IN EVIDENZA
TEST PER L’ACCESSO A MEDICINA, IL CASO DEL PREMIO AI
BOCCIATI
Un
maxi ricorso che è stato celebrato come una vittoria storica contro il numero
chiuso dai suoi promotori ma che, di fatto, si è tradotto in un danno oggettivo
e soggettivo per chi il test lo aveva passato: oggettivo perché gli atenei sono
andati in tilt a causa dell’ondata di nuovi immatricolati e soggettivo per il
senso di ingiustizia nel ritrovarsi sorpassati da chi aveva ottenuto un
punteggio molto peggiore del proprio. Il Miur a settembre aveva emanato una
nota che metteva dei paletti molto stretti per i 5.000 riammessi dal Tar:
potevano iscriversi, sì, in uno degli atenei che avevano indicato in sede
d’esame, ma avrebbero dovuto optare per quello «nel quale risulta minimo lo scarto
tra il primo in graduatoria e il punteggio del ricorrente». Vietato in altre
parole iscriversi a Torino, dove quest’anno c’è stato il candidato con il
punteggio più alto: (80,5) ma anche a Bari (76,7), a Bologna (73,3) e alla
Statale di Milano (72,6). Porte aperte invece in Molise (50,7), a Sassari
(51,8) o a Salerno (53,8). Per evitare nuovi ricorsi il 9 ottobre il ministero
ha emanato un’altra nota che rovesciava la precedente permettendo ai ricorsisti
di iscriversi nella loro prima scelta. Con buona pace di tutti gli altri
studenti con la valigia, come la comasca Claudia Colombo: «Io con i miei 37,8
punti sono finita da Pavia a Torino Molinette: spendo 350 euro per una stanza
ma sono in un’ottima università. Conosco una ragazza di Varese che aveva passato
il test ma ha dovuto rinunciare perché era finita a Salerno. E poi sono
scocciata perché l’arrivo di quelli che hanno fatto ricorso ci ha costretto a stare
a lezione seduti per terra». Da Padova a Palermo non si contano i disagi che le
ammissioni in sovrannumero hanno creato. Inizio dei corsi rinviato, aule
stracolme, lezioni in videoconferenza. A Bari la facoltà si è ritrovata ad
accogliere quasi il triplo degli studenti previsti dal bando: oltre 600 contro
i 237 di partenza. Spingendo i «regolari vincitori di concorso» a sottoscrivere
un manifesto di protesta che si concludeva — amaramente — così: «Vogliamo
“solo” studiare». Quello che più fa arrabbiare è l’ingiustizia di un sistema
che finisce per penalizzare chi segue le regole, giuste o sbagliate che siano.
(Fonte: Blitz Quotidiano 10-11-2014)
LA CRUI: CON IL CAOS DEI RICORSI ACCOLTI DALLA
MAGISTARURA AMMINISTRATIVA A RISCHIO L’AVVIO REGOLARE DELL’ANNO ACCADEMICO
Dopo
le ripetute sentenze del Tar che ha ammesso nelle graduatorie di Medicina migliaia
di ragazzi che non avevano passato il test, nelle principali facoltà italiane -
scrivono in un documento approvato il 12 novembre i rettori in seduta
straordinaria nella giunta della Crui - si è creata una «situazione gravissima»
che mette addirittura a rischio l’avvio regolare dell’anno accademico. Si legge
nel documento Crui: «La situazione venutasi a determinare nelle Facoltà/Scuole
di Medicina e Chirurgia a seguito delle pronunce della Magistratura
amministrativa, in accoglimento dei numerosissimi ricorsi presentati avverso
gli esiti dei test di ammissione al corso di laurea a ciclo unico in Medicina e
Chirurgia, è del tutto insostenibile e pregiudica il regolare avvio dell’anno
accademico. Di ciò hanno già documentato i Presidenti di Consiglio di corso di
laurea magistrale in Medicina e Chirurgia. In secondo luogo, le innovate
modalità di selezione alle Scuole di Specializzazione post-lauream, hanno
determinato più di qualche criticità, a tutt’oggi imprevedibile nelle possibili
conseguenze». E proseguono: «Da anni le domande di accesso ai corsi in parola
superano le relative offerte, tanto di posti quanto di borse. Per questo è
indispensabile un percorso di selezione ispirato a criteri rigorosamente
meritocratici. Siamo disponibili a discutere le diverse modalità possibili,
fermo restando il principio di coerenza
con le risorse disponibili, al fine di non pregiudicare la qualità per gli
studenti e per i borsisti, secondo standard europei, e di consentire una
programmazione adeguata agli Atenei. Urge affrontare la questione nel suo
complesso senza attendere altro tempo». (Fonte: www.corriere.it/scuola/universita
12-11-2014)
È POSSIBILE ACQUISIRE TUTTI I DIRITTI DI UN PROFESSORE UNIVERSITARIO SENZA
AVER MAI SUPERATO UN CONCORSO?
La risposta è sì. È
contenuta nell’articolo della legge 114 dell’11 agosto scorso, misure urgenti
per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli
uffici giudiziari. E vale per pochi – e molto noti – personaggi. La storia
riguarda la Scuola superiore dell’economia e delle finanze (Ssef) che, in nome
della spending review, viene soppressa e confluisce nella Scuola nazionale
dell’amministrazione (Sna). Il destino dei dipendenti della Ssef, però, non è
lo stesso per tutti. C’è chi – una
dozzina di fortunati – acquisisce tutti i diritti di un professore
universitario senza aver mai superato un concorso pubblico. E c’è chi invece –
circa 50 dipendenti – viene “eliminato” perdendo anche i diritti acquisiti. Il
comma 4 dell’articolo 21, dedicato alle Scuole di formazione, prevede che “i
docenti ordinari e i ricercatori dei ruoli a esaurimento della Ssef … sono
trasferiti alla Sna … e agli stessi sono applicati lo stato giuridico e il
trattamento economico … dei professori o dei ricercatori universitari…”. Ma
cosa significa “applicare” lo “stato giuridico” di un professore universitario?
E soprattutto: a chi è dedicata questa norma? Quali sono le conseguenze di
questa norma? Ilfattoquotidiano.it ha contattato diversi esperti di diritto
amministrativo che concordano su un punto: la norma non esclude espressamente
l’equiparazione di fatto tra i professori in questione e i docenti universitari
che hanno superato un concorso. La legge di agosto non è una primizia. Una
prima traccia dell’operazione, infatti, risale al 2000 ed è contenuta in un
decreto del governo Amato. L’anno successivo, il Parlamento vota una legge che
consente ai professori della Ssef di insegnare in qualsiasi università. Pochi
mesi prima, però, il Consiglio di Stato aveva già posto un argine a questa
deriva: l’acquisizione dello stato giuridico del professore universitario non
poteva discendere da un decreto del ministero. È necessaria una legge votata
dal Parlamento. E la legge, dopo 14 anni, finalmente è arrivata: ad agosto
viene convertito il decreto che, pochi mesi prima, è stato varato dal governo.
L’occasione è data dal taglio della spesa e dalla soppressione della Ssef. (Fonte: L. Di Cesare, FQ 19-10-2014)
FINANZIAMENTI. DA QUI AL 2018 L’FFO CONTINUERÀ A
DIMINUIRE
Una
considerazione sull’FFO, basata su quella che pare l’interpretazione più
probabile e più attenta alla lettera della disposizione nella Legge di
Stabilità. Il “taglio Tremonti” avrebbe causato una riduzione dell’FFO di -170
milioni. Il
“rifinanziamento” proveniente dalla legge di stabilità di
+150
milioni porta il taglio a -20 milioni. A questi si aggiungono -34 milioni per
il 2015, -32 milioni per il 2016, -32 milioni per il 2017, +10 milioni ex
Erzelli (anni 2016 e 2017). Il che porterebbe il saldo totale a -108 milioni,
fra ora e il 2017, con l’FFO che solo dal 2018, ricomincerà a crescere (sempre
grazie alle quote ex Erzelli) di 5 milioni/anno. È certo vero che queste cifre
sono migliori di quelle di cui si è parlato solo poche settimane fa. E che
anziché un immediato “taglio Tremonti” di 170 milioni ci ritroviamo con un
“taglio Renzi” di 108 milioni fra il 2015 e il 2017, dunque spalmato su più
anni e per questo più gestibile oltre che – sicuramente molti sperano – oggetto
di possibile correzione (spes ultima dea). Resta il fatto che rebus sic
stantibus, e se bene abbiamo compreso – da qui al 2018 – l’FFO continuerà a diminuire.
(Fonte: A. Banfi, Roars 25-10-2014)
RECLUTAMENTO. PUNTI ORGANICO E RICERCATORI
Il numero e il tipo di docenti di ciascun
ateneo sono determinati in base ai “punti organico” assegnatigli dal Miur. Un
ordinario “costa” 1 punto organico, un associato 0,7, un ricercatore tipico
0,5. Quando un docente va in pensione, i punti organico corrispondenti tornano
al dipartimento di appartenenza (dal 2008 pesantemente decurtati, causa blocco
turnover), che decide come reinvestirli. Le promozioni costano quindi dei
preziosi punti organico, ma se a vincere è un interno si paga solo la
differenza: quindi, in tempi di turnover normale, quando andava in pensione un
ordinario con il suo punto organico si poteva assumere un nuovo ricercatore,
far transitare un ricercatore ad associato e un associato ad ordinario, e in
media avveniva proprio così. Negli ultimi anni, però, questo sistema si è
vaporizzato. I docenti strutturati nelle università sono crollati
verticalmente: da 60.000 a 50.000 in sei anni, praticamente turnover zero.
Infatti, non solo il 50%-80% dei punti organico da pensionamenti è svanito nel
calderone del “risanamento”, ma i ricercatori nuovi assunti, secondo la legge
Gelmini del 2010, sono anche loro a tempo determinato (RTD). Ne esistono due
tipi: il tipo A costa 0,5 punti, dura fino a cinque anni non rinnovabili al
termine dei quali il mezzo punto torna al dipartimento; il tipo B invece è una
sorta di tenure track: costa 0,7 punti che dopo tre anni, di norma, vengono
convertiti stabilmente in un posto da professore associato e quindi non più
disponibili fino alla pensione. Guardando la proporzione attualmente in
servizio, più di 2000 sono RTDA contro soli 200 RTDB. Nel 2012 il Miur ha
decretato che, per ogni posto da ordinario, si è obbligati a bandire anche un
posto per RTDB, per garantire almeno un minimo di assunzioni in ruolo. Ma nella
legge di stabilità c’è un comma, il 29esimo dell’articolo 28, che stabilisce
che il vincolo di un TDB per ogni PO viene sostituito con il vincolo di fare un
TD (A o B) per ogni PO. È più facile prevedere che gli atenei, per il
differenziale di costo tra TDA e TDB (il primo costa 0,5 mentre il secondo 0,7
punti organico) siano portati a fare solo TDA. Infatti, il quesito per la scelta
sarà: giocarsi 0,7 punti per sempre, o investire 0,5 punti organico che
torneranno indietro tra 3-5 anni, pronti per essere reinvestiti? (Ma è qui che
dovrebbe intervenire la premialità se insiste il fattore eccellenza. Infatti,
dovrebbe risultare premiante per il dipartimento incanalare come RTDB un dottore
di ricerca eccellente verso la posizione di ruolo di associato invece di
risparmiare 0,2 punti organico mantenendo un RTDA precario. Nota di PSM) (Fonte:
www.ilfattoquotidiano.it
28-10-2014)
APPELLO CONTRO IL BLOCCO DEGLI SCATTI STIPENDIALI
MERITOCRATICI DEI DOCENTI UNIVERSITARI
L’USPUR (Unione
Sindacale dei Professori e Ricercatori Universitari) con questa nota della
segreteria nazionale rilancia l’appello promosso dal “Comitato promotore contro
il blocco degli scatti stipendiali”:
“In
sostanza la richiesta di sblocco degli scatti stipendiali non è stata recepita
nella legge di stabilità varata dal Governo Renzi e, per manifestare il nostro
risentimento, si sta organizzando una manifestazione a Roma per sabato 29
Novembre prossimo, nella piazza di Montecitorio. Questa è l’occasione per dimostrare
che anche noi docenti universitari abbiamo una dignità che ci porta a manifestare
quando il Governo e il Parlamento non tengono in alcun conto le nostre
richieste di essere ricevuti ed ascoltati per trovare una via di uscita dal
blocco delle nostre retribuzioni rimaste ferme al 31 Dicembre 2010, con blocco
rinnovato per il 2014 ed ora esteso anche per il 2015. Rimanere muti e
insensibili di fronte a tali fatti significherebbe rinunciare ai propri
diritti. Si ricorda che gli scatti stipendiali non sono più automatici ma
soggetti a valutazione da parte dell’autorità accademica. In aggiunta riteniamo
veramente punitiva la norma che considera le progressioni di carriera comunque denominate,
eventualmente disposte nel periodo di blocco delle retribuzioni, con effetto
solo ai fini esclusivamente giuridici. Su quest’ultima norma, se fossimo stati
ricevuti ed ascoltati, si sarebbe potuto trovare un opportuno ritocco per una
modifica che tenesse conto delle nostre richieste almeno per gli anni di
rinnovo (2014 e 2015) del blocco degli stipendi”. (Fonte: A. Liberatore,
segretario nazionale dell’USPUR 10-11-2014)
ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE
ASN 2012. “QUER PASTICCIACCIO BRUTTO” DEL CASO DEL
SETTORE CONCORSUALE DI DIRITTO PRIVATO 12/A1
L’ASN,
nella sua originaria configurazione, richiedeva – salvo eccezioni – che le
commissioni comprendessero un membro equivalente a ordinario e proveniente da
uno dei paesi OCSE. Da molte parti sono stati sollevati dubbi sulla competenza
del commissario straniero e sull’equivalenza del suo ruolo accademico con
quello di ordinario. Nel caso del settore concorsuale di diritto privato il Tar
ha rilevato che il membro straniero non è dotato di qualificazione adeguata al
settore relativo al diritto privato e pertanto il giudizio finale di non
abilitazione dei candidati è illegittimo, e va annullato. Dei 448 partecipanti,
coloro che hanno conseguito l'idoneità ad insegnare sono 129. Fuori ne sono
rimasti 319 di cui 200 hanno già fatto ricorso. Il tribunale in sei casi si è
già pronunciato e ha dato ragione ai ricorrenti. Inoltre il Tar ha ordinato che
la Commissione, in composizione del tutto differente da quella che ha operato,
procederà ad una rinnovata valutazione del candidato. Che ne sarà della prima
tornata ASN? Qui si pongono gravi problemi di equità e di diritto: se la
commissione non era composta in modo legittimo, è giusto che solo i ricorrenti,
e per di più solo i ricorrenti sul punto specifico della competenza del
commissario straniero, si vedano assegnati a nuova commissione? Questa è una
domanda alla quale non è facile rispondere poiché è evidente che l’eventuale
annullamento da parte del MIUR della prima tornata rispedirebbe in purgatorio i
candidati abilitati, con l’esito di generare – prevedibilmente – ulteriore contenzioso.
Inoltre sono già in corso procedure di reclutamento o avanzamento di carriera
che coinvolgono idonei di diritto privato, giudicati da una commissione a
quanto pare illegittima. Il risultato però sarà che candidati assegnati a nuova
e diversa commissione che si vedano poi dichiarati abili si troveranno in una
situazione di svantaggio perché le procedure si saranno già svolte a favore
degli abilitati da parte della commissione illegittima. Insomma, un terribile
pasticcio, di difficile soluzione, che nuoce ancora una volta al sistema
universitario italiano e che danneggia, in un modo o nell’altro, decine di
incolpevoli candidati. Il che sollecita un’ulteriore domanda: al di là del
settore di diritto privato, cosa può accadere per tutti quegli altri settori (e
ci sono, a quanto pare) nei quali risulta che il commissario straniero fosse o
non qualificato quanto a rango accademico o non competente per il settore
concorsuale? (Fonte: A. Banfi, Roars 11-11-2014)
ASN. INTERROGAZIONE AL MINISTERO SUI RICORSI DI CANDIDATI
Giovedì
(scrive l’on.le M. Ghizzoni) ho avuto risposta all’interrogazione presentata al
Ministero in merito ai ricorsi avanzati al TAR da moltissimi candidati
dell’abilitazione scientifica nazionale. La risposta è ponderata ma
non soddisfa. Il Ministero ha deciso di attendere i pronunciamenti definitivi
del giudice amministrativo, ed eventualmente quelli di annullamento, invece di
definire una chiara “via d’uscita” alle tante criticità della prima tornata
dell’abilitazione scientifica nazionale. Da parte del Governo ci si aspettava,
oltre a un’azione di autotutela, una volontà politica, che non c’è stata, per
intraprendere la strada indicata dalla Commissione Istruzione già nella
primavera scorsa. Si sarebbe potuto così alleggerire nei tempi e nei numeri il
lavoro dei TAR (le sentenze arriveranno nell’autunno 2015), si sarebbero
evitati probabili costi per il Ministero e si sarebbe chiarita più velocemente la sorte di tanti aspiranti
abilitati. Ho apprezzato, invece, che nella risposta si riconosca positivamente
il lavoro svolto dal Parlamento per introdurre modifiche alle procedure
dell’abilitazione a partire dalla prossima tornata. (Fonte: www.manuelaghizzoni.it 31-10-2014)
CLASSIFICAZIONI DEGLI ATENEI
UNA NUOVA CLASSIFICA MONDIALE DELLE UNIVERSITÀ, IL “BEST
GLOBAL UNIVERSITIES” DEL SETTIMANALE U.S. NEWS AND WORLD REPORTS
È
uscita una nuova, fiammante, classifica mondiale, a cura del settimanale U.S.
News and World Reports. Il citato magazine statunitense ha avuto un ruolo
pioneristico; infatti da oltre 30 anni compila graduatorie di College e
Università americane contribuendo così a soddisfare l’esigenza di fornire dati
e notizie su un “sistema” che comprende oltre 3.000 istituzioni di formazione
terziaria. Tuttavia, all’irrompere dei primi ranking mondiali, fra il 2003 e il
2004, la scena fu presto occupata da altri attori, produttori di classifiche:
cinesi, britannici, olandesi – anche questo è abbastanza noto. Ora, con un
preavviso pubblico di poche settimane, il settimanale statunitense è entrato
nell’agone con un proprio prodotto, il “Best
Global Universities”, che mette in fila 500 Università, e – com’è
abitudine, ormai – offre anche speciali classifiche per macrosettori
scientifici (oltre che per aree geografiche e Paesi). Tralasciamo di spendere
tempo nel commentare la classifica generale, capeggiata dai soliti grandi brand
accademici, pur in ordine diverso, e passiamo a dare un occhio alla
metodologia, non senza aver subito notato l’assenza della Normale di Pisa dai
quartieri nobili: la classifica avulsa italiana ce la segnala anzi oltre il
500° posto generale, su un totale di 750 Università prese in considerazione. Questa
nuova classifica fa sempre uso delle basi di dati di Thomson Reuters, ed anche
delle sue survey reputazionali: la differenza con i World University Rankings
del THE va quindi ricercata nella diversa definizione degli indicatori e del
loro mix. Ecco la tabella di riepilogo:

La
prima caratteristica che salta all’occhio, dalla sola lettura degli indicatori,
è la dipendenza dalla dimensione istituzionale di svariati indicatori. Questo
fatto, da solo, ci spiega l’assenza della Scuola Normale di Pisa non solo dai
primi posti, ma proprio da tutta la classifica e al contrario ci illumina del
primo posto, fra le italiane, della Sapienza (pur 139esima nella graduatoria
generale). (Fonte: R. Rubele, Roars 03-11-2014)
LA SAPIENZA. PRIMA IN ITALIA SECONDO U.S. NEWS/THOMSON
REUTERS
La
Sapienza si colloca al 139° posto tra le università al mondo, prima in
classifica tra gli atenei italiani, secondo il nuovo ranking internazionale
prodotto da U.S. News/Thomson Reuters. In vetta alla classifica, pubblicata il
28 ottobre, è l’università di Harvard, seguita da Massachusetts Institute of
Technology e dall’University of California-Berkeley. Tra le italiane, dopo la
Sapienza si collocano Bologna e Padova, al 146° posto, seguite da Milano al
155°. L’agenzia U.S. News/Thomson Reuters ha preso in esame istituzioni di 50
Paesi, classificandole sulla base di 10 indicatori che hanno valutato
l’attività di ricerca accademica e la reputazione, a livello complessivo e
locale; particolarmente rilevanti nella metodologia adottata sono le
pubblicazioni accademiche. (Fonte: www.primapress.it 29-10-2014)
DOCENTI
LE QUOTE DELLE DONNE NEI DOCENTI UNIVERSITARI
Secondo
dati Miur 2013 in Italia le donne rappresentano il 36,1% dei professori
universitari. Erano il 27,6% nel 1997 e appena il 14% nel 1959. La loro quota è
massima tra i ricercatori, dove rappresentano il 45,6% dell’organico; la quota
delle donne nel ruolo di associato si riduce al 35% e si riduce ancora di più
tra gli ordinari dove le donne sono appena il 21,1%. Per sintetizzare questi
dati si può utilizzare il Glass Ceiling Index (GCI) che è un indice sintetico
di segregazione verticale. Esso è calcolato come il rapporto tra la quota di
donne in una data posizione gerarchica e la quota di donne nella posizione
gerarchica superiore. Tanto più l’indice è superiore ad 1 tanto maggiore è lo
spessore del soffitto di cristallo, cioè tanto più difficile per le donne
salire nella scala gerarchica. Nel caso del passaggio tra ricercatore ed
associato l’indice GCI è pari ad 1,3: questo significa che la quota di donne
nel ruolo di associato è inferiore del 30% rispetto alla quota delle donne nel
ruolo dei ricercatori. L’indice GCI tra associato ed ordinario è pari a 1,66,
cioè la quota di donne nel ruolo di ordinario è inferiore del 66% rispetto alla
quota di donne associato. Complessivamente la quota di donne nei ruoli di
ricercatore e associato è quasi doppia rispetto alla quota di donne ordinario
(GCI=1,96). Nel 2010, i 27 stati dell’Unione Europea avevano un valore medio
del GCI di circa 1,8 per la posizione più elevata nelle carriere accademiche, e
nessun paese mostrava un valore vicino a 1. Per quanto attiene all’abilitazione
scientifica nazionale, la quota di donne tra gli abilitati ad associato è stata
del 39,3% e la quota di donne tra gli abilitati ad ordinario è stata del 28,9%.
I risultati ASN appaiono del tutto in linea con quanto avvenuto nei concorsi
locali 2008/2012 dove le donne rappresentavano il 38,2% dei nuovi associati ed
il 26,3% dei nuovi ordinari. (Fonte: A. Baccini, Roars 28-10-2014)
DOTTORATO
UNA DICHIARAZIONE DEL CUN SUL
DOCUMENTO ANVUR «LA VALUTAZIONE DEI CORSI DI DOTTORATO»
Roars ha segnalato ai lettori la dichiarazione del CUN sul documento
ANVUR «La valutazione dei corsi di dottorato». Il CUN ritiene “opportuno un
urgente e profondo ripensamento della valutazione dei Dottorati di ricerca, su
basi più solide delle attuali e più condivisibili a livello nazionale e
internazionale”, segnalando che le “criticità di carattere strutturale delle
procedure di valutazione dei Corsi di dottorato potrebbero avere ricadute
negative e durature sull’intero sistema universitario e sulla stessa capacità
di innovazione, competitività e crescita dell’intero Sistema Paese”. Infine, il
CUN “ritiene che occorra fare chiara distinzione tra il momento della valutazione
e quello delle scelte politiche sulla ripartizione dei fondi, la cui
responsabilità è comunque del Ministro”. (Fonte 04-11-2014)
IV INDAGINE SUL DOTTORATO E SUL POST DOC IN ITALIA A CURA
DELL’ADI, L'ASSOCIAZIONE DEI DOTTORANDI E DEI DOTTORI DI RICERCA ITALIANI
L’indagine
restituisce un quadro a tinte fosche del sistema universitario italiano e delle
prospettive occupazionali dei ricercatori alla luce della “cura Gelmini”, del
decreto ministeriale 45 del 2013 e delle linee guida per l'accreditamento dei
corsi di dottorato dell'Anvur. I dati sono così riassumibili: nell'ultimo anno
molte università hanno aumentato il livello di tassazione per gli iscritti ai
corsi di dottorato; il sistema di reclutamento è sostanzialmente bloccato ed i
livelli di remunerazione e di riconoscimento delle tutele sono nettamente
inferiori rispetto ai migliori standard europei. Tali criticità sono aggravate
da politiche di bilancio che hanno visto una drastica riduzione delle risorse
destinate alla ricerca. Nel dettaglio, dal 2008 in poi gli atenei dello Stivale
versano in una condizione di sotto finanziamento che acuisce le forme di
precariato tra i ricercatori: basti pensare che nel 2013 la metà di loro non
era inquadrabile in una figura professionale strutturata. Ed ancora: si registrano
una contrazione dei posti messi a bando pari al 19 per cento e una riduzione
delle borse di studio del 16 per cento, non compensate peraltro da forme di
finanziamento privato.
I
dati smentiscono seccamente la retorica secondo cui i dottori ed aspiranti tali
sarebbero addirittura troppi: “Al contrario, sono troppo pochi – replica la
senatrice accademica Ilaria Colazzo – e non va trascurata la situazione dei
dottorandi senza borsa: intendiamo chiedere alla Regione Puglia, infatti, di
destinare una borsa regionale a totale copertura di queste figure che,
evidentemente, non funzionano. Quest’invenzione, fallimentare, si è dimostrata
solo un escamotage per sfruttare gli studenti”. L’indagine non ha dimenticato
di sottolineare anche le vistose asimmetrie tra il Nord ed il Sud del Paese,
dovute a forme di finanziamento ben diverse, dimostrando come tre Regioni
(Lombardia, Emilia Romagna e Campania) da sole detengano la metà dei posti
italiani messi a bando. (Fonte: M. Schirinzi, www.lecceprima.it 04-11-2014)
FINANZIAMENTI
DIVARIO NEL FINANZIAMENTO DELLA FORMAZIONE TERZIARIA
RISPETTO AGLI ALTRI PAESI EUROPEI
È
documentato (Education at a Glance 2014) come l’Italia si sia caratterizzata come
Paese con una spesa relativamente elevata nei segmenti iniziali
dell’istruzione, comparativamente ad altri paesi europei. Tuttavia, questa
percezione deve essere aggiornata alla luce dei dati più recenti. Notiamo come
il nostro Paese superi (o sia in linea con) ancora le medie di spesa in area
Oecd o Europa a 21 solo per i segmenti della scuola dell’infanzia e primaria,
arretrando gradualmente a livello secondario e rimanendo distanziato in modo
netto a livello terziario.
Il
divario più consistente da colmare con i Paesi europei risiede chiaramente
nella formazione terziaria piuttosto che nella scolarità dell’obbligo.
L’investimento aggiuntivo di cui si parla nella proposta sulla “buona scuola” è
pari alla metà di quanto attualmente viene destinato come Fondo di
finanziamento ordinario per l’intero sistema universitario, e sarebbe quindi in
grado di incoraggiare una ripresa delle iscrizioni universitarie ormai in
declino da qualche anno. I corsi universitari sono tornati a essere affollati
oltre misura, per via del calo degli organici non sostituiti negli ultimi
cinque anni (-9294 nel quinquennio 2008-2013, pari a -15 per cento). Offrire
agli studenti migliori condizioni di studio, oltre a prospettive di ricerca ai
migliori dottorandi, può permettere una ripresa dell’offerta formativa senza
scivolare negli eccessi che accompagnarono l’avvio della riforma del 3+2.
Viceversa la destinazione dell’investimento aggiuntivo alla formazione
primaria, sbilanciata più all’assunzione di insegnanti che alla messa a norma
degli edifici rischia di dirottare risorse preziose e politicamente molto
costose a un miglioramento del sistema scolastico che può essere molto
marginale rispetto ai buoni risultati attualmente già conseguiti. (Fonte: D.
Checchi, lavoce.info 31-10-2014)
COME CAMBIA IL SISTEMA DI ASSEGNAZIONE DEI FONDI ALLE
UNIVERSITÀ
Da
quest’anno i fondi assegnati in base al merito peseranno di più: la quota
premiale sale infatti dal 13,5 al 18 per cento. È questa la novità principale
del decreto di ripartizione del Fondo per il Finanziamento Ordinario (FFO),
firmato dal ministro Giannini e inviato al vaglio della Corte dei conti, che
introduce per la prima volta anche i cosiddetti «costi standard», un nuovo
parametro legato a un complesso sistema di calcolo che dovrebbe servire ad
archiviare definitivamente le storture legate alla distribuzione dei fondi su
base storica.
In
linea con gli anni scorsi, il Fondo di finanziamento ordinario ammonta, per il
2014, a poco più di 7 miliardi di euro. Ma la quota premiale quest’anno pesa
sensibilmente di più (1,2 miliardi) e sarà calcolata tenendo in considerazione
anche l’esposizione internazionale, con particolare attenzione alla
partecipazione al programma Erasmus. Anche se il parametro principale resta
quello legato alla valutazione della ricerca (che pesa per il 70%) ovvero alla
«classifica» delle università licenziata non senza strascichi polemici a luglio
2013 dall’Anvur, l’ente di valutazione del sistema universitario.
Ma
la vera novità riguarda il «costo
standard» di formazione per studente in corso, pari a un miliardo per il
2014 (ovvero al 20 per cento della quota base, ma destinato a crescere nei
prossimi anni, fino a coprire il 100 per cento nel 2018). Un sistema inedito
che punta ad agganciare lo stanziamento delle risorse alla qualità dei servizi
offerti agli studenti in modo da evitare, come invece è successo l’anno scorso,
che la Bicocca di Milano (capolista nella classifica Anvur insieme al Bo di
Padova) prenda meno soldi di quella di Messina che stava in fondo. Il costo
standard viene calcolato attraverso una formula che mette in relazione i costi
che gli atenei sostengono per i diversi corsi di studio (costi dei docenti,
degli amministrativi e tecnici, di funzionamento) alla popolazione studentesca
in corso, e solo in corso. Il Miur fa sapere che per evitare sperequazioni è
previsto un correttivo territoriale basato proprio sul contesto economico e
sottolinea che la «clausola di salvaguardia» che stabilisce un tetto massimo di
riduzione dei fondi è stata abbassata passando dal 5 al 3,5 per cento del 2013,
«ma nessuno scenderà sotto il 2,7 per cento». (Fonte: O. Riva, www.corriere.it/scuola/universita 31-10-2014)
FINANZIAMENTI. VECCHI VIZI DA CAMBIARE: FFO A FINE ANNO E
CLAUSOLE DI SALVAGUARDIA
Di
costi standard si favoleggia da anni, e con il decreto sui finanziamenti
statali firmato dal ministro Giannini
l'università è il primo settore che prova davvero ad applicarli su larga
scala. Di questo va dato atto al ministro e al Governo, ma anche ai rettori che
non si sono messi di traverso a difendere l'esistente ma hanno sostanzialmente
accompagnato l'avvio della riforma. Questo, però, è solo il primo passo, perché
per dare realmente efficienza e trasparenza al sistema universitario il cammino
è ancora lungo. La prima prova arriva dal fatto che oggi, a due mesi dalla fine
dell'anno, stiamo discutendo dei fondi 2014, mentre qualsiasi principio di
programmazione imporrebbe di far conoscere a ogni ateneo (a ogni pubblica
amministrazione, in verità) all'inizio dell'anno le risorse che ha a
disposizione, per poter decidere davvero come spenderle. Il decreto a fine
anno, si dirà, è un vecchio vizio, e oggi è giustificato anche dalla profondità
dei cambiamenti: tutto vero, ma dal 2015 bisogna cambiare. Un'altra prassi da
abbandonare presto è quella delle «clausole di salvaguardia»: si possono
scrivere i parametri di finanziamento più raffinati, ma se poi si decide che
nessuno può perdere più del 2-3% dei soldi ricevuti l'anno prima, si finisce
per perpetuare i vecchi sistemi. Anche queste cautele possono essere motivate
con l'obiettivo di accompagnare il cambio di sistema, una giustificazione che
può reggere quest'anno ma non il prossimo: se i criteri saranno quelli giusti,
infatti, ogni euro perso da chi spreca sarà un euro guadagnato da chi fa più
didattica e ricerca. (Fonte: G. Trovati, IlSole24Ore 01-11-2014)
FORMAZIONE. LAUREE. OCCUPAZIONE
AL VIA LA MODIFICA DEGLI ORDINAMENTI DELLE PROFESSIONI
TECNICHE DEI DIPLOMATI
Vi
è la necessità di armonizzare i vecchi regolamenti professionali, di periti e
geometri, all'evoluzione della nuova normativa, riforma delle professioni e
della scuola, operando una semplificazione (uno solo al posto di quattro). Ma
soprattutto di chiarire se per gli accessi sarà sufficiente il titolo
rilasciato dalla nuova scuola tecnica riformata dalla Gelmini o servirà una
laurea triennale. Il punto è che secondo le norme che arrivano dall'Europa (mai
applicate in realtà in Italia) per esercitare una professione intellettuale è
necessario il possesso di una laurea triennale o di un titolo equivalente. Un
titolo equivalente che, però, allo stato attuale in Italia non esiste, visto
che gli Its, gli Istituti tecnici superiori, o gli Ifts, gli Istituti di
formazione tecnica superiore, non solo sono strutturati su un biennio ma non
sono tarati sul riconoscimento dei crediti formativi universitari.
Gli
Its sono strutture speciali ad alta tecnologia costituite con l'intento di
riorganizzare il canale di formazione superiore non universitaria. Pensati già
dalla legge Bersani, confermati dalla Finanziaria 2007, gli Its sono stati
introdotti nell'ordinamento nazionale dal dpcm del 25/1/08 e ripresi nel piano
Industria 2015 dall'ex ministro dell'istruzione Gelmini. Insieme agli Ifts
compongono la terza gamba dell'istruzione e della formazione tecnica, offrendo
corsi biennali, riconosciuti a livello europeo, per formare tecnici specializzati
in settori produttivi ancora poco conosciuti, dalla mobilità sostenibile alla
comunicazione, dai beni culturali al made in Italy. Dunque le imprese che hanno
fame di super-tecnici, hanno un nuovo bacino cui attingere. Ma il mondo delle
professioni? Si è molto discusso sulla spendibilità di questo titolo per
l'accesso all'albo e ancora se ne discute. Certo è che per renderlo quanto meno
equipollente è necessario un provvedimento di riconoscimento dei crediti
acquisiti negli Its, a livello universitario. Cosa che fino ad ora non è stata
fatta. Nel frattempo al Miur si lavora alla modifica degli ordinamenti delle
professioni tecniche dei diplomati, modifica necessaria alla luce di tutti gli
interventi legislativi che sono intervenuti nell'ultimo decennio. Tra i più
significativi: il dpr 328/01 che ha stabilito che agli esami di Stato si accede
anche con la laurea triennale per queste categorie; la riforma degli istituti
tecnici attuata dall'ex ministro Gelmini che ha razionalizzato gli indirizzi,
raggruppandoli in un settore tecnologico con nove specializzazioni. E infine il
dpr di riforma Severino (137/12) che, invece, è intervenuto in maniera
significativa sul tirocinio professionalizzante riducendolo dai 24/36 mesi a un
massimo di 18 mesi. (Fonte: ItaliaOggi 10-11-2014)
DOPPIE LAUREE. PIÙ DI 400 I CORSI CHE PORTANO AL DOPPIO
TITOLO
I
«double degree», le doppie lauree, stanno entrando in maniera massiccia
nell’offerta formativa delle università: più di 400 i corsi che portano al
doppio titolo, distribuiti a macchia di leopardo in atenei pubblici e privati,
dal Sud al Nord. Garantiscono ai giovani laureati di sistemarsi più facilmente,
in Italia o altrove, senza l’incomodo di sostenere esami aggiuntivi. «Sono
percorsi formativi progettati con atenei di tutto il mondo, che prevedono
lunghi periodi all’estero nei quali si sostengono esami in inglese o nella
lingua del Paese di destinazione», spiega A. Cofler, responsabile del Settore
Affari Internazionali dell’università Bicocca di Milano. Si può studiare Architettura
al Politecnico di Milano e insieme anche in Messico, Venezuela, Turchia;
Agraria a Padova e in Danimarca, ottenendo due titoli validi in entrambi i
Paesi; Filosofia a Bologna e in Germania; Sociologia a Trento e in Spagna;
Cooperazione internazionale alla Sapienza di Roma e in Colombia; Ingegneria
delle Telecomunicazioni al Politecnico di Torino e in Cina. Centinaia di
«doppie» porte, aperte sul mondo. «La tesi di laurea viene discussa in Italia,
ma spesso c’è la partecipazione via Skype della commissione dell’università
convenzionata, che può essere a migliaia di km di distanza» - spiega la docente
milanese. E, alla fine, due pergamene (double degree, appunto), con timbro e
firma dei diversi rettori, oppure un unico titolo «europeo», con curriculum integrato
(joint degree), riconosciuto da tutti gli atenei coinvolti. Un diploma simile è
una strada spianata per accedere a contesti internazionali, partecipare a
concorsi, accedere a dottorati, inserirsi nel mondo del lavoro di un Paese
straniero. (Fonte: A. De Gregorio, http://tinyurl.com/namdapj 11-11-2014)
POSTGRADUATE MOBILITY TRENDS TO 2024. DA DOVE VERRANNO E
DOVE ANDRANNO, DA QUI A 10 ANNI, I LAUREATI CHE PROSEGUIRANNO I PROPRI STUDI
ALL'ESTERO
È
quello che cerca di stabilire il rapporto Postgraduate
Mobility Trends to 2024, redatto dal British Council e pubblicato nei
giorni scorsi. Quali gli scenari prevedibili? Come già negli ultimi anni, nel
2024 sarà ancora la Cina a sfornare il maggior numero di laureati che si
sposteranno: si prevede che saranno in 338.000 a lasciare il Paese asiatico per
continuare gli studi specialistici in un’altra nazione. Grazie a un cospicuo
aumento demografico, il Paese con il più alto numero di giovani fra i 18 e i 22
anni sarà però l’India; quest’ultima avrà anche la maggior quantità di studenti
al mondo, 48 milioni contro i 37 milioni della Cina: per approfondire gli
studi, però, si sposteranno all’estero “solo” 209.000 laureati indiani.
L’aumento
del tasso d’istruzione nel mondo si è verificato nel recente passato anche in
risposta al bisogno di risorse umane qualificate nelle economie in espansione,
soprattutto in Asia. Nel 2024 l’aumento percentuale più consistente di studenti
post-lauream in uscita si verificherà presumibilmente in Nigeria (+8.3), India
e Indonesia, paesi a economia crescente e saldo demografico decisamente
positivo.
Situazioni
molto diverse da quella dell’Italia, dove a una contrazione della natalità ne
corrisponderà una relativamente maggiore del numero assoluto di iscrizioni
all’Università a causa degli effetti di lungo periodo della crisi e della
perdurante difficoltà del mercato del lavoro nell'assorbire adeguatamente
professionalità elevate. E lo stesso pare debba accadere, sempre a causa della
denatalità, in Germania e Russia, fra gli altri. Nel nostro Paese però è
previsto un saldo comunque positivo nel campo della mobilità post-lauream, con
4.000 studenti laureati in uscita in più (+2,5%).
E
se dall’Italia i giovani studiosi si muoveranno soprattutto verso la Gran
Bretagna (in 7.000), la Germania (6.200) e gli Stati Uniti (1.800), a queste
mete più che consolidate si aggiungeranno l’Australia e il Canada, con un
aumento di spostamenti rispettivamente del +4,2% e +3,7%. Certo non c’è
paragone, ragionando numericamente, con i grandi flussi che si muoveranno dalla
Cina verso gli Stati Uniti (154.000 studenti), la Gran Bretagna (85.000) e
l’Australia (44.000), o che sposteranno 138.000 studenti laureati indiani verso
l’America e 24.000 verso l’Australia. Si è da tempo invece già modificata in
modo rilevante la tradizionale direttrice India (e Pakistan) – Gran Bretagna,
già avviata verso un forte declino negli ultimi anni, e destinata a indebolirsi
ulteriormente. In sostanza, gli Stati Uniti continueranno a essere la meta
preferita degli studenti laureati internazionali, che nel 2024 lì arriveranno
in 407.000, con un aumento di 154.000 unità. Ottime performance sono previste
anche per Gran Bretagna, che ospiterà 241.000 studenti, Germania con 113.000 e Australia
con 112.000. (Fonte:
C. Mezzalira, IlBo 30-10-2014)
OCCUPAZIONE
DEI LAUREATI
Quando si parla di lavoro non tutte le lauree sono
uguali. Esistono discipline che portano (molto) più facilmente a un impiego e
altre meno, campi in cui il reddito è maggiore e altri ancora dove ci si deve
arrangiare con quanto si trova. Qual è la situazione italiana? Il
consorzio Alma Laurea ha raccolto
proprio questi dati intervistando ex studenti di diverse facoltà
italiane. Ecco cosa dicono tre anni dopo aver conseguito il titolo.
L’occupazione, intanto: quanti sono quelli che lavorano? Nel 2013 a cavarsela
meglio sono soprattutto medici e
ingegneri, insieme ai laureati del settore scientifico. Subito dopo
viene chi si occupa di insegnamento, che tra l’altro è l’unico campo di studio
in cui l’occupazione dei neo-laureati è in crescita negli ultimi anni. Sono
invece messe male le facoltà più “classiche”: fra i laureati in giurisprudenza
lavora poco più di uno su due – di gran lunga l’ambito peggiore. Restano in
fondo alla classifica, anche se le cose vanno già meglio, gli ambiti letterari
e psicologia, insieme al settore politico-sociale (che comprende appunto anche
scienze politiche). Negli ultimi quattro anni, comunque, la situazione è
peggiorata praticamente per tutti. Ma in particolare l’occupazione diminuisce
per i laureati in discipline economico-statistiche (-7,4 punti percentuale dal
2010), politico-sociali (-7,8) e letterarie (-8,6).
SVILUPPI DELLA PROFESSIONE MEDICA
Fare
oggi una fotografia di come si svilupperà la figura del medico nei prossimi
anni significa valutare e analizzare le possibili sfide future con le quali la
professionalità medica dovrà confrontarsi e offrire un’analisi dei percorsi
formativi che, sempre di più, dovranno adeguarsi alle richieste del
“mercato". Pensiamo ad esempio al processo di invecchiamento della
popolazione che ricercherà nel prossimo futuro geriatri, fisioterapisti,
cardiologi.
In
relazione al futuro della professione medica, quello che sembra preoccupare
maggiormente riguarda la sempre più evidente carenza di camici bianchi in
alcune aree specialistiche.
Leggendo
alcuni dati del Sindacato ospedaliero italiano "Anaao Assomed",
emerge come alcune specializzazioni siano più in crisi di altre. Lo studio
parte da una considerazione di fatto:
tra
il 2012 e il 2021 circa la metà degli ospedalieri italiani andrà in pensione,
con un picco previsto per l'anno 2017 quando oltre 7mila medici chiuderanno i
loro contratti. In totale saranno circa 61 mila i medici che in questo decennio
potranno andare in pensione. A fronte di questa uscita, se ne specializzeranno
solo 50mila. Di questi almeno il 30% deciderà di lavorare nel privato.
Entreranno quindi 35mila medici, di cui 5mila faranno i medici di famiglia e
non andranno in corsia. Le specializzazioni che secondo la ricerca di Anaao
Assomed avranno maggiori carenze saranno Medicina interna, che in dieci anni
vedrà uscire 4200 camici bianchi con un rientro stimato in 2250 unità. Segue
Chirurgia Generale che in dieci anni avrà 950 specializzazioni in pneumologia
(meno 580), Anestesisti (380 in meno) e poi i Pediatri, che tra gli ospedalieri
e quelli di famiglia, subiranno una riduzione pari a 3400 unità. (Fonte: Il
Messaggero 31-10-2014)
LAUREATI ESTERI IN ITALIA. UN IDENTIKIT
I
laureati di cittadinanza estera che scelgono di studiare nel nostro Paese sono
più frequenti nel gruppo linguistico (5,6%), in quello medico e odontoiatrico
(4,9%). Mentre sono meno del 2% del totale i laureati esteri che scelgono di
frequentare un indirizzo di studio nei gruppi di educazione fisica,
insegnamento, geo-biologico, giuridico e psicologico. Tra gli atenei che
aderiscono ad AlmaLaurea quelli in cui si registra una maggiore presenza di
cittadini esteri sono: Perugia Stranieri (28,7%), Scienze Gastronomiche Bra
(18,7%), Siena Stranieri (17,9%), seguiti da Bolzano (14,3%); i laureati di
cittadinanza estera sono frequenti anche al Politecnico di Torino (12,1%),
Trento (6,6%), Trieste (6,2%) e Camerino (5,9%). Dall’indagine emerge una
maggiore presenza di laureati esteri negli atenei del Nord e del Centro Italia
(4,6% al Nord e 4,2% al Centro, 0,9% al Sud, 0,5% nelle Isole). Secondo i dati
di AlmaLaurea la quasi totalità dei cinesi arriva in Italia solo dopo aver
concluso la scuola superiore (l'89%), mentre il 56% dei cittadini rumeni, il
43% dei cittadini delle Americhe e il 42% dei cittadini albanesi arriva in
Italia prima di conseguire il titolo di scuola secondaria di secondo grado.
Entrando nel merito del background familiare d'origine, i dati dell'Indagine
mostrano che il contesto socioeconomico dei laureati esteri è tendenzialmente
più elevato rispetto a quello degli stessi laureati italiani: 42 laureati
stranieri su 100 hanno almeno un genitore laureato, è il 27% tra i laureati
italiani. Tra i laureati esteri vi sono comunque delle differenze tra le
diverse aree di provenienza: gli africani provengono da contesti culturalmente
più svantaggiati; al contrario, provengono da famiglie con genitori molto
istruiti i laureati americani (49%), i laureati provenienti dall'Asia e Oceania
(il 45%; esclusa Cina), i cinesi (43%) e gli albanesi (34%). L’indagine mette
inoltre in luce che durante gli studi universitari il 57% dei laureati esteri
ha fruito di una borsa di studio, contro il 21% dei laureati italiani. (Fonte:
AlmaLaurea e IlSole24Ore 03-11-2014)
RECLUTAMENTO
LA DIFFICOLTÀ DI PROMUOVERE UN ESTERNO COME ASSOCIATO
Far diventare un ricercatore professore associato
“costa” 0,2 punti organico, assumere un associato di un altro ateneo o esterno
ne costa 0,7. Facciamo un esempio: Un dipartimento di Milano ha 1,6 punti
organico da spendere e 10 ricercatori abilitati. Un dipartimento di Roma ha 0,8
punti organico e 5 ricercatori abilitati. Se a Milano riescono ad assumere solo
ricercatori dell'Università di Milano possono assumere 8 dei 10 ricercatori
abilitati. La stessa cosa possono fare a Roma promuovendo 4 ricercatori locali
a patto di riuscire a non assumere nessun esterno. Ma se per caso il miglior
ricercatore abilitato di Milano vince un concorso a Roma il sistema va in tilt.
A Roma i punti organico sono terminati e nessun abilitato romano potrà ambire
alla promozione. In pratica Roma e Milano perdono 3 posti di associato per ogni
esterno che vince. Non importa se sia un ricercatore di altra università (e
quindi il saldo per il ministero sarebbe invariato!) o un precario o un cervello
in fuga che vuole ritornare, l'importante è che non vinca. La perversione
insita nel sistema è ovvia. La partita dei dipartimenti di Roma e Milano
potrebbe finire con 3 vincitori di concorso (tutti esterni) o 12 vincitori
(tutti interni)! Mettetevi al posto di un direttore di dipartimento, cosa
cerchereste di ottenere? Possibile che non si possa immaginare un meccanismo di
trasferimento delle risorse da un ateneo all’altro così che almeno per chi è
già nell’accademia italiana assumere un esterno non rappresenti una iattura?
(Fonte: P. Brunori, http://tinyurl.com/l3s8crn 03-11-2014)
RETRIBUZIONI
ESCLUSI DOCENTI UNIVERSITARI E DIRIGENTI DI POLIZIA DALLO
SBLOCCO DEGLI SCATTI DI STIPENDIO
Lo
sblocco delle promozioni e degli scatti automatici di stipendio legati
alI'anzianità di servizio, promessi dal governo soprattutto a militari e Forze
di polizia, è stato inserito nella legge di stabilità. Ma non si applicherà a
tutti. Resteranno esclusi, almeno per ora, tutti i dipendenti pubblici «non
contrattualizzati». A prevederlo è l'articolo 21 del disegno di legge che ha
appena iniziato il suo iter alla Camera dei deputati. Si tratta delle posizioni
di vertice della macchina statale. Nel caso della Polizia, per esempio, a non
ricevere neanche il prossimo anno gli aumenti di stipendio legati agli scatti
di anzianità, saranno i dirigenti generali, i questori e i primi dirigenti. Per
i militari l'adeguamento non si avrà dal grado di colonnello in su. Ma fuori
rimarranno anche altre categorie come i professori universitari, e, secondo la
definizione della norma, potrebbe riguardare anche i ministri e i
sottosegretari. Per tutti gli altri dipendenti pubblici, pur rimanendo bloccato
per un altro anno il rinnovo del contratto, dovrebbe almeno riprendere la
dinamica legata alla carriera, permettendo agli stipendi di salire nel caso in
cui siano previsti scatti automatici o nel caso di promozioni di carriera.
Secondo la relazione tecnica che accompagna la legge di stabilità, il blocco
per dirigenti di polizia, docenti universitari e per le altre categorie non
contrattualizzate del pubblico impiego, dovrebbe permettere un risparmio annuo
di 40 milioni di euro. (Fonte: Il Messaggero 31-10-2014)
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA: SIAMO INDIETRO COME
NUMERO DI RICERCATORI DECENTEMENTE PAGATI
I giovani ricercatori dovrebbero essere pagati
decentemente. Questo l'appello lanciato da Giorgio Napolitano durante la
cerimonia in occasione della Settimana della ricerca contro il cancro.
"Siamo al settimo posto nelle classifiche sulla ricerca scientifica - ha
ricordato il Capo dello Stato - ma scusatemi se tocco un tasto indecoroso:
siamo indietro come numero di ricercatori e, soprattutto, siamo indietro come
numero di ricercatori decentemente pagati". (Fonte: AGI 06-11-2014)
RICERCA. RICERCATORI
È L’AUTUNNO CALDO DELLA RICERCA
L’Europa
è in crisi, ma forse quello che non era stato finora abbastanza chiaro è che a
essere in crisi – profonda crisi – è il cuore pulsante della sua promessa di
sviluppo: la Ricerca. Sappiamo anche che le condizioni della ricerca europea
sono molto differenziate, con una netta contrapposizione tra i Paesi del centro
e del sud dell’area, con quote di investimento sul PIL che variano tra il 3% (e
talvolta lo superano) e poco più dell’1%. Ma le strette finanziarie imposte ai
governi hanno creato un’ulteriore frattura e reso nel complesso molto più
asfittico tutto il finanziamento a questa attività. Se ne è accorta molto bene
la Francia, che ha voluto così lanciare l’allarme, con l’ambizione di
contagiare l’opinione pubblica europea e creare un movimento di pressione per
sollecitare un’inversione di tendenza. È l’autunno caldo della ricerca, che è iniziato
con una grande manifestazione – quella della Francia, appunto – originale e
d’effetto: dal 27 settembre al 18 ottobre i ricercatori dell’Università di
Montpellier si sono cimentati in una maratona ciclistica con destinazione
Parigi, per chiedere che sia almeno triplicato l’investimento nella ricerca di
base. La risposta europea al richiamo dei francesi non ha tardato a farsi
sentire. Nasce, infatti, quasi in parallelo, il manifesto promosso da nove
ricercatori europei che denuncia, in modo forte e chiaro, lo stato di abbandono
in cui versa la ricerca del vecchio continente, a cominciare dal titolo: Hanno
scelto l’ignoranza. “Hanno scelto
l’ignoranza” è anche il “mantra” che attraversa l’intero manifesto e che
scandisce ogni singolo importante passaggio di un messaggio complesso. Quello
che la ricerca è il fondamento di un nuovo modello di sviluppo basato sulla
conoscenza; che il suo finanziamento non può seguire i cicli politici; che a
lungo termine, l’investimento sostenibile in R&S è fondamentale perché la
scienza è una gara sulla lunga distanza; che alcuni dei suoi frutti potrebbero
essere raccolti ora, ma altri possono richiedere generazioni per maturare; che,
se non seminiamo oggi, i nostri figli non potranno avere gli strumenti per
affrontare le sfide di domani. (Fonte:
D. Palma, http://tinyurl.com/oh52utf 12-11-2014)
RICERCATORI. CON IL SISTEMA DEI PUNTI ORGANICO NON CONVIENE ASSUMERE CHI HA
VINTO FINANZIAMENTI ESTERNI PER PROGETTI COMPETITIVI
La riforma Gelmini ha
cancellato la figura del Ricercatore a tempo indeterminato, rendendo quello del
Ricercatore un ruolo ancora strutturato all’interno dell’Università ma a tempo
determinato. Tale figura precaria prevedeva però uno scivolo verso il ruolo di
Professore associato per coloro i quali fossero riusciti a conseguire
l’abilitazione scientifica nazionale a Professore di seconda fascia. Ma ecco
che emerge il quesito cruciale: conseguire l’abilitazione è una condizione
sufficiente o solamente necessaria per raggiungere il sospirato ruolo di
Professore associato? Ed ecco la trovata: vengono predisposte due diverse
figure di ricercatore a tempo determinato: uno di tipo A e uno di tipo B. Cosa
cambia, solo una lettera? Tutt’altro. È solo il ricercatore di tipo B a vedere
l’eventuale conseguimento dell’abilitazione come una condizione sufficiente per
l’accesso al ruolo. Per il ricercatore di tipo A, invece, alla sua condizione
già precaria, viene anche negata una prospettiva sicura in caso di conseguita
abilitazione; questa infatti non costituisce un criterio sufficiente per
l’accesso al ruolo e potrebbe finire per diventare solamente una riga
prestigiosa da aggiungere al curriculum vitae. È finita qui? Affatto. Infatti,
in base all’attuale sistema dei punti organico, di cui lo stesso C.U.N.
nell’ultimo documento sul reclutamento auspica l’immediata soppressione, il
costo che deve fronteggiare un Dipartimento per l’assunzione di un Professore
associato corrisponde alla differenza tra 0.7 punti organico (il costo intero
di un Professore associato) e il costo con cui il neo assunto già gravava sul
bilancio del Dipartimento prima del passaggio di ruolo. Ciò implica che un
ricercatore già finanziato dal Dipartimento (il cui costo è di 0.5 punti
organico) necessita di soli 0.2 punti per il passaggio a Professore associato.
Ma il costo per il passaggio di un Ricercatore finanziato su fondi esterni è
invece pari a 0.7 punti organico, che è esattamente il costo della chiamata di
un Professore associato esterno all’Università. Insomma, per l’assunzione di un
ricercatore che sia stato capace di procacciarsi i fondi per la propria
attività sulla base di progetti di ricerca finanziati da bandi esterni
all’Università, il Dipartimento deve pagare più del triplo rispetto a un
ricercatore già precedentemente
finanziato dal Dipartimento stesso. Appare evidente come il sistema di
reclutamento che deriva dal farraginoso meccanismo dei punti organico esponga
al rischio, concreto, di causare un’ingente perdita di personale qualificato a
ciascun Dipartimento e di vanificare l’abilitazione scientifica nazionale di
molti Ricercatori che hanno avuto la “colpa” di reperire autonomamente i fondi
per la propria attività di ricerca. (Fonte: R. Giuntini, Corsera Scuola
19-10-2014)
RICERCATORI. SCARSE RISORSE E ANCHE NULLE PER LA RICERCA
SUGLI EVENTI METEO
In
Francia alla ricerca si dedica una percentuale doppia del prodotto interno
lordo rispetto a quella investita nella Penisola, sempre intorno all’1 per
cento. E nonostante cambino i governi, l’atteggiamento non cambia. Questo ci
colloca al 32° posto su 37 dei Paesi dell’Ocse per gli investimenti nelle
università. Eppure le capacità e i risultati emergono di continuo. All’inizio
di quest’anno dei 312 Consolidator Grants assegnati dall’European Research
Council 46 sono stati vinti da ricercatori italiani: un record, visto che erano
solo due in meno rispetto a quelli ottenuti dai tedeschi. Gli stessi francesi e
inglesi si erano attestati a un livello più basso. La maggior parte dei nostri
ricercatori, e dei fondi a loro assegnati (50 milioni contro 20) nell’occasione,
andranno però a centri stranieri dove i nostri scienziati svolgeranno il
programma stabilito. Si continua a parlare (molto sommessamente) dell’ipotesi
di riforma degli enti di ricerca, ma i piani del governo persistono in un
distacco che promette poco di buono. Per fare un esempio d’attualità, è in
corso a livello europeo un piano di ricerca sugli eventi meteorologici estremi
nell’area mediterranea analoghi a quelli che hanno causato disastri e vittime a
Genova. I ricercatori italiani interessati vi possono partecipare a titolo
volontario senza essere pagati, perché, a differenza delle altre nazioni, non
viene assicurato alcun finanziamento. Eppure i disastri si ripetono, e non è
fatalità.
RICERCATORI E ASSEGNISTI. CARRIERE BLOCCATE
Solo
un ricercatore precario su 100 nelle università italiane ha davanti a sé una
possibilità vera di stabilizzazione, gli altri 99 stanno perdendo tempo. O, più
semplicemente, stanno preparando le valigie per andare altrove, a molti
chilometri di distanza da un'Italia che, lontano dai proclami dei consigli dei
ministri di governi di ogni colore politico, non riesce a fare nulla per i suoi
cervelli.
L'Apri, associazione dei precari della ricerca, ha
analizzato i dati attuali del ministero dell'università. Il ritratto che ne è
emerso non è dei più lusinghieri per le università e per la politica italiana.
Esistono 2450 ricercatori a tempo determinato di tipo A, cioè quelli che hanno
durata triennale, rinnovabili per altri due anni e poi fine, si fermano lì, non
possono fare altro. Ci sono 15.237 titolari di assegni di ricerca di vario
tipo, in pratica persone che lavorano nelle facoltà come dei borsisti, dopo
essersi procurati da soli i fondi per la loro attività ma che non otterranno
mai alcuna stabilizzazione. Ed esistono 224 fortunati ricercatori a tempo
determinato di tipo B, con contratti di tre anni, gli unici che possono portare
alla promozione a professore associato se, al termine dei tre anni, avranno
conseguito l'Abilitazione Scientifica Nazionale. Sono 224 persone in
tutt'Italia, assunte con contratti basati su una legge del 2010 che ha portato
ai primi bandi solo dopo tre anni di attesa, nel 2013. A queste condizioni,
quasi 99 ricercatori su 100 saranno espulsi dal sistema accademico, una cifra
ancora più negativa di quella dello scorso anno. (Fonte: F. Amabile, La Stampa
03-11-2014)
UN’ASSOCIAZIONE ITALIANA PER LA PROMOZIONE DELLA SCIENZA
APERTA
L’accesso
aperto alle pubblicazioni e ai dati della ricerca scientifica potenzia la
diffusione su scala internazionale, comprime il tasso di duplicazione degli
studi, rafforza l’interdisciplinarità, agevola il trasferimento della
conoscenza alle imprese e la trasparenza verso la cittadinanza, aiuta a
garantire la conservazione nel tempo. Redazione Roars riporta di seguito
l’invito ad aderire alla prossima costituzione di un’associazione italiana per
la promozione della scienza aperta. Il principio dell’Open Access (accesso
aperto) vuole che i risultati – pubblicazioni e dati – della ricerca
scientifica siano messi gratuitamente a disposizione del pubblico su Internet
concedendo a ricercatori e lettori ampi diritti di riutilizzo. L’Open Access
(OA) mira ad abbassare le barriere tecnologiche, economiche e giuridiche che si
frappongono tra il pubblico e i risultati della ricerca creando discriminazioni
all’interno della stessa comunità scientifica. Il principio dell’accesso aperto
risponde all’imperativo morale della pubblicità della scienza e ai valori
costituzionali di promozione dello sviluppo della cultura, della ricerca
scientifica e tecnica, nonché della libertà accademica e scientifica. Molti
sono gli ostacoli che si oppongono a un’effettiva, completa e sistemica attuazione
delle politiche di apertura con riguardo alle pubblicazioni, ai dati, alle
tecnologie (Open Source), e alle risorse formative on line (c.d. Open
Educational Resources). Al fine di superare gli ostacoli, si ritiene necessaria
la nascita di un soggetto giuridico che possa condurre, con flessibilità e
rapidità, le azioni concrete necessarie a diffondere una cultura dell’apertura
della scienza che colga pienamente le possibilità offerte dall’era digitale.
Per questi motivi, si propone la costituzione di un’associazione italiana per
la promozione della scienza aperta. La proposta è firmata da 23 docenti,
vedi http://tinyurl.com/q6advhj
. Chi è interessata/o ad associarsi, è pregato di comunicarlo con una
lettera di intenti entro il 31 gennaio al seguente indirizzo e-mail: roberto.caso@unitn.it. (Fonte:
Redazione Roars 11-11-2014)
CINECA. IRIS. UN PASSO AVANTI VERSO L’ANAGRAFE DELLA
RICERCA
Sotto
il ministro Profumo per ragioni di razionalizzazione dei costi i consorzi
italiani (Cineca, Cilea e Caspur-Ciber) si sono fusi in un unico soggetto che
ha mantenuto il nome Cineca. Cineca aveva elaborato Ugov Ricerca (distribuito a
46 atenei) mentre Cilea aveva progettato Surplus (utilizzato da 8 atenei). Non
aveva senso per il nuovo consorzio portare avanti due sistemi, per cui per
circa un anno (il 2013) Cineca si è sforzato di metterli insieme creandone uno
nuovo, IRIS. Un passo in avanti verso la tanto sospirata Anagrafe della ricerca.
In che modo questo passaggio a uno strumento unico per tutti gli atenei si
connette al discorso sulla futura anagrafe della ricerca? Se tutti (o quasi)
gli atenei avranno un’anagrafe locale costituita da un repository istituzionale
pubblico, se i metadati che descrivono le pubblicazioni saranno quelli
richiesti dal Ministero per il trasferimento delle pubblicazioni all’anagrafe
centrale (più altri utilizzati per scopi locali), se il Ministero riuscirà a
dare agli atenei regole sulla validazione e sui prodotti da esporre per la
raccolta a livello centrale, e a costituire un gruppo di lavoro che si occupi
della qualità dei dati (ad esempio nel caso di pubblicazioni in coautoraggio
fra più atenei o strutture), si potrà dire che questa architettura potrebbe già
contribuire alla costituzione della nuova anagrafe della ricerca. La quale
dovrebbe necessariamente (e finalmente) interfacciarsi con le anagrafiche
ministeriali, con quelle dei progetti e con quelle dei dottorati. Tali
interfacce potrebbero utilmente avvalersi di strumenti già adottati a livello
internazionale, quali ad esempio identificativi persistenti per le
pubblicazioni (DOI) e per i ricercatori (ORCID). (Fonte: P. Garimberti, Roars 24-10-2014)
RICERCA DI BASE. IMPORTANZA DELL’INVESTIMENTO DIVERSIFICATO
Non
è un caso che i Paesi che investono la maggior percentuale del loro PIL in
ricerca e sviluppo, oltre ad avere una maggior frazione di scienziati o
ingegneri, sono quelli che sono appunto identificati come i leader tecnologici
(da questa prospettiva l’Italia è invece più prossima ai Paesi in via di
sviluppo). Il problema cruciale dell’investimento nella ricerca di base è che i
rendimenti sono ad alto rischio e si hanno generalmente su scale temporali che
non sono interessanti per il singolo individuo. È necessario peraltro ricordare
che la ricerca di base rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente
allo sviluppo economico: un aspetto diverso, ma ugualmente importante e
strettamente correlato, riguarda la capacità di un Paese di utilizzare le
scoperte della ricerca di base con la presenza di un sistema che supporti in
modo sistematico i collegamenti tra scienza e industria. Per l’alto rischio
intrinseco della ricerca di base – in cui non è mai chiaro in partenza quanto
sarà il ritorno sulle risorse impiegate – è lo Stato che in genere si fa carico
di questo investimento. Gli Stati Uniti sono un punto di riferimento in tal
senso: nel Paese per altri versi paladino del libero mercato, la ricerca di
base è finanziata dal governo federale per 40 miliardi di dollari l’anno, che
si assume così il rischio dell’investimento. Un’analisi approfondita dei
recenti prodotti della Apple, dall’Ipad all’Iphone, mostra infatti che la base
tecnologica è fornita da scoperte della ricerca fondamentale degli ultimi due
decenni che sono state finanziante dallo Stato (in gran parte americane ma
anche di alcuni Paesi europei). Dunque, in questo come in molti altri casi, una
gestione attenta ed efficiente della spesa pubblica ha permesso allo Stato di
agire come investitore chiave per scommettere sulla ricerca ed assumersene
l’alto rischio, riuscendo così a creare le condizioni necessarie per produrre
innovazione e modellare i mercati del futuro. Uno studio quantitativo
suggerisce che le strategie che premiano la diversità e la diversificazione,
piuttosto che l’eccellenza, si rivelano essere più produttive. Il problema non
è dunque finanziare ricercatori riconosciuti oggi come eccellenti; è piuttosto
dare la possibilità di sviluppare quei progetti di ricerca che diventeranno
eccellenti domani, ma che sono oggi sviluppati da ricercatori di “buona” (non
ancora eccellente) qualità. Quindi, piuttosto che sperare di minimizzare il
rischio puntando su poche linee di ricerca, è più efficiente diversificare.
Proprio per questo i Paesi leader tecnologici, oltre ad avere la più grande
produzione di articoli scientifici e di citazioni, non sono specializzati in
pochi settori scientifici; hanno invece diversificato il più possibile il loro
sistema di ricerca. La diversificazione rappresenta quindi l’elemento chiave
che si correla con la competitività scientifica e tecnologica. (Fonte: F. Sylos
Labini, Roars 25-10-2014)
RICERCATORI. PROSPETTIVE DI RECLUTAMENTO NELLE
DISPOSIZIONI DELLA LEGGE DI STABILITÀ
Con
l'art. 28, co. 28, il DdL Stabilità introduce la possibilità per le università
“virtuose” di assumere ricercatori a tempo determinato (RTD) nella misura del
50% del personale (Professori di I e II fascia, ricercatori a tempo
indeterminato) che ha cessato il servizio l’anno precedente e del 100% dei
ricercatori che, sempre nell’anno precedente, hanno concluso il contratto di
tipo "a".
Questa
misura non può essere considerata una soluzione concreta al problema dei bassi
livelli di reclutamento di ricercatori in Italia. In primo luogo perché essa
farà sentire i suoi effetti solo a partire dal 2016, quando i primi contingenti
di RTDa di una qualche entità termineranno il loro percorso. Il fatto che negli
anni immediatamente successivi all'entrata in vigore della legge 240/2010 il reclutamento
di giovani ricercatori abbia fatto registrare solo poche centinaia di nuovi
ingressi, contribuirà certamente a neutralizzare l'efficacia immediata di
questo tipo di soluzione.
In
secondo luogo, questa misura avrà un impatto molto disomogeneo sulle diverse
realtà accademiche regionali. La IV Indagine annuale ADI su Dottorato e
Post-doc ha messo in evidenza come nel 2013 ci siano state intere regioni in
cui le Università hanno reclutato pochissimi RTDa o non li hanno reclutati
affatto. Il Governo sembra ignorare l'elemento centrale della questione e cioè
che, sempre nel 2013, le tre regioni che hanno reclutato più RTDa detenevano da
sole il 50% dei posti messi a bando in tutta Italia. Oltre al suddetto
intervento, il DdL (art. 28, co. 29) contiene una misura che intaccherà
ulteriormente le possibilità di accesso al ruolo per i giovani ricercatori a
tempo determinato. Viene infatti abolito il vincolo contenuto nel DLgs 49/2012
(art. 4, co. 9, l. c) che collegava il reclutamento di RTD di tipo
"b" - l'unica figura che tramite un meccanismo di tenure-track
prospetta un accesso al ruolo degli strutturati - all'assunzione dei docenti
ordinari. Come già osservato in molte altre occasioni, dato il momento di
profonda difficoltà economica, gli atenei si orienteranno verso la figura che
richiede il minor aggravio e cioè quella del RTD di tipo "a",
sprovvisto di tenure-track e più precario. (Fonte: www.dottorato.it/adi/notizie
25-10-2014)
RICERCA. NUOVE REGOLE PER IL CREDITO D’IMPOSTA
L'esecutivo
ha stabilito nuove regole, rispetto al decreto Destinazione Italia del 2013,
per il credito d'imposta che verrà applicato dal 2015 al 2019 a tutte le
categorie di imprese che effettuano investimenti in attività di ricerca e
sviluppo, anche in termini di personale: riguarderà il 25% delle
spese
sostenute in eccedenza rispetto alla media dei medesimi investimenti realizzati
nei tre periodi precedenti al 2015. La misura si può applicare fino a un
importo massimo annuale di 5 milioni di euro per ciascun beneficiario, a patto
che siano sostenute spese per ricerca e sviluppo almeno pari a 30 mila euro in
ciascuno dei periodi d'imposta. Il credito arriva al 50% per le spese relative
al personale altamente qualificato in possesso di un titolo di dottore in
ricerca (iscritto a un ciclo di dottorato in un ateneo italiano o estero)
oppure in possesso di laurea magistrale. (Fonte: Corsera 26-10-2014)
ASSEGNISTI E RICERCATORI TDA. PROROGHE?
Con
la fine del 2014 e inizio 2015 sarà impossibile, se non muta la norma,
prorogare i contratti di assegno di ricerca “Gelmini” (massimo 4 anni) e si
presenterà il problema anche della proroga (massimo due anni) dei contratti da
ricercatore a tempo determinato di tipo A (3 + 2 anni). Sul tema è in atto da
mesi un’intensa opera di sensibilizzazione di tutti i soggetti istituzionali
che possono esercitare una pressione sul MIUR perché modifichi le norme. La
soluzione più semplice è l’eliminazione “tout court” dei limiti di 4 anni per
gli ADR e di 12 anni totale. Si allunga il precariato? Può essere. Ma la scelta
è tra una prosecuzione di un contratto a TD e … nessun contratto. Alla luce
della situazione attuale del reclutamento accademico italiano, è assolutamente
necessario chiedere un intervento al Ministro per abrogare o quanto meno
sospendere la norma del limite dei quattro anni. Una norma inattuale, che se
oggi riguarda poche centinaia di ricercatori (comunque non pochi), nell’arco di
un biennio potrebbe creare migliaia di neoesodati. (Fonte 27-10-2014)
LIMITI TEMPORALI DEGLI ASSEGNI DI RICERCA E DEI
RICERCATORI A TD. PROPOSTA DI SUPERAMENTO
A breve arriveranno a scadenza del limite massimo di 4
anni, previsto dalla legge Gelmini, gli assegni di ricerca attivati dal 2011.
Lo stesso problema si porrà il prossimo anno per i contratti da ricercatore a
tempo determinato per i quali arriveranno a scadenza i 5 anni previsti sempre
dalla legge Gelmini. Per Pantaleo
(FlcCgil) "è indispensabile, in via transitoria e fino alla
definizione di un nuovo e più sensato sistema di reclutamento realmente
finanziato, superare il limite temporale dei 4 anni per gli assegni di ricerca
e quello dei 5 anni per i ricercatori a tempo determinato di tipo A e
contemporaneamente avviare un profondo ripensamento delle figure a cavallo tra
il dottorato di ricerca/specializzazione e l'accesso al ruolo della
docenza". (11-11-2014)
CRISI DELLA RICERCA E DELL’INNOVAZIONE IN ITALIA.
RAPPORTO ERAWATCH
E’
stato da poco pubblicato a cura della DG Research della Commissione Europea con
il supporto del Joint Research Centre, il Rapporto ERAWATCH relativo
all’analisi per il 2013 del sistema di Ricerca e Innovazione dell’Italia,
redatto da Leopoldo Nascia e Mario Pianta. In linea con gli obiettivi generali
dell’iniziativa ERAWATCH, finalizzata a fornire un supporto conoscitivo il più
possibile articolato sullo stato delle politiche della ricerca e
dell’innovazione nei Paesi europei nello spirito della realizzazione di un’area
europea della ricerca (ERA, European Research Area), il Rapporto approfondisce
lo stato di crisi della ricerca e dell’innovazione dell’Italia non solo come
esito delle politiche di restrizione imposte ai bilanci pubblici, ma anche come
effetto di una situazione di retroguardia di lungo periodo del “sistema” della
ricerca e dell’innovazione nel nostro Paese. Particolarmente critica è la
situazione della diminuzione dei finanziamenti pubblici alle università, che
rende pressoché privo di efficacia il ricorso a forme di finanziamento
“competitive” finalizzate ad aumentarne l’efficienza, e indebolisce dalla base
l’intero sistema della ricerca e dell’innovazione. Al di sotto di una
determinata soglia critica di finanziamento – emerge dall’allarme del CUN
(Consiglio Universitario Nazionale) – l’Università non può che arrivare al
blocco delle attività. E se proprio di efficienza si vuole parlare deve essere
ricordato – così come sottolineato dallo stesso ANVUR – che la crescita della
quota delle pubblicazioni scientifiche dell’Italia è una delle più elevate in
Europa, al di sopra della media dei paesi dell’Unione e che la produttività
scientifica delle università italiane compare nella parte alta delle
classifiche europee. Il problema dell’Italia risulta inoltre acuito dalla
debolezza dell’innovazione del suo tessuto produttivo incardinato da tempo su
settori a medio-bassa intensità tecnologica. Anche in questo caso la crisi ha
costituito un’aggravante, non solo deprimendo il potenziale di innovazione del
sistema produttivo, ma anche condizionando al ribasso la domanda di alta
formazione e di ricerca del Paese. Fonte: European Commission. A Science and Policy Report
by the Joint Research Centre. ERAWATCH Country Reports 2013: Italy (L. Nascia e M.
Pianta, 2014). Link al Rapporto http://tinyurl.com/ou7xnzk recensito da Roars 30-10-2014)
#SCIENCEBULLETCHALLENGE, L’INIZIATIVA “VIRALE” DEI
RICERCATORI ITALIANI
#ScienceBulletChallenge
è un’iniziativa nata da un gruppo di ricercatori precari dell’Università
“Sapienza” di Roma. Utilizzando i canali del web 3.0, #ScienceBulletChallenge
ha come unico obiettivo quello di denunciare le condizioni in cui versano i
precari della Ricerca Pubblica Italiana e quindi la Ricerca Pubblica del nostro
Paese. Cercando l’hashtag #ScienceBulletChallenge sui principali social network
già si possono trovare i video girati da chi ha deciso di partecipare al gioco
virale, ricercatori o simpatizzanti che vengono simbolicamente “colpiti” e
fatti “sparire” da svariati “bullet”, a rappresentare la pioggia di colpi che –
abbattutasi negli anni sulla ricerca – ha ridotto in macerie un intero sistema.
La sfida, dunque, consiste nel lanciarsi, o farsi lanciare, un “bullet” per
mostrare all’intero paese come, colpo dopo colpo, quella del ricercatore in
Italia stia diventando una figura in via d’estinzione. Quello che tutti sanno è
che la Ricerca nel nostro Paese versa in condizioni disastrose e che i cervelli
migliori sono in fuga. Quello che invece pochi sanno è che in Italia la Ricerca
faticosamente continua grazie a migliaia di ragazzi che restano e che ogni giorno,
seppur certi della loro precarietà, procedono con quello che – nella pochezza
generale – di buono è rimasto. L’indagine Ricercarsi 2014 (promossa dalla Flc Cgil
e in corso di pubblicazione) ha stimato che solo il 6,7% dei ricercatori
precari è stato assunto negli ultimi dieci anni. Ovvero il 93,3% è
sopravvissuto grazie a contratti a tempo determinato o assegni di ricerca. Il
73,1% del campione preso in considerazione dal rapporto di cui sopra, non ha
figli nonostante l’età media di 35 anni e nonostante il 57% sia rappresentato
da donne. In gioco non c’è solo il futuro dei ricercatori. La Ricerca Pubblica
è un bene da preservare perché significa tecnologia per tutti, cure migliori,
costi ospedalieri minori, benessere. La ricerca migliora e allunga le vite di
tutti. Perché non siamo solo seriosi topi da laboratorio. Perché ci piacciono
le sfide. Perché vogliamo far sentire la nostra voce. Perché crediamo nei
social e in un nuovo modo di fare rete. Sulla scia del tanto declamato
#IceBucketChallenge, iniziativa che però non ha fatto altro che confermare lo
stato dei fatti – invitando i singoli a donare a un soggetto privato – #ScienceBulletChallenge vuole riportare
l’attenzione sulla realtà. Accetta la sfida, gioca insieme a noi e aiutaci a
diffondere l’hashtag #sciencebulletchallenge. Per informazioni sito web www.sciencebulletchallenge.it.
(Fonte: Redazione Roars 06-11-2014)
RICERCATORI ITALIANI: INVESTIMENTI E STIPENDI SOTTO LA
MEDIA EUROPEA
È
necessario fare una prima distinzione tra i ricercatori universitari e quelli
degli enti di ricerca. I primi, secondo analisi fatte in materia negli anni,
possono arrivare a percepire una retribuzione lorda mensile iniziale di 1.705
euro per poi ottenere (a fine carriera) un compenso massimo di 5.544 euro. I
secondi percepiscono una media di 2.400 euro con la possibilità di poter
diventare (dopo tanti anni di una carriera evidentemente lenta) un dirigente di
ricerca con uno stipendio di 7.500 euro al mese. Evidentemente non abbastanza.
Tant'è che in molti preferiscono lasciare il nostro Paese per trasferirsi
all'estero, dove i compensi sono più sostanziosi e dove fondi pubblici e
privati investono (molto) di più rispetto a quanto accade qui in Italia. Il
nostro è infatti tra i Paesi dell’Unione europea e del G20 a spendere di meno
in Ricerca e Sviluppo, con un investimento – sostenuto da imprese, istituzioni
pubbliche, università e organizzazioni private non profit - pari all’1,25% del
PIL nel 2011 (19,8 miliardi di euro). Una percentuale più bassa rispetto alla
media europea del 2,05%, e lontanissima dal target del 3% fissato dalla
strategia Europa 2020.
Aumentare
i compensi ai ricercatori potrebbe essere un riconoscimento nei confronti di
una categoria che conta tra le proprie fila alcune tra le menti più influenti
del mondo: 55 nostri connazionali sono stati inseriti nella classifica stilata
dall'Istituto Thomson Reuters, che ha individuato i 3.200 ricercatori con più
citazioni in lavori scientifici nel periodo 2002-2012 (The World's Most
Influential Scientific Minds: 2014).
Secondo
uno studio pubblicato dal Times Higher Education, che ha passato in rassegna le
università di trenta Paesi, valutandole in base al rapporto tra il reddito
d’impresa e il profitto derivato dalla ricerca privata, per ogni ricercatore
sudcoreano vengono investiti 97.900 dollari. In Italia, che conquista un
modesto 24° posto, un ricercatore 'vale' 14.400 dollari (cinque volte in meno
rispetto agli olandesi, terzi in classifica con 72.800 dollari). Stipendi ed
investimenti non rappresentano tuttavia le uniche note dolenti per l'Italia
che, pur risultando tra i Paesi più abili a far crescere giovani talenti, non
riesce a ‘trattenerli’ una volta conclusa la loro formazione.
L'Italia
occupa infatti il 36° posto della classifica stilata dallo Human Capital
Leadership Institute di Singapore (Global Talent Competitiveness Index) che
ordina 103 Paesi a cui è possibile ricondurre l’86,3% della popolazione e il
96,7% del Prodotto interno lordo globale. Secondo lo studio in questione, qui
da noi vi è una limitata mobilità sociale (77° posto), una scarsa disponibilità
di venture capital ed è piuttosto difficile fare impresa (95° posto). Tutti
fattori che inducono i ricercatori – italiani e non – a condurre la loro
carriera professionale lontano dal nostro Paese. (Fonte: Tgcom24 13-11-2014)
STUDENTI
STUDENTI. DIRITTO ALLO STUDIO
«In
Italia abbiamo un sistema di diritto allo studio largamente insufficiente e
anacronistico», spiega Stefano Paleari, presidente della Crui, «Non è possibile
che nascere in una regione piuttosto che in un’altra determini la fortuna o la
sfortuna di poter studiare», spiega Paleari. Secondo il quale il sistema è
completamente sbagliato, e andrebbe totalmente riorganizzato, eliminando quella
componente regionale che lo distorce e lo rende spesso iniquo. «Bisognerebbe
lanciare una consultazione tra Stato, Regioni e studenti, i tre soggetti
coinvolti, e trovare qual è il modello giusto». Suggerimenti? «Secondo me
bisognerebbe partire dal concetto di premi per i più virtuosi: se siamo
riusciti ad arrivare ad un sistema per cui a regime il 18% del Fondo per le
università andrà agli atenei competitivi, allora dovremmo trovare un metodo che
permetta di assegnare anche le risorse per gli studenti in maniera analoga.
Fare una riflessione sul diritto allo studio significa offrire a tutti le
stesse possibilità e tutelare i ragazzi bravi ma indigenti … Basti pensare che
mentre l’Italia spende in media 100 euro ad abitante per la spesa in istruzione
universitaria, in Germania e Spagna si aggira sui 300, in Svezia supera i 600,
in Norvegia i 700. Questo significa che paga all’Europa la propria parte come
numero di abitanti, ma poi riceve in base al numero di ricercatori, che sono
sempre meno. Per fortuna almeno in Finanziaria ci viene concessa la possibilità
di assumere ricercatori con contratti triennali, e di reclutare professori
ordinari: così almeno ci avviciniamo all’obiettivo, che è quello di ridurre
l’età del corpo docente». (Fonte:
Corsera Scuola 26-10-2014)
TASSE E SISTEMI DI SOSTEGNO NAZIONALI PER GLI STUDENTI NELL’ISTRUZIONE
SUPERIORE EUROPEA 2014/2015
L’Italia è tra i Paesi europei con le tasse
universitarie più elevate. Meno di
uno studente su dieci riceve una borsa di studio e non sono previsti prestiti
ma solo agevolazioni fiscali per le famiglie: è quanto emerge da una relazione
pubblicata dalla rete Eurydice della Commissione europea, «Tasse e sistemi di
sostegno nazionali per gli studenti nell’istruzione superiore europea 2014/2015».
L’Italia fa parte del secondo scaglione per l’ammontare
delle tasse (tra 1.000 e 5.000 euro l’anno) insieme a Spagna, Slovenia,
Lettonia, Lituania, Ungheria e Paesi Bassi (ma Lituania e Ungheria forniscono
molti sussidi per altri servizi come l’alloggio). Niente tasse invece nei tre
Paesi scandinavi, Danimarca, Austria, Scozia e Grecia. La Germania è l’unico
paese ad aver recentemente abolito le tasse universitarie, benché queste
fossero state introdotte solo nel 2007. Le tasse più salate d’Europa sono nel Regno Unito, con oltre 10.000 euro
per il primo ciclo di studi universitari e oltre 5.000 per il secondo. Alcuni Paesi prevedono una correlazione tra tasse e risultati
modesti - chi resta indietro paga di più - come Repubblica Ceca, Spagna,
Croazia, Ungheria, Austria, Polonia, Slovacchia ed Estonia. In Italia, invece,
pagano le tasse universitarie l’88,5% degli studenti a fronte del 70% in Spagna
e del 65% in Francia. Forti disparità tra i Paesi europei anche per quanto
riguarda le borse di studio e i prestiti agli studenti. L’Italia rientra nei
Paesi che prevedono borse di studio anche se ne beneficiano solo il 7,95% degli
studenti in base al reddito o al merito. Modesto anche il loro ammontare,
ovvero inferiori ai 5.000 euro l’anno, al di sotto di quanto viene dato in
Francia, Spagna, Portogallo e Germania. In Finlandia, Danimarca e Svezia,
invece, tutti gli studenti a tempo pieno e che rispettano determinati requisiti
di merito ricevono borse. Le famiglie italiane possono beneficiare invece di
esenzioni fiscali se hanno altri figli a carico che studiano mentre,
contrariamente a molti Paesi europei, non sono previsti prestiti agli studenti.
(Fonte: V. Santarpia, Corsera Scuola
e Università 17-10-2014)
L’IMPORTANZA DI FREQUENTARE LE LEZIONI E DEL RAPPORTO DOCENTE-STUDENTE
Se
gli studenti non vengono a lezione, come può un docente costruire un ponte fra
i singoli, sempre più isolati davanti al computer o al telefonino, attratti
magicamente da una rete di solitudini e non più da una fattualità di relazioni
dirette, personali, fra compagni di studi o fra docente e studente? La
frequenza a lezione è per me restituzione di quello che ho appreso, che ho
avuto ma anche che non ho avuto e credo invece vada dato. È un ponte
generazionale, è un modo per indurre a leggere altro, per approfondire,
spostare l’angolo di visuale, per suscitare curiosità e capacità di porre in
relazione temi e questioni, ma anche per prendere contezza di distanze
incolmabili. Un’università che non faciliti al massimo la frequenza delle lezioni
adottando ogni possibile stratagemma e anche richiedendo significativi
sacrifici ai suoi docenti, e al tempo stesso esigendo la presenza e facendo di
tutto per renderla piena di significato e di gusto, è un’università che accetta
di perdere la relazione con il futuro, che si lascia respingere all’angolo. Che
non crede nella forza dell’insegnamento e del rapporto diretto, personale, nel
quale conta sapere e saper insegnare: anche su questa base i docenti vanno
selezionati. L’esito in sede d’esame può non avere diretta relazione con la
frequenza, ma qualcosa in chi ha frequentato resta comunque, se il professore è
stato all’altezza del compito che gli sarebbe richiesto. Quello che resta è la
traccia di un senso nella disciplina affrontata, un senso che rischia di
sfuggire rarefacendo il rapporto del singolo con una materia che è un pezzo di
mondo, di metodo, un grumo di temi e passioni, un accumulo di interpretazioni
ed equivoci. Qualcosa che trasuda vita, quella vera, che è diversa da quella che
si finge di vivere on line. (Fonte: M. G. Muzzarelli, www.unipd.it/ilbo 15-10-2014)
STUDENTI FUORI CORSO E COSTI STANDARD
Per
l’assegnazione delle risorse alle università, il criterio adottato, quello dei
costi standard, è condivisibile ma la sua applicazione è del tutto
insoddisfacente. Il punto principale riguarda l’esclusione dei fuori corso dal
calcolo del fabbisogno. Il presupposto è che la loro presenza sia dovuta a
carenze delle Università. Riportando i risultati di un recente test, Ferrante
mostra che, invece, è decisiva la qualità degli studenti al momento in cui
entrano nelle Università. Criteri del tutto condivisibili applicati talvolta
nel modo sbagliato producono effetti nefasti. Questo rischia di essere il caso
del principio del costo standard, utilizzato per assegnare risorse alle
università italiane attraverso il Fondo di Finanziamento Ordinario. Lo scopo
del principio, del tutto condivisibile, è quello di evitare che si impieghino
più risorse di quelle che l’esperienza ha dimostrato essere necessarie.
Applicato alle università il principio consiste nel definire un’unità di misura
per il calcolo del fabbisogno standard. Come risulta dalla bozza di decreto
resa nota in questi giorni, il Ministero ha individuato tale unità nel numero
di studenti in corso o regolari. Proprio questa scelta rischia di produrre
effetti nefasti a partire da un principio condivisibile. I presupposti della
scelta del Ministero sono due, entrambi erronei. Il primo è che gli studenti
fuori corso non incidano sul fabbisogno di risorse; in realtà essi gravano
sulle risorse della struttura universitaria non meno degli studenti regolari,
perché si presentano più volte agli esami e necessitano spesso di maggiore
assistenza. Il secondo presupposto è che la presenza dei fuori corso ha un solo
responsabile: le università presso le quali sono iscritti e le loro carenze.
Gli studenti non regolari sono tali in realtà anche e
soprattutto perché molto spesso presentano potenziali di resa inferiori, dovuti
a carenze nelle competenze di base, derivanti a loro volta dagli ambienti
socioculturali meno favorevoli di provenienza. Non di rado si tratta, infatti,
di studenti che sono costretti a lavorare per mantenersi agli studi. Un’ampia
letteratura, a cavallo tra l’economia e la psicologia, mostra che la tecnologia
di formazione delle capacità cognitive e non cognitive si caratterizza per la
cumulatività dei processi sottostanti e per la presenza di significative
complementarietà e irreversibilità nella generazione delle competenze che
alimentano gli apprendimenti lungo la filiera formativa. In particolare, con
l’avanzare lungo la filiera, risulta sempre più difficile recuperare eventuali
deficit di apprendimento. Altrettanto ampia e consolidata è l’evidenza empirica
sul ruolo essenziale giocato dai fattori di contesto nei processi di
apprendimento (famiglia di provenienza, ambiente sociale e scolastico),
indipendentemente dalle istituzioni formative e dai docenti. (Fonte: F.
Ferrante, Roars 23-10-2014)
BORSE DI STUDIO. NON GARANTITE 50MILA BORSE CON LA LEGGE
DI STABILITÀ
Il
decreto Sblocca Italia ha assoggettato i fondi per il diritto allo studio al
patto di stabilità e, per via dei tagli che la legge di stabilità imporrà alle
Regioni, c’è il rischio – paventano le associazioni studentesche – che non sia
garantita l’erogazione di ben 50mila borse destinate agli studenti meno
abbienti. Il coordinatore nazionale dell’UDU: “Questa è la morte del Diritto
allo studio in Italia, altro che investire sulla scuola e sui giovani! Dopo
aver trovato un’intesa che prevedeva minori tagli alle Regioni, mettendo però i
fondi per il diritto allo studio sotto Patto di Stabilità, il Governo fa
saltare l’accordo e reinserisce ulteriori tagli, rendendo impossibile per le
Regioni spendere i 150 milioni di euro stanziati lo scorso anno dal Governo
Letta, e cancellando, di fatto, 50.000 borse di studio”. E non è tutto,
prosegue: “I 4 miliardi di tagli alla spesa, che diventano 5,7 con quelli già
previsti da Monti e Letta, impediranno qualsiasi investimento regionale per il
diritto allo studio nel 2015. Le Regioni dovranno scegliere se tagliare
l’assistenza sanitaria ai cittadini o il futuro a decine di migliaia di
studenti”. (Fonte:
M. Russo, http://www.universita.it 20-10-2014)
BORSE DI STUDIO. COPERTURE IN RIDUZIONE
Le
Regioni sono state costrette a privarsi dei Fondi FAS (Fondo per le aree
sottoutilizzate) per un totale di 560 milioni per evitare il taglio dei
trasferimenti statali. Per le Regioni prive di Fondi FAS (il Lazio su tutte),
il Governo provvederà a decurtare la quota del Fondo Integrativo Statale per il
Diritto allo Studio Universitario, causando una gravissima riduzione delle già
basse percentuali di copertura delle borse di studio. Anche per le Regioni che
non subiranno questo taglio, i fondi per il diritto allo Studio saranno
comunque reinseriti all'interno dei vincoli del Patto di Stabilità Interno,
mettendo a rischio la possibilità di erogare le borse di studio e costringendo
le Regioni a ridurre la spesa in altri settori del welfare per rientrare
all'interno dei vincoli". (Fonte: ANSA 06-11-2014)).
L’OPINIONE DELLE FAMIGLIE SU COSTI E QUALITÀ
DELL’ISTRUZIONE ALL’ESTERO
Il
report “The Value of Education: Springboard for success”, pubblicato lo scorso
aprile a cura dell'ente di ricerca Ipsos MORI, indaga le opinioni dei genitori
sull'istruzione dei propri figli in 15 Paesi, mentre la divisione Retail
Banking and Wealth Management di HSBC riferisce di ulteriori ricerche sui costi
dello studio confrontati in vari Paesi. Il legame tra le due indagini è
spiegato in una nota di HSBC: «Accostando i risultati di The Value of Education
con gli ultimi dati sui costi delle università all'estero si evince che, in
generale, i genitori ritengono che le destinazioni costose tendano ad offrire
una qualità d'istruzione superiore». Secondo l'indagine The Value of Education
esistono, tuttavia, importanti variazioni regionali. In generale, gli Stati
Uniti restano nell'opinione comune una destinazione qualitativamente elevata,
con un 51% dei genitori che la classifica tra le prime tre nazioni, seguita da
Regno Unito (38%), Germania (27%), Australia (25%) e Giappone (25%). L'indagine
ha anche evidenziato che nei Paesi dove l'inglese non è la prima lingua molti
genitori considerano la conoscenza di una lingua straniera il maggior benefit
di un'istruzione all'estero. Per il secondo anno di seguito l'Australia risulta
la meta più cara per gli studenti internazionali: sarebbero necessari
mediamente 42.000 $ l'anno per coprire le tasse universitarie e i costi di
vita. A seguire troviamo Singapore, USA, Regno Unito e Hong Kong. Superate le
prime cinque o sei destinazioni, i costi iniziano a ridursi notevolmente. In
India, la destinazione meno cara del ranking 2014, i costi medi annuali
ammontano a più di 36.000 $ in meno rispetto all'Australia. L'89% dei genitori
ha dichiarato l'intenzione di mandare i propri figli all'università e il 74% ha
riferito che avrebbe preso in considerazione l'estero come meta di studio per
dare loro un'istruzione universitaria migliore. «Mediamente, il 58% dei
genitori crede che finanziare l'istruzione sia il migliore investimento», dice
HSBC. «A molti, tuttavia, risultano gravosi la pianificazione e il sostegno
finanziario. Dei genitori che finanziano l'istruzione dei propri figli,
difatti, l'82% attinge alle proprie odierne entrate, più della metà vorrebbe
aver iniziato a mettere da parte i soldi qualche tempo prima». (Fonte: E.
Cersosimo, rivistauniversitas 23-10-2014)
STUDENTI. I COSTI DELLE RETTE UNIVERSITARIE
L’Osservatorio
Nazionale Federconsumatori ha svolto un’indagine sulle imposte che gli studenti
universitari sono tenuti a pagare per frequentare le principali università
pubbliche italiane. La media nazionale è di 540 euro in prima fascia, 583 in
seconda, 899 in terza (con Isee fino a 20 mila euro), di 1240 in quarta (Isee
fino a 30 mila euro) e 2193 euro nella fascia di reddito più elevata. Si
tratta, però, di medie, perché i costi sono differenziati fra atenei e regioni.
Dall’indagine emerge infatti che le Università del Nord Italia impongono tasse
più alte rispetto alle altre, con importi medi che superano, per la prima
fascia, del +12,23% la media nazionale e del +12,89% le rette del Sud. Ad
imporre i contributi più bassi (per tutte le fasce ad eccezione dell’ultima)
sono le Università del Centro Italia: le tasse di questi Atenei fanno
registrare uno scarto del 23,81% a confronto con le Università del Nord e del
12,53% rispetto a quelle del Sud. Sempre in riferimento alla prima fascia di
reddito (quella più bassa, con Isee fino a 6 mila euro) il primato dell’ateneo
più caro va a Parma: per frequentarla gli studenti devono versare contributi di
739,68 euro per le facoltà umanistiche e di 855,50 euro per le facoltà
scientifiche. Segue Milano che prevede, per chi si colloca nella fascia di
reddito più bassa, rette di 713,00 euro per le facoltà umanistiche e di 790
euro per quelle scientifiche. Non sempre ci sono tasse differenti per facoltà
umanistiche e scientifiche (non è così per l’Università di Salerno, a Pavia, a
Torino, a Bari, a Catania, a Pisa, a Firenze e a Bologna) ma per le università
che applicano questa distinzione, uno studente della Facoltà di Matematica, in
media, finisce per pagare tra il 5,24% e il 6,75% in più rispetto ad un suo
collega di Lettere e Filosofia, a seconda della fascia di reddito di
appartenenza. Rispetto allo scorso anno accademico gli importi relativi alla
prima e alla seconda fascia di reddito fanno registrare un incremento medio
rispettivamente del +2,51% e del +2,29%. La terza e la quarta fascia (con Isee
rispettivamente fino a 20 mila euro e fino a 30 mila euro) risultano in lieve
flessione, rispettivamente dell’1,58% e dell’1,40%, mentre gli importi massimi
risultano in crescita del +4,03%. In media, conclude Federconsumatori, le rette
universitarie sono aumentate dell’1,2% rispetto all’anno accademico 2013/2014. (Fonte: http://www.helpconsumatori.it 28-10-2014)
TEST UNIVERSITARI
TEST A MEDICINA. PARLA IL MINISTRO GIANNINI E S’ISPIRA
ANCORA AL MODELLO FRANCESE
"Sto
elaborando una proposta con un gruppo tecnico che comprende anche il Consiglio
Universitario nazionale, la Conferenza dei Rettori, i rappresentanti degli
studenti, che prevede l'eliminazione del test ma non del numero
programmato". "Questo perché significherebbe sfasare il rapporto fra
domanda e offerta e tornare indietro di molti anni, ma noi non vogliamo farlo.
Ora significa mettere a punto tecnicamente questo percorso, il modello francese è quello a cui ci
stiamo ispirando. Valuterò poi quale adottare. E' chiaro che serve consenso
politico nel Governo poiché c'è una norma primaria da cambiare, ma sono pronta
a fare questa proposta". (Fonte: AGI 23-10-2014) .
STUDENTI. LA SELEZIONE PER I CORSI DI MEDICINA
«Se
a scuola fosse fatto un buon orientamento il numero di aspiranti medici si
ridurrebbe almeno di un 1/4», insiste Andrea Lenzi, ex presidente del Cun, il
consiglio universitario nazionale. «Va migliorata la qualità dei test
d'ammissione, non far entrare tutti. Lo Stato non può permettersi di laureare
un medico che non lavorerà da medico. Il numero chiuso, con obbligo di
frequenza e esami scadenzati, è l'unico modo per garantire il risultato della
laurea». Impossibile, dunque, tornare indietro, quando per diventare medici non
c'erano né sbarramenti né test d'ingresso. Ma negli anni 70 e 80, senza
selezione in ingresso né obbligo della frequenza, gli abbandoni superavano il
40%, oggi non si laurea appena lo 0,1% degli immatricolati a medicina.
Resterebbe poi il problema alle scuole di specializzazione post laurea, che non
riescono a sopportare più di 4 mila studenti ogni anno. Il sistema dei test,
infine, sebbene imperfetto, dà maggiori garanzie di obiettività di un esame
orale, più esposto a favoritismi e raccomandazioni. «Ci vuole quindi una prova
preparata a livello nazionale», suggerisce Roberto Lagalla, rettore
dell'Università di Palermo. E negli Paesi come sono organizzati? In Francia lo
sbarramento è alla fine di un primo anno comune ai 4 indirizzi di medicina:
passano il test solo 2 ragazzi su 20. In America gli aspiranti medici
cominciano a prepararsi a partire dal liceo, perché a contare sono i voti alti
a scuola: il 43% dei candidati viene ammesso, di questi il 60% ha un titolo di
scuola superiore in biologia o scienze mediche. In Inghilterra tutto si decide
con il colloquio individuale, che segue al test d'ammissione, però non
decisivo. (Fonte: G. Micucci, ItaliaOggi 21-10-2014)
DIRITTO ALLO STUDIO E GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA
«E’
un’ingiustizia. La prova che in Italia la meritocrazia non esiste. Ma le pare
giusto che io che ho passato il test, che mi sono impegnato, che ho sudato sui
libri, abbia dovuto lasciare la mia città per andare a fare Medicina a Parma,
spendendo 600 euro al mese per una stanza in convitto, e c’è gente che invece
era stata bocciata ma grazie al ricorso al Tar si ritrova a fare l’università a
due passi da casa, nella “mia” Brescia?». Antonio Baglioni è uno dei quasi 10
mila aspiranti camici bianchi che quest’anno hanno superato il famigerato test
d’accesso alla facoltà di Medicina. A tentare la sorte erano in 63 mila, solo
il 15 per cento ce l’ha fatta. Purtroppo, però, la prova dell’8 aprile scorso è
stata travolta dai ricorsi: plichi manomessi, sospette copiature, anonimato
violato per un autogol del Miur … Alla fine i giudici amministrativi hanno
ordinato l’ammissione in sovrannumero di ben 5.000 studenti: bocciati
all’esame, promossi dal Tar. Un maxi ricorso che è stato celebrato come una
vittoria storica contro il numero chiuso in nome del diritto allo studio dai
suoi promotori (Unione degli universitari in testa) ma che di fatto si è
tradotto in un danno oggettivo e soggettivo per chi il test lo aveva passato:
oggettivo perché gli atenei sono andati letteralmente in tilt a causa
dell’ondata di nuovi immatricolati e soggettivo per il senso di ingiustizia
bruciante nel ritrovarsi sorpassati da chi aveva ottenuto un punteggio molto
peggiore del proprio. (Fonte: Corsera 1011-2014)
STUDENTI. GLI IDONEI NELLA GRADUATORIA NAZIONALE PER
MEDICINA A BARI LAMENTANO CARENZE NELLA DIDATTICA
L'articolo
34 della Costituzione recita: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi,
hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Ebbene, noi,
superato il suddetto test in quanto idonei nella graduatoria nazionale,
regolarmente immatricolati presso l'Ateneo barese, poco prima che i «giochi»
fossero ufficialmente chiusi, ai sensi del bando di concorso e ormai certi
dell'imminente inizio delle lezioni, abbiamo amaramente appreso che quanto ci
spetta di diritto, è di fatto negato da un sistema capzioso in ogni suo
ingranaggio. A seguito dell'esorbitante numero di ammissioni con riserva,
avvenute nella sede in cui il ricorrente ha svolto il test e non distribuite
sul territorio nazionale, si è dovuto far presto i conti con concreti problemi
logistici: la facoltà si è ritrovata ad accogliere quasi il triplo degli
studenti previsti dal bando, passando cioè dai 237 immatricolati iniziali a più
di 600 iscritti. Nonostante gli obsoleti e mal funzionanti macchinari in
dotazione, inizialmente, si è pensato di ovviare al problema con la
teledidattica onde raggiungere e tutelare, nei limiti del possibile,
l'insegnamento ad un così vasto numero di studenti. Tale proposta, però, non ha
soddisfatto taluni docenti, i quali affermano che la tele-didattica potrebbe contribuire
soltanto ad un peggioramento nella qualità dell'insegnamento. In forza di
tanto, sono stati indetti i «bandi di vacanza» con procedura d'urgenza, aperti,
quindi, anche a docenti di altri atenei, dei quali, allo stato, si ignorano le
competenze. Nel rispetto dei tempi tecnici le lezioni sono state quindi
ulteriormente rimandate a data da destinarsi, nonostante i nostri colleghi
degli anni successivi abbiano già incominciato le lezioni da diverse settimane.
Non solo dunque non ci è concesso il rapporto «un docente per 80 studenti», non
solo rischiamo di fare lezione con un personale di ignote competenze, ma, a
causa dei ritardi nell'inizio dell'anno accademico, ci viene negato il diritto
allo studio. Noi, regolarmente iscritti (non con riserva) all'università di
Bari, chiediamo, dunque, con fermezza il rispetto non di un mero interesse, ma
di un diritto consacrato nella nostra Costituzione. Vogliamo «solo» studiare.
(Fonte: Gazzetta del Mezzogiorno 22-10-2014)
ACCESSO A MEDICINA. PER MANTENERE LA QUALITÀ DELLA
FORMAZIONE I RETTORI CHIEDONO UNA PROGRAMMAZIONE DEGLI ACCESSI NON UN’INVASIONE
INCONTROLLATA
La
Crui, Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, ha approvato ieri un
documento in cui chiede al ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca
Stefania Giannini di intervenire nella maniera più rapida ed efficace
possibile, anche attraverso lo strumento del decreto legge, per sanare la grave
situazione che si sta creando a causa delle migliaia di ricorsi vinti da
studenti di medicina che non avevano passato il test d'ingresso. Viene così
pesantemente penalizzata la qualità della didattica: corsi sovraffollati, aule
strapiene certo non aiutano l'apprendimento di quelli che saranno i futuri
medici italiani, chiamati a garantire elevati standard di professionalità.
Oltretutto con i ricorsi, vinti grazie ad un cavillo, accedono alla frequenza
anche studenti che avevano ottenuto punteggi gravemente insufficienti al test,
con buona pace del concetto di merito e dei loro colleghi che hanno passato
l'esame grazie allo studio. Nel testo si chiede al ministro di intervenire,
permettendo eventuali sbarramenti anche negli anni successivo al primo, e di
finanziare ulteriormente le Università chiamate a sopportare un carico di
studenti ben maggiore di quanto previsto, con tutte le difficoltà organizzative
ed economiche del caso.«Con questo documento - commenta il rettore Giuseppe
Zaccaria - la Crui ha preso una forte posizione, ribadendo di essere per una
programmazione degli accessi, non per un'invasione incontrollata come nel caso
del corso di laurea in Medicina, che danneggia non solo gli Atenei, ma anche
gli stessi studenti, rendendo impossibile fornire una qualità della didattica
adeguata a quanto previsto dal loro diritto allo studio. Chiediamo quindi al ministro
Stefania Giannini di mettere un argine a questa deriva incontrollata che
colpisce Università e studenti meritevoli». (Fonte: Gazzettino Veneto
29-10-2014)
TEST DI MEDICINA. COME METTERE IN CRISI UN SISTEMA
PERFORMANTE
Le
migliaia di ripescaggi di chi non aveva superato il test di medicina per
entrare in università - effetto della consueta sentenza del Tar - ci raccontano
che non vi è certezza di nulla e pone per tutte gli atenei una serie di
problemi. Eventi che ripropongono l'atavica diffidenza, tutta italiana, verso i
test o, per essere più espliciti, verso ogni valutazione. Abbiamo sempre dubbi
sui metodi utilizzati, sull'autorevolezza dei valutatori, possediamo
costantemente un metodo migliore. I test nazionali di medicina hanno il raro
pregio nel nostro Paese di mettere tutti gli studenti sullo stesso piano, di
valutarne le potenzialità e di stendere con metodo oggettivo una graduatoria.
Sistema che, favorendo una sana competizione, premia nelle scelte degli
studenti le migliori università. Sembrerà una strada draconiana ma è
sicuramente il metodo più utilizzato nel mondo. L'argomento che tenta di
svalutare i test nella loro qualità è strumentale, non nel senso che siano
perfetti, anzi tutt'altro, semmai vanno migliorati di anno in anno sapendo cosa
va sondato in un futuro buon medico. Il principio deve essere difeso con forza,
una società plurale e matura deve convivere con metodi di valutazione in campo
formativo. La contrarietà a farsi valutare da enti esterni blocca ogni iter di
selezione positivo di pratiche, persone, processi. C'è poi un problema tutto
legato alle facoltà/scuole di medicina che nel nostro territorio (parliamo di
migliaia di studenti) hanno punte di eccellenza formativa riconosciute a
livello europeo, legate a grandi policlinici dove ricerca e clinica si fondono,
e dove l'immissione di un numero impensato di nuovi allievi mina la qualità
della didattica. L'abolizione futuribile dei test di ingresso come l'arrivo ora
di tanti ripescati mette in seria crisi un sistema che soffre già difficoltà economiche
ed organizzative. Ci si domanda çome mai, ancora una volta, un sistema
performante in termini di risultati formativi debba essere messo in crisi da
decisioni schizofreniche che non hanno mai un orizzonte di lungo termine.
(Fonte: S. Bianco, Corsera Milano 31-10-2014)
TEST A MEDICINA. AI RICORRENTI AMMISSIONE PROVVISORIA E
DECISIONE DEFINITIVA DEL TAR SOLO NEL PERIODO ESTATE 2015-INIZIO 2016
Negli
esami per l'ammissione alle Scuole di Medicina delle Università sembra che non
siano state assicurate le condizioni per garantire l'anonimato dei candidati.
Alcuni candidati hanno fatto ricorso al Tar Lazio per far valere questa
violazione di un basilare principio di correttezza amministrativa. Il Tar ha
accolto la loro censura ordinando alle varie università, sia pure solo in sede
cautelare, di "ammettere con riserva" i ricorrenti al primo anno del
corso di medicina. Ciò significa che gli studenti in questione debbono essere
ammessi solo in via provvisoria: successivamente il Tar, quando avrà potuto
esaminare tutta la documentazione,
emetterà la sentenza finale. Solo in quel momento si saprà in via definitiva se
gli studenti potranno continuare a frequentare i corsi o se, invece, il loro
ricorso sarà respinto ed essi quindi dovranno "tornare indietro" e
sostenere un nuovo esame di ammissione.
Il
fatto è che il Tar Lazio ha rimandato la decisione definitiva su questi ricorsi
ad un periodo che va dall'estate del 2015 ai primi mesi del 2016. Per tutto
questo tempo gli studenti frequenteranno i corsi senza sapere se lo faranno
utilmente o in modo del tutto inutile. E le Scuole di Medicina dovranno per
intanto sopportare un grandissimo sforzo per poter accogliere e formare
adeguatamente centinaia di studenti che superano il numero di coloro che erano
stati correttamente previsti. Si dovranno istituire nuovi corsi, reperire nuove
aule e attrezzare nuovi laboratori. E tutto ciò, se poi i ricorsi verranno
respinti, sarà stato inutile.
A
questo punto, mi pongo due domande. Innanzitutto: com'è possibile che il
Ministero abbia organizzato gli esami di ammissione alle Scuole di Medicina
senza curarsi di garantire l'anonimato dei candidati? Inoltre: perché il Tar
Lazio ha fissato le udienze finali, nelle quali verranno assunte le decisioni
definitive, ad un periodo tanto lontano, e in certi casi addirittura nel 2016?
Sappiamo tutti benissimo che i Tar sono oberati di lavoro. Ma normalmente
vengono seguiti dei criteri di urgenza, e quindi di priorità, che in questo
caso parrebbero trascurati.
Si potrebbe forse pensare che il Tar abbia agito così
ritenendo sin d'ora che i ricorsi saranno alla fine accolti e che quindi gli
studenti continueranno regolarmente a frequentare i corsi. Ma, se così è, tanto
valeva forse che il Tar emettesse le decisioni definitive subito, in modo da
togliere ogni dubbio. (Fonte: La Repubblica
Torino 31-10-2014)
SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE MEDICHE. ANNULLAMENTO E POI
SALVATAGGIO DEI TEST D’ACCESSO
Il
ministero dell’Istruzione aveva deciso di annullare le prove scritte del primo
concorso nazionale per l’ingresso alle Scuole di Specializzazione in Medicina.
Alla base della decisione quella che il dicastero ritiene una «grave anomalia»
registrata nel fine settimana e confermata alle 8.52 di venerdì sera: sono
state invertite le domande delle prove del 29 ottobre con quelle del 31. Uno
scambio, spiega il Miur, causato dal Cineca (il Consorzio interuniversitario
cui è stata affidata la gestione del test) e che «ha riguardato esclusivamente
le trenta domande comuni a ciascuna delle due aree, Medica e dei Servizi
clinici. Nessuna anomalia nei dieci quesiti specifici per ciascuna tipologia di
scuola». Insomma, tutto da rifare. Più di 11.000 candidati (11.242 per
l’esattezza, pari al 92,4% del totale degli iscritti) sarebbero dovuti tornare
a rispondere il 7 novembre, stavolta in una sola giornata, a nuove domande.
Ma
dopo una giornata di polemiche, il Miur fa dietrofront: «Le prove per l’accesso
alle Scuole di Specializzazione in Medicina del 29 e 31 ottobre non dovranno
essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i
test». Lo annuncia il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini dopo aver
riunito a Roma la Commissione nazionale incaricata questa estate di validare le
domande del quiz. La Commissione ha vagliato i quesiti proposti ai candidati
per l’Area Medica (29 ottobre) e quella dei Servizi Clinici (31 ottobre)
stabilendo che, sia per l’una che per l’altra Area, 28 domande su 30 sono
comunque valide ai fini della selezione. I settori scientifico-disciplinari di
ciascuna Area sono infatti in larga parte comuni. A seguito di un confronto con
l’Avvocatura dello Stato e del verbale della Commissione si è deciso di
procedere, dunque, con il ricalcolo del punteggio dei candidati, neutralizzando
le due domande per Area che sono state considerate non pertinenti dal gruppo di
esperti. Ma la rivolta è partita e il caso ormai è esploso. Oltre all’annuncio
di ricorsi e cause collettive, è intervenuto anche l’Ordine dei Medici che
chiede «rispetto per i nostri giovani e per il loro impegno e le loro
speranze». La Fp-Cgil Medici, sottolinea: «Non vogliamo tornare al passato: il
concorso nazionale con un’unica graduatoria è frutto di una battaglia che ci ha
visto impegnati in prima linea e che difenderemo nonostante l’inaudita incapacità
dimostrata da chi doveva gestire il concorso. Certo non ci immaginavamo che una
gestione quantomeno pressappochista trasformasse un successo in una pessima
figura per il Miur e per la pubblica amministrazione. Noi saremo al fianco dei
giovani medici che hanno subito un danno e continueremo a batterci per una
prova nazionale che abbia la garanzia di una procedura trasparente e rispetti
le norme: Si premi realmente chi merita». (Fonte: Corsera 02 e 03-11-2014)
SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE MEDICHE. POSSIBILI 6000
RICORSI
Saranno
oltre 6 mila i giovani medici specializzandi che potranno ricorrere per
richiedere l’ingresso in sovrannumero in seguito al caos dei test di ammissione
alle scuole di specializzazione in medicina. Il maxi ricorso al Tar del Lazio
per l’ingresso sovrannumerario sarà patrocinato dagli avvocati Michele Bonetti
e Santi Delia, in collaborazione con la Fp Cgil Medici. Il Miur aveva
annunciato l’annullamento delle prove del 29 e 31 ottobre a causa
dell’inversione delle domande dell’area medica con quelle dell’area dei servizi
clinici. Due giorni dopo, il ministro Giannini aveva fatto dietrofront
annunciando che, per minimizzare il danno subito dai giovani medici, il Ministero
d’accordo con l’Avvocatura di Stato, aveva trovato il modo di non far ripetere
il test. Poiché solo due delle trenta domande proposte non erano coerenti con
la rispettiva area, bastava neutralizzarle e ricalcolare così il punteggio dei
candidati. Una soluzione che però non ha soddisfatto i medici specializzandi
che a questo punto chiedono di essere accolti in massa: 12 mila borse di studio
per i 12 mila candidati di quest’anno. (Fonte: Corsera Scuola e Università
09-11-2014)
SPECIALIZZAZIONI, TEST DI ACCESSO, ABILITAZIONE. UN
SUPERLAVORO PER I TAR
Dopo
che il ministro Giannini ha deciso di ricalcolare il punteggio del concorso
nazionale per l’accesso alle Specializzazioni di Medicina, moltissimi candidati
si sentono danneggiati a causa dell’annullamento delle due domande erroneamente
scambiate nei test. E minacciano ricorsi al TAR che, se accolti,
permetterebbero a buona parte degli 11.242 interessati di ottenere una
sospensiva per essere ammessi alle borse di specializzazione, nonostante ce ne
siano solamente 5 mila a disposizione. «Un caos che si andrebbe a sommare a quello
già visto per l’ingresso al primo anno di Medicina – commenta Fabrizio Premuti,
Presidente di Konsumer Italia −. Quest’anno, sono stati quasi 6 mila i
candidati ammessi dal TAR, che si sono aggiunti ai 10 mila vincitori dei test
dello scorso aprile. Con il risultato che le aule traboccano di studenti e che
la Facoltà di eccellenza dell’Università italiana rischia il collasso».
A
rischiare il collasso, però, ci sono anche le aule dei tribunali
amministrativi: «Sì – prosegue Premuti − stanno piovendo ricorsi al TAR (più di
3 mila solo per la prima tornata) contro i giudizi di inidoneità per la
procedura di abilitazione scientifica degli aspiranti docenti universitari.
Alcune sentenze, depositate la scorsa settimana, hanno già accolto i ricorsi
parlando esplicitamente di “illegittima formazione della Commissione nazionale
per l’assenza dei requisiti di qualificazione” e di “carenze nella motivazione
del giudizio negativo espresso”. Il Miur ha deciso di consentire a chi non è
stato giudicato idoneo nelle tornate precedenti (2012 e 2013) di ripresentarsi
alla prossima sessione primaverile (dal 1° marzo 2015) per riprovare l’esame di
abilitazione, e di allungare la validità del titolo da 4 a 6 anni. «Il problema
è che la maggior parte delle sentenze non arriverà prima dell’autunno 2015,
mentre gli atenei (come l’Università di Bari) stanno già attivando le procedure
di chiamata – conclude il Presidente di Konsumer – di docenti che non ne
avrebbero diritto, mentre altri penalizzati da valutazioni illegittime rimangono
a casa. È la morte della meritocrazia e la vittoria del nepotismo». (Fonte:
AGENPARL Roma 05-11-2014)
VARIE
SU
NATURE UNA LETTERA APERTA “HANNO SCELTO L’IGNORANZA”
Una lettera aperta dal
titolo “Hanno scelto l’ignoranza“, scritta da Francesco Sylos Labini con altri
otto colleghi europei, dalla Spagna, al Portogallo, alla Gran Bretagna e alla
Francia, è stata pubblicata l’8 Ottobre in versione ridotta da Nature e per
estratto su molte testate, tra le quali Le Monde, The Guardian, El Pais e La
Repubblica. La lettera, che ha ricevuto più di 12.000 adesioni, fa riferimento
ai «responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati
membri dell’UE». Nell’ambito della mobilitazione
italiana, che ha preso il nome “Per la Scienza Per la Cultura“, sono stati
promossi incontri, presidi e seminari in tutta Italia. Si vedano le slides presentate da Giuseppe De Nicolao all’Università Statale di Milano (16 e 17
ottobre 2014) e a Pavia, Sala del Broletto, 16 ottobre 2014. (Fonte: G. De
Nicolao, Roars 18-10-2014)
LA VALUTAZIONE PREMIALE SOTTOVALUTA LA DIDATTICA
In occasione della
conversione in legge del decreto 24 giugno 2014, n. 90, deputati e senatori
hanno votato un emendamento con il quale si ribadiva che «la qualità della
produzione scientifica dei professori reclutati dagli atenei all’esito
dell’abilitazione scientifica nazionale è considerata prioritaria nell’ambito
della valutazione delle politiche di reclutamento». Si lascia così
implicitamente al buon cuore di questi professori la qualità del servizio
garantito ai loro studenti, a partire dal tempo dedicato a lezioni,
ricevimento, tesi. E non si offrono certamente ai Rettori solide ragioni per
considerare prioritaria la lotta alla sistematica sottovalutazione dei doveri
appunto didattici dei docenti. Un articolo pubblicato su una rivista con un
impact factor elevato aiuta a risolvere ogni problema … Lo Schema del decreto
di riparto del Fondo di Finanziamento Ordinario per l’anno 2014 ha confermato,
dal punto di vista di questa scelta che ben può dirsi strategica, la granitica
coerenza dell’azione di questo governo rispetto a quelli che lo hanno
preceduto. La «quota premiale» sale al 18 per cento del totale delle risorse
disponibili e viene assegnata secondo queste percentuali: a) il 70 per cento in
base ai risultati conseguiti nella Valutazione della qualità della ricerca (VQR
2004-2010); b) il 20 per cento in base alla Valutazione delle politiche di reclutamento
(cioè, per quanto appena detto, in base ad un criterio sostanzialmente identico
al primo); c) il 10 per cento in base ai risultati della didattica con
specifico riferimento alla componente internazionale. Nella migliore delle
ipotesi, dunque, questo è il rapporto che il governo riconosce fra il valore
dell’insegnamento e quello della ricerca, assumendo peraltro, sulla base di
argomenti che rimangono misteriosi, e giusto per citare un paio di possibili
esempi, che il numero dei corsi offerti in lingua inglese e quello degli
studenti stranieri, quale che sia la loro provenienza, valgono come indicatore
della qualità della didattica e ci rassicurano sul fatto che i professori vanno
davvero in aula a fare lezione. (Fonte: S. Semplici, Roars 20-10-2014)
LEGGE DI STABILITÀ 2015. EFFETTI SULL’UNIVERSITÀ
Per
le università si mitiga con 150 mln il taglio del FFO già previsto di 170 mln
di euro per il 2015, ma le risorse aggiuntive vengono assegnate sulla base di
criteri “premiali” molto discutibili nei loro presupposti di fondo. Allo stesso
tempo si introduce un nuovo taglio mascherato, però, da riduzione delle spese
per acquisti di beni e servizi. La condizione ormai drammatica dei nostri
atenei continuerà a produrre danni per primi agli studenti, penalizzati anche
dal restringimento del diritto allo studio che rischia di subire un nuovo colpo
con la riduzione delle risorse a disposizione delle regioni. Anche il
personale, sia tecnico-amministrativo sia docente, è penalizzato da condizioni
di lavoro in continuo peggioramento sul piano sia professionale che salariale.
Si conferma, infine, il blocco del reclutamento che provocherà una vera e
propria emergenza nei nostri atenei
perché sono ormai imminenti le scadenze di migliaia di assegni e contratti a
termine a causa delle norme della legge 240/10. Come effetto dei blocchi
stipendiali un professore ordinario può perdere fino a 100.000 euro a fine
carriera, un giovane ricercatore a tempo indeterminato reclutato nel 2008 fino
a 60.000 La legge di stabilità risponde al dato del fallimento della
"tenure track all'italiana" con la cancellazione del vincolo che lega
il reclutamento di professori di I fascia al numero di ricercatori a tempo
determinato “di tipo B”. (Fonte: FlcCgil
31-10-2014)
LA SEMPLIFICAZIONE DEL SISTEMA UNIVERSITARIO SECONDO IL
CODAU
Dal
25 al 27 settembre 2014 si è svolto il XII convegno annuale del CoDAU (Convegno
dei direttori generali delle amministrazioni universitarie), un’associazione
attiva nell’ambito del management delle amministrazioni universitarie: un luogo
di confronto e studio in cui si cerca di rispondere ai quesiti che derivano
dalla complessità interna al sistema stesso e dall’applicazione di un
articolato quadro normativo di riferimento. Il 29 maggio è stato eletto alla
guida del CoDAU per il triennio 2014-2017 Cristiano Nicoletti. Nell’intervista
ha risposto a domande tra le quali: Da dove, secondo Lei, potrebbe prendere il
via il percorso di semplificazione del sistema universitario italiano? Quali
gli ambiti di applicazione? Risposta: “Il sistema universitario sta maturando
la convinzione che troppe regole generino contesti non equi. Penso ad esempio
all’avviato meccanismo di valutazione della qualità per la didattica, compreso
il dottorato, e al sistema di qualità per la ricerca in fase di avviamento.
Ritengo che in entrambi i casi si sia rilevato un eccessivo appesantimento
interno rispetto ai benefici ottenibili”.
Nel
corso del Convegno sono emersi percorsi alternativi da seguire, orientati tra
l’altro allo snellimento delle procedure di accreditamento e alla revisione
della normativa che disciplina i Nuclei di Valutazione, la cui funzione risulta
talvolta sovrapposta a quella dei Presìdi di Qualità. Il recupero di
un’autonomia del comparto universitario può contribuire al rispetto di tutte le
condizioni che lo Stato pone in tema di trasparenza e anticorruzione,
svincolando dall’equiparazione, di fatto, tra gli atenei e gli enti locali.
Semplificazione non vuol dire vuoto normativo. Gli atenei si stanno impegnando
per trovare il modo di essere trasparenti, di combattere la corruzione, senza
“morire” sotto adempimenti di difficile applicazione, riuscendo invece ad
essere performanti nelle loro azioni. (Fonte: rivistauniversitas 20-10-2014)
DISTINGUERE L'UNIVERSITÀ DALL'ISTRUZIONE SUPERIORE IN
GENERALE
L'università
è ancora in grado svolgere un importante servizio sociale? Oppure la
sopraffazione burocratica e i tagli indiscriminati ne ostacolano la missione
originaria di formazione e ricerca? Occorre un chiarimento preliminare: distinguere
l'università dall'istruzione superiore in generale. Nell'attuale società
complessa e tecnologica l'università copre solo una piccola parte di un
territorio molto più vasto, della ricerca e dell'alta formazione professionale,
organizzato direttamente, a partire dall'inizio del secolo scorso, dagli Stati
e dalle grandi imprese trans-nazionali. L'idea di
università
suppone invece il principio dell'autogoverno, dell'autonomia della ricerca e
della
didattica
viste come componenti inseparabili: formano, come diceva John Henry Newman, un
regno
della conoscenza che deve essere distinto, sovrano, non dipendente dal potere
politico ed
economico.
Così se si può dire che l'università adempie, nonostante tutto, ad un suo ruolo
sociale, penso che essa abbia perso quasi del tutto il ruolo costituzionale, di
sede del potere critico che ha esercitato per secoli nello sviluppo della
civiltà occidentale. Burocrazia e tagli della spesa non sono cause, ma
conseguenze di questa trasformazione. (Fonte: da un’intervista a Paolo Prodi,
Universitas 133, 28-10-2014)
LE PERSONE PIÙ FELICI SIEDONO SUI GRADINI PIÙ ALTI
DELL’ISTRUZIONE
Il
Rapporto sulla felicità commissionato dalle Nazioni Unite non ci annovera tra i
paesi più felici. La palma della felicità sta nelle mani dei Paesi scandinavi.
A far salire la mongolfiera della felicità non è solo il reddito. Interviene
anche l’istruzione a rendere felici le persone e, con loro, il Paese. In quel
Rapporto si legge che le persone più felici siedono sui gradini più alti
dell’istruzione, oltre la soglia della laurea. A essere meno felici, gli
individui privi d’istruzione formale. Ancora di meno i laureati che Einaudi
vedeva trascinati dal valore legale della laurea nel baratro della
disoccupazione intellettuale. La chimera del posto di lavoro per tanti nostri
giovani laureati è un laccio stretto al collo della felicità. È poi, ai giorni
nostri, un nodo scorsoio pensare che il titolo legale dia diritto a un posto
possibilmente pubblico. È, infine, a soffocare la felicità è il desiderio di
scendere, copiando o comprando la tesi, la scala dell’istruzione anziché
arrampicarsi in alto avvalendosi delle proprie forze. Tonificano la felicità i
giovani tanto istruiti quanto dotati d’ignoranza creativa, quella che segue la
conoscenza, e così ambiziosi da tradurre l’apprendimento in nuove imprese.
Giovani, insomma, pronti a dar lavoro anziché a cercarlo; decisi a prendere
l’ascensore della conoscenza unita all’ignoranza creativa che li porterà a
piani alti dell’imprenditorialità innovativa. Un ascensore tutto da costruire.
(Fonte: P. Formica, Corsera 21-10-2014)
COME MIGLIORARE I RAPPORTI TRA ISTITUZIONI DI ISTRUZIONE
E IMPRESE
Come
uscire dalla crisi? Affrontando i nodi della mancata corrispondenza tra la
formazione e il lavoro e puntando sull'internazionalizzazione, ha sintetizzato
Harald Hartung, capo dell'unità International Cooperation and Programmes della
Direzione Generale Educazione e Cultura della Commissione Europea. La domanda
di istruzione superiore è in crescita e la tipologia della popolazione
studentesca sta cambiando (maggiore mobilità, nuovi Paesi, come ad esempio la
Cina). Pertanto mobilità e curricula internazionali (per docenti e studenti),
digital learning, cooperazione, partnership strategiche tra istituzioni di
istruzione e imprese sono le chiavi per andare incontro al futuro: bisogna
quindi ripensare l'istruzione, come suggerisce la strategia Rethinking
Education lanciata dalla Commissione Europea. Tutto questo diventa attuabile
innanzi tutto semplificando le procedure burocratico-amministrative (a
cominciare dal riconoscimento dei titoli e delle competenze trasversali
conseguiti fuori dal proprio Paese), fornendo un efficiente servizio di
counselling, potenziando le strutture residenziali, informando di più e meglio.
(Fonte:
I.
Ceccarini, rivistauniversitas ottobre 2014)
ATENEI. IT
UNIBO. IL RETTORE
PARLA DI LIVELLO MINISTERIALE «SOFFOCANTE», DI VINCOLI DI SPESA, BILANCIO
UNICO, REQUISITI ANVUR RIGIDI E ASTRATTI, E DELLA QUOTIDIANA RESA DI FRONTE AI
TAR
«Fare
di più e fare meglio si può e si deve». Lo dice due volte il rettore Ivano
Dionigi nel suo discorso, davanti ai 33 nuovi professori emeriti dell'Alma
Mater. Una sorta di discorso di fine mandato per il Magnifico che inizia il suo
ultimo anno al vertice dell'Alma Mater. Davanti ha l'accademia. L'aula magna di
Santa Lucia è piena di docenti per una cerimonia molto sentita, non solo
simbolica. Dionigi attacca dicendo di capire sempre meno questo Paese in cui
«un calciatore o un allenatore vale dieci, cento, mille volte di più di un
nostro ricercatore»; un Paese «che ha deciso di creare la virtù per decreto e
di affidarsi in tutto e per tutto a leggi e circolari, e soprattutto a vincoli
e a burocrazia, il tutto perché non ha fiducia nel cittadino». Parla del
livello ministeriale «soffocante», di vincoli di spesa, bilancio unico,
requisiti Anvur rigidi e astratti,«senza dire della quotidiana resa di fronte
ai Tar: penso solo alla riammissione a Medicina di centinaia di ricorrenti che
ci crea problemi immani». «Ma è tutta colpa del ministero e dei ministeri? - si
chiede Dionigi -. L'Ateneo non ci mette del suo a complicare, appesantire,
irrigidire?» E inizia così un'analisi del processo di riordino delle strutture
in cui «alcune responsabilità non sono ben definite, la macchina è faticosa e
alcuni regolamenti non aiutano, rallentano le procedure e duplicano i
processi». «Per questo - scandisce - conosco bene, e non mi sorprendono, la
critica e il grido di insofferenza in proposito». Dionigi spiega che di fronte
a tanta complessità «ho ritenuto opportuno spingere sull'acceleratore
dell'accentramento e della regolamentazione. Altrimenti, avremmo corso il serio
rischio di non decollare, di non approdare». Questo ha consentito di mettere in
sicurezza 209 corsi di laurea, invertendo il rapporto numerico a favore delle
magistrali, e di portare in porto centinaia di concorsi. «Ora - spiega - dopo una sperimentazione e verifica
triennale, ritengo che siamo nelle condizioni favorevoli e agevoli per
correggere e migliorare il compito svolto: chi vi parla aveva l'onere della
pagina bianca». Fare di più e meglio «si può e si deve», incalza Dionigi.
«Senza dimenticare mai la nostra priorità - precisa -, vale a dire gli
studenti, e non lasciando per strada nessun docente, di qualunque fascia, e
nessuna disciplina, sia essa scientifica, tecnologica, medica, umanistica o
sociale. L'Alma Mater non è la Normale né un Politecnico: è uno Studium
generale, dove tutti hanno pari dignità scientifica e culturale. Qui siamo
tutti chiamati alla massima responsabilità e generosità e, aggiungerei, a
metterci anche la faccia». (Fonte: M. Amaduzzi, Corriere di Bologna 29-10-2014)
UNIBO. CERTIFICAZIONE UNWTO.TEDQUAL
L'Organizzazione
mondiale del turismo, agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa del
coordinamento delle politiche turistiche, ha assegnato la sua prestigiosa
certificazione UNWTO. Tedqual Themis
al Corso di laurea in Economia del turismo e al Corso di laurea magistrale
internazionale in Tourism Economics and Management dell'Università di Bologna,
Campus di Rimini. La UNWTO.TedQual Certification è l'unica certificazione
internazionale sul turismo e ad oggi sono solo poche decine in tutto il mondo i
corsi di laurea che possono vantare questo titolo. (Fonte: http://tinyurl.com/k9lfgzn ottobre 2014)
UE. ESTERO
UE. L’IMPATTO DEI MODELLI DI FINANZIAMENTO PUBBLICO E
PRIVATO DELL’ISTRUZIONE SUPERIORE SU STUDENTI E ISTITUZIONI
"Do
changes in cost-sharing have an impact on the behaviour of students and Higher
Education Institutions", è una pubblicazione curata per la Commissione
Europea dal DZHW (Deutsches Zentrum für Hochschul-und-Wissenschaftsforschung) e
da HESA (Higher Education Strategy Associates). Si tratta di un'indagine per capire
se e come i differenti modelli di finanziamento del sistema universitario
possano influire sui comportamenti della popolazione studentesca e delle
singole istituzioni. Dallo studio emerge che nei Paesi dove i finanziamenti
privati sono aumentati, non è significativamente calato l'apporto pubblico:
sotto il puro profilo finanziario sono emersi scarsi risultati dall'aumento
della tassazione universitaria, adottata in periodi diversi in Austria (2001),
in Germania (2006/07) e nel Regno Unito (1998, 2006, 2012), che hanno bilanciato
l'aumento della tassazione con maggiori benefici a favore degli studenti. Non
sempre l'accresciuto gettito delle tasse studentesche si è tradotto in un
miglioramento dei servizi a loro riservati: molte istituzioni hanno preferito
utilizzarlo a favore dell'ampliamento delle strutture, dell'accoglienza di
altri studenti e per l'avanzamento della ricerca scientifica strategica.
Difficilmente le Istituzioni di istruzione superiore che ricevono maggiori
introiti dagli utilizzatori privati diventano più responsabili nei loro
confronti: si guarda più al risultato che alla formazione. In Finlandia circa
l'80% della nuova popolazione universitaria si è indirizzata tra il 1995 e il
2000 verso una sorta di Politecnici (Ammattikorkeakoulu), più sensibili alle richieste
del mondo del lavoro, come è avvenuto anche in Austria dove le Fachhochshulen,
istituite sul modello tedesco, hanno assorbito oltre due terzi della nuova
utenza. È cresciuta ulteriormente tale tipologia anche in Germania (+58%); al
contrario, solo in Canada e nel Regno Unito vengono ancora preferite le
Università tradizionali. (Fonte: M. L. Marino, rivistauniversitas 11-11-2014)
HI-TECH, INVESTIMENTI IN R&S E NELL’UNIVERSITÀ.
DIFFERENZE NELLE AREE TEUTONICA, ANGLO-FRANCESE E MEDITERRANEA
Il
numero di ricercatori ogni 1.000 lavoratori nell’area teutonica (Germania
(Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia, Islanda, Austria, Svizzera) è
pari a 8,0: inferiore rispetto a Usa (9,0) e Giappone (12); ma quasi il doppio
rispetto all’area mediterranea (4,5). La Germania e i paesi che le ruotano
intorno esportano beni e servizi ad alta tecnologia per un valore che nel 2012
è stato di 337 miliardi di dollari: pari al 5,8% del Pil. Maggiore di quello
dell’area anglo-francese (190 miliardi, pari al 3,6% del Pil) e molto, ma molto
maggiore rispetto a quello dell’area mediterranea (37 miliardi, pari ad appena
l’1,0% del Pil). È anche per questo che la bilancia tecnologica dei pagamenti
segna 34 miliardi di attivo per l’area teutonica, solo 9 miliardi di attivo per
l’area anglo-francese e ben 31 miliardi di passivo per l’area mediterranea (14
miliardi dei quali a carico dell’Italia). Da notare che l’export hi-tech
dell’area mediterranea è inferiore anche a quello dell’area orientale (58
miliardi). L’export hi-tech dipende anche dalla capacità d’innovazione. E qui
la creatività del nord d’Europa è schiacciante. Nell’area teutonica in un anno
si producono 254 brevetti per milione di abitanti: 2,4 volte più che nell’area
anglo-francese e addirittura 5,4 volte in più che nell’area mediterranea. Nel
nord Europa hanno scelto di investire, appunto, sull’educazione e sulla
ricerca: non c’è paese di quell’area che abbia investimenti in R&S
inferiori al 2,0% del Pil (con l’unica eccezione dell’Olanda). Alcuni (Svezia,
Finlandia) hanno investimenti nettamente superiori al 3,0%. Non c’è paese che
non investa moltissimo nell’università. Grazie a questi investimenti i paesi
dell’area teutonica si sono dati una specializzazione produttiva diversa da
quella dell’area mediterranea e anche, in parte, dell’area anglo-francese.
Producono ed esportano una quantità molto maggiore – forse la maggiore al
mondo, in termini relativi – di beni ad alta tecnologia. (Fonte: P. Greco,
Scienza in Rete 20-10-2014)
TASSE E BORSE DI STUDIO, DIFFERENZE FRA LE UNIVERSITÀ EUROPEE
In Finlandia e Danimarca, a
Cipro e a Malta tutti gli studenti universitari accedono a una borsa di studio.
In Islanda, invece, le borse di studio non esistono per niente. La Germania è
il solo Paese ad aver abolito le tasse universitarie, mentre l’Inghilterra le
ha alzate nel 2012, tanto che ora sono le più alte d’Europa. Sono solo alcune
delle tante disparità fra i sistemi universitari dei Paesi europei, come emerge
da un recente report della Commissione Europea che fa il punto su tasse
universitarie, borse di studio e prestiti per gli studenti. Così, mentre la
Germania si aggiunge al novero delle nazioni dove l’istruzione è gratuita,
insieme a Turchia, Grecia, Cipro, Malta, Scozia e paesi Scandinavi, come detto
è l’Inghilterra a presentare le tariffe più salate. Anche in Irlanda, Italia,
Lettonia, Lituania, Ungheria, Paesi Bassi e Slovenia gli studenti pagano tasse
relativamente elevate all’iscrizione, e in tutti questi Paesi (tranne l’Olanda)
la percentuale di quelli che accedono alle borse di studio è inferiore al 50%.
Sono nove, infine, le nazioni che correlano le tasse ai risultati ottenuti: in
Estonia (da quest’anno), Spagna, Croazia, Ungheria, Austria, Polonia e
Slovacchia, a pagare sono solo gli studenti che rimangono indietro negli studi.
(Fonte: M. Rosin, http://www.west-info.eu/it ottobre 2014). Download
European Commission – National student fee and support systems in European
Higher Education 2014/2015 – ottobre 2014
UNIVERSITÀ DIGITALE. PROGETTO EMMA (EUROPEAN
MULTIPLE MOOC AGGREGATOR)
A
livello europeo negli ultimi due anni è in atto un processo di emulazione di
quanto sta accadendo negli Stati Uniti, e dal 2012 sono state avviate una
decina di piattaforme di MOOC (Massive Open Online Courses), che però sono
“country based”, con una forte connotazione territoriale, a partire dal limite
rappresentato dalla lingua. Se si vuole ragionare a livello europeo dunque, per
superare questa barriera, è necessario ricorrere al multilinguismo. In
quest’ottica è nato il progetto EMMA,
il nuovo European Multiple MOOC
Aggregator, che il 29 settembre ha lanciato i primi 10 MOOC multilingue,
disponibili in 8 diverse lingue, tra cui anche l’estone, con traduzione e
trascrizione dei contenuti. L’Università Federico II di Napoli riveste il ruolo
di coordinatrice del progetto. “Era un passo necessario per entrare in un
mercato nuovo, internazionale, prevalentemente presidiato dalle università
americane – spiega Rosanna De Rosa –. In termini pedagogici, EMMA vuole
rispettare le differenze culturali che caratterizzano l’ampio bacino europeo,
dunque i contenuti variano in base all’utente. Non sono presenti solo 8 diverse
lingue, ma abbiamo pensato a modelli e approcci pedagogici diversi, con
l’intento di coniugare l‘aspetto ‘massive’ con la dimensione individuale,
perché siamo convinti che l’apprendimento, anche in un ambiente social, resta
un fatto individuale”. I principali utenti dei MOOC non sono gli studenti
universitari, bensì laureati o lavoratori che desiderano accrescere le proprie
competenze o aggiornarsi professionalmente. Non si propongono dunque come
risposta a quella domanda di innovazione didattica che arriverà a breve nel
mondo accademico dai nuovi “studenti digitali”. La cosa però, non sembra
preoccupare: “Internet non è un ambiente per lo studio, è uno spazio anarchico,
per fare la rivoluzione, è uno spazio di libertà. I quasi nativi digitali, come
li chiamo io, hanno ben presente la distinzione degli strumenti e dei rispetti
utilizzi, usano la rete quando serve, ma per studiare il libro è ancora il
mezzo dominante. In fondo sono due lingue, una cartacea, una digitale; gli
studenti di oggi le conoscono entrambe, sarebbe sciocco perderne una a
discapito dell’altra. Quello che si sta cercando di fare è integrare i due
linguaggi”. (Fonte: L. Indemini, www.agendadigitale.eu
06-11-2014)
STUDIO DI WEALTH-X SULLE UNIVERSITÀ CHE SFORNANO
MULTIMILIARDARI
L’Università
che ha sfornato il maggior numero di multimiliardari sta infatti in
Pennsylvania (Penn, http://www.upenn.edu/), tra l’altro è uno dei
più antichi e rinomati atenei degli Usa. Ben 25 super ricchi degli oltre 2mila
globali hanno frequentato questa Università mentre gli indirizzi più ambiti,
Yale e Harvard, sono al secondo e terzo posto della classifica degli atenei fabbrica-ricchi.
Princeton, secondo l’analisi di Wealth-X, si ferma al quinto posto, dietro alla
University of Southern California.
Certo
è che gli atenei degli Stati Uniti rimangono un indirizzo di successo. Nelle
classifiche di Whealt-X occupano 16 posizioni tra le prime 20. Anche i Paesi
emergenti iniziano a scalare le classifiche. L’India, con Mumbai, è in nona
posizione del ranking mondiale: dalle sue aule sono usciti, negli ultimi anni,
12 multimiliardari. L’Europa rimane
indietro. Tra le prime 20 posizioni non ci sono atenei tedeschi, italiani o
francesi. Mancano persino nomi prestigiosi come Oxford o Cambridge. La bandiera
europea è difesa soltanto dal Regno Unito con la London School of Economics and
Political Science: nelle sue aule si sono formati 11 supermiliardari. (Fonte:
La Stampa 31-10-2014)
FRANCIA. INUTILITÀ DELL’IMPOSIZIONE DELLE COMUNITÀ DI
UNIVERSITÀ (COMUE)
Le monde universitaire semble actuellement tout entier tourné vers les
créations de Comue, les communautés
d'universités et d'établissements. Il s'agit vraiment d'une couche
administrative inutile: les Comue ne
feront rien de plus que ce que les établissements pouvaient faire auparavant
par la voie de relations contractuelles. Le carcan institutionnel imposé à tous
n'ajoutera aucune capacité d'action supplémentaire et ne créera aucune volonté
de coopérer là où il n'y en a pas. Même chose du côté des écoles de commerce
consulaires, auxquelles on propose un nouveau statut qui sans doute allégera
les procédures, mais ne générera ni activité supplémentaire ni capacité
nouvelle d'innovation. On se félicite d'un nombre accru de bacheliers à
l'entrée des universités. En réalité, c'est plutôt inquiétant, compte tenu des
taux d'échec en licence toujours aussi élevés.
On annonce des créations de postes fictives, puisque le ministère
recommande lui-même de ne pas pourvoir ces postes. Et bien sûr, on entend de
nombreux universitaires se plaindre de la disette budgétaire qui frapperait
particulièrement universités et laboratoires. Loin de ces agitations et
protestations de principe, quelques faits concrets montrent les voies vers
lesquelles il faut résolument se tourner. Une très sélective Conférence des
universités intensives en recherche s'est créée, rompant avec la sacro-sainte
uniformité de la CPU. Plus intéressant encore, onze présidents de petites et
moyennes universités, ce sont leurs propres mots, revendiquent un modèle
alternatif à celui de la concentration. Dans le cadre d'une autonomie accrue,
il faut encourager les établissements à afficher chacun son excellence propre,
sachant que chacun ne peut être excellent dans tout. Il faut que le système se
diversifie. Favorisons délibérément l'émergence de quelques universités de
recherche, transcendant les clivages entre grandes écoles, universités et
organismes de recherche. Ces clivages franchouillards sont la vraie cause du
manque d'attractivité et d'efficacité de notre système. Et si des regroupements
doivent avoir lieu, laissons-les se faire par la volonté des établissements, et
pas en imposant d'en haut un carcan identique pour tous. (Fonte : B.
Belloc, Les Echos 03-11-2014)
FRANCIA. TAGLI E RITARDI NEI FINANZIAMENTI ALL’UNIVERSITÀ
Les fonctionnaires de l'enseignement supérieur menacés de ne pas toucher
leur salaire en novembre et décembre, pour cause de rigueur budgétaire? Bercy,
qui présente aujourd'hui le projet de loi de finances rectificative pour 2014,
envisagerait 2,2 milliards de coupes budgétaires. Et caresserait l'idée de
faire quelques économies sur le dos des universités. La quatrième et dernière
part de leur dotation annuelle, qui couvre la masse salariale (120.000
personnels, dont 91.700 enseignants et chercheurs) et le fonctionnement, n'a
pas été versée dans son intégralité en octobre.
Un «trou» de 200 millions constaté par les agents comptables qui, s'il
n'était pas comblé, mettrait dans le rouge les deux tiers des établissements,
selon Jean-Loup Salzmann, président de
la Conférence des présidents d'université (CPU). «Les universités sont,
comme tous les autres opérateurs de l'État, sous le feu de Bercy»,
expliquait-il dans un courrier daté du 28 octobre aux chefs d'établissement. Du
côté du ministère de l'Enseignement supérieur, on se veut rassurant. « Il n'y a
jamais eu d'inquiétudes ou de menaces concernant le versement de ces salaires.
Nous avons fait valoir auprès de Bercy, auprès du premier ministre et du
président de la République (...) que la jeunesse (...), la recherche et
l'éducation restaient les priorités de ce gouvernement parce qu'ils
conditionnent l'avenir », a indiqué lundi sur France Inter Geneviève Fioraso,
la secrétaire d'État à l'Enseignement supérieur. «Les universités ont atteint
leurs limites budgétaires», résume Rachid El Guerjouma, président de
l'université du Maine, qui décrit sur le territoire des gels de postes à grande
échelle et des projets suspendus. «Nous ne pouvons plus tirer sur les
ressources propres, sauf à augmenter les droits d'inscription, comme dans les
pays anglo-saxons. Le gouvernement doit donc faire ses choix. S'il veut
conserver un modèle de service public, il devra mettre les moyens».
(Fonte : C. Beyer, Le Figaro 12-11-2014)
UCRAINA. UNA NUOVA LEGGE DI RIFORMA DELL’UNIVERSITÀ
Come
altri Paesi ex-sovietici, negli anni '90 l'Ucraina aveva tentato almeno
nominalmente di cambiare il sistema fortemente legato al controllo statale
nell'organizzazione e nella gestione delle università, nelle nomine dei docenti
e nei programmi di studio. Ma la corruzione endemica, il plagio, la vendita di
esami e diplomi di laurea, come denunciato da numerosi osservatori, erano
rimasti drammaticamente diffusi in molti atenei del Paese. Nel 2005 il governo
si era impegnato ad adeguare l'Ucraina al Processo di Bologna e introdurre il
sistema di crediti europeo, ma tale cambiamento non è mai stato realmente
avviato. Nel 2008 l'Ucraina si era dotata di nuovi test di ammissione per le
matricole universitarie che avrebbero dovuto rendere più trasparente l'ingresso,
ma la crisi economica e i drastici tagli nell'istruzione superiore avevano in
realtà causato nuove frodi e un sistema di tangenti e di elargizioni informali
ai docenti per favorire l'entrata delle matricole. Nel dicembre 2013 attivisti
e docenti manifestarono per giorni a Kiev per chiedere l'autonomia delle loro
università e l'applicazione di quegli impegni. La disputa che ha preceduto
l'approvazione della legge può esser considerata come una battaglia per procura
sulla spaccatura fra filorussi e filoeuropei che attraversa il Paese, sostiene
Edmund Klein, ricercatore al Centro di Ricerca per gli studi dell'Europa
dell'Est dell'Università di Bremen: "Ci sono state - spiega - tre diverse
proposte di legge: una influenzata dal sistema universitario russo-sovietico e
sostenuta dal governo; un'altra disegnata sul modello europeo proposta
dall'opposizione e una terza stilata da un gruppo di esperti provenienti dalle
università e dalla società civile, sulla base della quale la nuova legge è
stata finalmente adottata”. (Fonte: M. Borraccino, rivistauniversitas
03-11-2014)
IRAQ. IL C.D. STATO ISLAMICO CANCELLA INTERE FACOLTÀ E
DIPARTIMENTI ALL’UNIVERSITÀ DI MOSUL
Con
una circolare del 18 ottobre l’Ufficio dell’Istruzione, come è stato
ribattezzato a Mosul il ministero dell’Istruzione superiore, detta una serie di
regole «per avviare le procedure necessarie a preparare gli esami per tutte le
specializzazioni tranne per quelle non corrispondenti al dettame della Sharia».
Sotto la mannaia del Califfato cadono le facoltà di Legge, Scienze politiche,
Archeologia ed Educazione fisica. Chiudono i battenti anche l’Accademia di belle
arti, il dipartimento di Filosofia e quello degli Enti turistici e alberghieri.
La motivazione è sempre la stessa: questi argomenti sono incompatibili con i
dettami della legge islamica. Perché è evidente, come è già successo in altre
dittature, che al cambiamento politico deve fare seguito anche una rivoluzione
culturale, sociale ed economica che, nella visione dei leader del c.d. Stato
Islamico, è una chiusura totale rispetto ai valori intoccabili del mondo
moderno. A leggere la circolare ci si chiede cosa sarà possibile ancora
insegnare dato che tra le materie vietate nello Stato Islamico ci sono:
democrazia, cultura, libertà e diritti. Sotto accusa anche la storia e la
geografia: «Durante gli esami - è scritto nel testo - non si potranno porre
domande sugli interessi bancari, sui principi patriottici o etnici, sui fatti
storici falsi oppure sulle spartizioni geografiche che non sono conformi alla
Sharia islamica». La lettera, scritta su carta intestata con il logo dell’Is, è
rivolta a «tutto il personale docente, amministrativo e impiegatizio
dell’Università e degli Istituti di Mosul» che sarà obbligato da subito a
rispettare le nuove regole. Tra queste al primo posto figurano «le imposizioni
della Sharia in merito alla separazione tra maschi e femmine». Classi separate,
quindi, con insegnanti esclusivamente dello stesso sesso. (Fonte: www.corriere.it/esteri 25-10-2014)
USA E ITALIA. L’ANDAMENTO DEL FUORICORSO NELLE UNIVERSITÀ
Hanno
avuto recentemente risalto le classiche sulle università con meno (Politecnico
di Milano, 28,4% e IUAV, Venezia, 28,7%) e con più (Potenza e L'Aquila, 53%)
studenti in ritardo, pubblicate dall'Anvur nel rapporto 2013. E il numero
complessivo, benché ingente – secondo le rilevazioni di AlmaLaurea in Italia sono
circa 700.000 gli studenti fuori corso – non sembra in sé giustificare tanto
allarme, al contrario del pesante calo delle immatricolazioni verificatosi dopo
il 2003. In Italia si laureano infatti in corso il 40% degli studenti e il 45%
delle studentesse, una percentuale per nulla così bassa nel panorama europeo, e
concludono gli studi oltre i quattro anni dopo la durata legale soltanto il 13%
di loro, un numero dimezzato rispetto al 2000 e che rappresenta il più basso
mai registrato, come attesta sempre AlmaLaurea con il rapporto 2014, con un
progressivo e costante miglioramento.
Se
nel nostro Paese questo fenomeno è, perlomeno, ben conosciuto, negli Stati
Uniti, dove è altrettanto diffuso, è però assai meno discusso. Solo circa il
39% di universitari americani riesce a ottenere una laurea entro i quattro anni
previsti dall’ordinamento, che è simile a quello europeo prima che si attuasse
la riforma del 3+2. Più del 40% non completa gli studi nemmeno in sei anni.
Esistono tutta una serie di ragioni personali, strutturali e normativo-culturali
dietro a questo fenomeno”. Ad esempio, anche negli Stati Uniti è pressoché
impossibile laurearsi in ingegneria, e in altre discipline altrettanto
complesse, in meno di cinque anni. Accade poi che tante matricole inizialmente
iscritte a un corso di studi finiscano per cambiare una o più volte durante gli
anni di università, dovendo ogni volta superare gli esami obbligatori del nuovo
indirizzo e quindi mettendoci di più ad arrivare alla laurea. Si stima che tra
il 50% e il 70% degli iscritti modifichino il proprio corso di laurea almeno
una volta, con una maggioranza che finisce per ricominciare da capo, o quasi,
almeno tre volte. “Negli anni sessanta, si pensava che solo un terzo dei
diplomati di scuola superiore sarebbe andato al college – dice Hurtado – Ora
invece ci aggiriamo sul 70%, una popolazione tra l’altro molto più
diversificata di un tempo”. Non a caso, la percentuale di studenti che
finiscono fuori corso o, addirittura, lasciano prima di laurearsi, è molto più
alta tra questi “ultimi arrivati”. Tra i giovani neri solo il 20,5% completa
l’università in quattro anni, con il 60% che non finisce nemmeno entro sei. Tra
gli ispanici, il 29% si laurea in tempo e poco più della metà in sei anni.
Questi risultati così mediocri derivano senz’altro anche dalla preparazione
insufficiente che questi giovani ricevono alle superiori, giacché la qualità
della scuola pubblica americana varia enormemente di zona in zona e gli
istituti migliori si concentrano quasi esclusivamente nei quartieri popolati
dalla classe medio-alta. Il gruppo non-profit Complete College America ha
stimato che un anno di università in più viene a costare, allo studente medio
di un ateneo pubblico, 63.718 dollari tutto compreso (dati citati da TIME).
(Fonte: V. Pasquali, www.unipd.it/ilbo
17-10-2014)
USA. GLI ATENEI COME ORGANIZZAZIONI NON-PROFIT GODONO DI
UN TRATTAMENTO FISCALE DI FAVORE PER GLI ENDOWEMENT (450 MILIARDI DI DOLLARI
NEL 2013)
Per
il combinato di una legislazione particolarmente favorevole e dell'evoluzione
della gestione degli endowment - i patrimoni frutto delle donazioni di privati
ed ex studenti che costituiscono la base dell'autonomia economica di gran parte
delle università americane - la finanza d'investimento, anche nei suoi aspetti
più aggressivi, gioca un ruolo primario nel loro funzionamento. La
classificazione degli atenei come organizzazioni non-profit si traduce,
infatti, in un trattamento fiscale di favore: pagano imposte sul reddito e
sugli immobili molto ridotte quando non ne sono completamente esenti. È questo
uno dei tanti modi con cui il governo federale e dei singoli stati sovvenziona
il sistema nazionale dell’istruzione, e tale normativa determina un margine di
redditività davvero alto all'impiego dei fondi disponibili, tanto maggiore
quanto più questi sono ingenti. Un meccanismo che sta sollevando un coro di
critiche, provenienti anche da economisti, secondo cui la detassazione, per
quanto nobile in principio, rappresenta in realtà un uso inefficiente e
profondamente iniquo dello strumento fiscale, che avvantaggia gli atenei già
molto ricchi e di conseguenza non fa altro che alimentare la spirale della
disuguaglianza. Le assemblee legislative degli stati di Washington e del
Massachusetts stanno addirittura considerando di modificare le proprie norme
per fare versare almeno un po’ di tasse anche alle università. In particolare,
a provocare l’ira di esperti e media è il quadro fiscale che riguarda gli
endowment il patrimonio accumulato dagli atenei. Si tratta, in pratica, di
fondi di investimento cui gli ex-studenti e altri sostenitori possono
contribuire con proprie donazioni. Sono strutturati in modo tale da preservare
l’ammontare investito originariamente, che cresce con ogni offerta, mentre i
guadagni da loro generati finiscono nel bilancio dell’amministrazione ordinaria
e sono spesi per la gestione delle attività accademiche. Per quegli atenei che
hanno saputo dotarsi di endowment cospicui, soprattutto quelli dell’Ivy League,
si tratta di una favolosa macchina da soldi. Secondo dati pubblicati a gennaio
dalla National Association of College and University Business Officers
(NACUBO), gli endowment universitari si aggiravano a fine 2013 sui 450 miliardi
di dollari, in crescita dell’11,7% sull’anno precedente. A renderli ancor più ghiotti si aggiunge un
elemento essenziale: il fatto che sono esentasse. Se in teoria il sistema è
pensato per offrire sostegno economico all’istruzione superiore nel suo complesso,
in pratica se ne avvantaggiano realmente solo una manciata di college
facoltosi. Gli endowment sono, infatti, distribuiti tra i vari atenei in
maniera estremamente diseguale. 25 università sulle 835 considerate
nell’analisi di NACUBO vantavano l’anno scorso fondi corrispondenti al 52% del
totale. Da sola, Harvard ha un Endowment di 32,3 miliardi di dollari, seguita
da Yale con 20,8 miliardi, l’università del Texas con 20,4 miliardi, Stanford
con 18,7 miliardi, e Princeton con 18,2 miliardi. (Fonte: V. Pasquali, www.unipd.it/ilbo 22-10-2014)
LIBRI. DOSSIER
INTERNATIONAL HIGHER EDUCATION N. 77,
FALL 2014
RIACCENDERE I MOTORI – INNOVAZIONE, MERITO ORDINARIO,
RINASCITA ITALIANA
Autore:
Gianfelice Rocca. Ed. Marsilio, Venezia 2014, pp. 146.
L'Italia
possiede una straordinaria capacità di innovazione, un incredibile capitale di
creatività e di esperienza, che risiede in un comparto importante della nostra
economia: le imprese medium tech. Tipiche del manifatturiero tedesco così come
di quello italiano, sono le fabbriche di un'innovazione incrementale, non
distruttiva, ma costruita, mattone dopo mattone, sulle esperienze del passato,
valorizzando quello che Gianfelice Rocca chiama "merito ordinario".
Una forte presenza medium tech ha conseguenze di ampia portata, per tutta la
società. Non ultima, consente di mantenere in piena attività l'ascensore
sociale. Frutto dell'esperienza di lungo corso a capo di un grande gruppo in
ambito internazionale, il libro segna una presa di posizione decisa nel
dibattito sulla crescita e sul ruolo dell'industria. È la testimonianza della
passione per la lettura dei macro-fenomeni che hanno mutato il volto del globo
e alla luce dei quali anche le politiche pubbliche dovrebbero essere
ricalibrate. Lasciando da parte quelle interpretazioni eccessivamente
sbrigative che oggi fanno la parte del leone nel dibattito economico, Rocca
descrive dinamiche e fatti, fornisce argomenti e idee e dimostra che la
globalizzazione non ci obbliga necessariamente a un destino da comprimari. Ma
dovremo essere capaci di partire dai nostri punti di forza, da politiche che
possano valorizzarli, da un cambiamento culturale che esalti ciò che funziona
nel nostro Paese e sappia farne un esempio per tutti. Talvolta, però, alcuni
discorsi sembrano un po’ approssimativi. Ad esempio, l’insistenza nel ritenere
il medium tech (il settore manifatturiero) – sicuramente molto importante – il
settore su cui puntare per risollevare le sorti italiane, ci sembra venata qua
e là da una fiducia forse eccessiva. I discorsi sulla mobilità dei ricercatori,
sul merito e sulla valorizzazione tanto dei giovani quanto dei silver workers
contengono elementi di verità, ma sono portati avanti in modo un po’
superficiale: il tono generale è più da intrattenimento televisivo che non da
tesi accuratamente documentate (anche se numerosi grafici corredano gli argomenti
esposti). Siamo sicuri che la scarsa attrattività dei nostri atenei si risolva
approntando corsi in inglese (spesso tenuti da docenti con una preparazione
linguistica imbarazzante)? Problemi che pesano molto sulle nostre università –
autonomia, allocazione delle risorse, politiche di reclutamento, rapporti con
le imprese, solo per citarne alcuni – riteniamo avrebbero richiesto una
trattazione più accurata. (Fonte: presentazione dell’editore e recensione di L.
Sabatini su rivistauniversitas, ottobre 2014)
30 ANNI DI DOTTORATO DI RICERCA. L’ORA DEL 2+3
Autori:
Nicola Vittorio, Giampaolo Cerri. Prefazione di Luigi Berlinguer - Exòrma, Roma
2013, pp. 31.
Nicola
Vittorio e Giampaolo Cerri con questo volume scattano un’istantanea dello stato
di salute dei nostri dottorati (introdotti nel 1980 ma attivati, nella
sostanza, nel 1983), nati con finalità di innovazione scientifica e di raccordo
strategico con il mondo delle professioni, ma progressivamente sacrificati alle
ragioni (spesso insondabili) degli equilibri accademici, forieri di scelte che
non sempre hanno salvaguardato qualità ed efficacia della formazione, anche
dottorale.
Delineata la via europea
all’innovazione, descritta evidenziando l’impegno della Commissione Europea per
il dottorato (programma Marie Curie), gli autori si soffermano sull’istituzione
delle scuole di dottorato in Italia e sui differenti modelli organizzativi
elaborati da Cnvsu, Miur, Crui e Convui (Coordinamento dei nuclei di
valutazione), che danno conto delle problematiche relative all’assetto
logistico e formativo dei corsi. Questa intensa dialettica ha spinto il
Ministero a emanare il nuovo regolamento del 2013, che vincola l’accreditamento
dei corsi al rispetto di requisiti minimi ben precisi, a partire dalla
composizione del collegio dei docenti, selezionati dall’ateneo sulla base del
curriculum e della loro congruità scientifico-disciplinare rispetto alle linee
scientifiche e curriculari dei dottorati. Il nuovo percorso dovrebbe rendere i
nostri dottorati più appetibili e competitivi a livello internazionale, nel
segno della qualità, della trasparenza, della qualità, dell’occupabilità e
della mobilità. Tutti fattori opportunamente evidenziati dagli autori del
libro, che hanno il merito di aver sintetizzato in maniera agile e chiara i
primi trent’anni di vita del nostro dottorato, con lo sguardo rivolto
all’immediato futuro: «A quasi 15 anni dall’applicazione della prima grande
riforma europea del nostro Paese – piaccia o no ma il “3+2” questo è stato – si
tratta di fare un passo ulteriore per tenere ancora il ritmo di quanto l’Europa
sta facendo. Dopo tre lustri di “3+2” è venuto il momento di pensare alla
costruzione del “2+3”». Un invito che gli autori corroborano con dovizia di
dati e con una proposta conclusiva di dieci idee, enunciate «per ricominciare a
ragionare di università e del suo ruolo nella società della conoscenza»,
proiettata verso orizzonti cognitivi e culturali in continuo divenire. (Fonte: A. Lombardinilo, rivistauniversitas giugno 2014)
IL GOVERNO MANAGERIALE DELLE UNIVERSITÀ. Dal direttore
amministrativo al direttore generale
A
cura di Sandro Mainardi, Claudia Piccardo, Enrico Periti, Il Mulino, Bologna 2013, pp. 232.
La
legge di riforma dell’Università, conosciuta come «Legge Gelmini», è entrata in
vigore all’inizio del 2011. Molte le novità che sono state introdotte,
soprattutto a livello di governance. Una in particolare si mostra come novità
assoluta: il ruolo del Direttore amministrativo, così come lo si è conosciuto
nel corso degli anni, è sostituito da quello di Direttore generale, individuato
come «organo» dell’Ateneo insieme al Rettore, al Consiglio d’amministrazione,
al Senato accademico, al Nucleo di valutazione e al Collegio dei revisori dei
conti. Al Direttore generale viene attribuita la «complessa gestione e
attivazione dei servizi, delle risorse strumentali e del personale
tecnico-amministrativo dell’ateneo». Come interpretare il nuovo ruolo in
rapporto alle esigenze degli atenei, organizzazioni complesse che devono sempre
più affrontare la loro missione con lo sguardo alla razionalizzazione e
standardizzazione dei costi, alla gestione delle risorse umane per competenze,
alla performance dell’intera organizzazione? Un interrogativo cui questo volume
vuole contribuire a rispondere, fornendo numerosi e stimolanti spunti di
riflessione. (Fonte:
presentazione dell’editore)
QUALE UNIVERSITÀ?
Gian
Candido De Martin (a cura di). Dossier in “Dialoghi”, anno XIV, n. 2,
aprile-giugno 2014.
«L’università
è un cantiere aperto, nonostante (oppure anche in parte a causa delle tante
riforme anche recenti). Essendo del tutto evidente l’esigenza imprescindibile
di progetti chiari per il futuro, di cui debbono essere protagoniste principali
le stesse università, anche per favorire percorsi attuativi realmente condivisi
e capaci di migliorare la qualità della formazione universitaria, in una
prospettiva sempre più internazionale». Così Gian Candido De Martin nella sua
introduzione al dossier «Quale università?» - pubblicato in Dialoghi n. 2/2014
(il trimestrale promosso dall’Ac in collaborazione con l’Istituto “Vittorio
Bachelet” e con l’Istituto “Paolo VI”) -
che prosegue il filo del discorso sulle istituzioni formative, «dopo
l’attenzione dedicata alla scuola nel precedente dossier, cerchiamo ora di
affrontare la questione dell’università, prendendo in esame i nodi principali
che riguardano, a vario titolo, queste sedi di “istruzione superiore”, spesso
ultrasecolari e anteriori all’ordinamento dello Stato unitario». Nodi e
interrogativi da cui non si può prescindere (quale idea di università abbia
senso oggi, quale governo delle università, quale formazione nell’università,
quale internazionalizzazione dell’università) sono al centro dei contributi di
Andrea Aguti, Mario Brutti, Luciano Corradini, Monica Del Vecchio, Giorgio
Grasso, Andrea Lavazza, Sara Martini, Rita Pilotti, Gian Cesare Romagnoli e
Giuseppe Tognon. Tognon richiama i suoi colleghi a una considerazione positiva
e creativa dell’analisi educativa dei bisogni generazionali e invita ad
adottare la personalizzazione didattica, il service learning, il metodo
cooperativo, l’uso delle tecnologie, la diffusione massiccia di piattaforme
librarie digitali, l’utilizzo di un solido sistema mutualistico di tutoraggio
tra pari. Il primo e più grave problema della nostra università – conclude
Tognon – è pedagogico, di cultura dell’insegnamento e di cura
dell’apprendimento, oltre che di condivisione del piacere di studiare e di
discutere. Il contributo di Andrea Aguti arriva a fornire sull’università sei
“indicazioni di senso”. La prima è la ricerca della verità come fine
fondamentale dello studio universitario. La seconda riguarda l’utilità della
conoscenza acquisita in università. La terza guarda alla finalità formativa che
non può limitarsi all’acquisizione di competenze e abilità professionali. La
quarta si concentra sul rapporto tra ricerca e insegnamento. La quinta postula
l’unità, la coerenza e la relativa semplicità che dovrebbero caratterizzare
l’insegnamento. L’ultima ricorda che il fine generale è rendere migliore e più
significativa la vita dell’uomo. (Fonte: C. Finocchietti, rivistauniversitas
ottobre 2014)
AUTONOMIA E RESPONSABILITÀ DELL'UNIVERSITÀ. GOVERNANCE E
ACCOUNTABILITY
Lorenzo Alberto
Cassone e Lorenzo Sacconi (a cura di). Giuffrè Editore 2013, 226 pg.
Il
mondo dell'università italiana attraversa una fase continue riforme
legislative. La causa ultima risiede nella richiesta da parte della società che
l'università, finanziata (ma sempre meno, in verità negli ultimi anni) dallo
Stato, 'renda conto' dell'efficacia delle sue attività in relazione alle sue
finalità e ricadute d'interesse pubblico. Nondimeno, le riforme sono
accompagnate da comunicazioni volte a screditarla. Per valutare l'attuazione
delle riforme è indispensabile fare attenzione ai temi della governance e
dell'accountability dell'università, e porli in relazione ai due principi di
autonomia e di responsabilità sociale. Vi sono differenti impostazioni a tale
proposito. Da un lato, vi è l'interpretazione dei cambiamenti secondo schemi di
governance che tengono in considerazione la natura di bene pubblico dei
prodotti, i costi e i benefici della cooperazione tra diversi stakeholder in un
contesto di investimenti specifici e complementarietà essenziali tra il
capitale umano impiegato in didattica e ricerca, l'incompletezza dei contratti
con i relativi rischi di opportunismo, e soprattutto la necessità di bilanciare
molteplici interessi. Il che rende l'università un'organizzazione che richiede
una governance multi-stakeholder e democratica, nel senso che la governance
serve a raggiungere equi bilanciamenti tra interessi e impedisce l'abuso di un
potere sull'altro. In questo contesto l'accountability degli atenei serve a
'rendere conto' ai vari stakeholder, depositari a gradi differenti di diritti
di partecipazione e informazione sulle decisioni. Dall'altro lato, secondo i
dettami ormai un po’ datati del New Public Management, vi è l'intenzione di
implementare sistemi di gestione, pensati per le imprese private attraverso gli
occhiali del modello principale-agente, di fatto, limitando l'autogoverno delle
università attraverso l'introduzione di uno spazio di potere affidato a
soggetti esterni (rappresentanti dei principali), e riducendo le faculty ad
agenti di tali controllori esterni. Secondo questa impostazione, il controllo
dell'università dovrebbe essere prevalentemente esterno e la rendicontazione
dovrebbe essere quindi rivolta ai controllanti esterni, ovvero i 'principali' dell'università.
Con analisi empiriche e teoriche, questo volume nella prima parte studia le
trasformazioni in corso, cercando di stabilire quale dei due modelli suddetti
sia più fondato. L'idea di università autonoma e socialmente responsabile verso
gli stakeholder è alla base (nella seconda parte) dell'analisi dei principi e
delle esperienze di rendicontazione sociale (bilancio sociale) delle Università
Autonomia e responsabilità sociale dell’Università. (Dalla presentazione di F.
Bellezza)