misura più contenuta del personale assegnato all’amministrazione centrale, che passa dal 56,1 al 59,5 per cento.
Si conferma e rafforza la tendenza per cui negli atenei più piccoli il personale è prevalentemente assegnato all’amministrazione centrale, mentre nelle università di maggiore dimensione il personale è prevalentemente inquadrato nei dipartimenti.
Dopo la riforma, tuttavia, l’analisi della distribuzione del personale amministrativo richiede di tenere in considerazione la presenza di tre differenti tipi di atenei: quelli che hanno istituito strutture di raccordo obbligatorie, quelli che hanno strutture di raccordo, ma non hanno vincolato i dipartimenti ad afferirvi e infine le università che non hanno istituito alcuna struttura di raccordo. Nei tredici atenei che hanno strutture di raccordo obbligatorie, l’8,2 per cento del Pta opera presso le strutture di raccordo stesse, il 45,7 per cento presso i dipartimenti e il rimanente 46 per cento presso l’amministrazione centrale. Anche in questi atenei pertanto il Pta assegnato alle strutture di raccordo è inferiore al dato medio riferito alle vecchie facoltà (pari, considerando tutti gli atenei statali, all’11,4 per cento).
Nei ventitré atenei che prevedono strutture di raccordo, ma senza l’obbligo dei dipartimenti di afferirvi, solo il 2,9 per cento del Pta è assegnato alle strutture di raccordo, il 46,6 per cento ai dipartimenti e il 50,5 per cento all’amministrazione centrale.
Infine, nei ventotto atenei che non si sono dotati di strutture di raccordo, il 27,5 per cento del Pta opera presso i dipartimenti, mentre il 72,5 per cento presso l’amministrazione centrale.
L’analisi sulla distribuzione del personale tecnico amministrativo consente di affermare perciò che la riforma non ne ha modificato la distribuzione tra dipartimenti e amministrazione centrale, che risulta tuttora prevalentemente legata alle dimensioni dell’ateneo. (Fonte: M. Turri, lavoce.info 23-06-2014)

RIFORMA UNIVERSITARIA. UNA VERTICALIZZAZIONE SQUILIBRATA
La riforma Gelmini aspirava a cambiare radicalmente le caratteristiche degli assetti di governo delle università italiane. In particolare, intendeva rafforzare le capacità di governo degli atenei al fine di superare quelle caratteristiche (il bicameralismo simmetrico, la logica corporativa e distributiva dei processi decisionali interni, l’incapacità a prendere decisioni strategiche) che erano ritenute una delle concause del loro cattivo funzionamento e dei loro risultati insoddisfacenti. L’idea di fondo del legislatore era, pertanto, quella di introdurre anche in Italia la verticalizzazione della governance istituzionale che, prendendo spunto dai paesi-anglosassoni, era stata via via adottata in molti paesi europei (Olanda, Danimarca; Austria; vari Länder tedeschi; Svezia, Norvegia).
La prima attuazione della legge Gelmini, per quanto emerge dalla ricerca Unires, mostra però come le finalità perseguite dal legislatore di trasformare le università in corporate actors siano ancora lontane da essere raggiunte e che, anzi, potrebbero essere in via di progressiva distorsione. Infatti, dai dati che abbiamo raccolto, emergono alcuni elementi estremamente problematici. Il primo è un ruolo eccessivo del rettore nel processo di composizione del Cda (organo che, secondo la legge 240, dovrebbe essere il pianificatore strategico e il decisore ultimo delle politiche degli atenei). Su cinquantanove università prese in considerazione, in trentatré il rettore nomina direttamente tutti o una parte dei membri del Cda. Si rileva poi un’articolazione statutaria dei poteri del senato che tende ad attribuire a questo organo competenze (seppur sotto forma di pareri) su tematiche che dovrebbero essere di esclusivo appannaggio del Cda. Altro elemento critico è la grande frammentazione del governo degli atenei: in quasi la metà dei casi analizzati la “squadra” del rettore è composta da almeno quattordici elementi. Unita a una bassa istituzionalizzazione delle sue attività: solo in poco più della metà degli atenei analizzati il rettore riunisce la sua squadra a scadenze prefissate, e in pochissimi casi vengono redatti verbali delle riunioni. Infine, si riscontra una certa opacità dei processi decisionali.
Nel complesso, i dati istituzionali e organizzativi che abbiamo raccolto mostrano che il nuovo disegno della governance degli atenei è caratterizzato da una profonda asimmetria nella distribuzione dei poteri tra il rettore, il Cda e il senato. (Fonte: G. Capano, lavoce.info 23-06-2014)

QUALCUNO SOGNA LA RIFORMA UNIVERSITARIA IN UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE
Le nuove disposizioni del Governo sul reclutamento nelle Università prevedono che, per ogni professore collocato a riposo, siano riassegnate le risorse per cinque ricercatori.
I punti-organico sono stati dichiarati fuori legge nel 2018 con l'introduzione delle nuove norme anti-riciclaggio.
La legge n.240/2010 (legge Gelmini) è stata dichiarata incostituzionale dalla Consulta già nel 2020 (fino a un recente passato ci volevano almeno 10 anni per accorgersi che una legge era incostituzionale). Il Governo e il Parlamento hanno preso la saggia decisione di non sostituirla con un'altra riforma.
Le Università hanno di conseguenza adottato Statuti logici e comprensibili e possono esercitare in piena autonomia le loro attività istituzionali di ricerca e di formazione superiore, come previsto dall'Art.33 della Costituzione.
I sistemi di valutazione dell'Università non esistono più: da anni ormai tutti si erano resi conto che costavano troppo e servivano a poco.
I controlli pervasivi ex ante e le norme assurde e vessatorie sono solo un lontano ricordo. E' stato introdotto il semplice concetto di "responsabilità" e tutto si è magicamente risolto.
I corsi universitari sono annuali, con una verifica intermedia a gennaio e con tutti gli esami a giugno. A settembre è prevista una sola sessione di esami recupero. In questo modo si è posto fine alla proliferazione degli appelli di esame, con conseguente azzeramento dei fuori corso e degli abbandoni dei corsi di studio.
A seguito della controversa introduzione, nel lontano 2016, da parte del CONSIP, di costosissimi misuratori del tempo tarati in CFU da appendere obbligatoriamente al collo dei docenti, tutte le Università italiane sono da diversi anni tornate a misurare il tempo in ore e a utilizzare allo scopo dei comuni orologi.
E' severamente vietato a tutta la PA, e in particolare alle Università statali, predisporre moduli che richiedono dati e informazioni già in possesso delle stesse amministrazioni o comunque inutili.
(Fonte: N. Casagli, http://wp.me/p1WBc2-9X7 27-08-2014)


STUDENTI

PER ISCRIVERSI A MEDICINA NON C'È SOLO IL «NUMERO CHIUSO». C'È ANCHE IL «SOPRANNUMERO» GRAZIE AI RICORSI VINTI AL TAR
In 2000 (cui si aggiungono altri 500 ammessi ieri 11-09) si stanno iscrivendo in questi giorni alla Federico II, all'ateneo di Bari e in altre facoltà lungo la penisola. Grazie al Tar del Lazio, che lo scorso luglio ha accolto i primi ricorsi coordinati dall'Udu, l'Unione degli universitari, e ha ammesso l'iscrizione appunto in «soprannumero» anche di chi non aveva superato il test di ammissione, gonfiando non di poco la lista dei 10.551 vincitori ufficiali del test. Il Tar, come spesso accade, non ha dato né torto né ragione ai ricorrenti ma ha solo valutato che in via cautelativa non si poteva impedire l'iscrizione a Medicina a chi è stato bocciato al test lo scorso 8 aprile, perché ci sono state diverse anomalie in quella giornata convulsa. La decisione nel merito da parte del Tribunale amministrativo del Lazio potrebbe arrivare con l'udienza in calendario il 7 maggio 2015, quando ormai gli studenti si troverebbero già alle prese con gli esami. Se il Tar dovesse bocciare il ricorso, infatti, gli studenti sarebbero espulsi da un ateneo che stanno frequentando magari con profitto. Se invece l'iscrizione dovesse essere confermata, ci troveremmo a formare medici anche tra ragazzi che hanno ottenuto un pessimo risultato al test dell'8 aprile - alcuni non erano arrivati neppure alla sufficienza, fissata ai 20 punti minimi di idoneità - mentre altri ragazzi più meritevoli sarebbero stati bloccati dal non aver fatto ricorso e cioè dalla scarsa fiducia nella strada giudiziaria.
Qualunque soluzione giudiziaria vi potrà essere, è un pasticcio per il sistema universitario italiano e un pessimo messaggio formativo ed educativo nei confronti di ragazzi appena maggiorenni. I quali si trovano di fronte a uno Stato che non ha saputo né garantire la regolarità del concorso né ha preso provvedimenti tampone in tempo. (Fonte: Il Mattino 02-09-2014)

TEST PER ACCESSO A MEDICINA. NUOVO SFONDAMENTO VERSO IL CAOS. VINTI 500 NUOVI RICORSI. IL MIIUR ASPETTA CHE L’ACCESSO SI APRA A TUTTI?
La diga del numero chiuso per gli ingressi a medicina sta andando a pezzi. Dopo i primi due buchi che si sono aperti a Bari e a Napoli - e che avevano portato all'iscrizione in soprannumero di quasi 2000 studenti bocciati ai test dell'8 aprile - ieri (11-09-14) sono state depositate altre 15 ordinanze del Tar del Lazio, relative a 11 atenei, che hanno aperto le porte dell'ambitissima facoltà di medicina a Milano, Roma (sia Sapienza sia Tor Vergata), alla Seconda università di Napoli, a Salerno, Palermo, Catania, Messina, Catanzaro e ancora, per gruppi di ricorrenti diversi, alla Federico II e a Bari. La nuova ondata di ricorsi vinti riguarda 500 aspiranti medici. Il Tar del Lazio ha disposto in via cautelativa il diritto dei ricorrenti come «risarcimento in forma specifica» a iscriversi anche se sono stati bocciati ai test e persino se non hanno risposto neppure a una domanda.
Ma gli studenti che hanno ottenuto un buon risultato al test, senza risultare tra i vincitori, e che adesso si vedono scavalcare per una ordinanza del Tar da chi magari non ha neppure ottenuto i 20 punti della sufficienza, cosa possono fare? I termini per il ricorso sono scaduti da tempo, tuttavia il quadro normativo italiano sembra fatto apposta per consentire spiragli in ogni situazione. «Sto preparando - anticipa l’avv. Bonetti - un ricorso particolare, di tipo sperimentale, che si basa sulla sospensione dei termini durante il periodo festivo. Le decisioni del Tar stanno picconando il metodo seguito con i test. Abbiamo dimostrato il danno agli studenti, per i quali i giudici amministrativi hanno immaginato un risarcimento in forma specifica, ovvero l'iscrizione. E, a questo punto, non si vede perché non consentire a tutti l'iscrizione: può essere un modo ragionevole per anticipare la riforma, quella sul modello francese, già annunciata dal ministro Giannini». (Fonte: Il Mattino 12-09-2014)

QUIZ PER ACCESSO A MEDICINA. OPPOSIZIONI ALL’ELIMINAZIONE
L’ipotesi del ministro Giannini di rottamazione dei quiz per l’accesso ai corsi di Medicina ha sollevato fin da subito forti perplessità fra i rettori preoccupati dall’onda d’urto potenzialmente devastante di un’iscrizione di massa a Medicina. Gli aspiranti camici bianchi che hanno tentato la sorte nell’ultimo test di aprile erano 65 mila per poco più di 10 mila posti. Che cosa succederebbe se a settembre 2015 le università dovessero accoglierne altrettanti come matricole? Dove si terrebbero le lezioni? E con quali professori? In Francia esistono aule da 500 posti, ma da noi le strutture sono assolutamente inadeguate. L’aula più grande dell’Università Bicocca di Milano può contenere al massimo 150 studenti mentre quest’anno ai test se ne sono presentati 1.400.
«Che il sistema dei quiz vada migliorato lo pensiamo un po’ tutti - dice Cristina Messa, rettrice della Bicocca -. Ma la soluzione non è eliminarli. Semmai bisognerebbe puntare molto di più sull’elemento attitudinale, che è fondamentale nella nostra professione». Dello stesso parere è Roberto Lagalla, rettore dell’Università di Palermo e vice presidente della Conferenza dei rettori con delega alla Medicina. «La selezione preliminare tramite i test va mantenuta – dice Lagalla -. Il punto è che dovrebbero essere molto più coerenti con i saperi liceali». Il sistema dei test, per quanto imperfetto, dà, infatti, maggiori garanzie di obiettività di un esame orale che è molto più esposto a favoritismi e raccomandazioni. Lagalla (Palermo): «Per evitare raccomandazioni agli esami, la prova di fine anno dovrebbe essere una specie di Invalsi uguale per tutti». «Se si vuole veramente garantire a tutti la stessa opportunità, ci vuole una prova preparata a livello nazionale, una specie di Invalsi che faccia riferimento alle materie studiate nel primo anno», suggerisce Lagalla. (Fonte: www.corriere.it/scuola/universita 14-08-2014)

TEST D’ACCESSO A MEDICINA. IL MINISTRO INSISTE PER ABOLIRLI. PERPLESSITÀ SUGLI ESAMI ORALI
Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini l’ha ribadito ieri ai rettori che pure, nei mesi scorsi, avevano espresso forti perplessità in merito. Basta con i test di accesso a Medicina. E pace per l’onda d’urto che rischia di travolgere i nostri atenei se tutti quelli che finora tentavano il test (65 mila ad aprile scorso per 10 mila posti) dovessero trasformarsi in matricole. Secondo Giannini l’impatto di questo tsunami potrebbe essere ridimensionato spalmando gli studenti sui corsi di laurea affini. «Ministro e tecnici del ministero - spiega il rettore di Padova Giuseppe Zaccaria - lavorano all’ipotesi di un primo anno comune che raggruppi medicina, farmacia e biotecnologie consentendo così di assorbire un numero di iscritti ben superiore a quello attuale del corso di laurea in medicina». Durante questo primo anno agli studenti sarebbero impartiti solo alcuni insegnamenti di base comuni a questi indirizzi (chimica, fisica, biologica...) in modo che poi al secondo anno i ragazzi possano essere smistati nei diversi corsi di laurea . Rispetto a quanto già detto in precedenza, al tavolo dei rettori ieri il ministro ha avanzato l’ipotesi di anticipare lo sbarramento: non più alla fine del primo anno come ipotizzato dapprincipio, ma già dopo sei mesi. «Le mie riserve principali rispetto a questo modello sono due – sostiene il rettore Zaccaria -. Per quanto riguarda l’ipotesi di un tronco comune alle diverse lauree mediche, io non sono per niente convinto che la fisica che serve ai medici sia la stessa che serve agli infermieri. Quanto poi al sistema di selezione dei ragazzi, temo che affidarsi a degli esami universitari anziché a dei test “ciechi” esponga i docenti a una serie di pressioni indebite». Perché il sistema attuale, pur con tutti i suoi difetti, si reggeva sull’anonimato (anche se poi quest’anno i giudici del Tar hanno riscontrato gravi vizi procedurali e di conseguenza ordinato la riammissione di 2.000 studenti che non avevano passato i test). Magari si lasciava sfuggire qualche studente che invece avrebbe meritato di passare ma, quel che è certo, serviva a sbarrare la strada a chi non lo meritava. Mentre gli esami orali si trasformerebbero inevitabilmente in un mercanteggiamento per mandare avanti questo o quel ragazzo, indipendentemente dalle sue qualità.
Sul fronte del sì all'abolizione dei test si sono schierate, quasi compatte, la maggior parte delle associazioni studentesche. Anche tra gli studenti, tuttavia, non mancano i sostenitori della selezione: «Schierarsi contro il numero chiuso» risponde, con una nota, l'associazione La Contea « e voler abbattere ogni selezione, in nome del pezzo di carta, è sbagliato nel principio e nel risultato. Sbagliato nel principio, perché senza il carattere di eccellenza (intellettuale, non certo di censo) l'Università è perduta. Sbagliato nel risultato, perché fatalmente un'Università che abbatta ogni difficoltà intellettuale nel conseguire il titolo, e che pregiudichi lo studio avanzato in favore delle classi-stalle, è un'Università che non qualifica, professionalmente, chi quel titolo lo consegue. In nome della demagogia peggiore si rischia quindi di compromettere l’opportunità di rilancio per l'Università. La selezione intellettuale dei futuri studenti deve tuttavia accompagnarsi a un piano di sostegno per gli studenti meritevoli, ma economicamente bisognosi». (Fonti: O. Riva, Corsera 30-08-2014; S. Quaranta, Il Mattino 01-09-2014)

MINISTRO DELLA SALUTE E RETTORI CONTRARI ALLA PROPOSTA DI ABOLIRE I TEST DI ACCESSO A MEDICINA
A esprimere i dubbi più duri sulla proposta del ministro Giannini, è il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, che, dopo mesi di abbozzamenti, rompe così il silenzio: “’No, non sono favorevole all’abolizione dei test di accesso all’università. Però a Ottobre concluderemo la commissione istituita dal patto con le Regioni e il ministero dell’Istruzione su tutto il tema della formazione e del reclutamento”. Due gli ostacoli alla base delle resistenze della Lorenzin. ll primo (dichiarato) riguarda le ovvie difficoltà organizzative e logistiche cui dovrebbero rispondere le università una volta abolito il Test d’ingresso, vale a dire quel prevedibile boom della popolazione studentesca che il Ministro ha stimato nell’ordine delle 70-80mila unità. Le università sapranno reagire (sia strutturalmente sia sul piano della qualità dell’offerta e della didattica) positivamente alla “cura francese” che promette, ricordiamolo, un meccanismo selettivo finalmente restituito al merito e alla capacità del candidato? Il secondo argomento rimanderebbe, invece, a preoccupazioni che potremmo definire di occupabilità. A preoccupare il Ministro sarebbe, cioè, lo spettro di una possibile emorragia di camici bianchi, che finirebbero quasi tout court dalla laurea alla strada. Aprire le porte della professione medica a una platea più ampia rischierebbe in altre parole di congestionare un mercato dove, tuttavia, c’è sempre stata piena occupazione e dove, per effetto della curva demografica, tra appena sei anni (il tempo di una laurea) ci sarà bisogno di 50mila nuovi camici.
I rettori bocciano la proposta del ministro Giannini, percepita quasi coralmente come una “trovata a effetto”, uno spot che non considera la realtà dei fatti. A motivare l’ansia dei rettori rispetto alla riforma e alla questione “test abolito o rivisitato”, alcune considerazioni di natura oggettiva: difficoltà logistiche anzitutto, ma anche organizzative e funzionali: dalla carenza di aule disponibili, agli ospedali universitari necessari ai tirocini, agli stravolgimenti didattici imposti al corpo docente con carichi di insegnamento e valutazione moltiplicati, alla necessità di allargare il personale. C’è poi il nodo legato ai tempi e ai costi della “ristrutturazione” del numero chiuso. Adattare le università in tempi immediati richiederebbe uno sforzo economico mastodontico, altamente improbabile alla luce dei continui tagli agli atenei italiani e, nello specifico, alle borse di specializzazione per i futuri medici. Non solo, piace poco l’idea di un cambiamento lampo. Le università hanno bisogno di tempo più elastici per metabolizzare la trasformazione. Stravolgere tutto in pochi mesi, insomma, provocherebbe, oltre allo choc, un sicuro rigetto. (Fonte: E. Paolelli, www.controcampus.it/ 21-08-2014)

FEDERSPECIALIZZANDI CONTRO ABOLIZIONE TEST PER MEDICINA
Contro il progetto del ministro Giannini di procedere all’abolizione del test per l’accesso a Medicina
coloro che già frequentano una scuola di specializzazione medica hanno deciso di aderire alla petizione promossa dall’on. Filippo Crimì (PD) contro la riforma del sistema di selezione dei futuri camici bianchi. Rendendo noto il proprio sostegno all’iniziativa del deputato della maggioranza, Federspecializzandi sottolinea alcuni aspetti critici del modello francese, quello che vorrebbe adottare il ministro Giannini. In primis, il fatto che il percorso formativo del primo anno di studi differisce notevolmente fra le diverse sedi del corso di laurea in Medicina e che “il superamento degli esami di profitto sia spesso affidato a valutazioni orali e quindi del tutto discrezionali da parte dei docenti”. Ciò, secondo gli allievi delle scuole di specializzazione, violerebbe il “principio della trasparenza e dell’oggettività della valutazione“, falsando gli esiti della selezione. Un altro dei motivi per i quali Federspecializzandi è contraria all’abolizione del test di Medicina è che “l’eventuale riforma dell’accesso a medicina nella direzione del modello francese, richiederebbe da parte del MIUR un forte investimento in termini di rinnovamento e ampliamento delle strutture che ospitano la formazione”. Perché, secondo gli specializzandi – e anche i rettori – così come sono, esse non ce la farebbero a sostenere l’impennata del numero delle matricole. L’associazione, alla luce dei dubbi sollevati, chiede al ministro di aprire un tavolo di confronto “per analizzare le criticità dell’attuale sistema di accesso e costruire un nuovo modello di selezione basato su solidi principi pedagogici”. Il tutto, tenendo sempre ben presente “l’assoluta importanza di mantenere l’accesso programmato ai corsi di tutte le professioni di ambito sanitario, basando tale programmazione sulle reali necessità di numero, tipologia e competenze di risorse umane del nostro Servizio Sanitario Nazionale”.  (Fonte: www.universita.it 06-09-2014)

I TEST PER L’ACCESSO ALL’UNIVERSITÀ HANNO BUONA VALIDITÀ PREDITTIVA E DI COSTRUTTO 
Uno studio è stato effettuato per i test di ammissione delle Facoltà di Ingegneria che aderiscono al Cisia (Consorzio Interuniversitario Sistemi Integrati per l'Accesso) e i dati raccolti (per il Politecnico di Torino) hanno mostrato una significativa correlazione tra punteggio del test di ammissione e risultati nella carriera studentesca: punteggi alti al test correlano con voti alti agli esami, laurea nei tempi previsti, basso rischio di abbandono. E' importante notare che il test di ammissione di Ingegneria presenta lo stesso difetto già considerato per quello di Medicina, cioè la cattiva distribuzione dei punteggi, con la parte alta della scala di valutazione sostanzialmente spopolata; inoltre il punteggio del test di ammissione ha una correlazione molto debole con il voto di maturità. Uno studio analogo si sta attuando per i Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia. Giova anche ricordare che a Medicina il tasso di abbandono precedente all'adozione del numero chiuso era di circa il 70% mentre quello attuale è inferiore al 30%.
Sembra pertanto che i test di ammissione, sebbene alquanto inadeguati, abbiano statisticamente una buona validità predittiva e di costrutto, ed è sicuramente giustificato sia cercare di migliorarli che monitorare costantemente la correlazione tra il punteggio in ingresso e la carriera universitaria fino alla laurea. Sarà sempre possibile argomentare che i dati raccolti finora sono insufficienti per dare una valutazione definitiva; ma per il momento il nostro provvisorio giudizio è che il test di ammissione all'università, pur coi suoi ovvi difetti, non funziona poi così male. (FQ, 12-09-2014)

UNIVERSITÀ A NUMERO CHIUSO: SI AL TRASFERIMENTO IN PRESENZA DI POSTI VACANTI
TAR Abruzzo-L'Aquila, sez. I, ordinanza 26.02.2014. E' illegittimo il diniego di trasferimento opposto da un Ente Universitario alla richiesta dello studente proveniente da ateneo estero, in presenza di posti (rimasti) vacanti così sottoutilizzando le strutture a disposizione. Il bando emesso con decreto rettorale non può contenere clausole ad excludendum in danno di cittadini italiani, come tali aventi diritto allo studio costituzionalmente garantito. L’Ente Universitario, in caso di richiesta d’iscrizione al corso di studi per trasferimento, ha l’obbligo di valutare il percorso formativo effettuato presso l’Università di provenienza, ferma la natura discrezionale (e l’esito) del relativo giudizio. L’ordinanza in commento appare convincente proprio perché mostra un’attitudine interpretativa del tutto in linea con i più attuali principi comunitari della libera circolazione e del riconoscimento dei titoli di studio nei paesi europei. La selezione è ritenuta necessaria (solo) nel caso in cui le domande d’iscrizione siano superiori alla disponibilità dei posti, perché è in quel caso che si verifica la necessità di fronteggiare il sovraffollamento, che rappresenta causa ispiratrice della normativa sul numero chiuso. Viceversa la disponibilità di posti costituisce di per sé l’obbligo per le università di coprirli, se del caso anche con accoglimento delle domande trasferimento di studenti dall’estero, in forza del dovere, incombente sull’amministrazione, di rendere il servizio pubblico cui è preordinata, garantendo l’esercizio del diritto allo studio e il corretto utilizzo delle risorse. (Fonte: D. Talarico, Altalex 20-03-2014)

STUDENTI. LA SCELTA DEL CORSO DI LAUREA DALL'ORIENTAMENTO AL PRIMO ANNO
Il CUN (Consiglio Universitario Nazionale) ha presentato una ricerca finanziata dal MIUR sulla scelta del percorso universitario mediante gli strumenti di orientamento, dal titolo: "La scelta del corso di laurea dall'orientamento al primo anno: fattori di successo e d’insuccesso".
Statistiche alla mano, per 22 immatricolati su 100 la scelta del corso di laurea si è dimostrata sbagliata: l'8% di chi si è iscritto ha abbandonato l'università al I° anno, mentre il 14% è ancora iscritto ma ha già cambiato corso di laurea o ateneo. Gli abbandoni riguardano il 24% degli studenti provenienti da un istituto tecnico, il 19% dei diplomati professionali e il 4% dei liceali.
La forza di chi ha seguito un percorso di orientamento sta nel dato che il CUN enfatizza di più: a un anno dal diploma, il 95% degli iscritti all'università che hanno seguito un corso di orientamento non intende cambiare facoltà o ateneo e, spesso, hanno già ottenuto degli ottimi risultati nel superamento degli esami al I° anno universitario. "I ritardi, i cambi di corso e gli abbandoni degli studi avvengono soprattutto durante il primo anno di frequenza all'università, in conseguenza spesso di scelte sbagliate o poco ponderate", ha spiegato Andrea Lenzi, presidente del CUN. "Un corretto e concreto orientamento deve fornire ai ragazzi tutte le informazioni necessarie per fare scelte consapevoli, basate su dati attendibili. Perciò né le famiglie, né gli insegnanti delle scuole superiori possono dare informazioni esaurienti sugli attuali corsi universitari offerti oggi e sulle prospettive culturali e professionali che offrono". Tocca perciò alle università stesse, tramite i propri canali, raggiungere gli studenti con informazioni precise, dettagliate e, soprattutto, veritiere. (Fonte: D. Gentilozzi, rivistauniversitas 06-08-2014)

STUDENTI. CALO DELLE IMMATRICOLAZIONI E DISINVESTIMENTO NEGLI STUDI UNIVERSITARI
Nella generale contrazione della popolazione accademica – docente, tecnico-amministrativa e studentesca – i dati sul calo delle immatricolazioni sono tra i più deludenti: il numero degli immatricolati è passato da 338.482 nel 2003-2004 a poco più di 280 mila nel 2011-2012. Circa 58.000 unità in meno (il 17%): come se in un decennio fosse scomparso un Ateneo grande come la Statale di Milano, per riprendere una metafora mediaticamente molto efficace adottata dal CUN.  È un calo che non si arresta. Nel 2012-2013 gli immatricolati sono scesi a 269.564 e nel 2013-2014 a 265.527. La flessione dal 2011-2012 al 2013-2014 è stata dunque pari al 5.2%, mentre nell’ultimo anno si arresta per il momento all’1,5%. Se allarghiamo lo sguardo ad altri paesi europei, appare evidente che la crisi economica non si è tradotta ovunque in un disinvestimento dagli studi universitari. Nelle precedenti crisi economiche nel nostro Paese le prime sfere di risparmio delle famiglie interessavano la cultura e la comunicazione; stavolta invece la tenuta generale di questi comportamenti appare in controtendenza rispetto al disinvestimento sull’Università, ma pienamente coerente con gli investimenti crescenti su device tecnologici ed elettronica di consumo. In Italia, dunque, l’Università è meno attrattiva persino dei consumi culturali e delle tecnologie.
Impossibile non fare riferimento alla vittoria di un modello semplificato di lettura e interpretazione della realtà che ha riclassificato al ribasso l’idea di cultura e di Università. Né tantomeno si può ignorare che in questo processo hanno giocato un ruolo importante la politica e i media, soprattutto quelli più influenti e identitari del nostro Paese, favorendo una generale semplificazione dei ragionamenti, delle opinioni, delle prese di posizioni, che ha fatto dell’amnesia delle condizioni sociali il meccanismo di facilitazione dell’individualismo: in questo perimetro culturale acritico e impoverito si è consolidato un vero e proprio attacco all’Università e alla sua giustificazione sociale e professionale. (Fonte: P. Morcellini, Roars 20-08-2014)

STUDENTI. INCIDENZA DELL’EVASIONE FISCALE SULLE TASSE UNIVERSITARIE
I costi della vita “universitaria” – secondo l’Ocse – “mangiano” in media un terzo delle spese totali della vita di uno studente. Trend in ascesa, avvertono le associazioni studentesche, anche nella stagione 2014-2015. Buongiorno che si vede dal mattino se i primi a finire nel mirino degli aumenti sono stati, manco a dirlo, i contributi necessari a sostenere i rituali test di ammissione: da 20 fino a 100 euro, non rimborsabili a nessun titolo. Un tesoro che, solo nell’ultimo decennio, ha garantito alle università un gettito del +274%. Le “vere” note dolenti cominciano a farsi sentire con le tasse per l’immatricolazione, a cominciare dalla tassa regionale per il diritto allo studio per proseguire con le due rate della tassa di iscrizione. Ma a “rubare” risorse preziose, con conseguente rincaro per le tasse universitarie, non sono amnesie e sviste governative. Alla base del fenomeno, unitamente alla latitanza del finanziamento pubblico, va menzionata la grave incidenza dell’evasione fiscale (dacché il calcolo delle tasse universitarie si basa sulla dichiarazione dei redditi). È dato in evidente espansione, infatti, il numero degli studenti che pur provenendo da famiglie monoreddito di lavoratori autonomi rientrano nelle fasce più basse (soprattutto seconda, redditi fino a 10.000 Euro), pagando contributi relativamente più bassi. Situazione che determina una contrazione delle risorse da distribuire con conseguente penalizzazione per tutti quelli che meriterebbero davvero di usufruire dell’istruzione pubblica senza dilapidare patrimoni. Per loro, invece, la beffa atroce di pagare imposte superiori a quelle che sono richieste al figlio di un orafo o di un pellicciaio. (Fonte: www.controcampus.it 23-08-2014)

STUDENTI. PROGETTO ERASMUS A RISCHIO           
Dopo due anni dall'ultima ipotesi di taglio, il Progetto Erasmus rischia di nuovo di scomparire. Questa è la denuncia degli studenti della Rete della Conoscenza e di Link, secondo i quali la «previsione di bilancio europeo 2015 prevede oltre un miliardo di tagli alla voce "Ricerca e Innovazione" e renderà impossibile la programmazione di Progetti Erasmus futuri e addirittura anche le fatture emesse dalle università per i progetti già avviati». Per questa ragione il portavoce nazionale del coordinamento universitario Link, Alberto Campailla, chiede ai neo-europarlamentari italiani, alle forze politiche e al Governo di intervenire in tutte le sedi istituzionali europee per affermare la necessità di salvaguardare il Progetto Erasmus e la “generazione Erasmus”. (Fonte: Il Manifesto 21-08-2014)


VARIE

“PER LA SCIENZA E LA CULTURA”. UNA MOBILITAZIONE
La ricerca scientifica e il sistema universitario si trovano in una situazione drammatica. Questa situazione, aggravata dagli effetti della crisi economica, è sul punto di compromettere il futuro delle nuove generazioni di ricercatori e dunque la tenuta stessa del sistema. Situazioni simili ma più direttamente connesse alla politica economica imposta dall’Europa, si trovano in Grecia, Spagna, Portogallo e Francia, dove ampie coorti di giovani talenti sono costrette ad abbandonare i propri studi e i finanziamenti sono stati drasticamente ridotti. Al contrario del pareggio di bilancio, entrato in Costituzione, il trattato di Lisbona, che si proponeva di portare al 3% la spesa per ricerca e sviluppo, rimane inattuato accentuando lo sviluppo scientifico molto squilibrato degli Stati membri dell’UE che sta alla base della forbice economica tra il nord e il sud dell’Europa. Nonostante sia assodato che l’investimento statale in ricerca è uno dei motori principali dello sviluppo economico, non c’è nessuno sforzo per dirigere la spesa pubblica verso quei settori di qualità che potrebbero dare, nel medio e lungo termine, una struttura solida al tessuto produttivo. Per rimettere al centro dell’azione dei governi la ricerca e l’innovazione, un vasto movimento di ricercatori in tutta Europa sta organizzando una serie d’iniziative il prossimo autunno: gli scienziati devono contribuire efficacemente a superare la crisi economica e morale che stiamo vivendo.
In Italia vi sarà una grande mobilitazione “Per La Scienza e La Cultura” per ottenere il rifinanziamento della ricerca di base e del diritto allo studio, per una nuova politica di reclutamento e per la de-burocratizzazione dell’università. (Fonte: F. Sylos Labini, Roars 09-09-2014)

SCUOLA. IN SINTESI IL RAPPORTO OCSE 2014 “EDUCATION AT A GLANCE”
Migliora la qualità dell'istruzione in Italia, ma il livello rimane uno dei più bassi tra i paesi Ocse. Tra i punti critici: scarsa motivazione da parte degli studenti, dialogo balbettante tra scuola e
mondo del lavoro con pochi percorsi professionalizzanti, tassi di dispersione scolastica ancora alti, pochi investimenti. Aumentano i laureati, soprattutto donne, ma la percentuale rimane inferiore agli altri paesi. E ancora: troppi insegnanti nonostante il blocco del turnover che ha invece innalzato eccessivamente la loro età media. Education at glance è una delle più autorevoli fonti di informazione sullo stato di salute dei sistemi di istruzione. Un rapporto di 500 pagine in cui però non mancano alcune note positive: in generale dal 2003 al 2012 è aumentata la preparazione dei ragazzi. La percentuale di quindicenni che non raggiunge un livello base di matematica è calata. Piccoli progressi nei livelli di apprendimento, dunque, nonostante la spesa per studente tra il 2003 e il 2012 in Italia si sia ridotta del 4 per cento, e, tra i 34 paesi Ocse presi in esame, l'Italia sia l'unico che registra un calo della spesa pubblica per le istituzioni scolastiche. (Fonte: A. Schepisi, www.radio24.ilsole24ore.com  09-09-2014)

IL COMBINATO DISPOSTO TRA CRISI ECONOMICA E POLITICHE UNIVERSITARIE RECESSIVE
Mi interessa un passaggio dell’intervento di Mario Morcellini sul cantiere sempre aperto dell’università italiana, pubblicato su Roars il 20 agosto. Significativamente si chiedeva chi stesse pagando il conto della crisi: mi riferisco in particolare a quanto egli scrive a proposito del combinato disposto tra crisi economica e politiche universitarie recessive [che ha] ulteriormente ridotto, nell’accesso all’istruzione universitaria, la già modesta quota di studenti provenienti da famiglie più deboli dal punto di vista delle chance.
Quando si parla di calo delle immatricolazioni (uno degli argomenti preferiti negli articoli sull’università che periodicamente appaiono sui nostri giornali) bisognerebbe uscire dal vago. Per ricordare che, in un paese che registra già nella fascia d’età compresa fra i 25 e i 64 anni una percentuale di laureati pari al 15% rispetto al 28% dell’Europa e al 31% dei paesi OCSE, non stiamo assistendo ad una generica riduzione della popolazione universitaria, ma agli effetti inequivocabili di politiche regressive. Il fenomeno è, infatti, contrassegnato da pesanti differenze di classe (uso un linguaggio “vetero”, ma non riesco a trovare un’espressione più appropriata): i dati sfornati annualmente da AlmaLaurea e AlmaDiploma ci ricordano che si iscrive all’università il 78% dei diplomati di estrazione borghese contro il 48% dei giovani di famiglia operaia. Anche il titolo di studio dei genitori influenza le scelte dei giovani, se è vero che l’89% dei diplomati provenienti da famiglie in cui almeno un genitore è laureato ha deciso di iscriversi all’università; i posti letto nelle case dello studente coprono il 2% della popolazione studentesca in corso, 5 volte meno che in Spagna, 8 volte meno che in Francia e Germania, 17 volte meno che nel Regno Unito; soltanto il 7% degli studenti universitari ottiene una borsa di studio, contro il 25,6% della Francia, il 30% della Germania e il 18% della Spagna. Nell’ultimo quinquennio il numero dei beneficiari è calato del 22%, mentre è aumentato nei paesi appena citati, e, scandalo nello scandalo, la percentuale di aventi diritto che riesce ad ottenere una borsa è molto variabile da zona a zona, se è vero che percentuali tra il 99 e il 100% delle richieste di aiuto finanziario approvate vengono soddisfatte al Nord e al Centro, mentre nelle regioni meridionali si oscilla fra il 65 e il 68%.
Questi numeri non sono ininfluenti sul dato disaggregato su base territoriale del calo degli iscritti: nell’ultimo quinquennio le iscrizioni all’università sono calate del 20% nelle regioni meridionali e del 5% in quelle settentrionali, a conferma che la crisi colpisce in modo più pesante proprio nei ceti sociali e nelle aree geografiche in cui maggiore sarebbe il bisogno di qualificazione.
Dati alla mano si può concordare, dunque, con la risposta che Morcellini si è data: il costo della crisi lo stanno pagando i più deboli.
Se a ciò aggiungiamo il fatto che dal 2004 nelle imprese italiane è andata progressivamente riducendosi la percentuale di nuovi assunti con un livello elevato di specializzazione, in controtendenza rispetto a quanto accadeva in tutti gli altri paesi europei, viene il dubbio che questa possa essere una delle cause della scarsa competitività delle nostre aziende e delle difficoltà che esse incontrano nell’uscire dalla crisi. E allora si affaccia l’ipotesi di un’altra e più inquietante risposta alla domanda posta nell’articolo di Morcellini: i conti dello smantellamento del sistema pubblico dell’istruzione superiore li pagherà l’intero paese. (Fonte: G. Solimine, Roars 03-09-2014)

LETTERA UNITARIA DEI SINDACATI CGIL, CISL E UIL AI RETTORI
Nella lettera (08-08-2014) sostengono che da alcuni anni ormai assistiamo ad una strisciante e silenziosa quanto radicale destrutturazione dell'Università italiana, in particolare quella pubblica.
Per leggere la lettera http://tinyurl.com/q4t53bs .

LE NUOVE NORME PER LE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI (L. 114/2014) SULLA RISOLUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO NON SI APPLICANO AI PROFESSORI UNIVERSITARI E AI RESPONSABILI DI STRUTTURA COMPLESSA DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE
LEGGE 11 agosto 2014, n. 114 Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, recante misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari. (S.O - n. 70). Art. 1, comma 5. All'art. 72 del decreto-legge 25  giugno  2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, il comma 11 è sostituito dal seguente:
«11. Con decisione motivata con riferimento alle esigenze organizzative e ai criteri di scelta applicati e senza pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi, le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del decreto  legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e  successive  modificazioni,  incluse  le autorità indipendenti, possono, a decorrere dalla  maturazione  del requisito di anzianità contributiva per l'accesso al  pensionamento, come rideterminato a decorrere dal 1° gennaio 2012  dall'art. 24, commi 10 e 12, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, risolvere il rapporto di lavoro e il contratto  individuale  anche  del  personale dirigenziale, con un preavviso di sei mesi e comunque non  prima  del raggiungimento di un'età anagrafica che possa dare luogo a riduzione percentuale ai sensi del citato comma 10 dell'art. 24. Le disposizioni del presente comma non si applicano al personale di magistratura, ai professori universitari e ai responsabili di struttura complessa del Servizio sanitario nazionale e si applicano, non prima del raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età, ai dirigenti medici e del ruolo sanitario. Le medesime disposizioni del presente comma si applicano altresì ai soggetti che abbiano beneficiato dell'art. 3, comma 57, della legge 24 dicembre  2003, n. 350, e successive modificazioni».

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA DELL’ETÀ ELEVATA DEI NOSTRI DOCENTI
L’età (massima) pensionabile dei funzionari dello stato, e in particolare della categoria dei docenti universitari, è in Italia tra le più alte in Europa (attualmente 70 anni, i cugini del mondo accademico francese si godono la pensione a 65, nel Regno Unito a 67). Un poco invidiabile primato, che contribuisce a fare del nostro corpo docente il più vecchio della zona euro e uno dei più vetusti del globo. Va anche segnalato il rovescio della medaglia. In un sistema in cui l’età media d’ingresso nei ruoli universitari ha superato i quarant’anni (altro poco onorevole record), la soglia di uscita a 70 anni è già pericolosamente vicina, con il rischio di non poter accumulare sufficienti contributi per una pensione decente. Inoltre, con il blocco del turn over draconiano imposto negli ultimi anni con straordinaria coerenza dai governi di ogni colore, pensionare docenti a 70, 68, 65 o 130 anni sarebbe stato comunque relativamente poco utile ai fini del ringiovanimento del corpo docente: per ogni ordinario a fine carriera non si poteva comunque assumere che un pezzo di collega più giovane. (Fonte: N. Monelli, www.mentepolitica.it 07-08-2014)

STUDI UMANISTICI. QUALE FUTURO
Quali sono le possibili soluzioni per un salvataggio degli studi umanistici? Gli interventi sull'argomento sembrano mostrare due vie di salvezza: la prima prevede la metamorfosi dei professori di letteratura, arte, filosofia, storia in practitioners e public intellectuals, cioè intellettuali la cui conoscenza e le cui riflessioni siano messe al servizio diretto non solo di studenti e colleghi ma anche e soprattutto della gente comune, con pubblicazioni accessibili, programmi radiofonici e televisivi, blog. Esempi di cui molti si avvalgono includono invariabilmente la filosofia "per tutti" del furbissimo Alain de Botton e orrori come le possibili connessioni fra la società del Decameron e il reality Jersey Shore. Il pericolo è che poi ci si muova solo in quella direzione a scapito di altri modi, più tradizionali ma ancora efficaci, di fare ricerca.
Una seconda via, più plausibile, a mio avviso, è quella delle Digital Humanities, che presenta un vantaggio da non sottovalutare, quello del ritorno alla lettura e all'analisi dei testi letterari (negli Stati Uniti negli ultimi trent'anni la teoria ha quasi eliminato lo studio del testo), fatte con mezzi e obiettivi diversi. Non solo, ma con progetti di catalogazione e analisi digitale di autori e testi si può aprire la via a nuovi tipi di collaborazioni originali e interdisciplinari che potrebbero dare agli studi umanistici la scossa di cui hanno bisogno per risollevarsi e per rimettersi in gioco. (Fonte: O. Frau, www.huffingtonpost.it 19-08-2014)

DATI SCONFORTANTI DA UN RAPPORTO SINDACALE
Il finanziamento del diritto allo studio per il 2014 è a percentuali ridicole e la copertura dei capaci e meritevoli per l’anno in corso è attorno a una media nazionale del 60%. A ciò si aggiunga che manca una qualunque politica seria della residenzialità universitaria. L’università italiana è tra le più care d’Europa: nella classifica Ocse sono più costose soltanto Inghilterra e Olanda, ma a fronte di borse di studio per la gran parte degli iscritti, mentre da noi i fondi per il diritto allo studio non arrivano nemmeno al 20% degli studenti. Nella fascia fra i 30 e i 34 anni solo il 22,4% ha conseguito il titolo di “dottore”, contro una media Ue del 36,8%. Sopravanzano l’Italia anche la Romania (22,8%), la Croazia (25,6%) e Malta (26%). Ogni anno 5mila neo laureati lasciano il Belpaese per l’estero. Esiste anche la fuga degli over40, un fenomeno in via di espansione secondo il Centro Studi Cna. Tra il 2007 e il 2013, dall'Italia sono emigrati all'estero in 620mila, quasi il doppio rispetto ai 7 anni precedenti. Solo nel 2013 hanno varcato i confini oltre 125mila adulti (79% in più rispetto al 2012). Per saperne di più: http://tinyurl.com/jw8rqk6 18-08-2014

SISTEMA AVA
Roars ha pubblicato una lettera che i docenti del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Storiche, Economiche e Sociali dell’Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro hanno inviato al loro Rettore e, per conoscenza, al Presidente della CRUI, al Ministro Istruzione, Università e Ricerca e al Presidente ANVUR. In particolare esprimono il loro disagio per la mole di adempimenti burocratici imposta dal sistema AVA, che appare “ottusamente burocratico” e difficilmente conciliabile con i compiti primari che i professori e i ricercatori universitari sono tenuti a svolgere. Leggi tutto http://tinyurl.com/msgubbk 07-09-2014


ATENEI. IT

UNIBO. NUOVI PROFESSORI ALL’ALMA MATER
Un’infornata di 266 docenti universitari approvata dal consiglio di amministrazione nell'ultima seduta estiva: di questi 28 sono i docenti che diventeranno ordinari, ovvero che arrivano all'apice della carriera accademica, mentre sei arriveranno da fuori Bologna. I professori (per molti si tratta di uno scatto di carriera: da ricercatori a docenti associati e da associati a ordinari) prenderanno servizio nel nuovo ruolo dal 15 settembre. Tra i nuovi ordinari, Gino Ruozzi e Marco Antonio Bazzocchi a Lettere e Filologia, Giovanni Ferriani a Scienze aziendali, Roberto Vecchi a Lingue. Un’operazione importante, un segnale forte - il giudizio in Ateneo - soprattutto in un panorama dove le altre università, con un budget a disposizione ridotto, fanno fatica ad assumere. Per molti una boccata d’ossigeno dopo anni di blocco del turn over che ha penalizzato l'ingresso soprattutto dei più giovani. E non è finita. Mancano ancora un'ottantina di docenti che l'università di Bologna ha già programmato di assumere. Il consiglio di amministrazione si riunirà il 9 e il 30 settembre per dare il via libera ai nuovi posti. Dall'estero a settembre dovrebbero arrivare anche sei nuovi professori. Il piano assunzioni, annunciato dal rettore Ivano Dionigi, è imponente. Sono stati circa 800 gli abilitati su Bologna. In tutto, al termine delle operazioni, saranno circa 400 gli assunti: quasi uno su due. (Fonte: I. Venturi, bologna.repubblica.it 29-07-2014)


UE. ESTERO

GRAN BRETAGNA. I POSTI DI VERTICE OCCUPATI IN MAGGIORANZA DA ALLIEVI DI OXBRIDGE
La Gran Bretagna è ancora una società "profondamente elitaria", dove i posti di vertice sono occupati in maggioranza da persone che provengono dalle migliori università private del paese, come Oxford e Cambridge. Politici, militari, giudici e giornalisti sono stati formati sui campi da gioco delle scuole indipendenti di "Oxbridge". Ciò significa che chi prende decisioni per il paese non ha alcuna familiarità "con le sfide che giorno dopo giorno affronta la gente comune", si legge nel rapporto della commissione per la "Mobilità sociale e la povertà infantile". Un esempio è il primo ministro David Cameron, formato all'Eton college e all'università di Oxford, che infatti è stato bersaglio di non pochi strali per essersi circondato di consiglieri e ministri della stessa cerchia. Lo studio ha rivelato che il 59% del gabinetto di Cameron ha frequentato Oxford o Cambridge insieme con il 75% dei magistrati. Solo l'1% della popolazione britannica ha frequentato queste università di élite. (Fonte: r. rap., Affari & Finanza 08-09-2014)

FRANCIA. MOVIMENTO “SCIENCES EN MARCHE
Il movimento “Sciences en Marche”, fondato da un gruppo di ricercatori di Montpellier, sta organizzando una “multi-manifestazione” dalle varie città della Francia a Parigi dal 27 settembre al 19 ottobre 2014. Più di 3.000 direttori di laboratorio hanno ricevuto questa estate una lettera in cui si chiedeva loro di sostenere questa iniziativa, che è strutturata in diversi comitati organizzatori locali. I risultati finali del bando 2014 dell’Agenzia Nazionale della Ricerca (ANR) sono disponibili dalla fine di luglio. Il bilancio per i laboratori di ricerca pubblici francesi è catastrofico, considerando che l’ANR è progressivamente diventata la principale fonte di finanziamento della ricerca in Francia: solo l’8,5% dei progetti di ricerca presentati sarà finanziato! Considerando che in media sono necessari almeno 10 giorni lavorativi per scrivere, elaborare e valutare ciascuno degli 8300 progetti presentati al bando di gara dell’ANR, si arriva all’esorbitante cifra di 200 anni lavoro che sono pagati dal contribuente francese e che sono andati sprecati per la bassa soglia di accettazione dei progetti. Per porre fine sia alla carenza di risorse sia al loro spreco, il movimento chiede il ritorno a un livello di finanziamento che copra i progetti correnti dei laboratori. La situazione è così terribile che essi credono che una triplicazione del finanziamento di base stanziato dalle organizzazioni di ricerca dei laboratori sia necessaria per ripristinare la competitività della ricerca. Il costo annuale di tale misura sarebbe dell’ordine di 600 milioni di euro, circa il bilancio annuale della squadra di calcio Paris Saint-Germain. (Fonte: Redazione Roars 28-08-2014)

ALBANIA. DOPO ALMENO 900 “LAUREATI” IL GOVERNO ALBANESE HA PRESO MISURE CONTRO I DIPLOMIFICI SENZA FREQUENZA
Una laurea in soli dieci giorni. E’ il caso di un pescarese di 42 anni che ha in mano una laurea in Stomatologia ottenuta il 20 luglio 2011 all’Università Kristal, un ateneo – si è scoperto anni dopo – costruito in maniera abusiva. Se all’ambasciata italiana in Albania non avessero fatto i controlli necessari, oggi in Italia ci sarebbe un altro odontoiatra con un diploma quantomeno dubbio. Uno dei tanti. Perché, calcolano al ministero dell’Istruzione a Tirana, negli ultimi anni sono almeno 900 gli studenti stranieri che si sono laureati negli atenei albanesi seguendo – si fa per dire – corsi in lingua locale senza nemmeno saperne una parola. «È chiaro che quei 900 il pezzo di carta se lo sono comprato», ragiona il premier Edi Rama. «Gli universitari sono quasi tutti italiani», spiegano dal dicastero. Quello che ancora non si riesce a sapere è quanti – di questi 900 documenti – siano stati «convalidati» dalla rappresentanza consolare. Perché non sempre si riesce a capire, nella mole di fogli da presentare, se ci sia qualcosa da approfondire. Agli inizi di agosto è partita l’offensiva del governo socialista di Edi Rama contro i «diplomifici» albanesi. E così se a tredici atenei privati è stato chiesto di migliorare i loro criteri accademici, per altri tredici è stato chiesto di sospendere l’attività, mentre per altri diciotto ancora il ministero dell’Istruzione ha chiesto la revoca delle autorizzazioni. Insomma: devono chiudere. Così come devono smettere con l’insegnamento anche sette succursali di università pubbliche. (Fonte: Corsera Scuola 30-08-2014)

USA – ITALIA. DIFFERENZE NELL’ORDINAMENTO UNIVERSITARIO
Prof. Tassone, qual è la differenza che ha riscontrato tra l’ordinamento universitario italiano e quello americano? “Una delle differenze è che l’ordinamento universitario americano è strutturato in maniera tale che la maggioranza degli studenti completano il loro ciclo di studi nel corso di quattro anni. Il fenomeno dei fuori corso non è comune. Alla fine del quarto anno viene conseguita la laurea chiamata Bachelor of Arts (BA) per le discipline umanistiche e Bachelor of Sciences per le discipline scientifiche.  Una volta conseguita la  BA, una buona percentuale di studenti continuano gli studi per altri due anni per conseguire il Master. Le università americane diversamente da quelle italiane hanno un loro campus, sono ben attrezzate e molti studenti alloggiano all’interno delle università. Le tasse d’iscrizione sono molto elevate comparate a quelle italiane, ma esistono forme di sostegno sia governativo sia da parte di fondazioni private. Studenti bisognosi e meritevoli possono ottenere borse di studio anche per coprire l’intera durata dei loro studi.  Inoltre agli studenti sono offerte delle posizioni lavorative all’interno dell’università per aiutarli con i costi”. E il  rapporto docenti-studenti? “Nella mia esperienza personale devo dire che il rapporto con gli studenti è molto stretto e gli studenti sono seguiti giornalmente nel loro percorso di studi. Le nuove tecnologie come la piattaforma online e le e-mail rendono ancora più efficiente il rapporto docenti-studenti e la trasmissione di materiale. Rispetto all’Italia si è meno formali e forse più disponibili”. (Fonte: Intervista al prof. Tassone, docente di italiano a Seattle (USA), Agorà Magazine 05-08-2014)

USA. FLUSSO DI GRANDI DONAZIONI DALLA CINA ALLA IVY LEAGUE
The family of Gerald Chan, a Harvard-educated investor, is donating $350 million to the university's School of Public Health, the largest gift in the history of the U.S.’s richest university. The gift is part of a wave of enormous donations to schools with large endowments in recent years that highlights the diverging fortunes of the nation's colleges. China, the world's biggest exporter of foreign students to the U.S., has become a large source of donations for the Ivy League. In July, SOHO China Chief Executive Zhang Xin and her husband, Pan Shiyi, signed a $15 million gift agreement with Harvard University as part of their $100 million endowment to send underprivileged Chinese children to elite universities around the world. In 2010, Lei Zhang, the founder and managing partner of Hillhouse Capital Management, said he would give $8,888,888 to Yale University, which marked the largest gift to the Yale School of Management by a graduate of the school. (Fonte: D. Belkin, The Wall Street J. Europe 09-09-2014)

USA. MINERVA PROJECT. UN’UNIVERSITÀ ON LINE DI ÉLITE CHE VUOL FARE CONCORRENZA AGLI ATENEI DELLA IVY LEAGUE
Con l’inizio dell’anno accademico 2014-2015 ha preso il volo a San Francisco il Minerva Project, un istituto privato e for-profit che offre corsi di studio quadriennali e che mira, attraverso l’uso innovativo della tecnologia, a rivoluzionare il mondo dell’università come lo conosciamo oggi e come esiste, almeno in Occidente, da circa un migliaio d’anni. Questa è la creazione di un giovane manager/imprenditore prodotto tipico della Silicon Valley, Ben Nelson (39 anni di età). Minerva non ha un campus. Niente biblioteche, palestre, teatri. Nessuna delle enormi infrastrutture che rendono le università americane famose nel mondo. Non ha nemmeno delle aule. A San Francisco sono gli uffici amministrativi e un dormitorio dove i primi studenti a tentare questa avventura condividono camere da letto, bagni e aree comuni dove socializzare. Il resto avviene via Internet. “L’insegnamento passa attraverso la nostra piattaforma online, i corsi sono interattivi ma virtuali – dice van der Meer managing director di Minerva per l’Europa – Gli studenti devono accedervi con i loro computer e possono farlo dalle loro stanze, ma anche dal bar, ovunque si trovino”.  Un anno di studio presso Minerva si aggira sui 10.000 dollari (più 18.000 dollari per alloggio, cibo e spese varie), che van der Meer stima equivalgono a circa un quarto delle tasse imposte dai migliori atenei del Paese. Il progetto di Ben Nelson ha ambizioni elitarie e ci tiene a non essere confuso con i Massive Online Open Course (MOOC), i quali offrono istruzione universitaria di massa, gratuitamente o quasi. Minerva vuole invece competere con i grandi marchi Ivy League, e replicare il prestigio delle varie Princeton e Yale. “I nostri corsi sono molto diversi da quelli delle altre università online – dice van der Meer – tutto avviene in tempo reale e l’insegnamento si struttura attraverso seminari aperti a un massimo di 19 studenti”. Dopo un primo anno in cui tutti sono tenuti a seguire solo quattro corsi di impianto generalista chiamati cornerstone (un po’ come dire “pilastri”) – Analisi Formali, Sistemi Complessi, Comunicazioni Multimodali e Analisi Empiriche – al secondo anno gli iscritti scelgono l’area in cui specializzarsi tra cinque offerte: Business, Scienze sociali, Lettere e Arti, Scienze naturali e Scienze informatiche. Minerva vanta anche una forte enfasi internazionale. Gli studenti sono reclutati equamente da tutto il mondo, con la classe iniziale di 33 – selezionati tra circa 2.500 candidati – che rappresenta 13 diverse nazionalità. (Fonte: V. Pasquali, IlBo 08-09-2014)

LIBIA. FINE DELL’UNIVERSITÀ DI BENGASI
Iman Bugaighis, membro di una famiglia in prima linea nelle proteste non violente che portarono alla destituzione di Gheddafi, racconta come la violenza stia colpendo "tutti gli ambiti della vita delle persone e del Paese". "L'Università di Bengasi - riferisce la docente - è chiusa dai primi di giugno in seguito alle minacce incrociate di alcune bande armate che hanno trasformato il campus in un arsenale di armi, e la presenza di così tante persone armate condiziona pesantemente l'istruzione. Pochi giorni fa è stato annunciato che l'università riaprirà il 2 agosto per poter almeno completare gli esami dell'anno accademico 2013-2014. Dobbiamo vedere come si evolve la situazione". Secondo la Bugaighis "la priorità del Paese, e della vita accademica, continua ad essere quella della sicurezza e della costituzione di un esercito che possa assicurare la stabilità. L'Università di Bengasi è stata colpita da un missile un mese fa e i principali edifici sono vicini a uno dei campi delle milizie armate. Molti studenti non vivono in città e con la mancanza di sicurezza è praticamente impossibile per loro stare nei dormitori, specialmente per le ragazze. Molti fra gli studenti e il personale accademico sono traumatizzati dai continui assassinii e attentati. Alcuni di loro hanno perso membri delle loro famiglie in modo violento: omicidi, rapimenti. Altri sono sfollati dai posti in cui vivono ed è difficile pensare alla ricostruzione e a come sviluppare l'istruzione universitaria senza prima assicurare stabilità e sicurezza. (Fonte: M. Borraccino, rivistauniversitas 24-07-2014)


LIBRI. RAPPORTI

INTRODUZIONE ALLA BIBLIOMETRIA: DALLA TEORIA ALLA PRATICA
Autore: Nicola De Bellis. Editore AIB 2014, 205 pg.
L’autore, più noto all’estero che in Italia, cerca (riuscendoci molto bene) di parlare di bibliometria in termini pratici a chi non se ne occupa o se ne occupa solo occasionalmente (o se ne occupa malamente), facendo chiarezza sui principi fondamentali di questa scienza, sui suoi confini anche rispetto a discipline affini, sui criteri, sugli indicatori, sul modo di condurre praticamente un’analisi bibliometrica nel rispetto degli standard internazionali e sulla lettura consapevole dei risultati. Dopo una analisi storica e dei presupposti teorici della bibliometria, vengono descritti i principali strumenti di indicizzazione (WOS, Scopus, Google Scholar), sottolineandone pregi e difetti, i principali indicatori utilizzati (IF, SNIP, SJR, EF, AI, H-index e i suoi derivati) e come vengono costruiti. Viene posta particolare cura nella spiegazione di concetti quali “ripulire” un database, disambiguare i dati o normalizzare, delle diverse modalità di normalizzazione e del perché alcuni indici grezzi non possono essere utilizzati senza essere stati prima normalizzati. Certamente la bibliometria non trova lo stesso tipo di applicazione a tutte le aree della scienza, in particolare si sottolineano i limiti e le potenzialità della bibliometria nelle aree delle scienze umane e sociali, con un accenno alle nuove frontiere e sfide rappresentate dalle metriche alternative (altmetrics) e in generale dagli indicatori d’uso. (Fonte: P. Galimberti, http://tinyurl.com/p9r3eo4  02-09-2014)

EDUCATION AT A GLANCE 2014. OECD Indicators
OECD Publishing. Revised version, September 2014, 567 pg.
Education at a Glance, OECD Indicators is the authoritative source for accurate and relevant information on the state of education around the world. It provides data on the structure, finances, and performance of education systems in the OECD’s 34 member countries, as well as a number of partner countries. Featuring more than 150 charts, 300 tables, and over 100 000 figures, Education at a Glance provides key information on the output of educational institutions; the impact of learning across countries; the financial and human resources invested in education; access, participation and progression in education; and the learning environment and organisation of schools.
Governments are increasingly looking to international comparisons of education opportunities and outcomes as they develop policies to enhance individuals’ social and economic prospects, provide incentives for greater efficiency in schooling, and help to mobilise resources to meet rising demands. The OECD Directorate for Education and Skills contributes to these efforts by developing and analysing the quantitative, internationally comparable indicators that
it publishes annually in Education at a Glance. Together with OECD country policy reviews, these indicators can be used to assist governments in building more effective and equitable education systems. Per leggere tutto il rapporto http://www.oecd.org/edu/Education-at-a-Glance-2014.pdf .