giovedì 16 marzo 2017

INFORMAZIONI UNIVERSITARIE 20-03-2017

IN EVIDENZA

RECLUTAMENTO. UNIFICARE LE FIGURE PRE-RUOLO
Dobbiamo, come misura di pronto intervento, riproporre un nuovo piano straordinario di reclutamento di RTDb, come fatto ormai un anno fa. In parallelo, è indispensabile aggredire in modo definitivo il tema delle figure pre-ruolo della docenza. Infatti, dopo il dottorato di ricerca, è opportuno definire, sia un tempo massimo di permanenza, sia un’univocità di figura pre-ruolo, abolendo assegnisti, contrattisti e RTDa, e ridenominandoli con una figura unica, ad esempio di assistente alla ricerca; a questo va affiancata una modifica dello status degli RTDb che definirei, secondo il modello CUN professore iunior, in quanto a tutti gli effetti dei veri ricercatori con tenure, scelti e reclutati dai dipartimenti. Gli attuali ricercatori universitari a tempo indeterminato (RTDI) del ruolo ad esaurimento potrebbero diventare dei professori aggiunti o aggregati o altra denominazione, in quanto in larga misura ormai indispensabili alla tenuta dell’attività formativa. (Fonte: A. Lenzi, S 24, 15-02-17)

LA CORTE COSTITUZIONALE: NON SI PUÒ PRECLUDERE LA FACOLTÀ DI ATTIVARE CORSI UNIVERSITARI IN LINGUA STRANIERA
Per l’insegnamento in inglese nei corsi universitari è intervenuto anche il Consiglio di Stato, che ha sottoposto la questione alla Corte costituzionale, e il 23 febbraio ieri è arrivato il verdetto. La Consulta ha sentenziato che le università sono libere di offrire ai loro studenti corsi di laurea in una lingua straniera, purché l'offerta formativa non pregiudichi l'italiano. Il suo primato, tra l'altro, fanno sapere proprio i supremi giudici, «diventa ancor più decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell'identità della Repubblica, oltre che garanzia di salvaguardia e di valorizzazione come bene culturale in sé». Tradotto: l'italico parlare non deve sparire. «Le legittime finalità dell'internazionalizzazione», proseguono, «non possono ridurre la lingua italiana, all'interno dell'università italiana, a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione che le è propria, di vettore della storia e dell'identità della comunità nazionale». Però i principi costituzionali «non precludono certo la facoltà» di inserire nel curriculum studiorum «corsi in lingua straniera, anche in considerazione della specificità di determinati settori scientifico-disciplinari». (Fonte: Libero 25-02-17)

FFO(A). FFO(B). VQR. IRAS2. IRFS. StopVQR
Il FFO è suddiviso in diverse parti. C’è una quota base (4,7 miliardi), una quota premiale (1,4 miliardi) e una quota perequativa (0,2 miliardi). La parte del FFO, cui in questi anni di “meritocrazia anvuriana” è stata attribuita un’importanza capitale, è quella premiale. La parte premiale del FFO è suddivisa in una parte di premio associata ai risultati della VQR (1,2 miliardi), e in una molto più modesta (0,2 miliardi) distribuita sulla base di (discutibili) indicatori relativi alla didattica. È innegabile che tutto il valore simbolico della premialità sia associato alla parte premiale che dipende dai risultati VQR. A sua volta la quota premiale riferita ai risultati nella ricerca è suddivisa in due parti. La parte preponderante è quella indicata come FFO(A), che distribuisce 934 milioni sulla base di un indicatore composito, calcolato sui risultati della VQR. L’FFO(B) invece distribuisce 287 milioni sulla base di un indicatore (IRAS2) relativo alle politiche di reclutamento degli atenei, calcolato anch’esso sulla base dei risultati VQR. I risultati raggiunti nella VQR determinano dunque la premialità FFO(A) e FFO(B). Ma questi risultati non si tradurranno in automatiche variazioni di FFO, perché ci sono risorse destinate a una clausola di salvaguardia (quota perequativa) che eviteranno agli atenei di vedere ridotto l’ammontare dell’FFO 2016 per più del 2,25% rispetto all’assegnazione 2015. A differenza degli anni precedenti, quest’anno l’FFO premiale è stato ancora suddiviso in due tranche: una per gli atenei statali (escluso Trento che non partecipa alla ripartizione poiché il suo finanziamento arriva dalla provincia autonoma), ed una per le scuole speciali. I circa 921 milioni di Euro dell’FFO(A) premiale per le università statali sono distribuiti sulla base di un indicatore chiamato IRFS, Indicatore di Ricerca Finale di Struttura. A differenza di IRAS1, il valore di IRFS si traduce direttamente in soldi.
Per saperne di più si consiglia la lettura dell’articolo di A. Baccini (Roars 17-01-17): Tutto quello che avreste voluto sapere sull’FFO premiale (ma non avete mai osato chiedere), fonte di questa nota.
Ma ecco la seconda puntata del post sull’FFO premiale. Il MIUR ha calcolato l’IRFS adottando una definizione diversa da quella che l’ANVUR ha pubblicato nel bando VQR. Il MIUR ha anche introdotto, su richiesta della CRUI, una correzione del valore dell’indicatore della qualità della ricerca per sterilizzare gli effetti della protesta #stopVQR. Di fatto la formula dell’IRFS certifica che la protesta #stopVQR ha sortito i suoi effetti sull’esercizio di valutazione, i cui risultati devono essere corretti per poter essere utilizzati nella distribuzione dell’FFO premiale. Ed eccoli gli effetti: ben 40 atenei statali su 60, pari al 66%, hanno usufruito della compensazione. E 16 atenei su 60, cioè oltre un quarto degli atenei statali (26,7%), hanno usufruito della compensazione massima: ciò significa che in quegli atenei lo #stopVQR ha ridotto i conferimenti di almeno tre punti percentuali rispetto alla VQR 2004-2010. La compensazione premia gli atenei i cui docenti hanno aderito allo #stopVQR, trasferendo a loro favore risorse prelevate dagli atenei i cui rettori in un modo o nell’altro sono riusciti a contenere la dimensione della protesta. La compensazione #stopVQR ha spostato complessivamente 8,9 milioni di euro, pari a circa l’1% dell’intero FFO(A). (Fonte: A. Baccini, Roars 23-01-17)

SETTIMA EDIZIONE DEL QUACQUARELLI SYMONDS UNIVERSITY RANKINGS. SPICCANO PER DISCIPLINE POLIMI, BOCCONI, BOLOGNA E SAPIENZA
Per mettere a punto la classifica della settima edizione del Quacquarelli Symonds University Rankings, QS ha preso in considerazione «più di 185 milioni di citazioni, 43 milioni di papers, 194mila risposte al questionario somministrato ai responsabili delle risorse umane, 305mila risposte al questionario somministrato agli accademici». I parametri valutati sono la reputazione accademica e tra le aziende (basata sull'opinione di recruiter in tutto il mondo), le citazioni per paper e l'utilizzo dell'«H-Index» sulla prolificità e l'impatto delle pubblicazioni. QS ieri ha pubblicato il World University Rankings by Faculty che valuta la performance delle Istituzioni in 5 Macro Aree di Studio: Arte e Materie Umanistiche, Ingegneria e Tecnologia, Biologia e Medicina, Scienze Naturali, e Scienze Sociali e del Management.
Il Politecnico di Milano si piazza tra i primi 100 in 10 materie. Oltre all’ottimo risultato per Arte e Design, dove raggiunge la settima posizione nel mondo (decima nel 2016), si conferma 14° per Architettura (era 15°) e Ingegneria civile (come l’anno scorso). Scende di qualche posizione in Ingegneria Meccanica (dal 18° al 29°). Bene anche la Bocconi che è 11esima (era decima) in Business & management, 16esima (scala una posizione) in Economia ed econometria e 33esima (da 27esima) in Finanza e contabilità. Tra le italiane si segnala anche l’università di Bologna (UniBo) presente in 21 discipline nella top 100. Sapienza di Roma è presente in 13 discipline. (Fonte: www.scuola24.ilsole24ore.com 07-03-17)

FONDO PER IL FINANZIAMENTO DEI DIPARTIMENTI UNIVERSITARI DI ECCELLENZA. CUN: PESO ECCESSIVO DEI RISULTATI DELLA VQR NELLA SELEZIONE DI DIPARTIMENTI
ll riferimento è ai commi 314-338 dell’art.1 della legge di stabilità ossia al “fondo per il finanziamento dei dipartimenti universitari di eccellenza”. Dal 2018, per effetto di questa normativa, è istituita, all’interno del fondo di finanziamento ordinario per le università statali, una sezione destinata a finanziare i “dipartimenti universitari di eccellenza con la dotazione di 271 milioni che saranno messi a disposizione per incentivare, con un finanziamento quinquennale, l’attività dei dipartimenti che siano riconosciuti eccellenti per la qualità della ricerca e della progettualità scientifica, organizzativa e didattica. A proposito di questi “ludi dipartimentali”, come li ha definiti Roars, è importante il giudizio del Consiglio Universitario Nazionale, che “[….] osserva innanzitutto che la selezione dei dipartimenti […. ] è fatta utilizzando un indicatore calcolato sulla base dei risultati della VQR. Attribuire un peso eccessivo a questo indicatore rischia di non tenere in adeguata considerazione l’articolazione complessiva degli elementi che costituiscono la produttività scientifica, la qualità e la potenzialità di ricerca e didattica di una struttura dipartimentale. Il CUN segnala inoltre che qualunque strumento puramente statistico che porti a formulare una graduatoria generale di merito tra tutti i dipartimenti italiani in base a parametri sintetici non riesce a rappresentare correttamente la multiformità delle situazioni e dei saperi; inoltre non è considerato nella letteratura internazionale di settore né stabile né affidabile per l’assegnazione diretta di finanziamenti pubblici. Il CUN ritiene pertanto opportuno che, almeno per quanto riguarda la seconda fase di valutazione, il punteggio attribuito in base all’indicatore standardizzato di performance dipartimentale (ISPD) sia significativamente ridotto in modo da dare maggior peso alla performance progettuale del dipartimento. (Fonte: F. Matarazzo, Roars 09-03-17)

EDUCAZIONE TERZIARIA POST-DIPLOMA. DIFFERITE DI UN ANNO LE NUOVE LAUREE PROFESSIONALIZZANTI. DISTINZIONE CON GLI ITS
Si chiama educazione terziaria post-diploma. Significa che dopo la maturità non c'è solo l'università, ma una formazione tecnica e professionale avanzata. Svizzera, Germania, Francia, Regno Unito la sperimentano da tempo con grande efficacia e soddisfazione per i giovani. In Italia però la formazione professionale è considerata di serie B, ma l'università è spesso un parcheggio. Ci sono gli ITS (Istituti tecnici superiori) che in questi anni hanno rappresentato una buona formazione terziaria, coinvolgendo le aziende dei territori e i giovani senza lavoro. Sono circa 70 e formano 8 mila studenti post-diploma: studenti di eccellenza che trovano un'occupazione prima ancora di terminare gli studi. Ora succede che la ministra Stefania Giannini, poco prima di dimettersi, abbia autorizzato le università a sperimentare le lauree triennali professionalizzanti. Una buona idea, apparentemente, se non che ora le università si stanno già organizzando per promuovere nuovi corsi professionalizzanti, creando così una grande confusione. La norma rischia di aprire una concorrenza assurda e dannosa tra università e ITS, che in questi anni hanno rappresentato dei modelli eccellenti. Dopo le proteste delle fondazioni che reggono gli ITS, ma anche di Confindustria e della Flc Cgil, la ministra Valeria Fedeli ha deciso di imboccare la strada della mediazione. Da un lato ha differito, di fatto, di un anno l'avvio del nuovo sistema universitario professionalizzante: con una nota (n. 31/17) il MIUR, infatti, ha stabilito che questa nuova offerta accademica partirà nell'anno accademico 2018/19 e non più, come ipotizzato in un primo momento, il prossimo anno. Per potersi iscrivere alle lauree professionalizzanti occorrerà, pertanto, attendere il 2018. E, proprio per disegnare il migliore percorso possibile, evitando, dice il MIUR, sovrapposizioni con gli Istituti tecnici superiori, il neoministro dell'istruzione ha affidato a una cabina di regia la funzione di coordinarne i lavori e a una piattaforma informatica il compito di raccogliere la documentazione necessaria per la strutturazione dei nuovi corsi.
Ma non si dovrebbe pensare che le lauree professionalizzanti siano percorsi di serie b o assimilabili, creando confusione con gli ITS. Si tratta, infatti, di due percorsi diversi che assolvono  obiettivi diversi e che nascono per rispondere a necessità diverse. Gli ITS per soddisfare un interesse specifico delle imprese e del terziario in generale, le lauree professionalizzanti, invece, possono certo rappresentare una risposta alle richieste specifiche di qualità per le imprese, ma si candidano soprattutto a diventare il titolo di studio naturale, e ora mancante, per l'accesso alle professioni intellettuali, come avviene in altri paesi europei. (Fonte: La Stampa 16-01-17; ItaliaOggi 18-01-17)

STIPENDI DELLA PA NEL 2015 RISPETTO AL 2005. IN CODA L’UNIVERSITÀ
Dal 2005 al 2015 per i dipendenti di Palazzo Chigi gli stipendi sono cresciuti del 45%, per diplomatici e toghe del 37 e 28%, in coda a tutti l’università con l’8% (2,1% dal 2007). Vedi grafico (Fonte: Il Giornale 23-01-17)

PRODUZIONE SCIENTIFICA IN SETTORI BIBLIOMETRICI (SCIENZE E TECNOLOGIA): CRESCE LA % DEI LAVORI ITALIANI SUL TOTALE DI QUELLI INTERNAZIONALI
La percentuale di pubblicazioni italiane sul totale di quelle internazionali cresce considerando la produzione dei settori bibliometrici (essenzialmente quelli delle scienze e della tecnologia), che sono gli unici che permettono un confronto. In questi anni si è assistito all’esplosione della Cina, paese che si impone anche nel mondo della ricerca, a discapito degli USA, che mantengono una quota sempre rilevante, ma in riduzione, e di quella giapponese. Analoga contrazione avviene in Europa, in particolare per la ricerca prodotta in Francia e Germania. L’Italia invece è in controtendenza e accresce nell’ultimo biennio la propria quota percentuale. (Fonte: www.anvur.org 21-02-17)



ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE

NUOVA ASN. NUOVI VALORI SOGLIA
Roars interviene come di consueto sui criteri di valutazione dell’ANVUR per l’ASN. E come segue commenta. Con la nuova ASN, ANVUR ha deciso di fare sul serio. Nei settori non bibliometrici si è detto addio alle mediane, per rimpiazzarle con rigidi valori soglia. I candidati devono possedere tot “indicatori”, dalla cui consistenza quantitativa e qualitativa dipende non già l’esito della valutazione, ma la possibilità stessa di essere ammessi alla procedura. Chi verifica il possesso e la rispondenza al vero degli indicatori dei candidati allegati alle domande in autocertificazione? I commissari? No, un semaforino preinstallato, che compare agli occhi dei commissari nella piattaforma elettronica della valutazione. Chi fa scattare la luce rossa o verde è, dunque, il candidato, che autocertifica il possesso degli indicatori. E, se non possono farlo i commissari, chi controlla il buon funzionamento del semaforo? Nessuno (sembrerebbe). Controllare costa. Meglio affidarsi alla moral suasion delle norme penali che sanzionano la falsità dell’autocertificazione. Si controllerà la rispondenza dell’autocertificazione ai requisiti di legge, eventualmente, a valutazione terminata. La logica è sempre quella: nel caso faccia ricorso, poi si vedrà. Siamo sicuri che sia questa la scelta giusta? (Fonte: Red.ne Roars 08-03-17)


CLASSIFICAZIONI DEGLI ATENEI

LA CLASSICA DEGLI ATENEI ITALIANI SECONDO IL SOLE 24 ORE
La classifica del Sole 24 Ore viene stilata sulla base di 12 indicatori tradizionali finalizzati ad attribuire un valore tra la sinergia dei risultati di didattica e ricerca. In sostanza gli indicatori fanno riferimento a due diversi ambiti di valutazione: tre indicatori mirano a misurare i risultati della ricerca intesi come qualità dei dottorati e della produzione scientifica ma anche capacità dei singoli dipartimenti nell’intercettare finanziamenti da destinare ai propri progetti; gli altri nove indicatori invece fanno riferimento alle attività di didattica, alle esperienze lavorative offerte agli studenti durante il corso di laurea ma anche ai collegamenti internazionali di ciascun ateneo. La migliore università del 2016 in Italia è Verona, mentre in Puglia si registra l’ottima performance dell’Università di Foggia che si piazza in testa, scalando ben 5 posizioni nella graduatoria nazionale. In evidenza Salerno che, in appena un anno, è riuscita a scalare ben 10 posizioni balzando dal 26esimo al 16esimo posto. Bene anche Foggia con cinque gradini recuperati nel ranking e Campobasso, Lecce e Messina che ne recuperano quattro.
Nella lettura del ranking bisogna tenere in considerazione il valore indicato tra parentesi che corrisponde alle posizioni guadagnate in classifica o, se negativo, perse. (Fonte: http://tinyurl.com/gmaef7r 01-03-17). Segue la classificazione di 61 atenei.
1. Verona
2. Trento
3. Bologna
4. Politecnico di Milano
5. Milano – Bicocca (1)
6. Padova (-1)
7. Politecnico di Torino (5)
8. Siena (-1)
9. “Ca’ Foscari” di Venezia
10. Piemonte Orientale (3)
11. Pavia (-1)
12. Politecnica delle Marche (-4)
13. Macerata (-2)
14. Ferrara
15. Modena e Reggio Emilia (6)
16. Salerno (10)
17. Milano (-2)
18. Tuscia (-1)
19. Udine (-1)
20. Firenze (-4)
21. Iuav di Venezia (-2)
22. Stranieri di Siena (-2)
23. Torino (1)
24. Roma “Foro Italico” (-1)
25. Brescia (-3)
26. Pisa (-1)
27. Chieti-Pescata (6)
28. Roma “La Sapienza”
29. Trieste (1)
30. Perugia (5)
31. Foggia (5)
32. Varese Insubria (-5)
33. “L’Orientale” di Napoli (1)
34. Genova (-5)
35. Messina (4)
36. Roma “Tor Vergata” (4)
37. Teramo (-6)
38. Bergamo (-6)
39. Parma (-2)
40. Catanzaro (1)
41. Roma Tre (-3)
42. Camerino (1)
43. Sannio di Benevento (-1)
44. Basilicata
45. Molise (4)
46. Salento (4)
47. Cassino e del Lazio Meridionale
48. L’Aquila (5)
49. Politecnico di Bari (3)
50. Sassari (-2)
51. Stranieri di Perugia (-5)
52. Mediterranea di Reggio Calabria (-7)
53. Urbino “Carlo Bo” (-2)
54. Catania (2)
55. Palermo
56. Seconda Università di Napoli (1)
57. Napoli “Federico II” (1)
58. Bari (2)
59. Cagliari
60. Della Calabria (-6)
61. “Parthenope” di Napoli

BEST UNIVERSITIES IN ITALY 2017
Explore the top universities in Italy using data from the Times Higher Education's World University Rankings (January 3 2017) (Fonte)

 

Top universities in Italy 2017

Italy Rank
World University Rank
University
1
=137
2
=190
=3
201-250
=3
201-250
=3
201-250
=6
251-300
=6
251-300
=6
251-300
=9
301-350
=9
301-350
=9
301-350
=12
351-400
=12
351-400
=12
351-400
=12
351-400
=12
351-400
=12
351-400
=18
401-500
=18
401-500
=18
401-500
=18
401-500
=18
401-500
=18
401-500
=18
401-500
=18
401-500
=18
401-500
=18
401-500
=18
401-500
=18
401-500
=18
401-500
=18
401-500
=32
501-600
=32
501-600
=32
501-600
=32
501-600
=32
501-600
=32
501-600
=32
501-600
=32
501-600

TRE ATENEI ITALIANI FRA I PRIMI 10 NELLA CLASSIFICA DELLE “TIMES HIGHER EDUCATION WORLD’S BEST SMALL UNIVERSITIES”
Tre atenei italiani sono fra i primi 10 nella classifica delle migliori piccole università del mondo: la Scuola Normale Superiore di Pisa al quinto posto, seguita al sesto dalla Scuola Superiore S. Anna e al decimo dalla Libera Università di Bolzano, ciascuna delle tre con circa 3.000 studenti. La graduatoria - che prende in considerazione gli atenei con meno di 5.000 studenti e insegnamenti e ricerca in più di quattro indirizzi di studio - mostra in cima al podio l'americano California Institute of Technology. (Fonte: Avvenire 07-03-17)

MASTER IN BUSINESS ADMINISTRATION. LA CLASSIFICA ELABORATA DAL FINANCIAL TIMES
L'INSEAD è la business school francese che l'annuale classifica del Financial Times ha indicato al primo posto. Fondato nel 1957, l'Institut européen d'administration des affaires (INSEAD) ha formato buona parte dell'attuale classe dirigente francese con il suo campus a Fontainebleau, vicino a Parigi, al quale si è aggiunta nel tempo una seconda sede a Singapore, oltre a centri per la formazione dirigenziale di stanza ad Abu Dhabi e New York. Il corpo studentesco è composto da oltre 70 nazionalità, nessuna delle quali può contare per più del 15%. Una scelta dettata dalla volontà di promuovere la diversità culturale, che è uno dei 20 parametri esaminati dal FT, insieme con i giudizi degli studenti, la qualità del corpo docente, i progressi di carriera degli ex-alunni e il totale di pubblicazioni scientifiche. I fattori più rilevanti restano però lo stipendio medio dei diplomati e il "salary increase", l'aumento di retribuzione dopo la frequenza del Master in business administration. Nel caso dell'Insead, questi indicatori si attestano rispettivamente a 167.305 dollari e al +95%.
Al secondo posto si piazza la Stanford Graduated School of Business (quinta nel 2016), che ha formato 26 premi Nobel e numerosi manager e imprenditori, come i fondatori di Google Larry Page e Sergey Brin. A chiudere il podio è un'altra business school statunitense, la Wharton School of the University of Pennsylvania, in progresso di una posizione rispetto allo scorso anno.
Buona performance per la school of management della Bocconi: sale dal 25° al 22° posto al mondo e si conferma al 9° in Europa. Il programma della scuola milanese si distingue, tra le altre cose, per la mobilità internazionale dei suoi diplomati (5° posto al mondo), il valore delle esperienze internazionali (come scambi ed esperienze in azienda) durante il programma (decima posizione) e l'incremento nel salario post-Mba (+120%). (Fonte: Rep. A&F 05-02-17)

QS BEST STUDENT CITIES 2017. MONTRÉAL IN TESTA ALLA CLASSIFICA
Montréal, la città canadese che ospita ottimi atenei, nei quali si tengono corsi sia in inglese che in francese, si prende il primo posto nella graduatoria che premia le destinazioni più amate e desiderate dagli studenti universitari (QS Best Student Cities 2017). Finiscono per rimanere indietro sia Parigi, che si piazza seconda, sia Londra, cui spetta il terzo posto. Scorrendo le posizioni scopriamo che Seoul è al quarto posto tra le città più ambite dagli universitari, mentre sul quinto gradino della QS Best Student Cities 2017 c’è Melbourne. La sesta posizione tocca a un’altra città europea: Berlino. Scendendo di un posto nella classifica si ritorna in Asia, precisamente a Tokyo. L’unica città statunitense tra le prime dieci è, invece, Boston, che si aggiudica l’ottavo posto. La nona posizione della QS Best Student Cities 2017 spetta a Monaco di Baviera, mentre la top ten si chiude dove si era aperta, ossia in Canada. A Vancouver, infatti, va il decimo posto della graduatoria. La prima città italiana nella QS Best Student Cities 2017 è Milano, che si è piazzata 33esima alle spalle del duo Madrid-Dublino. Roma è, invece, 65esima a pari merito con Atlanta (USA) ed è l’unica altra città del nostro Paese a essere entrata tra le prime 100. (Fonte: www.universita.it 20-02-17)


DOCENTI

È LA HARD SCIENCE CHE HA PAGATO DI PIÙ IN TERMINI DI CAPITALE UMANO: I DOCENTI DI RUOLO DI AREE CUN 1-4 -23%, DI FISICA -27%
Se l’Università ha rappresentato il vaso di coccio nelle politiche economiche di tutti i governi che si sono succeduti nel Paese in questo decennio, all’interno dell’Università sono proprio i settori della cosiddetta hard science quelli che hanno pagato il prezzo più elevato, almeno in termini di perdita del capitale umano. I docenti di ruolo (ordinari, associati e ricercatori), che alla fine del 2006 erano circa 62.000, ed erano ancora in seppur modesta crescita, alla fine del 2016 si sono ridotti a circa 48.900, con una riduzione del 21%. Ma nello stesso arco di tempo i docenti di ruolo delle Aree CUN 01-04 sono passati da 10.575 a 8.101, con un calo del 23,4%, e quelli di Fisica sono passati da 2.610 a 1.898, con una riduzione che supera il 27%. Il peso complessivo della hard science (Aree CUN 1-4) nel sistema universitario è così sceso dal 17% al 16,5% (ma ricordiamo che ancora a inizio secolo tale peso superava il 18,5%), e il peso della Fisica è passato dal 4,2% al 3,9% (in questo caso partendo dal 4,7% a inizio secolo), quindi innegabilmente il costo della contrazione è ricaduto in grande misura proprio sulla Fisica. (Fonte: P. Rossi, http://www.fi.infn.it/mailinglist/notizie/pdfxbIXalgbIX.pdf 29-01-17)

CRITICHE ALLA DIDATTICA DEI DOCENTI UNIVERSITARI
Rapporto della Fondazione Agnelli e Federazione italiana editori 2015 / 2016 - La didattica in università: una ricerca nelle differenti discipline. Analisi delle modalità didattiche, degli strumenti per la verifica degli apprendimenti e dello studio individuale -.
Questa ricerca ha esplorato la didattica nel contesto universitario italiano evidenziando docenti universitari nel complesso consapevoli dell'importanza dei metodi didattici. Secondo questo rapporto mancherebbe però, nella quasi totalità dei docenti, adeguata consapevolezza delle modalità con le quali il proprio insegnamento possa contribuire alla riuscita degli studenti nell'intero corso di studi accademici, costruendo saperi integrati. Sembrerebbe inoltre scarsa la disponibilità a confronti e scambi di esperienze didattiche tra accademici, approcci che da qualche anno si cerca di promuovere tra docenti delle scuole secondarie. Docenti universitari, dunque, coinvolti in modo prioritario nelle attività di ricerca; però marginalizzando la cura dell’insegnamento. Risulterebbe una diffusa tendenza alla conservazione della modalità organizzativa delle lezioni in contesti che non incentivano l’innovazione didattica. (Fonte: http://www.ilsussidiario.net 22-01-17)

CRITICHE ALLA PROCEDURA PER L’ACCESSO ALLA CARRIERA UNIVERSITARIA
L’accesso alla carriera universitaria, o gli avanzamenti di carriera, avvengono, da quando è in vigore la c.d. legge Gelmini, in modo assai farraginoso. È innanzitutto una procedura costosa. La Camera dei Deputati, nella relazione tecnica del 29 giugno 2011, stimò un costo annuo per le procedure di abilitazione scientifica nazionale (pre-requisito per l’accesso alla docenza) pari a €17.000.000. È, poi, una procedura inefficace per contrastare il “dimagrimento” dell’Università italiana. L’ASN è, infatti, una precondizione per l’accesso al ruolo, che viene successivamente (di norma, a distanza di due-tre anni) stabilito da una commissione formata dalla singola sede. È evidente che il duplice passaggio concorsuale è un ulteriore fattore di potenziale corruzione, illegalità, nepotismo, cosa attestata dall’aumento del numero di ricorsi sia per le abilitazioni sia per i concorsi locali. In tal senso, è proprio la “riforma” dell’Università (ovvero la Legge Gelmini, che istituisce l’ANVUR) ad aver prodotto un aumento dei casi di corruzione e più in generale un aumento dei ricorsi alla giustizia amministrativa per risolvere contenziosi interni al mondo accademico. Si pensi, a titolo puramente esemplificativo, ai ricorsi fatti da direttori di riviste scientifiche al Ministero per vederle riconosciute in fascia A (diversamente è evidente che quella rivista è destinata a perire). (Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/ 27-02-17)

RIENTRO IN ITALIA DI DOCENTI E RICERCATORI. GLI INCENTIVI FISCALI IN LEGGE DI BILANCIO
La Legge di Bilancio (L. 232/2016), pubblicata sulla G.U. n. 297 del 21 dicembre 2016, tra le varie novità introdotte in materia fiscale, ha reso strutturale l’agevolazione per il rientro in Italia di ricercatori e docenti residenti all’estero, che consiste nell’esclusione dalla tassazione Irpef, al 90%, e Irap, al 100%, dei compensi percepiti nel nostro Paese da tali soggetti. Prima del 21 dicembre 2016 il beneficio, disciplinato dall’articolo 44, D.L. 78/2010, era applicabile solo se il rientro in Italia fosse avvenuto entro il 31 dicembre 2017; la Legge di Bilancio 2017 è intervenuta eliminando tale limite, rendendo così permanente l’agevolazione fiscale. Rimane confermato il carattere temporale del beneficio: l’abbattimento della base imponibile si riferisce al periodo di imposta in cui il ricercatore diviene fiscalmente residente nel territorio dello Stato e ai 3 periodi successivi. (Fonte: F. Bosetti, www.eclavoro.it 01-02-17)

CdS. LEGITTIMO CHE UN SENATO ACCADEMICO NEGHI L'ATTRIBUZIONE DEL TITOLO DI PROFESSORE EMERITO A UN PROFESSORE IN PASSATO ISCRITTO ALLA LOGGIA P2
Un professore ordinario di materie giuridiche presso l'Università degli studi di Roma “Sapienza», cessato dal servizio per limiti di età, aveva impugnato la deliberazione del Senato accademico con la quale aveva visto respingere la proposta, formulata dal Consiglio della Facoltà, di conferirgli il titolo di professore emerito. Il Tar aveva accolto il ricorso poiché aveva ritenuto fondato il motivo concernente l'incompetenza di tale organo. Il Consiglio di Stato stravolge la sentenza di primo grado. Precisa, innanzitutto, come rientri nella competenza propria del Senato accademico di un’Università degli studi pronunciarsi sulla proposta di attribuzione ad un docente del titolo in questione. L'aspetto, poi, che il diniego sia stato giustificato con il fatto che il professore designato aveva fatto parte della nota Loggia P2, costituente una loggia massonica sciolta d'autorità con la legge 25 gennaio 1982, n. 17, legittima ulteriormente la decisione. (Fonte: ItaliaOggi Sette 05-03-17)


DOTTORATO

L’OCCUPAZIONE DEI DOTTORI DI RICERCA. DATI ALMALAUREA
Gli ultimi dati raccolti da AlmaLaurea sulle sorti di 2.400 dottori di ricerca indicano che il loro tasso di occupazione a un anno dal conseguimento del titolo è dell’87% contro il 70% dei laureati magistrali. Come prevedibile i risultati migliori sono quelli di chi si è specializzato nelle scienze di base (89%) e in quelle economico/giuridiche/sociali e in ingegneria (88% entrambe); meno bene gli umanisti (81%). Ma c’è di più, oltre a trovare più facilmente un lavoro sono anche i laureati più «garantiti». Più di un terzo ha sottoscritto un contratto a tempo indeterminato (o comunque svolge un lavoro autonomo effettivo), uno su cinque a tempo determinato, uno su dieci un contratto parasubordinato e un altro uno su dieci ha ottenuto un assegno di ricerca. E chi consegue un dottorato guadagna di più: 1.493 euro al mese nette contro i 1.065 dei laureati magistrali. La maggioranza di loro lavora nell’istruzione o nella ricerca, il 18% nei servizi e l’11% nella consulenza. L’industria assorbe solo il 9% degli occupati. È il caso soprattutto degli ingegneri e degli scienziati.

IL DOTTORATO DI RICERCA EQUIPARATO ALL’ABILITAZIONE ALL’INSEGNAMENTO
Il 29 novembre del 2016 il SAESE (Sindacato Autonomo Europeo Scuola ed Ecologia), un sindacato online no-profit che opera stabilmente nel settore scolastico ed eco-ambientale a livello nazionale ed europeo, ha ottenuto dal Parlamento Europeo un provvedimento che equipara il dottorato di ricerca all’abilitazione per l’insegnamento. Tale decisione, anche se favorevole, non è però vincolante per il MIUR, che può non concedere la spendibilità del titolo di studio per insegnare in Italia. Il Saese tiene a precisare tuttavia che tale provvedimento è vincolante per gli altri stati membri Ue e forma parte integrante del diritto dell’Unione. (Fonte: www.orizzontescuola.it 23-01-17)

PRIMO DOTTORATO NAZIONALE DI RICERCA DEDICATO AGLI STUDI SULLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA
La storia del fenomeno mafioso, i rapporti tra mafia e politica, gli intrecci con l'economia e con le pratiche di corruzione. Sono solo alcuni dei temi che saranno affrontati dagli studenti del primo dottorato nazionale di ricerca dedicato agli studi sulla criminalità organizzata, con un occhio anche alla dimensione internazionale del fenomeno, ai linguaggi e alla psicologia dell'agire mafioso, ai reati ambientali e ai possibili legami con il terrorismo e con l'immigrazione clandestina.
Il corso, voluto dalla Commissione parlamentare Antimafia e dalla CRUI, la Conferenza italiana dei Rettori, si terrà all'Università Statale di Milano, e punta a formare alti profili professionali, in grado di operare in settori sensibili come il mondo della finanza, dell'informazione, delle istituzioni pubbliche e private e degli organismi di sorveglianza nazionali e internazionali. (Fonte: L’Unità 21-01-17)


E-LEARNING. CULTURA DEL DIGITALE. MOOC

UNIVERSITÀ 4.0. L'INNOVAZIONE TECNOLOGICA PER MIGLIORARE I SERVIZI DIDATTICI
All'estero con Università 4.0 si intendono quegli istituti che adottano l'innovazione tecnologica per migliorare i servizi didattici, utilizzando una multimedialità di ultima generazione a supporto dei programmi formativi. A seconda delle esigenze di studio, docenti e studenti possono attingere a risorse diverse, in un mix variabile di soluzioni: dalle LIM o dai display touch interattivi ai tablet, dalle stampanti 3D ai videoproiettori, dagli e-book ai software on line, dalle telecamere con autotracking per la registrazione delle lezioni in aula all’erogazione sincrona o asincrona in streaming a supporto dell'e-learning. Intelligenza applicativa, integrazione tecnologica, informazioni ben gestite e connessione garantita caratterizzano l'offerta formativa con un obiettivo di servizio importante per diversi motivi, culturali ed economici. L'Università 4.0, infatti, non è solo un maquillage tecnologico dell'aula ma è un progetto finalizzato alla realizzazione di nuovi ambienti didattici che sfruttano al meglio l'innovazione digitale andando incontro al pubblico di studenti 4.0. Oggi noti come millennials (coloro che sono nati tra i primi anni '80 e i primi anni 2000 nel mondo occidentale), i destinatari della formazione sono più connessi, più informati e decisamente più esigenti nei confronti della qualità dell'offerta didattica. (Fonte: L. Zanotti 16-01-17)

UNIVERSITÀ 4.0: TECNOLOGIE E SERVIZI A SUPPORTO DELLA DIDATTICA MULTIMEDIALE
Digital transformation da un lato e Millennials* dall’altro portano la didattica universitaria a ripensare l’impianto di tutta l’offerta formativa. Tra pedagogia e tecnologia l'evoluzione degli studenti universitari favorisce il rinnovamento di risorse e infrastrutture, sviluppando ambienti interattivi evoluti come cardine del servizio. L’università 4.0 si basa sul modello delle 4I: intelligenza applicativa, integrazione tecnologica, informazioni ben gestite (Big Data Management) e connessione Internet garantita. La possibilità di collegare al web le aule apre la comunicazione formativa alle innumerevoli potenzialità offerte dalla Rete. Non si tratta solo di maquillage tecnologico ma di riprogettare i nuovi ambienti della didattica, sfruttando tutte le opportunità associate all’uso delle tecnologie digitali.
In questa eGuide realizzata da NetworkDigital4 in collaborazione con Panasonic, i numeri, i trend e le tecnologie che stanno portando le istituzioni universitarie a rinnovare le proprie infrastrutture e a potenziare l'offerta.
*Millenials, o Echo Boomers, sono coloro che sono nati tra i primi anni '80 e i primi anni 2000 nel mondo occidentale.
(Fonte: www.digital4.biz dicembre 2016)

UNIVERSITÀ 4.0 PER UN'ITALIA 4.0
In Italia l'Università 4.0 fa riferimento a un preciso programma del Governo. Il Piano Calenda, annunciato nello scorso ottobre 2016, ha previsto 26 miliardi tra finanziamenti e soprattutto incentivi su un progetto nazionale intitolato Italia 4.0. In dettaglio, il mondo delle Università potrà attingere a un finanziamento di 100 milioni di euro se predisporrà dei competence center.  L'obiettivo? Avviare dei corsi specializzati e dei master dedicati alle tematiche dell’industria 4.0 che potranno formare 200mila studenti e 3mila futuri manager. I primi competence center sono partiti già alla fine del 2016 e vedono coinvolti l’università di Padova, l’università Ca’ Foscari, l’università Iuav e l’università di Verona per il Veneto, le università di Trento e Bolzano per il polo trentino mentre in Friuli Venezia Giulia il network delle Università 4.0 vede in prima linea gli atenei di Udine e Trieste e la Scuola internazionale superiore di studi avanzati. Altri competence center seguiranno nel corso di questo 2017 a Milano e Torino, sedi di due importanti Politecnici, seguiti dalla Scuola speciale Sant’Anna di Pisa, l’Università Federico II di Napoli e il Politecnico di Bari.
Altri 170 milioni di euro saranno destinati invece a incentivare la creazione di dottorati di ricerca sull’industria 4.0 (900 in tutto, di cui 100 con focus particolare sui big data), finalizzati a potenziare due particolati cluster tecnologici: Fabbrica Intelligente e Agrifood. (Fonte: L. Zanotti 16-01-17)

UNA DIDATTICA PIÙ OPERATIVA: MODELLO TEAL (TECHNOLOGY ENABLED ACTIVE LEARNING) A MISURA DI MILLENIALS*
Nuove modalità di apprendimento co-costruttive e cooperative, diversificate su più attività, supportano una didattica più operativa: si parla, infatti, di modello TEAL (Technology Enabled Active Learning), ideato nel 2003 dal MIT di Boston (e inizialmente pensata per la didattica della fisica per studenti universitari). In tutto questo la connessione è fondamentale e deve permettere, in modo selettivo e regolabile, la gestione degli accessi e regole di “prioritizzazione” del traffico, possibilmente utilizzando uno o più switch in modo da evitare eventuali collisioni sulla rete. L’Università 4.0 deve prevedere come servizi standard i proiettori interattivi, integrati a sistemi di videoproiezione come le lavagne digitali (LIM) e/o device.
L’interazione con lo strumento digitale, infatti, è noto che funziona meglio se avviene su una superficie di proiezione di grandi dimensioni: per questo motivo le Università in tutto il mondo stanno investendo maggiori risorse nell’allestimento degli auditorium e delle aule magne, mettendo la videoproiezione al servizio del maggior numero di studenti. Lo scopo è quello di gestire momenti di condivisione dei file video in funzione trasmissiva (flussi digitali che supportano la spiegazione del docente anche in modalità frontale tradizionale) ma anche in funzione collaborativa (la superficie illuminata come momento di condivisione o scambio di lavori creati separatamente per gruppi oppure come strumento di interazione diretta tra docente e studente, o tra studenti).
*Millenials: o Echo Boomers, sono coloro che sono nati tra i primi anni '80 e i primi anni 2000 nel mondo occidentale. ( (Fonte: L. Zanotti 16-01-17)

LE COMPETENZE DIGITALI. PROMUOVERE LA CULTURA DEL DIGITALE E DELL’INNOVAZIONE TRA GLI STUDENTI UNIVERSITARI
Tutti credono che le competenze digitali siano oggi importanti nel mondo del lavoro, ma poi, nei fatti, pochi si attivano davvero. Non lo fanno gli studenti, che nella maggioranza dei casi (53%) si limitano a una conoscenza da semplici utilizzatori di Internet e social media. E nemmeno le aziende si sono ancora adeguatamente attrezzate: poco più del 30% dei Manager HR ha già realizzato un piano formativo ad hoc.
Sono alcuni dei risultati della ricerca “Il Futuro è oggi: sei pronto?”, giunta alla seconda edizione, realizzata da University2Business, la società del gruppo Digital360 che punta a promuovere la cultura del digitale e dell’innovazione tra gli studenti universitari. Lo studio ha coinvolto un campione di 2628 studenti statisticamente significativo di tutta la popolazione universitaria e un panel di 168 HR manager delle principali imprese del Paese, con l’obiettivo di approfondire e confrontare la percezione degli studenti e dei responsabili delle Risorse umane sui cambiamenti della trasformazione digitale nel mondo del lavoro, nell’economia e nella società. Ecco in dettaglio alcuni dei risultati emersi. Solo il 12% degli studenti gestisce un proprio blog o un sito web e appena il 9% sa cosa significa Seo/Sem, Social Network o Google Adwords. Appena una minoranza conosce le nuove professioni del digitale come il Social Media Specialist, il Data Scientist o il SEO Specialist. Quanto alle esperienze imprenditoriali, che spesso fanno il paio con le competenze digitali, l’11% ha avuto un’idea di business e un buon 12% ha già avviato o sta per avviare una startup. E nonostante il successo di AirBnb e Uber, la maggioranza degli universitari non conosce la “sharing economy”. (Fonte 13-12-16)

GLI STUDENTI E LE COMPETENZE DIGITALI
Quanto sono diffuse le competenze digitali nel mercato del lavoro e quanto influenzano le decisioni delle aziende quando assumono nuovi dipendenti? Il mondo universitario è in grado di formare le nuove leve dotando gli studenti di queste competenze? Risponde a queste e altre domande la ricerca, giunta alla sua seconda edizione, “Il futuro è oggi: sei pronto?” realizzata da University2Business, realtà del gruppo Digital360 che ha per mission diffondere la cultura digitale e imprenditoriale tra gli studenti universitari e aiutarli a entrare in contatto col mondo del lavoro, anche attraverso lo svolgimento di attività concrete per conto delle aziende. Intervistati circa 2600 studenti universitari (campione dalle caratteristiche statisticamente rappresentative dell’intera popolazione universitaria italiana) e 168 HR manager (Human Resources Manager) di alcune delle principali imprese operanti nel nostro paese. Sul fronte delle competenze digitali (la ricerca tratta anche il tema delle competenze imprenditoriali, qui solo accennato), il quadro che ne emerge è di luci e ombre, e tuttavia è possibile rintracciare le seguenti evidenze: buona consapevolezza ma poca preparazione; le studentesse, su diversi aspetti del digitale (e dell’imprenditorialità̀) dimostrano meno preparazione dei colleghi maschi; le regioni del Sud in alcuni ambiti risultano avere un livello di sensibilità inferiore; la formazione universitaria è inadeguata. (Fonte: V. Bucci, http://www.zerounoweb.it 17-01-17)

COME UN PROFESSORE DI UNIVERSITÀ TELEMATICA DIFENDE L’E-LEARNING
Lo studente universitario è un giovane con un’avanzata formazione ed è in grado di gestire autonomamente parte degli studi. Ancora oggi in Italia, la maggioranza degli universitari acquista i testi delle varie materie e studia per proprio conto il programma, andando all’università solo per sostenere l’esame. Soprattutto gli studenti fuorisede seguono in genere questo percorso. Un professore che insegna con un corso telematico, che si collega in videoconferenza per fare un seminario  o per comunicare con uno studente, non ha quei limiti che incontra un docente che in una sala parla attraverso un microfono a degli studenti, che a volte neanche lo vedono. Se uno studente vuole parlare con me può venire in sede il martedì o il giovedì, mi può inviare un’e-mail, può collegarsi via skype dal lunedì al venerdì, ma può contattare anche per telefono o via e-mail uno dei miei capaci collaboratori. Se uno studente del primo anno di Giurisprudenza volesse seguire una lezione della mia materia, di Filosofia del diritto, in un’università tradizionale potrebbe farlo solo in certi giorni e in un’ora stabilita. Se una o più volte fosse impossibilitato a farlo, perderebbe le lezioni e non potrebbe più recuperarle. Uno studente del mio corso ha in piattaforma le lezioni, che può sentire  in qualsiasi ora o giorno della settimana. Lo studente per usufruire di servizi come i seminari e il ricevimento degli studenti deve recarsi all’università, in determinati giorni ed in certe ore e questo non avviene o avviene solo saltuariamente per la maggioranza degli iscritti. Se il docente vuole essere più reperibile e comunicare in modo più rapido e funzionale deve farlo per via telematica. Ma quest’ultima modalità è ancora considerata di mero supporto all’altra e non sempre usata adeguatamente. (Fonte: A. Moriggi, unicusano tag 24 31-01-17)

MOOC, MASSIVE OPEN ONLINE COURSES, CRESCONO. DAI 35 MILIONI DEL 2015 AI 58 MILIONI NELLO SCORSO ANNO
Sono in crescita esponenziale i fornitori di MOOC, Massive Open Online Courses, ovvero corsi aperti e resi disponibili in rete, pensati per la formazione a distanza che coinvolgono un numero molto elevato di utenti. Si è passati dai 35 milioni del 2015 ai 58 milioni nello scorso anno. Solo lo scorso anno sono stati erogati oltre 7000 corsi in oltre 700 università nel mondo. In America Latina Miriada X ha raggiunto oltre 2,7 milioni di utenti e mette a disposizione sulla propria piattaforma oltre 350 corsi; la piattaforma in lingua araba Edraak, sostenuta dalla Fondazione Regina Rania di Giordania, ha raggiunto lo scorso anno un milione di discenti. Inoltre lo scorso anno in India è stata lanciata una piattaforma nazionale Swayam. Anche nel nostro Paese il Governo ha lanciato e sta sostenendo economicamente la piattaforma nazionale EduOpen.
L’azienda Coursera rimane a livello internazionale il più grande fornitore di MOOC con oltre 23 milioni di utenti, seguita da Edx con 10 milioni di utenti, e la cinese XuetangX con sei milioni di utenti, che è tra l’altro anche la prima piattaforma non in lingua inglese in classifica.
Oggi l’utente considera molto importante poter condividere e interagire con gli altri utenti della rete. I MOOC, nella gran parte, sono ancora poco evoluti in tal senso e non permettono molte attività considerate comuni, attualmente, da chi “abita” la rete. Senza l’interazione faccia a faccia, gli studenti non riescono a esprimere le loro preoccupazioni e ricevere un feedback immediato. Inoltre, in assenza di interazione è più difficile per i docenti esprimere entusiasmo e positività per il lavoro in corso e condividere le loro emozioni, fattori che incoraggiano gli studenti a lavorare di più.
 (Fonte: www.techeconomy.it 21-02-17)

MASSIVE OPEN ONLINE COURSES (MOOC). PERCHÈ LA LORO DIFFUSIONE NON È ANCORE UN BOOM
Sono in crescita i fornitori di MOOC, Massive Open Online Courses, ovvero corsi aperti e resi disponibili in rete, pensati per la formazione a distanza che coinvolgono un numero molto elevato di utenti. Tuttavia, se non si è ancora verificato quel tanto atteso “boom” dei MOOC, che gli esperti prevedevano in tempi rapidissimi, è a causa della poca flessibilità nella personalizzazione dei corsi. Oggi l’utente, sia che si trovi In Europa sia che abiti in Cina, vuole essere centrale nella piattaforma in cui opera. Il corso può anche essere interessante, ma se manca di flessibilità e di interattività è destinato, in parte, a fallire. Tutti gli studi condotti in Teleskill e le nostre esperienze di piattaforme e-learning concordano con questo approccio: oggi l’utente considera molto importante poter condividere e interagire con gli altri utenti della rete. I MOOC, nella gran parte, sono ancora poco evoluti in tal senso e non permettono molte attività considerate comuni, attualmente, da chi “abita” la rete. E non si tratta di un “vezzo”. Senza l’interazione faccia a faccia, gli studenti non riescono a esprimere le loro preoccupazioni e ricevere un feedback immediato di supporto. Inoltre, in assenza di interazione è più difficile per i docenti esprimere entusiasmo e positività per il lavoro in corso e condividere le loro emozioni, fattori che incoraggiano gli studenti a lavorare di più.” (Fonte: www.techeconomy.it 21-02-17)

RAPPORTO DOCENTE/STUDENTI NELLE TELEMATICHE. ANCORA TRE ANNI PER ADEGUARSI
Le università telematiche avranno ancora tre anni per adeguarsi ai parametri più restrittivi sul rapporto docente/alunni. Questa la decisione definitiva della ministra dell'istruzione, Valeria Fedeli, rispetto a quanto deciso a dicembre scorso, nell'ultimo giorno del suo mandato a viale Trastevere, dalla precedente ministra Stefania Giannini. E lo ha fatto con un decreto, il n. 60/2017, che rettifica i termini del decreto datato 12 dicembre 2016 dedicato all'autovalutazione, la valutazione, l'accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio. C’era stata una levata di scudi da parte del mondo degli atenei telematici contro i nuovi criteri per l'accreditamento previsti dalla Giannini: in media dovrebbero esserci almeno sei unità di docenti ordinari ogni 150 iscritti per ottenere il via libera a un corso telematico. Con costi che praticamente supererebbero le rette: se una retribuzione media annua di un professore, infatti, è di 60 mila euro, la spesa in soli stipendi sarebbe di 360 mila euro. A fronte di rette in media di 2 mila euro l'anno, l'operazione per un'università telematica sarebbe dunque in perdita, a favore degli atenei che invece operano in modalità mista. Il nuovo parametro doveva scattare dal 2017/2018, ora invece si va al 2020/2021. (Fonte: A. Ricciardi, ItaliaOggi 09-02-17)


FINANZIAMENTI

FONDI E ASSUNZIONI PER L’UNIVERSITÀ. 180 DIPARTIMENTI D’ECCELLENZA. LE PROSPETTIVE 2017-18 SECONDO LA MINISTRA FEDELI
«Nel 2017 il Fondo di finanziamento ordinario delle Università italiane supererà i 7 miliardi, con un incremento dovuto alla somma degli interventi per il diritto allo studio, l'orientamento e la ricerca di base (rivolto a ricercatori e ad associati), mentre nel 2018 la somma sarà di 7,3 miliardi, +4,2% rispetto al 2017 e +6,1% rispetto al 2016, grazie all'afflusso di ulteriori risorse». Lo ha detto la ministra dell'Università e della ricerca Valeria Fedeli, inaugurando a Napoli l'anno accademico dell'Università Parthenope. «In questo modo - ha aggiunto il ministro - il Fondo di finanziamento ordinario tornerà a sfiorare la quota di 7,4 miliardi di euro del 2009». «Tra poche settimane - ha confermato la titolare del Miur - si concluderanno i due piani straordinari di assunzioni varati con la Legge di Stabilità 2016, per 861 ricercatori universitari, 216 ricercatori negli Enti Pubblici di Ricerca vigilati dal Miur, e per le chiamate dei professori di I fascia negli Atenei italiani. Nel corso del 2017 - ha detto ancora la ministra dell'Università - come prevede la Legge di Bilancio 2017, saranno completate la regolamentazione e la commissione per dare seguito al progetto di finanziamento per i migliori dipartimenti universitari, i cosiddetti 180 "dipartimenti di eccellenza"». Si tratta - per la ministra - di «un nuovo "piano straordinario" per i giovani ricercatori. Che, insieme ai precedenti provvedimenti sulla liberalizzazione del turnover consentirà, per almeno il 25% dei fondi, di assumere nuove figure a tempo determinato. Inoltre fino al 70% delle risorse disponibili, inclusi i punti-organico necessari, potranno essere impiegate per assumere personale». Infine La ministra cala un’altra carta, ossia «prima dell’estate sarà varato il nuovo Fondo per il finanziamento delle attività base di ricerca, pari a 3 mila euro all’anno per i migliori 15 mila ricercatori e professori associati in servizio nelle università statali». (Fonte: Il Mattino 18-02-17)

COME GRAZIE A TRE FORMULE GLI ATENEI DEL NORD RICEVONO PIÙ FONDI E PIÙ LIBERTÀ D'ASSUMERE A PARITÀ DI ISCRITTI
Tra il 2015 e il 2016 il tetto al turnover nelle università è passato dal 50% al 60% e quest'anno sarà dell'80%. Tali valori vanno rispettati come media; ma per il singolo ateneo la possibilità di assumere professori e ricercatori va verificata in base a una formula complessa nella quale entrano in gioco i finanziamenti dei privati e le tasse pagate dagli studenti. Il risultato è che nel 2015 c'era una distanza Nord-Sud nel turnover consentito di 17 punti (35% al Sud e 52% al Nord) e nel 2016 la distanza si è confermata a 17 punti (47% al Sud e 64% al Nord). E quella sul turnover è una formula che intrappola gli atenei del Mezzogiorno per ragioni che nulla hanno a che fare con quanto accade all'interno delle mura universitarie e che invece molto dipendono dal contesto. Il Mattino mette a confronto le due più antiche istituzioni universitarie d'Italia.
A parità di iscritti, l'Alma Mater di Bologna incassa dalle famiglie 118 milioni mentre la Federico II di Napoli soltanto 77 milioni. In più, Bologna attira fondi privati per 6 milioni e la Federico II per appena un terzo. Il risultato è che Bologna appare più virtuosa del maggiore ateneo del Mezzogiorno, mentre le distanze negli incassi sono interamente spiegabili con le differenze economiche tra Emilia Romagna e Campania. Il risultato è che con le regole sul turnover scritte nel 2012 dal ministro Profumo - e applicate dai ministri Carrozza e Giannini - a Bologna sono andati via 406 prof e ne sono stati assunti 226, mentre alla Federico II nello stesso periodo sono andati via in 478 ed entrati in 131 (in termini di «punti organico»). Una seconda trappola riguarda una parte del fondo premiale dell'Ffo, quella relativa all'internazionalizzazione. Più gli studenti intraprendono i viaggi Erasmus, più l'ateneo è premiato. Un principio ancora una volta sganciato dalla qualità dell'ateneo perché la scelta se effettuare o no i costosi viaggi di studio all'estero è legata al reddito familiare più che agli stimoli universitari. La terza trappola ha un effetto economico molto forte e crescente nel tempo ed è relativa al costo standard per studente, una riforma entrata in vigore nel 2014. Il costo standard, in base al quale si conteggia la parte principale dell'Ffo si calcola sui soli studenti in corso mentre il valore ai fini del finanziamento dello studente fuori corso è zero. Nel Mezzogiorno gli studenti avvertono meno la pressione del concludere in tempo gli studi perché ci sono meno offerte lavorative ed è molto frequente che ci si laurei con ritardo rispetto al piano di studi. Negli atenei del Nord, invece, sono iscritti molti meridionali i quali, proprio perché sostengono i costi del vivere fuori sede, si laureano con sollecitudine abbassando il numero medio dei fuori corso.
Tirando le somme, grazie a tre formule gli atenei del Nord ricevono più fondi e più libertà d'assumere a parità di iscritti. (Fonte: Il Mattino 19-02-17)

IL SISTEMA DI FINANZIAMENTO DEL DSU (DIRITTO ALLO STUDIO UNIVERSITARIO)
Per rendere efficace la politica per il DSU occorrerebbe attuare una serie di correttivi, primo fra tutti la revisione del sistema di finanziamento affinché nanziano le borse di studio: il Fondo statale integrativo (FSI), ripartito tra le Regioni in misura proporzionale alla spesa sostenuta per borse, al numero di idonei e al numero di posti letto gestiti (detto in estrema sintesi); il gettito della tassa regionale per il DSU, pagata da tutti gli studenti eccetto gli idonei; le Regioni stesse, con risorse proprie. Perché allora non funziona questo sistema? In primo luogo perché l’ammontare del Fondo statale non è stabilito in base al fabbisogno ma essenzialmente sullo storico; in secondo luogo, perché la compartecipazione delle Regioni al finanziamento delle borse è lasciata alla loro completa discrezionalità, i governi regionali decidono se e di quanto integrare le risorse statali (e l’esperienza passata ha dimostrato che quando aumentano le risorse statali o le entrate da tassa DSU, quelle proprie regionali diminuiscono). Nel 2014/15, complessivamente le tre fonti hanno assicurato un finanziamento di 510 milioni di euro per le borse di studio, di cui 162,6 milioni provenienti dal Fondo statale integrativo. Si tratta di un ammontare irrisorio in comparazione a 1,9 e 2,2 miliardi di euro destinati, rispettivamente, nello stesso anno da Francia e Germania al sostegno agli studenti.
Nella legge di bilancio 2017 il Fondo statale integrativo (FSI) è stato incrementato di 50 milioni di euro a decorrere dal 2017, ciò che nei fatti equivale a stabilizzarlo a circa 217 milioni di euro, cifra ampiamente insufficiente e ancora una volta non fondata sul fabbisogno necessario a coprire la totalità delle borse di studio. Tuttavia, nella stessa legge di bilancio, si dà il via ad una revisione dei criteri di riparto del Fondo al fine di rendere effettivo il mai attuato art. 18 del D.Lgs. n. 68/2012 secondo cui: l’assegnazione statale deve avvenire in misura proporzionale al fabbisogno finanziario delle regioni; le risorse proprie delle regioni debbono essere in misura almeno pari al 40 per cento di quanto ricevuto dallo Stato. Si afferma, infatti, che entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge di stabilità il MIUR emanerà (di concerto con il MEF) un decreto per determinare i fabbisogni finanziari regionali. La strada è aperta, l’auspicio è che venga percorsa rapidamente fino in fondo. (Fonte: F. Laudisa, Roars 02-03-17)

PENALIZZA GLI ATENEI PIÙ VIRTUOSI IL COSTO STANDARD COL FRENO TIRATO
Come noto il costo standard è il “prezzo giusto” calcolato per ogni ateneo in base principalmente a due parametri: la domanda, rappresentata dal numero degli studenti in corso, e l’offerta, misurata con il numero di docenti necessari a realizzare i corsi proposti dall'ateneo, i servizi didattici e amministrativi, i costi di funzionamento, ecc. All’inizio si era ipotizzato di arrivare a una crescita graduale, del 20% l’anno, per arrivare al 100% della quota base calcolata sul costo standard in cinque anni. «Invece – dice il rettore dell’UniMore - siamo al terzo anno, e anziché essere al 60% siamo fermi al 28%. Questo penalizza gli atenei che hanno registrato un incremento rilevante di immatricolazioni, come quello di Modena e Reggio Emilia che, ribadisco, cresce oltre la media. Il mancato rispetto di questo accordo ci vede penalizzati sul fronte delle risorse. E questo ci impedisce - segnala Andrisano - di espanderci in termini di docenti, così come di spazi, di strutture e di laboratori, che dovrebbero invece essere già pronti per garantire a queste nuove matricole una didattica adeguata e all'altezza della nostra tradizione». (Fonte: M. Bortoloni, IlSole24Ore 09-02-17)

IL FINANZIAMENTO PUBBLICO ALLE UNIVERSITA STATALI NON ACCONTENTA NÉ A NORD NÉ A SUD
La carestia finanziaria degli anni della crisi ha colpito soprattutto nel Mezzogiorno, dove il confronto 2009-2016 indica un taglio del 19% contro il 12,3% subìto dagli atenei del Nord, ma la geografia si capovolge quando si guarda al rapporto tra fondi pubblici e studenti iscritti (i costi standard si basano invece solo sugli studenti regolari). Da questo punto di vista iI flnanziamento agli atenei meridionali è rimasto praticamente invariato (-0,3% negli ultimi otto anni), mentre al Nord è sceso del 9,4%. La spiegazione è semplice: negli stessi anni le università meridionali hanno visto ridursi la propria platea di studenti del 18,7%, mentre al Nord gli iscritti sono scesi del 3,2%. Il problema ha due corni. Al Sud, nonostante qualche segnale incoraggiante come i miglioramenti delle performance nella ricerca appena registrato dall'ANVUR, l'impoverimento del conto economico insieme allo spopolamento delle aule ipoteca i tentativi di rilancio. Negli atenei più competitivi del Nord, invece, le clausole di salvaguardia, introdotte ogni anno per non aggravare ulteriormente gli squilibri, impediscono di far funzionare a pieno ritmo i criteri dei costi standard e del finanziamento legato ai risultati di didattica e ricerca, che pure l'università ha coraggiosamente introdotto molto prima degli altri comparti della Pubblica amministrazione. Con il risultato di scontentare tutti. (Fonte: G. Trovati, IlSole24Ore 06-03-17)


LAUREE-DIPLOMI-FORMAZIONE POST LAUREA-OCCUPAZIONE

I "SOVRAISTRUITI", ALMENO NEI PRIMI ANNI SUCCESSIVI AL CONSEGUIMENTO DEL TITOLO, SONO PIÙ DI 400MILA
Solo il 25,3% degli italiani fra i 30 e i 34 anni, secondo Eurostat, ha un titolo accademico in tasca, rispetto alla media del 38%. D’altro canto, i pochi che riescono a raggiungere il traguardo faticano a trovare un lavoro o lo ottengono non in linea con il proprio curriculum: appena il 53,9% è occupato a tre anni dal titolo (rispetto all'82% della Ue) e i laureati rappresentano la fetta maggiore dei giovani "overeducated", quelli cioè troppo istruiti rispetto alle competenze necessarie per svolgere le mansioni assegnate. Dal report realizzato dal centro studi Datagiovani per Il Sole 24 Ore risulta che i "sovraistruiti", almeno nei primi anni successivi al conseguimento del titolo, sono più di 400mila su una platea di 1,8 milioni di lavoratori, considerando 1,1 milioni di laureati tra i 25 e i 34 anni e 700mila diplomati tra i 20 e i 24. Tra i primi si riscontra la maggior diffusione della "overeducation", con un lavoratore su quattro in questa condizione (per un totale di quasi 300mila giovani), mentre si scende abbondantemente al di sotto del 20% per i diplomati (117mila). Dai numeri emerge che il legame con la crisi economica è stretto: il tasso di disoccupazione è salito per i diplomati dal 17,9% del 2008 al 29,8% del 2016 e per i laureati dal 9,4% al 14,1%.
Per gli occupati, l'iperqualificazione è passata dal 13,9% al 17,6% per i diplomati e dal 23,7 al 25,6% per i laureati: un fenomeno più frequente al Nord, dove si concentrano le maggiori chance di lavoro e dove dunque si hanno più possibilità di "adattarsi", per scelta o necessità, a
lavori non allineati al proprio bagaglio di conoscenza. (Fonte: F. Barbieri, IlSole24Ore 16-01-17)

BRAIN DRAIN. UN LAUREATO ITALIANO SU VENTI (4,7%) RISIEDE ALL’ESTERO A QUATTRO ANNI DALLA LAUREA
I dati Istat 2015 sui laureati italiani indicano che un laureato italiano su venti (4,7%) risiede all’estero a quattro anni dalla laurea. Equivale a dire che ogni anno 14mila laureati migrano stabilmente all’estero (peraltro il dato è probabilmente sottostimato perché l’indagine Istat non raggiunge tutti i laureati che migrano). Ancora più eclatante è il fatto che il tasso di emigrazione all’estero è raddoppiato rispetto alla precedente indagine di quattro anni fa: dal 2,4 al 4,7%. L’Europa continentale (soprattutto Germania e Francia), la Gran Bretagna e i paesi scandinavi sono le mete preferite, mentre la migrazione nel Sud o Est Europa e quella extra-europea restano minoritarie. I laureati che migrano provengono più spesso da università del Nord Italia e dalle lauree scientifiche, come matematica e fisica, da ingegneria e informatica oppure hanno una laurea in lingue o studi internazionali. Si sono diplomati più spesso in un liceo, hanno ottenuto più frequentemente un voto di 110 e lode e hanno più probabilità della media di aver frequentato programmi di scambio internazionale durante gli studi universitari (generalmente, l’Erasmus). Le differenze rispetto a chi resta non sono molto forti, ma nel complesso è difficile sostenere che il nostro paese esporti laureati di scarso valore di cui non si sentirà la mancanza (come sembrava intendere il ministro del lavoro). Utilizzando la tecnica statistica del propensity score matching, abbiamo confrontato i redditi netti di chi emigra e di chi resta, aggiustati per il costo della vita nei paesi di destinazione. Ebbene, chi emigra guadagna il 36% in più (dato in crescita rispetto al valore del 27% registrato nel 2011). Non è solo una questione di redditi. I nostri modelli statistici indicano che chi emigra all’estero svolge più spesso lavori più qualificati (+6,8%) e percepisce di avere migliori opportunità di carriera (+21%). In sostanza i dati raccontino qualcosa di significativo sulla drammatica incapacità del nostro paese di creare opportunità di lavoro qualificato. (Fonte: G. Assirelli, C. Barone e E. Recchi, lavoce.info 13-01-17).
Un commento all’articolo: Come spesso succede, si parla di percentuali di guadagno maggiori, senza prendere in considerazione il diverso costo della vita dei paesi in cui si emigra. Ed anche quando tale costo non è superiore al nostro, il maggior guadagno viene eroso dai costi legati a una vita lontano dalla propria famiglia. Il vero motivo è una maggior possibilità di carriera e comunque un'esperienza di lavoro che potrebbe essere utile se si dovesse rientrare in Italia. (M. La Colla 13-01-17)

LE LAUREE PIÙ UTILI PER TROVARE LAVORO
Rispetto alla media europea il numero degli italiani tra i 30 e i 34 anni in possesso di una laurea è molto sotto: 25,3% contro il 38%. Eppure in Europa difficilmente i dati sulla disoccupazione giovanile si avvicinano ai nostri (a tre anni dalla laurea in Europa lavora l’82% dei giovani, in Italia il 53,9%). La risposta è che molto dipende dall’indirizzo accademico scelto. Strumentalmente alla ricerca dell’occupazione esistono allora lauree più o meno utili. Se appare ormai chiaro che gli studi umanistici abbiano un’utilità più scarsa nella ricerca del lavoro, appare altrettanto chiaramente il primato indiscusso di Ingegneria. Secondo dati AlmaLaurea, infatti, l’86,1% degli ingegneri trova lavoro a un anno dalla laurea, battendo addirittura i medici (85,6%) e i colleghi del settore scientifico e chimico-farmaceutico (rispettivamente 83,5% e 79,7%). In seconda e terza battuta i titoli più efficaci nel trovare lavoro oggi sono quelli di educazione fisica (79,7%), di ambito economico-statistico (75,4%), dell’insegnamento e della formazione (69,6%). Chiudono la classifica delle prime 9 lauree che con cui è più facile trovare lavoro Agraria e Medicina Veterinaria (68,2%) e il settore linguistico (68,1%). (Fonte: dati AlmaLaurea 27-01-17)

PARERE FAVOREVOLE DA COMMISSIONE SANITÀ SENATO AI RIMBORSI AGLI EX SPECIALIZZANDI IN MEDICINA
Parere favorevole dalla commissione Sanità del Senato al disegno di legge sui rimborsi per gli ex specializzandi. Il provvedimento punta a chiudere una volta per tutte il maxi-contenzioso tra i medici, che chiedono le borse di studio negate in violazione delle direttive dell’Ue durante la scuola di specializzazione in Medicina nel periodo compreso tra il 1978 ed il 2006, e lo Stato.
All'interno del loro parere, i senatori della XII commissione hanno posto due condizioni: che il testo dovrà essere in grado di garantire la definitiva chiusura del contenzioso, assicurando un equo ristoro alla totalità dei soggetti aventi titolo e che l'indennizzo sia riconosciuto indipendentemente dall’avvenuta presentazione di domanda giudiziale per il riconoscimento retroattivo della remunerazione o per risarcimento del danno; e che, per quanto riguarda la platea degli aventi diritto, venga garantita la coerenza con quanto previsto dalla direttiva 82/76/CEE. (Fonte: quotidianosanita.it 02-02-17)

APPROVATA LA RIFORMA DELLA RESPONSABILITÀ MEDICA
La Camera ha pronunciato il sì definitivo sulla riforma della responsabilità medica che ridisegna le regole per pazienti, medici, ospedali e assicurazioni. Il testo del ddl Gelli, recante "Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie", rispecchia la doppia finalità della legge, tesa a "conciliare l'esigenza di garantire la sicurezza delle cure a tutela dei pazienti con quella di assicurare maggiore serenità agli esercenti la professione sanitaria, che al momento subiscono gli effetti di un enorme contenzioso, che a sua volta determina effetti devastanti" a causa del ricorso "alla cosiddetta medicina difensiva". (Fonte: M. Crisafi, www.StudioCataldi.it 06-03-17)


RECLUTAMENTO

20.000 MILA POSTI DI RUOLO. IL RECLUTAMENTO STRAORDINARIO NECESSARIO SECONDO 16 SIGLE SINDACALI
Sul precariato universitario hanno promosso un'iniziativa nazionale diverse sigle sindacali che
hanno diffuso un documento in cui, tra l'altro, è scritto: "Per assicurare all'Università l'indispensabile ricambio generazionale, pena la sua completa desertificazione, e per dare risposte adeguate e immediate alle migliaia di ricercatori precari, si ribadisce che è necessario un reclutamento straordinario attraverso il bando di 20.000 posti di ruolo (4000 l’anno per cinque anni), così da riportare il numero dei docenti universitari a quello del 2008, riavvicinando l’Italia
alla media europea nel rapporto tra numero dei docenti/ricercatori e numero degli abitanti."

POLITICHE DI GESTIONE DEL RECLUTAMENTO DEL PERSONALE DOCENTE
Andrea Mariuzzo in un articolo su Il Mulino (‘Il reclutamento dei docenti universitari’) si occupa delle politiche di gestione del reclutamento del personale docente dei nostri atenei con uno sguardo di lungo periodo. Mi limito ad evidenziare due passaggi, uno all’inizio e uno alla fine, dell’articolo.
“Rigidità nel controllo centrale delle risorse messe a disposizione, staticità negli organici e autoreferenzialità nella «riproduzione» dei settori disciplinari anche di fronte a domande sociali di segno opposto, sono elementi che caratterizzano nel lungo periodo la gestione degli ingressi in ruolo dei professori universitari, e che sono sopravvissuti agli interventi di riforma complessiva del settore, spesso giustificati di fronte all’opinione pubblica proprio dalla necessità di rivedere in profondità criteri e ritmi di selezione del personale. Comprendere le radici del problema con uno sguardo di lungo periodo può essere il punto di partenza per una diagnosi più corretta delle criticità e, forse, per una prognosi più efficace di quelle succedutesi nell’ultimo trentennio”. ...
“In generale, nel campo della selezione del personale e del suo adeguamento quantitativo e qualitativo alle necessità della propria «committenza» (la società, con la sua domanda di conoscenza avanzata in campo economico, civile e degli interessi culturali), il sistema universitario italiano soffre di difficoltà croniche. Esse sono determinate dal persistere di un equilibrio inefficiente tra un governo centrale nel contempo inadeguato all’elaborazione rapida ed efficace di nuove politiche di adeguamento e geloso delle proprie prerogative di direzione e di controllo normativo e finanziario, e attori locali, tanto la direzione delle sedi quanto la comunità degli studiosi, attrezzati per la continua ricontrattazione delle proprie posizioni immediate piuttosto che per l’offerta di orientamenti di più ampio respiro. Per decenni il persistere di questi tratti e dei loro effetti frenanti sull’evoluzione del corpo accademico si è imputato alla refrattarietà dei protagonisti della vita universitaria a una riforma complessiva del sistema. Però, da quando gli interventi sono cominciati, susseguendosi dagli  anni Ottanta al ritmo di uno ogni cinque-sei anni in media, essi sono risultati sempre insoddisfacenti, proprio perché nella messa in opera delle nuove norme non si è mai messa in discussione la sostanza di prassi e relazioni precedenti, e il tentativo di ricomporre il confronto di esigenze tra le parti interessate al reclutamento universitario nell’elaborazione strategica di una precisa linea politica è regolarmente fallito. L’opposizione alle attuali modalità di selezione della docenza potrà essere davvero efficace nel proporre una prospettiva progettuale alternativa, che superi la tentazione del ritorno a un passato idealizzato, solo tenendo conto della necessità di sciogliere questi nodi”. (Fonte: A. Mariuzzo, Il Mulino n. 1, 05-03-17)

RECLUTAMENTO. PER I CONCORSI APERTI UN NUOVO RINVIO DI DUE ANNI
Il decreto Milleproroghe fa slittare ancora di due anni il sostanziale obbligo di concorsi aperti nelle Università italiane. Si sarebbe dovuto concludere il 21 dicembre di quest’anno il periodo transitorio - sei anni - nel quale gli Atenei hanno potuto, in deroga alle norme sui concorsi, procedere a concorsi interni «fino alla metà dei posti disponibili» riservati sia a ricercatori a tempo indeterminato sia a professori associati. Per loro la promozione è una questione interna, senza la concorrenza di altri colleghi che lavorano in altri Atenei. Per avere concorsi aperti a tutti gli aspiranti abilitati si dovrà arrivare al 2020. (Fonte: CorSera 02-03-17)


RICERCA

RICERCA. IL BREVETTO DEL SECOLO: CRISPR/CAS9. SFIDA A TRE PER LA SCOPERTA CHE PROMETTE DI RIVOLUZIONARE LE SCIENZE DELLA VITA
L’oggetto del contendere è una nuova tecnica di modificazione genetica estremamente versatile, facile da usare e persino economica. Si tratta del CRISPR/Cas9. L’acronimo sta per l’enzima prodotto dal gene Cas9 e i Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats, le ripetizioni palindromiche di gruppi di Dna estraneo disposti a intervalli regolari. CRISPR incarna il sogno di qualunque scienziato. Funziona grazie a una proteina programmabile, capace di indirizzarsi in punti precisi del genoma e correggerlo, lettera per lettera. Possiamo immaginarla come un minuscolo correttore di bozze, bravissimo a trovare i refusi nel testo del Dna e porvi rimedio. Chi ha inventato questa meraviglia? Fino a pochi giorni fa quasi tutti avrebbero risposto indicando le autrici di uno studio eseguito sui batteri e pubblicato sulla rivista Science nel 2012: l’americana Jennifer Doudna e la francese Emmanuelle Charpentier. Ma l’Ufficio brevetti americano ha dato una risposta diversa, designando l’autore di una pubblicazione successiva incentrata sulle cellule degli organismi superiori: Feng Zhang. Le due ricercatrici hanno già fatto man bassa di premi e di gloria: dopo il Breakthrough Prize (3 milioni di dollari a testa), hanno vinto il Gruber Genetics Prize (500 mila dollari) e il Japan Prize (450 mila dollari). Ma il giovane talento cinese naturalizzato americano si è aggiudicato il primo e il secondo round nella partita per i diritti di proprietà intellettuale. Così ha deciso la corte di Alexandria, in Virginia, chiamata a sbrogliare la matassa per conto del Patent office a stelle e strisce. A fronteggiarsi non ci sono solo i tre scienziati in carne e ossa ma anche le loro blasonate istituzioni. In particolare l’Università di Berkeley, dove insegna Doudna, e il centro legato ad Harvard e al MIT dove lavora Zhang (Broad Institute). Mercoledì 15 febbraio scorso tre giudici del Patent Trial and Appeal Board hanno confermato che i brevetti della tecnica di gene editing CRISPR-Cas9 sono di proprietà del Broad Institute, un centro affiliato ad Harvard e MIT. (Fonte: www.nytimes.com 15-02-17; A. Meldolesi, CorSera 17-02-17)

RIVISTE SCIENTIFICHE CHE MILLANTANO STANDARD ACCADEMICI, MA CHE A PAGAMENTO PUBBLICANO QUALSIASI ARTICOLO
Da qualche anno, accanto alle frodi classiche (fabbricazione, falsificazione e plagio), la credibilità della comunicazione scientifica deve affrontare una nuova minaccia: le riviste che millantano standard accademici, ma che, invece, pubblicano qualsiasi articolo a pagamento. Jeffrey Beall, bibliotecario dell’università del Colorado, le ha battezzate riviste “predatorie” e dal 2010 redige una lista che, non senza problemi e controversie, prova a catalogarle. John Bohannon ne ha testata l’affidabilità in un esperimento i cui risultati sono stati pubblicati su Science: ha inviato un articolo chiaramente artefatto a un centinaio di riviste della lista. Solo il 16 per cento l’ha rifiutato, mentre l’84 per cento l’ha accettato senza alcuna revisione.
Un lavoro mostra che l’Italia non è immune al problema. Incrociando i curricula di 46mila ricercatori che hanno partecipato all’abilitazione scientifica nazionale con le riviste della lista di Beall, sono stati identificati circa 6mila articoli ivi pubblicati nel periodo 2002-2012, lo 0,3 per cento del totale. L’economia e il management sembrano essere i settori dove il problema è più grave. Complessivamente, circa il 5 per cento dei ricercatori del campione ha almeno una pubblicazione predatoria e, a parità di altre condizioni, la percentuale è più alta fra i più giovani e fra chi lavora nelle università meridionali. (Fonte: M. F. Bagues, M. Sylos Labini e N. Zinovyeva, lavoce.info 17-01-17)

IL PROGETTO DELL’HUMAN TECHNOPOLE E L’IIT
Il primo attore del progetto dell’Human Technopole (HT) è stato individuato nell’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia), un ente di ricerca creato su iniziativa di Giulio Tremonti nel 2003, finanziato direttamente dal MEF, con natura giuridica di fondazione. Sarà sufficiente ricordare che, mentre l’originario obiettivo era creare una struttura che favorisse il trasferimento tecnologico e la ricerca industriale, nei fatti l’IIT è diventato un ente quasi generalista che fa ricerca al pari di enti di ricerca e università pubbliche, ma con risorse garantite direttamente dal MEF e senza i vincoli cui sono sottoposte queste istituzioni. La missione originaria di sostegno alla ricerca industriale non è mai stata rispettata e il sistema delle imprese contribuisce solo al 3% del bilancio di IIT che, peraltro, concorre anche per i finanziamenti europei e privati come gli atenei e gli enti di ricerca. Per di più, il 1° luglio 2008, l’IIT ha ricevuto in dotazione il patrimonio della Fondazione IRI (legge 133/2008). Le sole poste finanziarie della Fondazione IRI ammontavano nel 2008 a quasi 51 milioni di euro, più investimenti in obbligazioni per circa 80 milioni, cui vanno aggiunti gli interessi. Si trattava di soldi pubblici, visto che provenivano dalle spoglie della più grande holding industriale pubblica del mondo. Il nuovo polo (HT), benché interamente finanziato dallo Stato, avrà la natura giuridica di fondazione privata e, come l’IIT, non sarà sottoposto né all’obbligo di trasparenza dei bilanci, delle procedure e dell’assegnazione degli incarichi, né alle linee politico scientifiche che orientano le scelte dei progetti da finanziare. La Legge di stabilità, 2017 ha tentato di correggere il tiro e di rispondere ad alcune delle perplessità nate intorno al progetto, a partire dal ruolo dell’IIT, creando un’ennesima fondazione di diritto privato a cui affidare le risorse stanziate per il Technopole. La fondazione dovrebbe rapportarsi con l’IIT che rimane il primo soggetto partner della costituzione del nuovo polo scientifico. Un decreto del Presidente del Consiglio determinerà i rapporti della nuova fondazione con l’IIT e il trasferimento alla fondazione delle risorse residue per la realizzazione in area Expo di progetti scientifici e di ricerca già attribuiti all’IIT. Tuttavia, i nodi di fondo restano irrisolti, a partire da quello fondamentale: a quale scelta di politica della ricerca risponderà il Tecnopolo? In definitiva, si è scelto di sottrarre risorse al corpo già esangue delle nostre infrastrutture per drenarle verso realtà che dovrebbero nascere “pure” senza le patologie che il sistema della ricerca e dell’università hanno incubato negli anni. Si tratta di una visione che si auto-accredita come rivoluzionaria e innovativa ma che nei fatti ha prodotto semplicemente un progressivo indebolimento nella capacità del nostro paese di fare ricerca. (Fonte: F. Sinopoli, Roars 24-01-17)

BUONA RICERCA, POCHI BREVETTI
La ricerca di eccellenza, in ingegneria o farmaceutica, in Italia non manca: siamo ottavi al mondo per pubblicazioni. Precipitiamo al diciassettesimo posto per brevetti, il solo MIT di Boston ne deposita quanto tutti i nostri atenei. Che in un anno producono in media solo due aziende e mezza, i cosiddetti spin-off. Il trasferimento tecnologico, il canale che porta l'innovazione verso il sistema produttivo, è interrotto. Il fatto è che per diventare professori la (lunga) strada è una sola: pubblicare. In altri Paesi chi deposita brevetti viene premiato, in Italia perde tempo. Sui fondi pubblici che un'università riceve, del resto, l'efficacia della terza missione, la valorizzazione della ricerca sul mercato, conta poco. Gli uffici dedicati al trasferimento hanno in media 3,6 dipendenti, in quello dell'Università di Lovanio, Belgio, sono in 82. «Diventa un modo per far sopravvivere la ricerca», ammette Alberto Silvani, che lo dirige al CNR, 15 persone contro 10mila ricercatori e un budget «drasticamente tagliato». (Fonte: La Repubblica 19-01-17)

RICERCA. A PROPOSITO DI FONDO PREMIALE E DI RICERCA PIÙ COOPERATIVA E MENO COMPETITIVA
Nella conversazione con il fisico Francesco Sylos Labini (FSL) di Francesco Suman e Olmo Viola (pubblicato su Micromega ) è stata posta a FSL la seguente domanda: Come si potrebbe arrivare alternativamente a una ricerca più cooperativa e meno competitiva? Segue parte della risposta.
FSL: Ci sono varie questioni che s’intrecciano: (1) la parte premiale del fondo di finanziamento ordinario è un nome di orwelliana memoria. Non c’è alcun fondo premiale, c’è il fondo ordinario decurtato del 20% rispetto al 2008. Una parte di questo fondo è chiamata premiale, ma appunto non è un nome corretto perché la parola premio fa immaginare qualcosa in più. Invece si tratta di qualcosa che è molto meno per molti e qualcosa poco in meno per pochi altri. Tutti gli atenei hanno subìto un taglio delle risorse (in una situazione in cui il finanziamento già non era al pari dei paesi con cui vorremmo competere), ma molti l’hanno subìto più di altri. In questa situazione la valutazione è stata usata come uno strumento per drenare risorse ad alcuni atenei, in particolare quelli del Centro Sud, per trasferirli agli atenei del Centro Nord. (2) I criteri e le modalità con cui è stata fatta la ripartizione del fondo premiale della VQR sono da una parte completamente arbitrari, cioè non corrispondono affatto alla “misura” della “qualità” della ricerca, e dall’altra non trovano riscontro in alcun altro esercizio di valutazione nazionale effettuato sul pianeta Terra. (3) Nel Regno Unito, ad esempio, non si mettono in competizione per risorse scarse le università della Scozia con Oxford e Cambridge, ma si è diviso il paese in tre macroregioni per non creare degli squilibri geografici, come sta invece accadendo da noi. (4) La VQR è un esempio di governo attraverso i numeri: la politica scientifica e dell’istruzione superiore in un paese avanzato non può essere fatta in questo modo e soprattutto non può essere lasciata nelle mani di gente incompetente che la interpreta in questo modo. (5) La risposta alla domanda “Come si potrebbe arrivare alternativamente a una ricerca più cooperativa e meno competitiva?” è semplice: distribuire risorse attraverso progetti a chi è capace di proporre idee innovative. Bisogna finanziare progetti di diversa natura lasciando ampi spazi ai giovani (Fonte: F. Sylos Labini, Roars 21-01-17)

HORIZON 2020: PUBBLICATO IL SECONDO RAPPORTO ANNUALE DI MONITORAGGIO
La Commissione europea ha recentemente pubblicato il Rapporto 2015 di monitoraggio del Programma Horizon 2020, nonché una sintesi dei dati relativi al biennio 2014-2015 del programma.
In totale, le domande ricevute dai diversi Paesi UE nel biennio sono state 275.841, con un incremento del 23,9% dal 2014 al 2015. Tutti gli Stati membri hanno aumentato il numero di richieste di finanziamento. Le richieste italiane sono passate da 13.349 a 17.606 (+31,9%).
(Fonte 21-01-17)

SUL NUOVO REGOLAMENTO ANVUR/MIUR PER LA CLASSIFICAZIONE DELLE RIVISTE
Con la riapertura della procedura per la richiesta di classificazione delle riviste e la pubblicazione del nuovo Regolamento per la classificazione delle riviste adottato dall’Agenzia Nazionale il 21 luglio 2016, il tema del significato di questa attività classificatoria, delle metodologie impiegate, delle fonti utilizzate, degli standard adottati  (o non adottati) e degli effetti sul sistema editoriale, è ritornato di grande attualità. Nell’intervento di Paola Galimberti (Università degli Studi di Milano) fatto durante il Workshop dell’Associazione dei Professori di Diritto Amministrativo (AIPDA), si prendono in particolar modo in considerazione la procedura di richiesta di classificazione (i cui limiti e incongruenze la dicono lunga sui ragionamenti che stanno alla base procedura stessa) e il collegamento (a dire il vero azzardato) fra lavori presentati alla VQR e il mantenimento (o promozione) in classe A. L’obiettivo di questa ultima trovata di ANVUR/MIUR è quello di potere avere a disposizione indicatori quantitativi (oggettivi) anche per le scienze umane, non considerando le dinamiche che hanno portato alla scelta dei lavori da presentare alla VQR e non tenendo conto del fatto che, nella maggior parte dei settori umanistici, dovendo scegliere i due lavori migliori si è certamente optato per tipologie diverse dall’articolo. Ci si chiede, inoltre, se non abbia più senso creare un elenco di riviste scientifiche che rispondono a requisiti formali, garantendo così la qualità editoriale, lasciando la valutazione nel merito ai revisori dei singoli lavori. (Fonte: P. Galimberti, Roars 26-03-17)

RICERCA. LAVORI INTERDISCIPLINARI IN AUMENTO
Una visione interdisciplinare della conoscenza dovrebbe diventare un ingrediente sempre più rilevante del progresso scientifico. In effetti, accanto ai (pur rilevanti) fenomeni di specializzazione che ne hanno caratterizzato lo sviluppo nell’era contemporanea, le discipline scientifiche mostrano da almeno trent’anni una crescente interconnessione. Saper rilevare la dimensione interdisciplinare del progresso scientifico è dunque una sfida ineludibile che attende la valutazione. Come dimostra Nature, in un recente speciale, gli articoli di scienziati che fanno riferimento a lavori di gruppi appartenenti ad altri ambiti disciplinari sono nettamente aumentati. E non solo nell’ambito delle scienze sociali (da poco più del 30% a quasi il 50%), ma anche nel campo delle scienze naturali e dell’ingegneria, dove i riferimenti interdisciplinari sono passati da poco più del 20% a più del 35%. L’Italia è sesta in wordl’s top 10% of interdisciplinary papers (%) (v. grafico) (Fonte: P. Greco 27-03-17 e http://go.nature.com/ucpXVD luglio 2015)
















40.000 RICERCATORI PRECARI E 50.000 DOCENTI DI RUOLO DOPO L’ULTIMA RIFORMA UNIVERSITARIA (L. 240/2010)
Dopo la Legge 240/2010 i Ricercatori a tempo determinato di tipo “a” (RTDa) aumentano molto rapidamente a partire dal 2011, per poi stabilizzarsi intorno alle 3000 unità dal 2015. Bisogna ricordare però che tali contratti hanno una durata variabile tra 3 e 5 anni, per cui il numero totale di persone che sono state titolari di un contratto come RTDa è di almeno quattro migliaia. Per quanto riguarda gli RTDb, il loro numero cresce molto timidamente fino al 2015, per poi avere un rapido aumento nel 2016, grazie ad una norma della legge finanziaria 2015, il cosiddetto “piano straordinario RTDb”, grazie al quale vengono forniti alle università fondi aggiuntivi per il reclutamento di 861 RTDb. Il numero di RTI (Ricercatori a tempo indeterminato) risulta in leggera diminuzione fino al 2013; dal 2014 si assiste ad un rapido crollo, complice il cosiddetto “piano straordinario associati”, grazie al quale alcune migliaia di ricercatori vedono il loro passaggio a professore associato. Specularmente, il numero dei professori associati si riduce fino al 2013, per poi aumentare significativamente nel biennio successivo. Per concludere, il numero di professori ordinari è in costante declino dal 2008, e solo nel 2016 ha visto una debole ripresa. Dall’analisi fatta finora sono stati finora esclusi gli assegnisti di ricerca, in quanto il loro numero è molto più difficile da quantificare, sia per l’assenza di una funzione di ricerca storica di tali figure nel database del CINECA accessibile via web, sia per una maggiore volatilità di tali figure. Tra un assegno e un altro, i periodi “scoperti” possono durare anche alcuni mesi, nei quali spesso si continua a lavorare, ma per il sistema tali persone non esistono: a fine dicembre 2016 risultano in essere poco meno di 13.000 assegni di ricerca, ma si può stimare che il numero di soggetti coinvolti arrivi alle 20.000 unità. Agli assegnisti si aggiungono poi i cosiddetti “invisibili della ricerca” (titolari di soli contratti di docenza, collaboratori a progetto ...). Se consideriamo anche gli “invisibili”, il numero dei ricercatori precari nelle università italiane arriva a ben 40.000 unità a fronte del personale docente di ruolo che ammonta attualmente a poco più di 50.000 unità. (Fonte: Redazione Roars 03-02-17)

DISTINGUERE FRA RIVISTE BUONE E RIVISTE PREDATORIE (OPEN ACCESS O CLOSED ACCESS CHE SIANO)
L’open access è il modello con cui i contenuti arrivano al pubblico ed un modello di business, non un modello di validazione o di assicurazione della qualità. Le procedure di validazione restano uguali indipendentemente dal modello. I predatory journals esistono sia fra le riviste open access che fra quelle in abbonamento e casi di scientific misconduct sono evidenti (e in crescita) tanto nelle riviste open access quanto in quelle in abbonamento. Un ricercatore dovrebbe essere in grado di verificare se una rivista (open o closed access) è una rivista seria o no. I punti a cui porre attenzione sono tanti, dalla composizione del comitato scientifico, all’indicazione delle pratiche di validazione degli articoli, dalla presenza di un codice etico all’atteggiamento rispetto al plagio, dai tempi di validazione, alle indicazioni sulla gestione del copyright, alla elencazione di indicatori di dubbia provenienza (vengono indicati come IF indici che nulla hanno a che fare con il marchio registrato di Thomson ora Clarivate), alla presentazione del comitato scientifico con le relative affiliazioni. Questo screening può essere in parte guidato da strumenti sviluppati ad hoc, come Think Check Submit. (Fonte: P. Galimberti, Roars 09-02-17)

TAGLI ALLA RICERCA MA I RICERCATORI RESISTONO E SONO TRA I MIGLIORI AL MONDO
I ricercatori resistono e sono tra i migliori al mondo nonostante i tagli alla ricerca. È l’ultima linea della resistenza in Italia, unica tra i paesi Ocse ad avere tagliato sull’istruzione e la ricerca negli anni della crisi iniziata nel 2015. Agli ultimi posti per investimenti nell’Unione Europea, grazie ai suoi ricercatori il paese è tra il settimo e ottavo posto al mondo sulla qualità e la produttività della ricerca. Sintomo di resistenza individuale, e di tenuta di un sistema scientifico a cui è stata dichiarata guerra sin dal 2008. Il paradosso, già denunciato da «Nature» nel 2013, è riemerso ieri al Consiglio Nazionale della Ricerca (CNR) a Roma in un incontro tra i presidenti degli enti pubblici di ricerca e i rettori dell’università. Un miliardo di euro tagliato all’università, 60-70 milioni solo al CNR. Più di otto miliardi alla scuola. Persi 10 mila ricercatori. Nel 2015 l’Italia ha continuato a investire solo l’1,33% del Pil contro una media europea del 2,03%. Il numero complessivo dei ricercatori ogni mille occupati è inferiore al 4,73% contro una media europea quasi del doppio: 7,40%. La loro età media è di 50 anni, mentre le assunzioni sono sostanzialmente bloccate e si muovono a malapena poche posizioni precarie. Se a questo scenario si aggiungono i dati sui ricercatori precari (dottorandi e assegnisti) si può avere un’idea dello stato della catastrofe: negli ultimi dieci anni l’Italia ha perso il 44,5% dei posti per il dottorato di ricerca, passando dai 15.733 del 2006 agli 8.737 del 2016. Oltre il 90% dei ricercatori precari non riesce a proseguire la carriera, almeno in Italia. (Fonte: R. Ciccarelli, Roars 16-02-17)

SPERIMENTAZIONE ANIMALE. LE RESTRIZIONI CHE II PARLAMENTO ITALIANO HA AGGIUNTO NEL RECEPIRE LA DIRETTIVA EUROPEA CONDIZIONANO LA POSSIBILITA DI STUDIARE LE CAUSE DI ALCUNE MALATTIE
La completa sostituzione del modello animale non è realizzabile in quanto non esistono metodi alternativi in grado di valutare gli effetti comportamentali neurobiologici, psicologici indotti dall'assunzione/somministrazione di una sostanza, e ancora, in riferimento agli xenotrapianti, “al momento non esistono metodi alternativi a tale tipo di sperimentazione”. Sono le parole lapidarie della relazione, depositata a luglio al ministero della Salute, dell'Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Lombardia ed Emilia Romagna sulla praticabilità scientifica dei divieti che la legge italiana ha aggiunto nel recepire la direttiva europea sulla sperimentazione animale. Perché l'esigenza di una relazione che risponda a un quesito ovvio? Per capirlo bisogna avventurarsi nella labirintica legislazione italiana, in questo caso concepita per rispondere a esigenze e pressioni che nulla hanno a che fare con la ragione e neanche con la ragionevolezza. Nel 2010 la Ue adotta una direttiva di revisione della precedente sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici, coinvolgendo tutti gli attori interessati, compreso il principale network animalista europeo. Nel recepire la direttiva, il Parlamento italiano ha aggiunto ulteriori restrizioni che condizionano la possibilità di studiare le cause di alcune malattie. Restrizioni in contrasto con la direttiva stessa che espressamente le vieta. Ebbene, il Parlamento italiano ha preferito dare ascolto alle istanze animaliste, benché la comunità scientifica fosse unanime nel segnalarne l'irragionevolezza, malgrado il danno per coloro che soffrono di patologie collegate agli studi che si vogliono far arenare e malgrado lo svantaggio per i ricercatori italiani gravati da divieti sconosciuti ai colleghi europei. Nel contesto del decreto 1000proroghe, meritoriamente, la presidente della Commissione Sanità del Senato, Emilia Grazia De Biasi - interprete dell'appello di centinaia di studiosi italiani - ha presentato un emendamento trasversale ai partiti di proroga al 2021 del regime di moratoria affinché, come si legge nelle osservazioni della Commissione, “i ricercatori italiani siano messi nella condizione di competere per i bandi di ricerca e coltivare le proprie sperimentazioni potendo contare su un adeguato orizzonte temporale". Guardando agli emendamenti depositati, è evidente che alcune forze politiche (Sinistra ltaliana, M5S e una piccola parte del Pd) remano contro, proponendo l'immediata vigenza del divieto, insensibili alle evidenze scientifiche richiamate. Ma l'emendamento De Biasi è stato approvato, benché riformulato a soli tre anni. (Fonte: E. Cattaneo, La Repubblica 16-02-17)

CONTROLLO PREVENTIVO DI LEGITTIMITÀ DELLA CORTE DEI CONTI SUI CONTRATTI DI COLLABORAZIONE STIPULATI DALLE UNIVERSITÀ STATALI. SETTE ANNI PER ELIMINARE UNA NORMA ASSURDA
Al fine di favorire lo sviluppo delle attività di ricerca nelle università statali e di valorizzare le attività di supporto allo svolgimento delle stesse senza maggiori oneri per lo Stato, a decorrere dall’anno 2017: a) gli atti e i contratti di cui all’articolo 7, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, stipulati dalle università statali non sono soggetti al controllo previsto dall’articolo 3, comma 1, lettera f-bis), della legge 14 gennaio 1994, n. 20“. Si conclude così la grottesca vicenda del controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti sui contratti di collaborazione stipulati dalle Università statali, già denunciata dal CUN come “aberrante nuova lettura delle procedure di controllo negli Atenei”. Il problema sorse nel 2009 a causa della Legge n.102 del 3 agosto 2009 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n.78 del 1° luglio 2009 riguardante provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali”. In un articolo era stata data dimostrazione della non assoggettabilità alla Corte dei Conti degli incarichi affidati dalle Università, in quanto le Università rientrano, come noto, nel novero delle Amministrazioni Pubbliche “non statali” poiché dotate di autonomia (anche se paradossalmente si chiamano statali). Nell’incertezza la norma è stata applicata lo stesso in praticamente tutte le Università italiane, nonostante fosse assurda, burocratica e lesiva dell’autonomia costituzionale. Ci sono voluti oltre 7 anni per dare una soluzione a un “non problema”. (Fonte: N. Casagli, Roars 26-03-17)

IL PRESIDENTE DELLA CRUI: FAR RIPARTIRE IL PAESE DALLA RICERCA, PUBBLICA E PRIVATA, E DAI NOSTRI GIOVANI
"Il sistema universitario dal 2008 ha perso un miliardo di investimenti, 10mila ricercatori e quasi il 15% di iscritti". Lo ha spiegato il presidente della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (la CRUI), Gaetano Manfredi, durante un incontro su "La ricerca pubblica italiana: risultati, obiettivi e risorse" organizzato al CNR. "Se si riuscisse a recuperarli, in un piano pluriennale, torneremo nella situazione in cui eravamo, nella quale eravamo sottodimensionati, ma almeno avevamo dei giovani. Oggi l'età media dei ricercatori nelle università è 50 anni", ha continuato Manfredi. Per il presidente della CRUI "sono necessarie maggiori opportunità per i giovani, sempre più sinergia con il mondo della ricerca privata e un grande impegno del sistema Paese con investimenti giusti. Non si può non far ripartire il Paese dalla ricerca, pubblica e privata, e dai nostri giovani. Auspichiamo un sempre maggior impegno delle nostre istituzioni affinché questo grande patrimonio sia sempre più difeso e incentivato". (Fonte: askanews 13-02-17)

ENTI PUBBLICI DI RICERCA. STABILIZZAZIONE DEI PRECARI DELL’ISS E DELL’ISTAT
Con l’approvazione del maxiemendamento al Senato (16 febbraio 2017) si chiude la partita del Milleproroghe. I punti più qualificanti per gli Enti Pubblici di ricerca sono quelli volti a favorire la stabilizzazione dei precari dell’Iss e dell’Istat, attraverso un aggiornamento degli strumenti previsti dal decreto D’Alia sul reclutamento speciale. Emendamenti che vanno nella direzione giusta, ma che non risolvono il problema del precariato negli altri Enti di ricerca, che restano fuori da questo provvedimento e per i quali avevamo chiesto un intervento che li comprendesse tutti. La recente emanazione del D.lgs. 218/2016 di semplificazione delle norme relative al funzionamento degli enti pubblici di ricerca e l’attenzione registrata in fase di discussione parlamentare sul decreto, le novità introdotte in tema di programmazione del fabbisogno, il superamento delle piante organiche e la programmazione a budget, avrebbero voluto un provvedimento specifico che permettesse la stabilizzazione di tutti i precari della ricerca. (Fonte: Flc Cgil 17-02-17)

NEL 2015-2016 L’ITALIA HA PRODOTTO IL 3,9% DELLA RICERCA MONDIALE, MA UNA PARTE  AMPIA DI QUESTA RICERCA RIMANE LONTANA DALLE RIVISTE SCIENTIFICHE DI ECCELLENZA
La produzione scientifica delle nostre università ottiene risultati migliori della media mondiale, obiettivo ovviamente irrinunciabile per un Paese del G7, ma lontano dalle performance dei migliori. Sulla «quantità» le notizie sono buone, perché nel 2015-2016 il nostro Paese ha prodotto il 3,9% della ricerca mondiale, contro il 3,2% del 2001-2003. Sei decimali in 14 anni possono sembrare pochi, ma nello stesso periodo lo sviluppo di Cina e India ha portato la quota mondiale della ricerca prodotta dai Bric dal 10,5% al 26,3%, alleggerendo il ruolo degli Stati Uniti (dal 26,2% al 22,7%) della Francia e della Germania. L'Italia, insomma, è andata in controtendenza. Ma praticamente in tutte le aree di studio, dalla fisica alla chimica, dalla biologia all'ingegneria, la percentuale di ricerca italiana che finisce nelle riviste di punta è sistematicamente inferiore rispetto alla media europea, e quindi lontana dai livelli registrati nei Paesi migliori. Le cause di questo limite italiano sono parecchie, e nascono dalle (mancate) scelte politiche di questi anni e non ovviamente dalla valutazione che ne misura le conseguenze. Il livello dei finanziamenti pubblici e privati, che rimane lontano dalle vette dei Paesi più attivi, alimenta i problemi strutturali della nostra accademia, attivissima nell'esportare ricercatori eccellenti ma molto timida nell'attirarne dall'estero. Le università italiane, almeno le migliori, finiscono così per brillare nella formazione iniziale dei talenti, cioè nella parte più costosa del percorso, senza però poi poterne sfruttare i risultati che vanno invece nel bilancio dei poli stranieri più competitivi. (Fonte: G. Trovati, IlSole24Ore 22-02-17)

DIS-COLL, GIÀ DAL 2017 TUTTI GLI ASSEGNISTI E DOTTORANDI DI RICERCA TITOLARI DI BORSA DI STUDIO POTRANNO RICHIEDERLA
Dis-Coll, indennità di disoccupazione, sarà estesa anche a dottorandi e ad assegnisti di ricerca a partire da luglio 2017. In sede di discussione del DdL sul lavoro autonomo è stato approvato l’emendamento che chiedeva l’estensione del sussidio di disoccupazione per i collaboratori anche ai ricercatori. Potranno richiedere la Dis-Coll già dal 2017 tutti gli assegnisti e dottorandi di ricerca titolari di borsa di studio. La Dis-Coll, prorogata per i collaboratori con il Milleproroghe fino al mese di giugno, diventerà strutturale proprio con l’entrata in vigore del DdL sul lavoro autonomo estendendo la categoria dei precari che ne potranno fare richiesta. Sarà il testo a dover definire le regole, i requisiti per richiederla e l’importo della Dis-Coll che, sulla base di quanto previsto attualmente per i collaboratori, sarà pari al 75% del reddito medio mensile, a condizione che esso sia pari o inferiore a 1.195 euro. Nel caso in cui il suddetto reddito medio mensile superi invece i 1.195 euro, l’indennità di disoccupazione sarà pari al 75% del predetto importo incrementata di una somma pari al 25% della differenza tra il reddito medio mensile e il predetto importo. In ogni caso, l’ammontare dalla Dis-Coll non potrà superare, sulla base delle disposizioni attualmente in vigore, i 1.300 euro mensili. (Fonte: A. M. D’Andrea, www.forexinfo.it 01-03-17)

I RISULTATI DELLA SECONDA VQR PRESENTATI DALL’ANVUR
L'ANVUR (Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca) ha presentato il 22 febbraio a Roma i risultati della seconda VQR (Valutazione Qualità della Ricerca), relativa ai 4 anni dal 2011 al 2014. Nel documento di presentazione l'ANVUR dichiara che i risultati della VQR sono rilevanti per tre categorie. La prima è il governo, che si basa su questa valutazione per assegnare la quota premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario destinato a Università e Enti di ricerca vigilati dal MIUR. La seconda categoria è costituita da "le famiglie e gli studenti per orientarsi nelle difficili scelte collegate ai corsi di studio e alle università". Il terzo gruppo è quello dei "giovani ricercatori", italiani e non, "per approfondire la propria formazione e svolgere attività di ricerca nei migliori dipartimenti". (Fonte: www.scienzainrete.it 27-02-17)

VALUTAZIONE DELLA RICERCA. CRITICHE ALLA BIBLIOMETRIA DELLA VQR
Giovanni Abramo e Ciriaco Andrea D’Angelo, i due studiosi italiani di bibliometria più noti a livello internazionale, hanno pubblicato su Scientometrics un articolo nel quale raccomandano, già dal titolo (Refrain from adopting the combination of citation and journal metrics to grade publications, as used in the Italian national research assessment exercise - VQR 2011-14), che per valutare le pubblicazioni si deve “evitare di adottare la combinazione di citazioni e impact factor” che è stata usata nella VQR 2011-2014. Totalmente sorda alle critiche e raccomandazioni su metodologia e indicatori impiegati per la VQR 2004-2010, emerse dall’arena scientifica (Franco, 2013; Abramo, D’Angelo, and Di Costa, 2014; Abramo and D’Angelo, 2015; Baccini and De Nicolao, 2016; Baccini, 2016), l’ANVUR ha riproposto imperterrita esattamente lo stesso schema per la VQR 2011-2014. Unica sostanziale differenza, il modo di combinare le citazioni (C) dell’articolo e l’indicatore di prestigio (J) della rivista, per assegnare un punteggio di merito alle pubblicazioni delle discipline scientifiche (impropriamente dette “bibliometriche”). Si tratta di quella combinazione lineare che pesava C e J in modo diverso per anno e area disciplinare, che tanto ha fatto impazzire ricercatori, università ed enti di ricerca per selezionare i prodotti migliori secondo le elucubrazioni ANVUR. Non sarebbe stato sufficiente e più appropriato utilizzare semplicemente il conteggio delle citazioni per predire la qualità relativa delle pubblicazioni scientifiche? E’ quello che si sono chiesti Giovanni Abramo e Ciriaco Andrea D’Angelo (Abramo e D’Angelo, 2016). E’ noto, infatti, in bibliometria che sono le citazioni ricevute ad indicare l’impatto di un articolo nella comunità scientifica, piuttosto che il J della rivista che misura invece l’impatto medio di tutti gli articoli ivi pubblicati (negli ultimi due o cinque anni, a seconda dell’indicatore). (Fonte: http://tinyurl.com/hokbnxg 17-02-17)

LA PROCEDURA DI VALUTAZIONE DELLA RICERCA CHE NON PREMIA LE ECCELLENZE
«La classifica delle università italiane al top nella ricerca pubblicata qualche giorno fa dall’ANVUR non riflette la vera qualità del lavoro svolto nei vari dipartimenti. I metodi adottati per stilarla premiano la mediocrità e cancellano l’eccellenza». A sostenerlo, dati alla mano, è proprio Giuseppe Mingione, al dodicesimo posto nel ranking mondiale dei matematici che producono lavori ad alto impatto (Thomson Reuters). Il suo dipartimento a Parma è considerato come il migliore d’Europa e il sesto a livello mondiale per pubblicazioni di assoluta eccellenza - quelle che compaiono nell’1 per cento dei lavori più citati nel ranking di Leiden, la bibbia della bibliometria. Eppure nella classifica dell’ANVUR, l’ente governativo incaricato della valutazione della qualità della ricerca, Parma non entra neanche nelle prime venti della sua categoria. «Nel mio settore meglio di noi fanno persino università dove non ci sono professori ordinari di Analisi». «Non è che i valutatori abbiano lavorato male - incalza Mingione -. Né tanto meno che qualcuno abbia truccato i conti. È il sistema ideato dall’ANVUR il cui errore principale è stato di chiedere a tutti i ricercatori di presentare lo stesso numero di prodotti: due in tutto. Una procedura in base alla quale chi ha molti lavori eccellenti non può farli pesare per controbilanciare l’attività di chi fa meno ricerca ma si sobbarca grossi carichi didattici e amministrativi sgravando gli altri. Il mio dipartimento per esempio è stato penalizzato dal fatto che alcuni sono estremamente attivi e altri non lo sono affatto perché sono impegnati su altri fronti. E così siamo finiti dietro a tanti altri istituti dove la qualità della ricerca complessiva è molto più bassa ma tutti hanno presentato i due lavori richiesti, anche se non dello stesso livello di quelli prodotti da noi». «Con questo sistema uno scienziato realmente eccellente, i cui lavori sono tutti di alta gamma, è indistinguibile da uno che ha una produzione mediamente scarsa ma magari ha partecipato in team con altri a due ricerche di altissimo livello. È assurdo ma è così», ha affermato Daniele Checchi, del Consiglio direttivo dell’ANVUR. (Fonte: O. Riva, CorSera Università 01-03-17)

VALUTAZIONE DELLA RICERCA. CACCIA SFRENATA ALLE CITAZIONi.
Nel mondo reale, c’è chi sguinzaglia dei bot scassinatori per seminare link e incrementare con la frode le proprie citazioni. Per una curiosa coincidenza, questo meccanismo di caccia sfrenata alle citazioni è del tutto simile a quello che l’ANVUR ha scatenato nel mondo della ricerca italiana. L’ANVUR chiede ai ricercatori di essere abbondantemente citati nella letteratura scientifica, non solo per ottenere l’abilitazione e fare carriera, ma anche per incanalare una quota maggiore di finanziamento verso il proprio ateneo. Un uso cieco e massiccio di indicatori quantitativi che è diventato il tratto distintivo della via italiana alla valutazione della ricerca, improntata ad un darwinismo accademico in cui la lotta per la sopravvivenza viene decisa da questo “auditel citazionale”, ampiamente manipolabile. All’estero, invece, si moltiplicano le prese di posizione, anche assai critiche, da parte di riviste e società scientifiche. Non a caso.  È fin troppo facile dopare i risultati mediante autocitazioni e compiacenti citazioni incrociate, tanto più che le manipolazioni dei ricercatori sono più astute e meno arginabili di quelle dei bot. (Fonte: G. De Nicolao, Roars 18-02-17)

I COSTI DELLA VALUTAZIONE DELLA RICERCA
Quanto è costata al contribuente italiano la VQR 2004-2010? Giorgio Sirilli pubblicò nel 2012 una stima del costo della VQR di € 300 milioni, sostenendo che quei costi erano quasi interamente (92%) in capo alle strutture universitarie e di ricerca valutate. Sirilli computava il costo pieno del tempo di tutti coloro che a vario titolo erano stati impegnati nel processo di revisione. Utilizzando lo stesso metodo, nel 2015, Robert Bowman ha calcolato che il REF2014 britannico sia costato 1 miliardo di sterline. Verosimilmente le stime di Bowman e Sirilli sono stime massime dei costi degli esercizi di valutazione. L’HEFCE (l’agenzia che ha in carico la valutazione in UK) ha commissionato a una società specializzata una stima “ufficiale” ed “indipendente” dei costi del REF: 250 milioni di sterline (pari a circa 320 milioni di € 2014). Cifra considerata “troppo bassa” dall’Institute of Economic Affairs di Londra. In Italia di stime ufficiali non se ne vedono (e c’è da pensare che se ne vedranno); ce ne sono però un paio oltre a quella di Sirilli. Geuna e Piolatto in un working-paper del 2014 (discusso da Sirilli) stimavano i costi in 182 milioni di €. Nella versione su rivista peer reviewed, la loro stima è scesa ad appena €70,5 milioni, poiché hanno eliminato dal calcolo i costi dei revisori e dei membri dei panel. Questa scelta non appare del tutto in linea con la prassi internazionale prevalente che preferisce tenere conto in qualche misura di tali costi. Per capire l’entità della sottostima si consideri che Geuna e Piolatto hanno calcolato anche il costo del REF britannico in 130-164 milioni di €, cioè una cifra pari a circa la metà della già “troppo bassa” stima ufficiale. Dunque sembra di poter concludere che la VQR 2004-2010 è costata non meno di 150 milioni di € (cifra ottenuta raddoppiando la stima più bassa di Geuna-Piolatto), e non più di 300 milioni di € (stima Sirilli). (Fonte: Redazione Roars 15-02-17)

IL PREMIO VALE 58 MLN, LA GARA NE COSTA ALMENO 30. LO SPRECO DELLA VQR SECONDO ROARS
La VQR, la valutazione della qualità della ricerca, è parecchio costosa. E, secondo i calcoli di Roars sui costi/benefici, anche sprecona. Lo scopo della VQR sarebbe di distribuire in modo "meritocratico" i finanziamenti premiali agli atenei. Ma quanti soldi sposta la VQR rispetto ad un finanziamento "a pioggia"? Un facile conto mostra che solo 16 atenei su 60 ricevono premi o punizioni superiori al milione di euro. La metà degli atenei (30) si discosta in alto o in basso rispetto alla distribuzione a pioggia per meno di 500mila euro. Per gran parte degli atenei i costi amministrativi superano addirittura il premio ricevuto. Visto che la VQR è quadriennale, i conti sono presto fatti: per spostare 58 milioni l'anno (240 mln in 4 anni), la traballante procedura di valutazione costa una cifra compresa tra i 30 e 56 milioni l'anno (tra i 120 e i 240 mln in 4 anni), tutte risorse sottratte alla ricerca e all'insegnamento.


SISTEMA UNIVERSITARIO

DECRETO “MILLEPROROGHE”. LE NOVITÀ DI INTERESSE PER IL SISTEMA UNIVERSITARIO
Sulla base del Dossier del Servizio Studi della Camera dei Deputati, Roars.it segnala le novità di interesse per il sistema universitario contenute nella legge di conversione del c.d. “Milleproroghe”.

L’ATTO DI INDIRIZZO DEL MIUR PER IL 2017. INTENZIONI PER IL SISTEMA UNIVERSITARIO
Prima di Natale il MIUR ha pubblicato l’Atto di indirizzo concernente l’individuazione delle nove priorità politiche del Ministero per l’anno 2017, con le relative aree di intervento aggiornate ed integrate sulla base delle nuove finalità da perseguire. Per quanto riguarda l’Università, il MIUR intende “semplificare le figure pre-ruolo” (ossia, ci sembra di capire, eliminare una delle due forme di contratto a tempo determinato attualmente vigenti per i ricercatori universitari), “riallineare, compatibilmente con le risorse finanziarie, le dinamiche retributive dei professori e dei ricercatori dell’università previste dalla normativa attuale” (ossia, forse, intervenire sul blocco anche giuridico degli scatti retributivi dei docenti e ricercatori universitari nel quinquennio 2011-2015) e semplificare “l’attuale quadro normativo che regola il funzionamento del sistema universitario”, sul modello di quanto approvato per gli EPR con il D.Lgs. 218/2016, “ossia di una semplificazione di carattere generale determinata dall’autonomia budgetaria”. (Fonte 09-01-17)

TRE QUESTIONI PIÙ UNA DA RISOLVERE PER RISOLLEVARE IL SISTEMA UNIVERSITARIO
Una prima questione da risolvere urgentemente è quella della regolamentazione dei contratti di lavoro: è inaccettabile che in diversi atenei italiani vi siano interi corsi affidati a valenti studiosi e studiose che prestano la loro attività di docenti e ricercatori a titolo gratuito. Si tratta di un precariato che scoraggia l'attività di ricerca e non promuove la qualità della didattica offerta agli studenti. In secondo luogo, è necessario rivedere il sistema di accesso alla professione accademica rendendo il dottorato realmente utile per una formazione post-lauream e che sia spendibile anche in ambiti extra-accademici. Il terzo obiettivo è quello di valorizzare e potenziare la terza missione dell'Università, i suoi legami con la società e le crescenti domande di formazione e di competenze che da essa provengono. creando percorsi formativi condivisi fin dalle ultime classi delle scuole superiori. Questo obiettivo può essere perseguito solo tramite un'attività di orientamento efficiente e diffusa, coordinata fra docenti dell'Università e delle scuole, che coinvolga gli studenti in prima persona. Infine è necessario propone e sperimentare modalità di autovalutazione e di valutazione orizzontale diverse da quelle attuali che appaiono troppo sbilanciate sugli aspetti bibliometrici dell'attività di ricerca e che ignorano totalmente la qualità dell'attività didattica e di formazione che rappresentano un pilastro fondamentale delle nostre Università. (Fonte: P. Graziano e M. Almagisti, Il Manifesto 23-02-17)

RAPPORTO DEL CONSIGLIO UNIVERSITARIO NAZIONALE SULL’ATTUALE SITUAZIONE DEI NOSTRI ATENEI COL TITOLO “UNIVERSITÀ, LE POLITICHE PERSEGUITE, LE POLITICHE ATTESE”
Si tratta di un’analisi volta a verificare a che punto è la relazione tra lo Stato e il sistema delle autonomie universitarie. In un contesto di crescenti difficoltà, per allineare il nostro paese agli standard internazionali, stante anche il mancato completamento del “piano associati”, il Rapporto propone di bandire nuovi posti per almeno 2000 ordinari, 4000 associati e 2000 ricercatori, con un investimento totale di 300 milioni, dei quali 75 destinati ai primi, 100 ai secondi e 125 alla categoria dei ricercatori. Una porzione rilevante delle risorse necessarie potrebbe venire, sempre secondo il Rapporto, dallo storno in favore del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) dei fondi ora destinati alle Cattedre Natta, di fatto mai decollate, oltre che da un prelievo parziale dal finanziamento dei dipartimenti universitari di eccellenza. Alcune considerazioni, infine, sono dedicate dal Rapporto allo stato giuridico e alla progressione di carriera dei docenti. Al riguardo, un giudizio non proprio entusiasta è stato espresso dal CUN sull’attuale ASN, dovendosi, a parere dello stesso, prendere atto che i vincoli imposti all’autonomia di giudizio delle commissioni, ancorché volti a impedire comportamenti opportunistici, hanno, di fatto, zavorrato il sistema, avendo creato notevoli problemi sia sul piano della loro applicazione sia per il contenzioso che ne è derivato. De iure condendo, preso atto che i giovani ricercatori sono assunti su posizioni a tempo e con tutele ridotte, il Rapporto propone una ristrutturazione delle carriere, partendo da un’unica posizione di base a tempo indeterminato, con maggiori garanzie contrattuali, così da scongiurare la persistenza di un insieme di figure precarie. Si tratterebbe, insomma, di far partire concorsi per entrare in ruolo inizialmente come professore junior a tempo determinato, con conferma in ruolo dopo il conseguimento dell’abilitazione. (Fonte: Il Foglietto 23-02-17)

VALUTATA L’ATTIVITÀ DI TERZA MISSIONE DELL’UNIVERSITÀ
Che la terza missione venga valutata in una sede istituzionale, al pari della ricerca e della didattica, è una novità assoluta. Così, accanto alla più nota VQR (Valutazione qualità della ricerca), l'ANVUR ha presentato la prima valutazione della terza missione, frutto di un lavoro che ha coinvolto tutti gli atenei e gli enti nella raccolta dei dati ed un panel di esperti valutatori coordinato da Daniela  Baglieri, che includeva non solo ricercatori ma anche stakeholder. Prima di tutto i numeri. L'ANVUR ha prodotto ben 88 indicatori, un enorme lavoro di classificazione, standardizzazione e, laddove possibile, misurazione. Vediamone alcuni. Nel giro di dieci anni, dal 2004 al 2014, è più che raddoppiato il numero di spin-off creati da 59 università; da 54 a 139. Il numero di imprese attive aumenta da 637 nel 2011 a 869 nel 2014. Ma la valutazione non si è basata sul numero di spin-off, ma sull'impatto in termini di fatturato e di occupazione qualificata e sulla dinamica di miglioramento nel tempo. Per quanto riguarda i brevetti la valutazione ha per la prima volta identificato separatamente due aspetti: i brevetti per i quali l'assegnatario è l’università e i brevetti inventati da ricercatori ma non assegnati all'università. Nel quadriennio 2011-2014 sono stati registrati da parte dei docenti 3013 brevetti, in media oltre 753 all'anno. Di questi, 1094 sono di titolarità di atenei, in media oltre 273 l'anno. Un'altra dimensione della terza missione riguarda la ricerca conto terzi: qui sono registrati quasi due miliardi di euro in quattro anni, ovvero circa mezzo miliardo l'anno. Meno del 10% del finanziamento ordinario, ma molto di più dei fondi ministeriali annui per la ricerca. Per una precisa scelta, la terza missione non è stata limitata alla classica valorizzazione economica della ricerca (brevetti, spin-off, conto terzi, intermediari territoriali) ma ha coperto anche la produzione di beni pubblici a servizio della società: formazione per gli adulti, trial clinici e gestione di biobanche per la salute pubblica, scavi archeologici, musei e public engagement. (Fonte: A. Bonaccorsi, Il Foglio 25-02-17)


STUDENTI. DIRITTO ALLO STUDIO

TRENT’ANNI DI ERASMUS
In occasione del festeggiamento dei trenta anni di attività del programma Erasmus, la Commissione europea ha reso noti i dati relativi alla mobilità originata per il 2015. La cifra record di 678.047 partecipanti alle azioni del 2015 (+6% rispetto al 2014) dimostra che Erasmus+ è uno dei programmi più popolari dell’Unione europea. Il programma è nato per rispondere ai bisogni di mobilità e di un mercato del lavoro integrato dell’Unione europea e ha contributo a realizzare un sistema di istruzione universitaria comune, introducendo per la prima volta quell’apparato sperimentale che ha poi costituito una delle basi della Dichiarazione di Bologna del 1989. Tra i principi fondativi della Dichiarazione ritroviamo infatti l’adozione di un sistema di lauree comparabili (in molti paesi europei diventato il 3+2), e di un sistema di crediti comune (il cosiddetto Ects), la promozione della cooperazione tra le università e di una dimensione europea nell’istruzione superiore (come doppie lauree, lauree congiunte, accordi inter-istituzionali).
Lo sforzo della Commissione europea non si è limitato al sostegno della mobilità universitaria (alla quale è andato circa il 50% del budget del 2015 destinato all’istruzione e alla formazione), ma ha allargato l’azione alle attività pre e post-istruzione universitaria, investendo risorse negli interventi finalizzati alla mobilità internazionale di studenti e docenti delle scuole superiori (13,5% del budget 2015), nella formazione professionale (26,4%), nell’educazione degli adulti (4%) e nelle attività tran-settoriali (3,3%).
Gli studenti italiani che nel periodo 1997-2017 hanno beneficiato del programma Erasmus sono circa 850mila, dei quali 478.900 sono universitari, 98.800 partecipanti allo scambio di giovani, 119.900 partecipanti a tirocini formativi, 126mila docenti, staff e giovani lavoratori, 9.600 volontari europei, 10.700 Erasmus Mundus studenti e staff. (Fonte: M. De Paola e D. Infante, lavoce.info 14-02-17)

BORSE DI STUDIO. GLI IDONEI NON BENEFICIARI SONO IL 6,46% DEL TOTALE DEGLI AVENTI DIRITTO
Nell'anno accademico 2015-2016 sono scomparsi ben 36 mila idonei alle borse rispetto al 2014-2015. Per idonei si intendono tutti quegli studenti che, seppur meritevoli di sussidio, non sono sicuri di poter percepire il contributo perché non ci sono abbastanza fondi disponibili per tutti. Per quest'anno, ad esempio, sono 9.441 gli studenti che, pur risultando idonei alla borsa di studio, non la hanno percepita perché non c'erano le risorse. Gli idonei non beneficiari sono il 6,46% del totale degli aventi diritto. A loro, comunque, anche se non arriva un euro vengono riconosciute delle agevolazioni per la mensa o per gli alloggi. Il motivo di questo crollo mai avvenuto prima sta nelle nuove regole dell'Isee, entrato in vigore nel 2015 e poi modificato a partire dal 2016-2017, in base al quale concorrevano a formare l'indicatore anche i redditi esenti, comprese quindi le stesse borse di studio. Vale a dire che uno studente che nel 2014-2015 ha vinto la borsa di studio, si è visto considerare quei soldi come reddito nella presentazione della domanda della borsa per l'anno successivo. Inoltre non è stato più riconosciuto l'abbattimento del 50% dei redditi e patrimoni dei fratelli e delle sorelle, dello stesso nucleo familiare. Il crollo degli studenti idonei, secondo i dati elaborati dall'Unione degli universitari, è pari a 36.241 unità. Pari al 20% in meno, un ragazzo su cinque. Si è passati infatti da 182.345 idonei a 146.104. Il calo più forte si è registrato in Campania con il 33% in meno, in Molise e Puglia con il 28% in meno e in Calabria con il 24,5% in meno. Il calo maggiore, quindi, interessa le regioni meridionali. Al Nord c'è solo il Veneto con un 25% in meno e, nelle regioni centrali, la Toscana con un 19% di riduzioni tra gli idonei. Il Lazio ne perde 1112,7% e la Lombardia al 17%. Ma il problema non è solo l'indicatore Isee e la sua composizione, poi rivista a seguito delle proteste sia da parte dell'Udu sia da parte del Consiglio nazionale degli studenti universitari. Quest'anno, infatti, gli studenti hanno avuto un minor numero di borse di studio, a prescindere dal numero complessivo degli idonei. Sono state erogate infatti 7.286 borse in meno, pari al 5,1% in meno, passando da 143.949 a 136.633. Il calo delle borse, al contrario di quanto avvenuto per gli idonei, ha interessato soprattutto le regioni settentrionali e del Centro. Al Nord i beneficiari sono diminuiti, infatti, quasi del 10%, ovvero 6 mila borse di studio in meno, in un solo anno, al Centro quasi 2.500 borse in meno (-7% circa), mentre al Sud in controtendenza si è registrato un aumento del 3,7% pari a circa 1.500 borse in più. Il taglio delle borse per il 2015-2016 non dovrebbe ripetersi, almeno sulla carta, per l'anno in corso visto che le soglie dell'Isee sono state riviste. (Fonte: L. Loiacono, Il Messaggero 04-03-17)

BORSE DI STUDIO. UNA CONTRAZIONE DEGLI “IDONEI” PARI AL 19% NELL'ARCO DI SOLI DUE ANNI ACCADEMICI
L'Isee, l'indicatore della situazione economica equivalente, è tra i principali accusati per il calo di studenti in grado di aggiudicarsi una borsa di studio. Link, un coordinamento di universitari, ha evidenziato una contrazione degli “idonei” pari al 19% nell'arco di soli due anni accademici: dai 184.227 del 2014/15 ai soli 149.485 del 2015/16, l'equivalente di 34.742 aventi diritto in meno. Le ragioni? Una soglia massima troppo bassa (tornata nel 2016-2017 a 23mila euro, dopo essere stata portata a 21mila euro dal governo Renzi nel 2015), parametri di «ricchezza» contestabili (come le proprietà immobiliari dei genitori o il reddito di fratelli e sorelle) e l'assenza di misure incentivanti proprio per il target più sensibile alla richiesta di bonus: gli studenti fuorisede, già gravati da un volume di spese annue di alloggio, trasporti e vita che va oltre i 10mila euro annui. Tasse escluse, appunto. (Fonte: A.Magnani, www.ilsole24ore.com 22-02-17)

SECONDO LA COSTITUZIONE LA TUTELA DEL DIRITTO ALLO STUDIO NON È UN OPZIONAL MA UN COMPITO INDEROGABILE PER LO STATO
È ben nota la consistenza del fenomeno dei cosiddetti idonei non beneficiari di borsa di studio,
vale a dire degli studenti che pur avendone i requisiti soggettivi, non riescono ad avere la borsa per ragione di risorse insufficienti. È da domandarsi però se alle origini del buco nero non sia anche un
fatto, per dir così, culturale: vale a dire la debole percezione che nella coscienza comune si ha del diritto allo studio universitario come diritto costituzionalmente protetto. L’impressione alle volte è che, specie per quanto attiene ai gradi più alti degli studi, non sia appieno avvertita la inderogabile
doverosità – e al tempo stesso il fondamentale interesse – della collettività nazionale di rendere possibile la prosecuzione degli studi ai «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi», secondo il dettato del terzo comma dell’art. 34 della Costituzione. Sotto il primo profilo, il diritto allo studio di cui alla disposizione costituzionale costituisce certamente una delle spettanze riconducibili ai diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta nell’art. 2, cioè alla proiezione sul terreno del diritto positivo dell’idea di dignità della persona umana. Giova notare al riguardo che l’espressione diritto allo studio ha un duplice significato: uno sostanziale, vale a dire il diritto all’istruzione, cioè la pretesa a quell’arricchimento di conoscenze che favoriscono l’umanizzazione nonché il realizzarsi personale e sociale dell’individuo; e uno strumentale, vale a dire la pretesa ad avere dalla società le prestazioni relative al perseguimento di tale obbiettivo. La dimensione strumentale del diritto allo
studio si collega all’art. 3 della Costituzione, non solo laddove (primo comma) afferma il principio di eguaglianza, senza distinzioni di condizioni personali e sociali, ma anche e necessariamente laddove (secondo comma) pone il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano, di fatto, la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, con l’effetto di impedire il pieno sviluppo della persona umana. Ma il diritto allo studio è anche un fondamentale interesse della società, nella misura in cui pone il cittadino in condizione di poter soddisfare i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2 Cost.); doveri tra cui quello «di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (art. 4, secondo comma, Cost.). Dunque la tutela del diritto allo studio, anche di quello universitario, non è un optional per lo Stato, ma rientra nei compiti suoi propri, e inderogabili, di promozione dell’individuo e del corpo sociale. (Fonte: G. Dalla Torre, universitas 142, dicembre 2016)

DAVIGO: LA CORRUZIONE SI COMBATTE A COMINCIARE DALL’EDUCAZIONE DEGLI STUDENTI
«A 25 anni da Mani Pulite è drammatico quanto poco sia cambiata la situazione e quanto sulla corruzione peggiori la deriva dell’Italia nel panorama internazionale». Sono le parole amare dette durante un incontro al Corriere della Sera da Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione nazionale magistrati e uno dei giudici di punta del pool Mani Pulite con Antonio Di Pietro, Gerardo D’Ambrosio e Gherardo Colombo nei primi anni 90. «L’Italia è un Paese corrotto a livelli diversi, finalità e modalità diverse. È un Paese che sta morendo. C’è sfiducia, la gente non va più a votare, espatria». Esistono soluzioni possibili di fronte a questo panorama desolante? «Bisogna cominciare dalla scuola, educare i ragazzi. E introdurre per la corruzione alcune norme che valgono per i mafiosi ... Molte leggi possono avere su il nome dell’imputato». (Fonte: CorSera 13-02-17)

ERASMUS. ITALIANI, QUARTI FRUITORI
Dal 1987 al 2016 sono stati 633.200 gli italiani a partecipare al programma di mobilità Erasmus tra studenti universitari (487.900), studenti di formazione professionale (119.900), partecipanti a scambi giovanili (98.800), personale docente e giovani lavoratori (126.000), e volontari (9.600). Dati che li rendono, storicamente, i quarti maggiori fruitori delle diverse borse dopo tedeschi (1.324.800), spagnoli (1.032.100), e francesi (980.900). Non è possibile per la Commissione europea mappare «i gusti» di tutti nel tempo, ma nella fotografia scattata nel 2015 gli italiani hanno rappresentato una delle prime tre nazionalità negli atenei stranieri in Spagna e Malta (prima nazionalità estera), Belgio, Francia ed Estonia (seconda), Austria, Germania, Lussemburgo e Turchia (terza), mentre nello stesso anno gli atenei nazionali hanno ospitato principalmente spagnoli, francesi e tedeschi, soprattutto nelle università di Bologna, Milano (Politecnico) e Roma (Sapienza). (Fonte: E. Bonini, La Stampa 26-01-17)

LA MINISTRA VORREBBE SEMPLIFICARE LE PROVE DEL TEST PER L’ACCESSO A MEDICINA
Qualcosa potrebbe cambiare per chi vuole studiare Medicina. A promettere prove più accessibili è la ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli che ha giudicato come «urgente» semplificare le prove del test. In questo modo sarebbe superata l'idea dell'ex ministra Stefania Giannini che aveva in mente di introdurre per la Facoltà di Medicina il modello francese. Ovvero libero accesso a tutti, ma con una soglia di sbarramento dopo alcuni esami, testando sul campo, e nei primi anni di università, chi è portato o no alla professione. La Fedeli, invece, pensa di introdurre - ma è ancora tutto da studiare - la possibilità di sostenere le prove per via informatica presso le sedi universitarie, così come si fa per l'accesso alle specializzazioni. (Fonte: Libero 28-01-17)

TASSE UNIVERSITARIE. NOVITÀ NELLA LEGGE DI BILANCIO 2017 SU ESONERO E RIDUZIONE
La legge di bilancio 2017 ha innovato la normativa sulle tasse universitarie, superando e mandando in pensione il DPR n. 306/1997. La nuova disciplina prevede che dal prossimo anno accademico (2017/2018) ogni singola università, tramite l’approvazione di un regolamento interno, avrà la piena autonomia di stabilire l’ammontare delle tasse di frequenza annuali, tenendo sempre conto, ovviamente, dell’Isee della famiglia dello studente (o l’Isee personale dello studente), e rispettando i cosiddetti parametri di equità e progressività. La norma prevede l’esonero dal versamento delle tasse universitarie degli studenti che abbiano contemporaneamente determinati requisiti.
I requisiti per avere l’esonero dal versamento delle tasse universitarie sono: nel caso di iscrizione al primo anno accademico, l’essere parte di un nucleo familiare con Isee pari o inferiore a 13.000 euro; nel caso di iscrizione al secondo anno accademico, l’avere ottenuto, entro il 10 agosto del primo anno di corso, almeno dieci crediti formativi; nel caso di iscrizione agli anni successivi al primo, l’avere conseguito nei dodici mesi precedenti la data del 10 agosto, almeno 25 crediti formativi; l’essere in corso o fuori corso di un solo anno.
I requisiti per avere la riduzione dell’importo delle tasse universitarie: riguarda gli studenti che facciano parte di un nucleo familiare con Isee compreso tra 13.000,01 e 25.000,00 euro. In questo caso, tali studenti saranno tenuti a versare una tassa annuale pari o inferiore all’8% della quota di Isee eccedente 13.000 euro. (Fonte: J.Garz, www.universy.it 29-01-17)

UNA NO TAX AREA PER GLI STUDENTI
«Daremo attuazione alla no-tax area, una zona franca di accesso gratuito all'università per gli studenti che versano in condizioni economiche disagiate istituendo anche le borse della Fondazione articolo 34 per studentesse e studenti delle superiori più meritevoli e in condizioni di bisogno che intendano intraprendere gli studi universitari». A confermarlo è il ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli, parlando all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università di Napoli Parthenope. (Fonte: IlSole24Ore 18-02-17)

ALLA FINE DEL PERCORSO SCOLASTICO TROPPI SCRIVONO MALE IN ITALIANO
La lettera che oltre 600 docenti universitari, accademici della Crusca, storici, filosofi, sociologi e economisti hanno inviato al governo e al parlamento chiede "interventi urgenti" per rimediare alle carenze dei loro studenti: "È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente", si legge nel documento.
"Circa i tre quarti degli studenti delle triennali sono di fatto semianalfabeti - si legge tra i commenti dei docenti alla lettera -  È una tragedia nazionale non percepita dall’opinione pubblica, dalla stampa e dalla classe politica. Apprezzo che finalmente si ponga il problema. Ahimè, ho potuto constatare anch'io i guasti che segnalate, dal momento che il mio esame è scritto e ne vengono fuori delle belle ... È francamente avvilente trovarsi di fronte ragazzi che vogliono intraprendere la professione di giornalista e presentano povertà di vocabolario, scrivono come se stessero redigendo un sms, con conseguenti contrazioni di vocaboli, o inciampano sui congiuntivi".
Un altro docente invece spiega: "Fortunatamente si incontrano anche ragazzi in gamba e preparati. Dedico ormai una buona parte della mia attività di docente a correggere l'italiano delle tesi di laurea. Purtroppo l'insegnamento di base, invece di concentrarsi su poche ed essenziali competenze, tende ad ampliarsi e a complicarsi a dismisura, coi risultati che constatiamo. Le maestre elementari - spesso bravissime e motivatissime - devono obbedire a un sacco di circolari che le inducono a fare le assistenti sociali. La situazione, poi, è resa oggettivamente problematica dalla latitanza di troppe famiglie, che mandano a scuola bimbi incapaci di una normale convivenza".
Dice il filosofo Massimo Cacciari: «Chiariamo: la colpa non è degli studenti, né degli insegnanti, ma di chi ha smantellato la scuola disorganizzandola. L'impronta gentiliana è stata contestata e superata, ma nel momento in cui la si è sostituita non si è lavorato in modo logico. In questo modo si sono susseguiti una serie di provvedimenti senza alcun ragionato impianto pedagogico e didattico. Sembra che l'unica cosa indispensabile sia professionalizzare, ma non si vuole capire che alla base di ogni apprendimento ci sono le competenze linguistiche. Se non si sa leggere non si sa affrontare un testo scientifico né un libro di racconti. E se non si sa scrivere non si possono certo divulgare le proprie idee». (Fonte: G. Adinolfi e C. Nadotti, R.it Firenze 04 e 05-02-17)

9 SU 10 LICEALI S’ISCRIVONO ALL’UNIVERSITÀ, MA IL 14% DELLE MATRICOLE SI PENTE DEL CORSO SCELTO
Dopo la maturità l’università è ancora la scelta privilegiata per i liceali. Lo sancisce il Rapporto Almadiploma 2017, che segnala come l’89% dei giovani che escono dal classico, dallo scientifico, dal linguistico o dal liceo delle Scienze umane si iscriva a un corso di laurea. La percentuale  scende al 51% per coloro che hanno in tasca un diploma tecnico e al 26% per gli studenti freschi di maturità professionale. Il Rapporto Almadiploma 2017 sottolinea che, però, tra coloro che si iscrivono a un corso di laurea il 14% si pente dopo un anno. Il 6% sceglie di abbandonare e l’8% cambia ateneo o percorso di studi. A iscriversi all’università sono soprattutto coloro che provengono dai contesti più agiati e specialmente quanti hanno almeno un genitore laureato. (Fonte 20-02-17)

ROTTAMARE I TEST INVALSI SAREBBE UN ERRORE
La Commissione cultura del Senato ha chiesto di non consentire alle università di avvalersi dei risultati Invalsi, oltre che dei voti scolastici, per decidere chi ammettere ai loro corsi. Per quale motivo impedire alle università di osservare i risultati delle prove Invalsi, costringendole a utilizzare una parte rilevante delle loro (scarse) risorse per organizzare test di ingresso alternativi? Ha senso lamentarsi dei tagli ai fondi degli atenei, per poi sprecarli in questo modo? Nel resto del mondo è normale che prove nazionali multiple, analoghe a quelle Invalsi, vengano usate dagli atenei per decidere quali studenti ammettere.
Si fa davvero fatica a trovare una logica in questo parere. Le università sono, purtroppo, piene di studenti che dopo il primo anno si accorgono di aver fatto scelte sbagliate. Per esempio, studenti che con voti di maturità stratosferici si iscrivono a corsi di ingegneria, fisica e matematica dove non riescono a superare neppure gli esami iniziali. Per altro verso, è lecito ipotizzare che esistano studenti con elevate competenze logico matematiche, osservabili in un test Invalsi, i quali a causa di un basso voto di maturità ottenuto in licei stretti di manica, rinunciano alla carriera universitaria che sarebbe ideale per loro. Il giudizio complessivo, ma soggettivo, dei professori è importante. Altrettanto importante, però, è poter disporre di un giudizio oggettivo, ancorché parziale, per comprendere in modo comparativo il livello di competenze acquisite. Come nella valutazione diagnostica di un medico: servono misure strumentali (termometro, pressione, esami del sangue), almeno quanto il fiuto del bravo clinico. Aprire a tutti le porte dei corsi di medicina vuol dire avere medici peggiori. Se chi non è portato per la matematica va a fare l’ingegnere, saranno a rischio i ponti, le case e gli aerei che quell’ingegnere costruirà. Per altro verso, il timore che i meno abbienti siano svantaggiati da test uguali per tutti, come quelli Invalsi, è ingiustificato. Se mai vale il contrario: in questi test si compete ad armi pari, perché non contano le circostanze e neanche gli opportunismi che possono condizionare il giudizio dei professori. (Fonte: A. Ichino, CorSera 11-03-17)


VARIE

IL GIOGO BUROCRATICO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE SI APPLICA ALL’UNIVERSITÀ MA NON ALLA RAI
“No, non è la BBC, ma è la RAI, la RAI TV!” diceva un famoso motivetto radiofonico. Anche a noi universitari piacerebbe tanto poter tornare a lavorare ad armi pari con i colleghi stranieri, liberandoci di tutta questa ottusa burocrazia. Basterebbe un articoletto di legge di poche righe:
“Al fine di assicurare il pieno ed efficace svolgimento del ruolo istituzionale delle Università e degli Enti di Ricerca, nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’articolo 33 della Costituzione e specificati dalla legge n.168 del 9 maggio 1989, NON si applicano alle Università statali e agli Enti di Ricerca le norme finalizzate al contenimento di spesa in materia di gestione, organizzazione, contabilità, finanza, investimenti e disinvestimenti, previste dalla legislazione vigente a carico dei soggetti inclusi nell’elenco dell’ISTAT di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n.196.”
Nell’ultimo decreto-legge “Milleproroghe” qualcosa di simile è stato fatto per la RAI, azienda pubblica finanziata dal contribuente, che finora è stata esentata dal giogo burocratico della Pubblica Amministrazione su spending review, appalti, acquisti e assunzioni. Lo sarà per un altro anno grazie all’intercessione del Governo (si veda l’Art. 6 D.L. 30 dicembre 2016, n. 244).
C’è da scommettere che il prossimo anno l’eccezione verrà prorogata di nuovo, perché una cosa è sicura: se si applicassero alla RAI le norme della PA essa fallirebbe in pochi mesi, incapace di reggere il confronto con la concorrenza privata e internazionale. In questo labirinto burocratico la RAI non potrebbe certamente garantire la continuazione del servizio pubblico. Anche l’Università eroga un servizio pubblico ma, purtroppo, questo non viene percepito. Purtroppo, a differenza della RAI, non interessa a nessuno se le stravaganti norme che paralizzano la PA rendono l’Università incapace di reggere il confronto con la concorrenza privata e internazionale. (Fonte: N. Casagli, Roars 16-01-17)

LA FRODE SCIENTIFICA
Il metodo scientifico non è soltanto un insieme di procedure e di regole astratte. Contempla anche norme di comportamento, forse addirittura un “codice d’onore” come pensava Karl Popper, ovvero: la trasparenza verso il resto della comunità scientifica e verso la società, il rispetto delle evidenze e del giudizio dei pari, la riproducibilità degli esperimenti, la disponibilità al fatto che altri colleghi controllino ed eventualmente confutino i risultati raggiunti. Questa etica scientifica si basa a sua volta su valori più profondi, come l’onestà intellettuale e lo scetticismo sistematico. Lo scienziato corretto dovrebbe insomma tenere a bada i suoi “pregiudizi di conferma” e non innamorarsi mai troppo delle sue idee e teorie. L’effetto complessivo è quello di una libera comunità di pari che apprendono dai propri errori e si auto-correggono costantemente.
Questi buoni propositi si scontrano tuttavia con la realtà. Secondo diverse indagini recenti, la frode scientifica è un fenomeno più frequente di quanto si pensasse. Può darsi che la crescita delle segnalazioni e delle ritrattazioni di articoli pubblicati sia dovuta all’aumento dei controlli, ma qualcosa lascia pensare che il fenomeno sia realmente sottostimato. Come spiega Enrico Bucci in “Cattivi scienziati” (Add Edizioni, Torino, 2015), la frode scientifica si divide in tre categorie: la fabbricazione di articoli basati su dati falsi o inventati da zero; la falsificazione o manipolazione intenzionale dei dati (soprattutto aggiustando ad hoc immagini e statistiche) per avvalorare una tesi (magari anche vera, ma sostenuta in modo metodologicamente scorretto); il plagio di lavori altrui e l’auto-plagio, cioè il vizio di moltiplicare gli articoli sullo stesso esperimento. Gli scienziati che barano non sono casi isolati, ma il prodotto di meccanismi degenerativi che facilitano comportamenti scorretti e che si stanno acuendo negli ultimi anni. Tra questi: l’eccessiva pressione a pubblicare; la competizione fortissima in certi campi; il ritmo forsennato di produzione dei lavori scientifici (due milioni circa pubblicati ogni anno); la necessità di tenere sempre alta la visibilità mediatica sui propri risultati per ottenere finanziamenti (trasformando sempre più spesso la comunicazione della scienza in marketing); il business delle riviste scientifiche a pagamento e delle riviste pirata; il senso di impunità derivante da scarsi controlli; l’istinto difensivo delle comunità scientifiche stesse; la vorace ricerca di citazioni per alzare i propri indici bibliometrici. (Fonte: T. Pievani, IlBo 10-01-17)

COME INTENDERE LA CULTURA UMANISTICA
L’identificazione tra cultura umanistica, creatività e mercato nega e soppianta la vera funzione della vera cultura umanistica: che è l’esercizio della critica, la ricerca della verità, la conoscenza della storia. «Il fine delle discipline umanistiche sembra essere qualcosa come la saggezza», scrisse Erwin Panofsky nel 1944. Essere umani – ha scritto David Foster Wallace nel 2005 – «richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri … Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo». Formare gli italiani del futuro al marketing del ‘made in Italy’; indurli a coltivare la scrittura creativa e non la lettura critica di un testo; levar loro di mano i mezzi culturali per distinguere la verità dallo storytelling, o per smontare le bufale che galleggiano in internet; annegare la conoscenza storica in un mare di dolciastra retorica della bellezza: tutto questo significa scommettere proprio sull’inconsapevolezza, sulla modalità predefinita, sulla corsa sfrenata al successo. La cultura umanistica è un’altra cosa: è la capacità di elaborare una critica del presente, di avere una visione del futuro e di forgiarsi gli strumenti per costruirlo. (Fonte: T. Montanari, La Repubblica 23-01-17)

IL D.L. 382 DEL 13-01-17 VUOLE PROMUOVERE LA CULTURA UMANISTICA NEGLI STUDENTI ASSEGNANDO UN RUOLO ANCHE ALL’AFAM MA DIMENTICANDO L’UNIVERSITÀ
Il Decreto legislativo n. 382 del 13 gennaio 2017, reca “Norme sulla promozione della cultura umanistica, sulla valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno della creatività” nella scuola italiana. Intento ottimo. Ma leggiamo l’art. 1 comma 3: “Per assicurare agli alunni e agli studenti l’acquisizione delle competenze relative sia alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del ‘Made in Italy’, le istituzioni scolastiche sostengono lo sviluppo della creatività degli alunni e degli studenti, anche connessa alla sfera estetica e della conoscenza storica, tramite un’ampia varietà di forme artistiche, tra cui la musica, le arti dello spettacolo, le arti visive, sia nelle forme tradizionali che in quelle innovative”. Dicono gli inglesi: “A camel is a horse made by a committee” (un cammello è un cavallo disegnato da un comitato). In questo caso il cammello è venuto bulimico e sbilenco. Fuor di metafora: il testo affastella concetti che, singolarmente presi, suonano lodevoli, ma sono eterogenei. La “conoscenza del patrimonio culturale” implica il rapporto fra un soggetto e un oggetto; il “valore del Made in Italy” è un dato merceologico; la creatività è tutt’altra cosa ancora, e di sicuro non coincide con lo spontaneismo. Il legislatore intende che per conoscere Petrarca, Verdi, Michelangelo (tutti Made in Italy come il Sangiovese e il Gorgonzola) occorre essere creativi? Ossia praticare la “scrittura creativa”, saper cantare “Va’ pensiero”, plasmarsi una propria Pietà Rondanini? La sintassi è avventurosa: non si coglie il prima e il dopo; la coda del cammello è slegata dal corpo. Cosa s’intende con “lo sviluppo della creatività, anche connessa alla sfera estetica e della conoscenza storica”? Che per sviluppare la creatività occorre conoscere le forme storiche delle arti? Sacrosanto. Ma il decreto, per com’è formulato, lo consente? Per la musica non ricorre mai il sintagma “storia della musica” (mentre è prevista, art. 3, la “conoscenza della storia dell’arte”). Sembra che, per l’arte dei suoni, alla ministra importi solo il far musica, la “pratica musicale”. La Fedeli pensa che la storia della musica sia il raccontino nozionistico, i 20 figli di Bach, la sordità di Beethoven, gli amori di Madonna (la pop star)? Vorrei tranquillizzarla: non è così. La storia della musica si occupa di “oggetti di conoscenza”, antichi o contemporanei, radicati nella storia e nella cultura: vi si accede mediante l’ascolto riflessivo. Se da un lato in musica c’è il “fare” – cantare o suonare uno strumento – dall’altro non può non esserci “il conoscere”. Non è tutta colpa della ministra. In fondo, se insiste sulla “pratica musicale” e scorda la “Storia della Musica”, è in buona compagnia. Gli intellettuali italiani – molti musicalmente analfabeti – alimentano da sempre il luogo comune che la musica è un linguaggio riservato a chi “la fa”. (Fonte: G. La Face, Roars 08-02-17)

LA DIMENSIONE IDENTITARIA DA ESORCIZZARE
Gli orientamenti prevalenti nei mass media, nell’opinione «illuminata», nell’intellettualità più influente, nell’intrattenimento colto ma anche in molti sistemi scolastici (basti pensare ai programmi delle scuole italiane) si sono abituati a considerare la dimensione identitaria come una dimensione da esorcizzare. L’identità è apparsa qualcosa che legando al passato avrebbe portato con sé qualcosa di oscuramente atavico. Qualcosa che avrebbe condotto inevitabilmente al pregiudizio etnico, ad una compiaciuta autarchia culturale ostile al progresso, all’esclusione più o meno persecutoria di ogni diversità. Ha avuto in tal modo via libera una modernità culturale tanto superficiale quanto pervasiva, indifferente quando non ostile verso ogni valore consolidato. (Fonte: E. Galli Della Loggia, CorSera 09-02-17)

UNA MARCIA PER LA SCIENZA
In questi giorni, gli scienziati degli Stati Uniti hanno deciso di unirsi per organizzare una grande Marcia per la Scienza (#ScienceMarch, @ScienceMarchDC). Altri hanno seguito il loro esempio in tante altre parti del mondo e ora anche qui, in Italia (@ScienceMarchIT), vogliamo aggiungerci alle centinaia di migliaia di persone che hanno già aderito all’iniziativa. Il 22 aprile 2017, lo stesso giorno in cui si terrà a Washington e ovunque nel mondo. La March for Science è una celebrazione collettiva della passione per la scienza, realizzata da tutte le cittadine e i cittadini; è anche un richiamo comune a supportare e tutelare i metodi scientifici e chi opera nell’ambito della ricerca. Gli ultimi cambiamenti nell’ambito delle politiche riguardanti la ricerca negli Stati Uniti hanno creato serie preoccupazioni tra gli scienziati; l’incredibile e immediata esplosione di solidarietà ha dimostrato quanto quelle preoccupazioni siano largamente condivise in tutto il pianeta. (Fonte 27-02-17)

L’INVENTORE DELL’IMPACT FACTOR, EUGENE GARFIELD, È SCOMPARSO
«The use of journal impacts in evaluating individuals has its inherent dangers. In an ideal world, evaluators would read each article and make personal judgements». A dirlo era proprio l’inventore dell’impact factor, Eugene Garfield, recentemente scomparso il 26 febbraio scorso. Aveva costruito il suo citation index per offrire alle biblioteche uno strumento per selezionare le riviste da mettere a disposizione dei propri utenti. Nel corso del tempo l’impact factor è stato utilizzato per la valutazione di sistemi, gruppi, istituzioni e singoli ricercatori, allontanandosi molto dalle motivazioni per cui era stato creato. Nonostante sia stato oggetto di critiche feroci e causa di comportamenti spesso poco etici da da parte di editors di riviste, o di ricercatori, l’IF viene ancora utilizzato in alcune aree disciplinari e anche dall’ANVUR. (Fonte: Red.ne Roars 01-03-17)


UNIVERSITÀ.IT

UNIBO. LA RICERCA AL TOP, 11 SU 14 AREE DISCIPLINARI SUL PODIO
L'Alma Mater è al top nella ricerca in 11 aree disciplinari su 14, dall'area medica, economica, politico-sociale a quella umanistica. Non compare al top nelle Scienze matematiche e informatiche, fisiche, chimiche e biologiche e in Scienza della terra. È il rapporto ANVUR che giudica la qualità della ricerca analizzando i lavori scientifici presentati da docenti e ricercatori nel quadriennio 2011-2014. Ecco dove si posiziona l'Alma Mater per aree: Bologna è prima, tra gli Atenei di medie dimensioni, in Architettura e Ingegneria civile; l'Alma Mater è seconda, tra i grandi atenei, nelle Scienze agrarie e veterinarie (dopo Padova, prima di Torino), in Ingegneria industriale e dell'informazione (dopo Padova, prima della Federico II di Napoli), nell'area 10 delle Scienze dell'antichità, filologico, letterarie e storico artistiche (dopo Ca' Foscari); nelle Scienze storiche, filosofiche e pedagogiche (dopo Torino); Scienze  giuridiche (dopo Milano); Scienze economico- statistiche (prima è la Bocconi, terza è Milano Bicocca); Scienze politiche e Sociali (dopo Milano, prima di Torino). (Fonte: I. Venturi, La Repubblica Bologna 22-02-17)

UNIBO. IL DECENTRAMENTO IN ROMAGNA. IL MULTICAMPUS, LA PIÙ GRANDE OPERAZIONE DI DECENTRAMENTO TRA LE UNIVERSITÀ IN ITALIA
Le prime facoltà a nascere furono a Forlì, anno 1989: la Scuola Interpreti e Scienze politiche internazionale. Poi arrivarono Psicologia e Architettura a Cesena, la seconda facoltà di Ingegneria a Forlì, Beni culturali a Ravenna, lo sviluppo nei primi anni '90 di economia del turismo e moda a Rimini. L'anima originaria del multicampus, la più grande operazione di decentramento tra le università in Italia, sancito con un accordo di programma col Ministero dell'università, dopo che uscì nel '96 la legge sul decongestionamento dei grandi atenei, in 28 anni ha cambiato volto e pelle: dai poli didattico-scientifici agli attuali campus, dalle Facoltà ai Dipartimenti, uno solo per sede: Beni culturali a Ravenna, Architettura a Cesena, Interpretariato a Forlì sino all'ultimo nato a Rimini in Scienze per la qualità della vita, che tiene insieme 50 professori di discipline diverse, dalla moda alla medicina, dal cinema alla giurisprudenza, dai chimici ai geografi. E tante sfide e vocazioni specifiche, tra cui economia e ingegneria aerospaziale a Forlì, giurisprudenza e ingegneria edile (ora in difficoltà) a Ravenna, informatica e agroalimentare a Cesena. Uno sviluppo sostenuto da consorzi, fondazioni e dagli enti locali. «La Romagna sperava di portare a casa qualcosa di più» dalla revisione dello Statuto d’ateneo, dice Lanfranco Gualtieri, presidente della Fondazione Flaminia. «Invece le prime bozze che volevano la nascita di più dipartimenti nei campus si sono perse per strada». La sfida è sempre quella: radicare la ricerca, per tenere stretti i docenti in quello che oramai è un altro ateneo: 700 professori e ricercatori, quasi 20mila studenti, immatricolazioni in crescita. (Fonte: I. Venturi, La Repubblica Bologna 01-03-17)

UNIBO. NUOVO DOTTORATO IN DATA SCIENCE AND COMPUTATION
La nuova scuola di dottorato in Data Science and Computation è stata attivata dall’Università di Bologna e dalla Fondazione Golinelli. Il progetto, che è stato approvato dal Senato Accademico e dal Consiglio di Amministrazione dell’Alma Mater, punta su Big Data e industria 4.0. La scuola, della durata di quattro anni, avrà sede presso l’Opificio Golinelli, a Bologna, e conterà su più di 20 borse. Il bando uscirà entro aprile, mentre i dottorandi inizieranno a lavorare in autunno con docenti provenienti dagli Enti che hanno contribuito al progetto, cioè Politecnico di Milano, Cineca, CNR, Istituto nazionale di fisica nucleare, Istituto Italiano di Tecnologia e Isi Foundation. Il dottorato sosterrà la ricerca anche in ambiti significativi per le attività del Data Center del Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine, che avrà sede a Bologna. (Fonte: Corriere di Bologna 07-03-17)

IL DATA CENTER EUROPEO PER LA RICERCA SUL CLIMA (ECMWF) AVRÀ SEDE A BOLOGNA
Bologna sarà la sede del data center del centro meteo europeo (Ecmwf), organizzazione intergovernativa di 34 Paesi che fornisce previsioni meteorologiche e climatiche a medio termine, informazioni strategiche sia per l’uso civile (dall’aeronautica alla protezione idrogeologica) sia per la difesa nazionale, che sganciano finalmente l’Italia dalla totale dipendenza dall’estero per le previsioni numeriche sull’atmosfera. «Una grandissima notizia e un’enorme soddisfazione per l’Italia, l’Emilia e Bologna», così il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha commentato il verdetto arrivato dal Council dell’European centre for medium-range weather forecasts, riunitosi in seduta straordinaria a Reading (attuale sede del centro meteo, 40 miglia a ovest di Londra) per decidere la nuova casa dei super-computer che conterranno ed elaboreranno la mole enorme di dati e informazioni sul clima europeo per i prossimi 30 anni. A ospitare il data center sarà il Tecnopolo di Bologna, in via di costruzione nell’area dell’ex Manifattura tabacchi: 9mila metri quadrati, ampliabili fino a 20mila, nella prima periferia del capoluogo, connessi alla rete scientifico-universitaria Garr, con un impianto Terna in grado di garantire subito 10 MW di potenza raddoppiabili; con la rete in fibra ottica Lepida che assicura subito una capacità di 60 Gbps, in una posizione geografica strategica rispetto al resto dell’Ue per i collegamenti ad alta velocità via ferro e via aria. Nella legge di bilancio 2017 è già previsto uno stanziamento di 50 milioni di euro in tre anni (articolo 1, comma 606) per l’infrastrutturazione del progetto. «Da qui a giugno verranno definiti gli aspetti tecnici legati al cosiddetto “accordo di sede”, che ratificherà l’arrivo sotto le Due Torri della struttura», precisa il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, rimarcando che a vincere à stato «il gioco di squadra tra istituzioni, università, centri ricerca». (Fonte: I. Visentini, www.ilsole24ore.com 02-03-17)

POLIMI. UN CAMPUS CONGIUNTO CON TSIN-GHUA UNIVERSITY DI PECHINO
Il campus congiunto italo-cinese (o, meglio, sino-italiano) nascerà in Bovisa grazie all'accordo d'intesa siglato di recente tra il Politecnico di Milano e Tsin-ghua University di Pechino. Il campus, che vedrà la sua futura creazione e sarà operativo nel 2018, avrà come obiettivo principale di rispondere alla crescente esigenza di rafforzare i rapporti economici e gli scambi nel settore artistico e del design tra Italia e Cina. Il Politecnico, da anni attivo con scambi di studenti e di docenti con la Cina (circa 150 ogni anno), con questo nuovo campus (che sarà luogo di confronto e di iniziative di ricerca e innovazione congiunte che coinvolgeranno, in particolare, dottorandi e ricercatori) intende pertanto incrementare il suo ruolo di hub internazionale per il sistema industriale italiano nel settore del design e della tecnologia, decisamente strategico per il Paese. (Fonte: IlSole24Ore 30-01-17)

UNIMI. LA NUOVA FACOLTÀ DI MEDICINA VETERINARIA PRONTA PER LA PRIMAVERA 2018
La costruzione nell’area di cascina Codazza a Lodi della nuova facoltà (o dipartimento) di Medicina veterinaria dell'Università Statale di Milano procede, anche se l'iniziale previsione di aprire il prossimo anno accademico pareva troppo ottimistica e il termine è stato spostato di un anno, al ciclo di studi 2018-2019. 57 milioni di euro complessivi di investimento distribuiti fra ateneo, Regione ed enti locali. A confermarlo, il direttore generale dell'università, Walter Bergamaschi: «La consegna del campus è prevista, secondo gli ultimi accordi con le aziende appaltatrici, per la primavera del 2018. È possibile che alcuni edifici entrino in funzione anche prima, ad esempio l'ospedale veterinario per piccoli animali». Sarà dunque il 2018 l'anno chiave per la facoltà milanese dopo 225 anni di storia (prima della fondazione della Statale esisteva già come Scuola superiore di Veterinaria), con il trasloco dal complesso di via Celoria nella nuova sede di Lodi progettata dall'architetto giapponese Ken-go Kuma. (Fonte: F. Gastaldi, CorSera Milano 03-02-17)

UNIMOL. HA OTTENUTO LA VALUTAZIONE PIÙ ALTA TRA LE PROPOSTE PER DOTTORATI INNOVATIVI
La Direzione generale per il coordinamento, la promozione e la valorizzazione della ricerca – Dipartimento per la Formazione Superiore e per la Ricerca del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca – ha approvato, in funzione delle valutazioni effettuate dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca), la graduatoria finale
relativa al bando PON R&I Programma Operativo Nazionale Ricerca e Innovazione “Dottorati innovativi a caratterizzazione industriale”. Tra le proposte di tutti gli Atenei italiani, l’Università degli Studi del Molise ha ottenuto la valutazione più alta. È il primo Ateneo, con punteggio 91. (Fonte: MIUR gennaio 2017)


UE. ESTERO

THE TEACHING SURVEY 2017: RESULTS AND ANALYSIS
Teaching is a major source of satisfaction for university lecturers despite growing frustration with heavy administrative loads and badly prepared students who moan about their marks. These are some of the conclusions that can be drawn from Times Higher Education’s first major survey of university staff’s attitudes towards teaching. Over several months in 2016, some 1,150 higher education staff – of whom 90 per cent are academics – gave us their views on the joys and day-to-day challenges of teaching at university. About 85 per cent of respondents came from more than 130 UK institutions, but staff from various other regions also took part, including the US, Canada, Australia, Europe and Asia.
While many university staff rate teaching as highly as research, many wonder if their university feels the same way: 55 per cent of academics and 63 per cent of administrators agree that research is valued more highly than teaching by their institution, while 30 per cent of academics and 28 per cent of administrators disagree. (February 16, 2017)

Download the full results of the THE Teaching Survey 2017:

UN GIOVANE SU TRE, SECONDO UNO STUDIO DELL'UNESCO, FREQUENTA L'UNIVERSITÀ. PIÙ DEL DOPPIO DI VENT'ANNI FA
L'ultimo report scientifico dell'Unesco, "Towards 2030" - 800 pagine, 46 collaboratori in cinque continenti, lavoro chiuso nel dicembre 2016 -, descrive la strada dell'accesso alla conoscenza superiore come un'autostrada a sei corsie che i governi più consapevoli, molti nel Sud Est asiatico, intendono far percorrere alla gioventù. Nel 1996, nel mondo, il 14% dei ragazzi tra i 18 e i 24 anni, frequentava un ateneo, oggi gli "universitarians" sono il 32%. Vent'anni fa cinque Paesi avevano almeno metà dei giovani chini nei dipartimenti, oggi gli Stati con questo primato sono 54, un terzo di quelli che aderiscono all'Onu. In Corea del Sud - nazione insieme alla Finlandia in cima a tutti i ranking scolastici - quasi il 70% dei 30-34enni è laureato. E in quella fetta di mondo orientale, da vent'anni emergente, la convinzione che il riscatto sociale e la battaglia globale si giochino innanzitutto studiando si vede negli investimenti pubblici. La Malesia ha pianificato di diventare il sesto approdo assoluto per studenti internazionali a partire dal 2020, e per quell'anno il governo vietnamita punta ad avere 20.000 dottorati universitari in più. In Cina 9,5 milioni di giovani ogni anno devono affrontare il gaokao, l'esame di ammissione necessario per entrare all'università: dura nove ore in un lasso di due giorni. L'università più internazionalizzata al mondo è la China Medical University di Taiwan: il 93,9% dei suoi lavori è pubblicato in collaborazione con altri atenei. (Fonte: C. Zunino, La Repubblica 13-02-17)

PER I RICERCATORI POSTDOTTORATO 218 MILIONI DI EURO DI CONTRIBUTI MSCA
La Commissione europea ha annunciato i risultati del bando di gara lanciato nel 2016 per i finanziamenti di ricerca post-dottorale delle Azioni Marie-Skłodowska-Curie (MSCA), nel quadro del programma UE Orizzonte 2020. A quasi 1.200 ricercatori di eccellenza, in grado di apportare un grande impatto sulla nostra società e sulla nostra economia, andranno sovvenzioni per un importo complessivo di oltre 218 milioni di euro. Nel novembre 2016 le azioni MSCA hanno celebrato 20 anni di attività tesa a premiare l’eccellenza tramite il sostegno alle risorse umane impegnate sul fronte della ricerca e dell’innovazione. Anche se non sono disponibili risorse sufficienti per finanziare tutte le candidature di punta, per la prima volta anche le candidature per Borse di studio individuali (IF) che – pur non rientrando nei progetti finanziati – hanno ottenuto un punteggio pari o superiore all’85 %, riceveranno un marchio di eccellenza. (Fonte: Agenpress 30-01-17; www.notiziariofinanziario.com 20-02-17)

QUALI SONO GLI ATENEI IN GRADO DI SFORNARE IL MAGGIOR NUMERO DI START UP DI SUCCESSO?
In questa speciale classifica non sorprende trovare ai primi posti gli Stati Uniti. Dalle cui università negli anni sono venuti fuori colossi come Facebook, il popolare social network creato da Mark Zuckerberg quand’era ancora uno studente di Harvard. Ma è un altro ateneo a stelle e strisce, secondo un recente studio condotto da Sage, a dominare la graduatoria. Stiamo parlando di Stanford, che vince nettamente, dimostrandosi l’università più capace di coltivare i talenti. I fondatori di start up la cui valutazione è superiore al miliardo di dollari che hanno frequentato questo ateneo sono ben cinquantuno. Quattordici in meno sono quelli provenienti da Harvard (37), mentre i creatori di imprese “unicorno” – così sono definiti in gergo gli start up con valutazioni a nove zeri – provenienti dalla University of California sono diciotto. Il quarto posto della classifica degli atenei che hanno sfornato il maggior numero di start up miliardarie spetta all’Indian Institute of Technology di Nuova Delhi, un insieme di 23 istituzioni, che ha avuto tra i propri studenti 12 startupper di successo. Un gradino più in basso si torna in America: qui, infatti, troviamo il MIT di Boston. L’Europa, invece, è staccata. La prima università del Vecchio continente in graduatoria è Oxford, che si ferma al settimo posto con le sue 8 start up unicorno. In classifica ci sono anche il francese Institut européen d’administration des affaires e la tedesca Otto Beisheim school of management. Nessuno spazio, invece, per le università italiane. (Fonte: universita.it 31-01-17)

UNIVERSITÀ EUROPEE CONVENIENTI PER LE RETTE E/O PER IL COSTO DELLA VITA
In molti Paesi europei si può frequentare l’università spendendo davvero poco. Tra tasse molto basse o addirittura assenti, varie forme di sostegno economico agli studenti e affitti abbordabili, ecco dove si può prendere una laurea low cost. In Germania, per esempio, c’è la Humbdolt Universitat di Berlino. Un ateneo che è molto più che low cost: è totalmente gratuito. In generale tutte le università tedesche hanno tasse simboliche o addirittura pari a zero. Tra quelle in cui si studia gratis ci sono Free University Berlin, Berlin Technical University, Technical University of Munich e University of Hamburg. In Polonia le tasse non sono propriamente low cost (si può arrivare anche a quasi 4mila euro annui), ma un po’ dappertutto – compresa la capitale, Varsavia – si può vivere e studiare spendendo in tutto meno di 400 euro al mese. Tra i paesi europei in cui studiare è low cost ci sono anche i Paesi Bassi. I corsi universitari sono tenuti per lo più in inglese e sono presenti numerose e importanti forme di sussidio. In Belgio, poi, ci sono delle agevolazioni specifiche per i cittadini europei. Così, se gli stranieri extracomunitari possono arrivare a pagare oltre 3.800 euro all’anno, per gli studenti dell’UE le tasse si riducono notevolmente, attestandosi tra i circa 600 e i circa 800 euro annuali. E tra le nazioni europee nelle quali l’università è low cost ci sono pure Spagna e Francia. Nel primo caso sono bassi sia le tasse che il costo della vita. Nel paese transalpino, invece, le rette universitarie sono decisamente più che abbordabili, anche se gli affitti e le altre spese non sono di certo particolarmente contenuti. Infine l’Austria. Forse non sarà un paese in cui il costo della vita è particolarmente basso, ma di certo lo sono le tasse universitarie: appena 360 euro l’anno. (Fonte: universita.it 17-01-17)

CONVERGENZE PER UNA NUOVA POLITICA ESTERA DELL’UNIVERSITÀ ITALIANA IN USA
Una nuova politica estera dell'università italiana debutta a Washington, esordendo con lo sbarco di 35 atenei presso l'ambasciata italiana nella capitale federale. In quella sede, ospiti dell'ambasciatore Varricchio, i rettori e i loro delegati, incontreranno decine di omologhi statunitensi. Saranno tre giorni di incontri, accuratamente preparati. La finalità è semplice: candidare il nostro Paese a una partnership più forte con le università americane. Attenzione: i legami con gli Usa nell'ambito della ricerca sono già molto robusti. In quindici anni (2000-2014) gli scienziati italiani hanno prodotto quasi 280.000 articoli in collaborazione con autori stranieri. Il 12,6 % di questi è con studiosi Usa; molti, molti meno con francesi (7,2%) o tedeschi (7,4%). E invece nell'ambito della formazione che i numeri sono molto insoddisfacenti. È vero che nel 2015 l'Italia ha concesso oltre 16.000 visti a universitari statunitensi per venire a studiare in Italia. Sicché risultiamo, dopo il Regno Unito, la destinazione di studio più scelta al mondo dagli studenti Usa. Ma poi, nella stragrande maggioranza, questi ragazzi non seguono corsi di università italiane. Rimangono isolati nelle più o meno dorate residenze di cui gli atenei del loro Paese dispongono qui e là nella Penisola. Così, sempre nel 2015, si sono iscritti negli Stati Uniti, ai vari livelli accademici, oltre 5.000 studenti italiani; mentre gli iscritti di cittadinanza americana in Italia sono stati meno di cento. Serve una politica integrata di promozione. Ma la buona notizia è che questa politica è ora delineata e farà le sue prime prove nel corso del 2017. Si parte, appunto, da Washington. L'evento è scaturito dalla collaborazione tra la nostra rappresentanza negli USA e la CRUI. Ma una task force è al lavoro da qualche mese per implementare una strategia condivisa ed efficace. E guidata congiuntamente dal MIUR  e dal Ministero degli Affari esteri, ed è orchestrata dal direttore generale per la promozione del sistema Paese, De Luca. Il fatto nuovo che consente la svolta è uno solo. Le forze che prima si muovevano in ordine sparso ora convergono. (Fonte: F. Rugge, CorSera 23-01-17)

UK. POSSIBILI CONSEGUENZE DELLA HARD BREXIT
Il primo ministro britannico Theresa May ha finalmente rotto gli indugi: sarà Hard Brexit. La decisione di troncare di netto le relazioni con l’Unione Europea, però, rischia di pesare sull’economia del Regno Unito. E, in maniera non trascurabile, perfino sulle casse delle università. Per gli atenei britannici, infatti, potrebbero arrivare tempi di magra, con perdite in termini di minori ricavi derivanti dalle attività di ricerca pari a quasi 2 miliardi l’anno. E sarebbero a rischio anche 19mila posti di lavoro. La ragione di queste previsioni sta nel fatto che, lasciando l’UE, verrebbero a mancare i fondi per la ricerca che gli organismi europei concedono annualmente al Regno Unito. I quali mediamente generano un ritorno pari a 1,86 miliardi di sterline. Oltre alle risorse che sparirebbero, a seguito della Hard Brexit le università potrebbero trovarsi anche a dover spendere di più per il reclutamento di ricercatori e docenti provenienti dai paesi membri dell’Unione Europea, a causa dei maggiori ostacoli burocratici che subentreranno. Inoltre, c’è il rischio di una minore attrattività che le università d’Oltremanica potrebbero avere per gli studenti europei. Attualmente la Gran Bretagna è una delle mete favorite dagli studenti internazionali, ma una scelta radicale come l’Hard Brexit potrebbe cambiare le cose. Germania, Francia, Irlanda e Italia sono nella top ten per numero di studenti iscritti a un ateneo britannico (con un totale di oltre 47mila iscritti), ma non è detto che la perdita dei benefici derivanti dall’essere cittadini UE non abbia un impatto sulle scelte dei giovani di questi paesi. E quello degli studenti internazionali è un business con un giro d’affari complessivo di 30 miliardi di sterline annue. Che rischia di ridimensionarsi. (Fonte: universita.it 20-01-17)

UK.  UNIVERSITÀ INGLESI STAREBBERO PRENDENDO IN CONSIDERAZIONE L'APERTURA DI FILIALI IN EUROPA
Nei giorni scorsi il Telegraph ha svelato che diverse università inglesi starebbero prendendo in considerazione l'idea di aprire filiali in Francia. La prima potrebbe essere la più antica e prestigiosa del Regno Unito: Oxford. Nei giorni scorso, secondo quanto riporta il quotidiano britannico, i vertici dell'Università avrebbero incontrato            rappresentanti istituzionali francesi. L'idea è quella di costruire un nuovo campus a Parigi in cui ricollocare interi corsi universitari e laboratori di ricerca. Da tempo gli accademici britannici ripetono che l'uscita dall'Unione Europea per la formazione e la ricerca inglese potrebbe essere un disastro senza precedenti. Dal punto di vista delle collaborazioni internazionali e dell'attrattività, ma soprattutto a causa del prosciugamento del flusso dei finanziamenti dalI'Ue. Che sono tutt'altro che trascurabili: circa 2 miliardi e mezzo di euro l'anno. A cui ora i sudditi di Sua Maestà non vogliono rinunciare. L'apertura di filiali in Europa potrebbe essere l'uovo di Colombo per mantenere la ricerca britannica in Europa, mentre il regno coltiva il suo splendido isolamento. (Fonte: A. Michienzi, Pagina99 25-02-17)

UK. NOVE UNIVERSITÀ SU DIECI IMPORREBBERO RESTRIZIONI A IDEE, LIBRI, ORATORI
Un sondaggio della rivista libertaria Spiked ha rivelato che nove università inglesi su dieci impongono restrizioni a idee, libri, oratori. Il "Russell Group", che raccoglie le università più prestigiose d'Inghilterra, è quello più attivo nella censura di idee ostili. L'Università di Aberystwyth, nel Galles, ad esempio ha bandito dai suoi locali la Bibbia. La Sacra scrittura sarebbe "inadeguata all'ambiente multiculturale dell'ateneo". Si spiana la strada all'ignoranza, conclude Scruton, filosofo. Gli studenti della Scuola di studi orientali e africani dell'Università di Londra (Soas) hanno appena chiesto di bandire Platone e Kant, Aristotele e Arendt, Socrate e Sartre. Hanno una grave "colpa", questi filosofi: sono bianchi, quindi sarebbero esponenti del "colonialismo" che andrebbe espulso dalle istituzioni accademiche. "Le nostre menti sono colonizzate", ha detto al Guardian Deborah Johnston, direttrice del dipartimento Insegnamento della scuola che vuole bandire i classici della filosofia occidentale. Vogliono più Frantz Fanon, quello dei "dannati della terra", e meno Cartesio. "Newsnight" della Bbc ha dibattuto se "le università dovrebbero astenersi dall'insegnare i filosofi occidentali". "They Kant be serious", ha titolato il pugnace Daily Mail sull'università che vuole proibire il filosofo tedesco. Conclude Scruton: "Sarei proprio curioso di capire cosa vedano di colonialista nella 'Critica della ragion pura’ di Immanuel Kant". (Fonte: Il Foglio 25-02-17)

UK. I MASCHI BIANCHI WORKING CLASS IN POCHISSIMI SI ISCRIVONO ALL'UNIVERSITÀ
Nelle scuole statali inglesi ad abbassare la media del rendimento sono i maschi bianchi working class. Sono loro i fanalini di coda, ultimi nelle classifiche per rendimento, ultimi anche in fatto di ambizione: pochissimi si iscrivono all'università. L'ateneo di Oxford si propone adesso di aiutarli con una scuola estiva che mira a migliorare le loro prestazioni scolastiche incoraggiandoli a studiare di più e ad appassionarsi a nuove materie. «Stando alle nostre ricerche sono vittime di un doppio svantaggio - ha spiegato un portavoce del Sutton Trust, una charity per la mobilità sociale -  La povertà della famiglia e della comunità in cui abitano li rende il gruppo che ha meno possibilità di continuare gli studi oltre i 16 anni: solo il 29% rimane a scuola rispetto al 45% dei maschi che abitano in zone più ricche e al 68% di quelli che provengono da famiglie più facoltose». (Fonte: P. De Carolis, CorSera 03-03-17)

USA. IL POSTDOC NON CONVIENE A CHI SCEGLIE DI LAVORARE FUORI DAL MONDO ACCADEMICO
Siamo negli Stati Uniti e a porsi la domanda è uno dei tanti giovani ricercatori, freschi di PhD in discipline biomediche, che deve decidere se approfondire le sue conoscenze con un postdoc oppure buttarsi nel mondo del lavoro equipaggiato “solo” con un dottorato. Il previdente scienziato vorrebbe sapere, cioè, se il tempo e il denaro necessari per allungare di una riga il suo curriculum vitae grazie a quel titolo in più sono o no un buon investimento. La risposta arriva da uno studio pubblicato su Nature Biotechnology che, in estrema sintesi, dà questo consiglio: per tutti coloro che non vogliono diventare professori universitari di ruolo il postdoc non conviene. Economicamente parlando, perché è da questa prospettiva che è condotto lo studio, la seconda specializzazione non garantisce alcun vantaggio a chi sceglie di lavorare fuori dal mondo accademico. Anzi. In confronto ai colleghi che hanno iniziato la carriera lavorativa subito dopo il PhD, i ricercatori plurititolati assunti in un’azienda hanno in media minori entrate economiche. Ecco perché. Il sacrificio finanziario comincia durante il postdoc: il tipico percorso di studi successivo al dottorato in biomedicina dura all’incirca 4 anni e mezzo durante i quali la retribuzione è di 45 mila dollari l’anno. Chi, dopo il PhD, va direttamente a lavorare arriva invece a guadagnare quasi il doppio (75 mila dollari l’anno). Secondo questi calcoli gli impiegati con un postdoc che entrano in azienda ci mettono otto, nove anni per colmare le perdite economiche di partenza. (Fonte: www.healthdesk.it 25-01-17)

USA. PRESTITI STUDENTESCHI ALLE STELLE MINACCIANO LO SCOPPIO DI UNA BOLLA SPECULATIVA
Secondo l’economista francese Jacques Sapir l’aumento sconsiderato dei prestiti elargiti agli universitari americani negli ultimi anni toccherebbe un livello prossimo a quello raggiunto dai mutui subprime, responsabili della crisi finanziaria del 2008. L’esplosione della bolla speculativa è più di un presagio. Per Sapir, sono tre le ragioni che sottostanno all’accumulo sconsiderato di prestiti (debiti) studenteschi: la dipartita dello Stato come finanziatore degli studi universitari; il crollo dei salari registrato nell’ultimo quarantennio; l’aumento consequenziale delle domande d’iscrizione al College. La commistione di questi tre aspetti ha favorito forme di finanziamento privato creando un mercato del “prestito studentesco”, proprio come avvenne con i mutui a tasso variabile sulle abitazioni nel 2008. Il risultato? Cresce il numero di studenti incapaci, perché disoccupati o mal pagati, di rientrare dai prestiti contratti con la banche. Secondo le stime portate alla luce da Sapir, i debiti contratti dagli studenti americani per frequentare una qualunque università americana (incluse quelle della Ivy League) ammonterebbero a circa 1.400 miliardi di dollari, 1.000 dei quali sarebbero stati contratti con istituti di credito privati e i restanti 400 con “enti federali”. Ancora, sono 44 milioni gli americani stimati di aver contratto una qualunque forma di prestito (debito) studentesco. Almeno 7,4 milioni di questi, al momento, non presentano condizioni di solvibilità. Il 17% degli ex studenti universitari americani è titolare dell’11% del monte debito totale. (Fonte: D. Morritti 02-02-17)

USA. LE PROFESSIONI PIÙ PROMETTENTI SECONDO LINKEDIN
Linkedin ha recentemente stilato una classifica dei profili lavorativi più promettenti per il 2017. La classifica fa riferimento al mercato degli Stati Uniti. Tra le prime 5 posizioni elencate troviamo in ordine: il medico ospedaliero; il farmacista; il sales engineer; il site reliability engineer; il product manager. Nelle prime posizioni dunque troviamo professioni legate all’ambiente medico-sanitario, e la cosa probabilmente non dovrebbe stupirci molto: negli Stati Uniti queste professioni sono sempre state ben apprezzate e ben pagate, e lo stesso vale per molti altri paesi, Italia compresa. Nella ricerca di Linkedin viene riportata la retribuzione media di ogni professione, e nel caso del medico ospedaliero e del farmacista abbiamo rispettivamente salari annui di 222.000 dollari e 123.000 dollari. In Italia un medico ospedaliero ha una retribuzione molto più bassa: parliamo di un compenso mensile compreso tra i 2.000 e i 5.000 euro (inferiore anche nei confronti di tanti paesi europei). (Fonte: http://it.ibtimes.com 13-02-17)


LIBRI. RAPPORTI. SAGGI

UNIVERSITÀ FUTURA. TRA DEMOCRAZIA E BIT
Autore: Juan Carlos De Martin. Codice edizioni 1017, 236 pgg.
Nata quasi mille anni fa, l’università italiana è un’istituzione antica, che per secoli ha formato l’élite del paese, mentre con l’avvento dell’università di massa è passata a preparare i giovani per il mondo del lavoro, una vocazione ormai data per scontata, che l’autore invece rimette in discussione, alla luce delle sfide globali ineludibili per ogni paese e che il nostro, nonostante tutto, ben può affrontare. A suo parere, “se messa nelle condizioni di farlo”, l’università italiana ha le risorse intellettuali ed etiche per aiutare la società a vincere le sfide che abbiamo davanti, anche se ciò richiede interventi normativi e risorse adeguate, soprattutto per gli atenei del Sud. Tre gli obiettivi da perseguire, secondo De Martin. Innanzitutto, abbandonando l’idea di formare studenti in quanto futuri lavoratori, l’università dovrebbe tornare a educare persone, per farne soggetti realizzati, cittadini consapevoli e lavoratori intelligenti; in secondo luogo, l’università dovrebbe contribuire al sapere, da non intendere però soltanto come conoscenza ritenuta utile, ma come un ritorno ad avere uno sguardo lungo, favorendo la coltivazione di settori della conoscenza che in questo momento sono ritenuti economicamente poco utili, dato che, continuando di questo passo, si rischia di sottrarre ai nostri figli un patrimonio di conoscenze potenzialmente inestimabili; in terzo e ultimo luogo, l’università deve prendere coscienza del contributo importante che può dare alla democrazia, “un potenziale che in altri paesi è chiaro, ma che in Italia attende di venire discusso, capito e, soprattutto, praticato”. Un contributo che può dare, in un’epoca malata di presentismo, generando nuove idee e svolgendo il ruolo di coscienza critica della società. (Fonte: R. Tomei, Il Foglietto 23-02-17)
Abbiamo di fronte cinque sfide da cui dipende il futuro dell’umanità: ambientale, tecnologica, economica, geopolitica e democratica. Sfide a cui si aggiunge, per noi italiani, quella rappresentata dal futuro sempre più incerto del nostro paese. Su quali principi dovrebbe basarsi l’università per aiutare la società ad affrontare questi problemi? Più in generale, cosa potrebbe fare per le persone e la conoscenza? Quali metodi, quali aspetti è bene che restino invariati, e quali potrebbero invece beneficiare della rivoluzione digitale? Dopo oltre vent’anni focalizzati sugli aspetti economici della  missione dell’università, è ora di riscoprirne le radici umaniste e di portarle nel ventunesimo secolo. Juan Carlos De Martin propone un’idea di università pensata per tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro paese, in particolare per i ragazzi e le ragazze nati all’inizio del millennio. (Fonte: presentazione dell’editore)

RISCHIO E PREVISIONE - COSA PUÒ DIRCI LA SCIENZA SULLA CRISI
Autore: Francesco Sylos Labini, Laterza, Roma-Bari 2016.
La scientificità è un’etichetta prestigiosa di status e non è facile da acquisire. Ne consegue che talvolta ci si auto-attribuisce uno statuto di scientificità proprio per ammantarsi di autorità. Il ricercatore Francesco Sylos Labini, fisico teorico che lavora presso il centro Enrico Fermi di Roma e redattore della rivista online Roars, si è domandato nel suo ultimo libro, Rischio e previsione - cosa può dirci la scienza sulla crisi, se l’attuale teoria economica neoclassica che informa la politica internazionale rispetti le regole basilari del gioco scientifico. Ne segue una critica ai principi dell’economia mainstream e una disamina delle conseguenze che investono ricerca scientifica e politiche nazionali. Il quesito sarebbe dovuto sorgere in ognuno di noi dopo che la grande crisi del 2008 si scatenò investendo l’economia mondiale, senza che la teoria economica corrente fosse stata in grado di prevederla. Ma le anomalie possono essere ignorate se esiste una cintura di protezione abbastanza forte da disinnescarle, e in questo caso si può pensare all’egemonia culturale che l’economia neoclassica è riuscita a imporre negli ultimi decenni. Parlare di questi problemi diviene più che mai necessario dato che tali modelli impongono dogmaticamente una certa interpretazione della realtà (definendo quantitativamente ad esempio l'idea di benessere) generando effetti collaterali che si allargano a ogni angolo della nostra società - alle istituzioni, ai servizi pubblici, alla ricerca scientifica – e non ultimo influenzano profondamente la qualità della nostra vita. (Fonte: Roars 21-01-17)

UNIVERSITÀ. QUARTA DIMENSIONE
Autore: Lucio d'Alessandro, Mimesis Edizioni, Milano, 2016, 92 pagg..
Qual è la raison d’être dell’università nel nostro tempo? La politica è destinata a soccombere al mercato? Si può, attraverso una «buona formazione», restituire ai giovani coraggio e fiducia in sé stessi e nelle proprie idee? È a partire da queste e altre domande sul presente e sul futuro della nostra società che questo libro propone la formula ideale di una «intraprendente impresa» capace, attraverso l’innovazione e la creatività, di assaltare con veloci scialuppe i grandi bastimenti dell’economia globale. Superando le chiusure insite in talune discussioni sui diversi tipi di riforma che vengono proposti oggi nel dibattito pubblico, si disegna una quarta dimensione dell’università, luogo di elaborazione di una speciale “microfisica” in grado di inserire in quello stesso mercato che ci spaventa nuovi episodi che, senza vincerlo, tuttavia lo modifichino e nel frattempo consentano di realizzare un po’ di più le speranze dei nostri giovani, di mantenere il governo e il benessere dei nostri territori. (Fonte: recensione dell’editore)

IL PRESENTE NON BASTA. LA LEZIONE DEL LATINO
Autore: Ivano Dionigi. Ed. Mondadori, Saggi, 2016. 112 pgg.
Il latino è lingua dell’imperium e dell’ecclesia, della politica e della scienza, che ci ha fatto da tramite con il sapere giudaico e quello greco. Certo anche senza latino si può vivere, ma forse un po’ peggio, almeno secondo i suoi sponsor (parola latina come deficit, referendum, virus, cellula; ma anche media, audio, monitor e computer…).
I motivi non mancano: “Innanzitutto è la mater certa del nostro italiano – spiega l’autore al Bo – se vogliamo usare bene la nostra lingua è sempre meglio conoscere l’origine delle parole, la cosiddetta etimologia. Il rischio altrimenti è di limitarsi a ripetere ovvietà: i verba obvia di cui parla Frontone. Parole che usiamo solo perché letteralmente ‘ci vengono incontro per via’, che ci scelgono e non scegliamo”. Il latino serve insomma a parlare e a scrivere bene le altre lingue, compreso l’inglese (che da esso deriva una gran parte dei suoi vocaboli): “Troppo spesso oggi usiamo parole cadaveriche, stinte nel loro significato, quando invece i grandi autori del passato ci insegnano il potere enorme della parola: ‘sovrano potente’ secondo Gorgia perché ‘minuta e invisibile’ compie i più grandi miracoli ...”.
Un secondo motivo, al di là del dato disciplinare, sta nel senso della storia: “Il latino ci trasmette una cultura profondamente basata sullo scorrere del tempo: basti pensare alla consecutio temporum, o al diritto romano, opus commune et perpetuum. Oggi tendiamo a essere schiacciati sulla contemporaneità, mentre avremmo bisogno di affiancare al discorso tecnologico, che dilata lo spazio, quello umanistico, che invece dilata il tempo”.
Una ragione ulteriore sta infine nel profondo rapporto che nella nostra civiltà si è creato tra studio dei classici e umanesimo: “Oggi a rispondere a molte delle nostre esigenze c’è la tecnologia, ma chi ci aiuta a porre le domande giuste? E chi ci avverte che per ogni risposta ci sono nuove domande che si pongono? C’è un sapere altro rispetto a quello tecnologico, che opera per accumulo e non butta via le cose vecchie come se non servissero più”.
Il latino insomma ha ancora molto da dire, anche perché insegna a studiare e ad apprendere, funzioni che oggi non sono limitate agli anni della scuola e dell’università ma si allargano a comprendere tutto l’arco della vita. Oggi la scuola deve formare cittadini completi e non semplicemente ‘utili impiegati’, come direbbe Nietzsche. E anche qui l’esercizio del tradurre serve a distendere l’arco del tempo e, per dirla con Petrarca a “guardare contemporaneamente avanti e indietro” (simul ante retroque prospicientes). (Fonte: D. Mont D’Arpizio, IlBo 08-02-17)

UNA RIFLESSIONE SU COMPARAZIONE COSTITUZIONALE E MANUALISTICA
Autore: Giuseppe de Vergottini. Rivista italiana costituzionalisti n° 1/2017. 20 pgg.
In cosa consiste un manuale di diritto costituzionale comparato? Se esaminiamo il numero veramente vasto di testi a disposizione sia in Italia che in altri Paesi possiamo renderci conto della varietà di impostazioni seguite dagli autori e quindi della varietà di metodi e di contenuti. Si va da elaborati che affrontano in modo attento e approfondito concetti basilari del diritto costituzionale a testi meramente espositivi che si diffondono in ricognizioni più o meno approfondite e aggiornate degli ordinamenti costituzionali esaminati e dei loro sviluppi e che poco hanno a che fare con la comparazione.
In realtà, la prima osservazione che si può fare come premessa è che il manuale dovrebbe avere prevalentemente una finalità formativa e didattica. E ciò in quanto nasce per rispondere alla esigenza di illustrare una certa materia in modo organico e chiaro al fine di consentire ai discenti un approccio utile ai problemi affrontati. Ma ad un tempo il manuale può rivelare lo sforzo di sistemazione della materia condotto dall’autore con originalità scientifica così da offrire anche un modo personale attraverso cui giungere all’approfondimento dei concetti trattati.
L’analisi che ci si accinge a svolgere per forza di cose sarà del tutto parziale e quindi intende costituire soltanto un primo approccio a un tema molto vasto. Intende occuparsi dei manuali e quindi non vuole tenere conto di importanti studi monografici e di saggi tematici sui diversi profili che di solito i manuali trattano in sequenza. Inoltre, vuole dare conto con un criterio del tutto personale, e quindi sicuramente opinabile, di una selezione che non pretende di essere completa dei manuali non soltanto di autori italiani, ricordando spesso contributi stranieri tutte le volte che per ragioni sistematiche è apparso utile allargare l’orizzonte al di fuori dell’ambito italiano. (Fonte: Introduzione dell’Autore)

L'INSEGNAMENTO SUPERIORE NELLA STORIA DELLA CHIESA: SCUOLE, MAESTRI E METODI
Jerónimo Leal, Manuel Mira (a cura di). Edizioni Pontificia Università S. Croce 2016. 540 pgg.
L’università nasce tra l’XI e il XII secolo nel seno della Christianitas, grazie anche all’iniziativa delle autorità ecclesiastiche dell’epoca. Già molti secoli prima erano presenti istituti d’insegnamento superiore e centri di aggregazione intellettuale nella Chiesa. In età antica, essi nacquero da scuole catechetiche, come ad esempio quella di Alessandria d’Egitto; oppure per iniziativa dei singoli, come nel caso del Vivarium di Cassiodoro. Nell’alto Medioevo questa funzione d’insegnamento fu svolta dai monasteri, in un ambiente feudale e rurale, generalmente poco alfabetizzato.
La ripresa economica, politica e culturale del secolo XI, nonché la rinascita delle città, favorì il sorgere delle prime università, che nei secoli successivi si diffusero in vari centri d’Europa: Oxford, Coimbra, Salamanca, Parigi, Lovanio, Tubinga, Bologna, Praga, Cracovia, Pecs, ecc.
Con la scoperta e la colonizzazione del nuovo mondo, le università si diffusero anche nel continente americano, a iniziare da Lima e Città del Messico. In tutti questi centri si sviluppò un’intensa, vivace e interessante vita accademica da cui nacquero scuole di pensiero, spesso in contrasto tra loro ma sempre portatrici di nuove idee e di fecondi sviluppi culturali. Fino al XVII secolo la teologia fu sempre un elemento centrale degli studi universitari. Le correnti illuministiche del Settecento, la Rivoluzione francese e le politiche culturali degli stati liberali dell’Ottocento emarginarono – se non espulsero – la teologia e lo stesso cristianesimo dalle aule universitarie. La reazione della Chiesa fu la fondazione di università cattoliche nei secoli XIX e XX. Il Concilio Vaticano II aprì un nuovo scenario di dialogo tra fede e cultura.
Questo testo raccoglie gli Atti del Convegno “L’insegnamento superiore nella storia della Chiesa: scuole, maestri e metodi”, organizzato dal Dipartimento di Storia della Chiesa della Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce, il 9-10 marzo 2016. I vari contributi presentati ripercorrono questo itinerario, nel quale l’incontro tra il cristianesimo e la cultura è stato foriero di sviluppo intellettuale, culturale, politico e sociale. (Presentazione dell’editore)

UNIVERSITÀ E RICERCA. LE POLITICHE PERSEGUITE, LE POLITICHE ATTESE. IL DIFFICILE PERCORSO DELLE AUTONOMIE UNIVERSITARIE (2010-2016)
Volume pubblicato sul sito del CUN. 82 pgg.
82 pagine, fitte di analisi, tabelle, grafici, riferimenti a leggi, considerazioni, proposte stilate dal Consiglio Universitario Nazionale. Un bilancio che, però, presenta molte cifre in rosso: gli italiani laureati sono al di sotto della media dei Paesi OCSE; diminuisce la percentuale dei neo-diplomati che entrano nell’università, con punte particolarmente negative in alcune aree soprattutto del Sud e delle Isole; è scarso il riconoscimento che il nostro mercato del lavoro tributa alla formazione universitaria; è troppo elevato il numero degli abbandoni; malgrado la prevalenza di studentesse iscritte, restano marcate differenze svantaggiose rispetto ai maschi. Altro capitolo: la ricerca. Anche qui la valutazione si è finora affidata troppo a numeri e quantità, non sempre riuscendo ad entrare adeguatamente nel merito della qualità.  Passando alla progressione di carriera dei docenti, il CUN stima che, per allinearci agli standard internazionali, occorrerebbe aggiungere al personale attuale almeno 2mila ordinari, non meno di 4mila associati e almeno 2mila ricercatori. Il CUN si preoccupa anche della condizione in cui oggi versano i giovani ricercatori assunti su posizioni temporanee e troppo poco tutelate. In conclusione, la situazione attuale dell’Università, per tanti aspetti così problematica, pone pesanti limiti all’autonomia organizzativa, finanziaria, scientifica e didattica, in contrasto con quanto la Costituzione prevede per il bene del Paese. (Fonte: recensione di Roars 03-03-17)
Commenti alla recensione:
È assolutamente stupefacente quanto siano serie, pacate, costruttive le prese di posizione del CUN. Si può non condividerle, ma colgono spesso il cuore del problema e propongono anche soluzioni Come si spiega una cosa del genere? Perché il CUN è così solo ed emarginato (si vede anche dagli scarsi commenti qui), mentre ognuno di noi subisce e spesso emula e accarezza i carnefici. Questa sindrome di Stoccolma non si spiega. (Braccesi).
A mio parere c’è una spiegazione semplice del perché “il CUN è così solo ed emarginato …, il CUN non distribuisce FFO e punti organico. Il CUN non scrive ranking. Il CUN non paga centinaia e centinaia di esperti di valutazione/membri GEV etc. etc. (A. Baccini).
Aggiungerei che il CUN non dipende dai finanziamenti ministeriali. I rettori invece non possono permettersi di inimicarsi il governo, perché rischierebbero di danneggiare la propria sede.
Lo stesso purtroppo si applica anche ai presidenti degli enti di ricerca, peraltro (quasi tutti) nominati dal governo. Osservo peraltro che nel passato, e sicuramente negli anni ottanta il CUN era legato al potere politico attraverso i sindacati che dominavano le elezioni dei membri del CUN. (A. Figà Talamanca)

SCIENZA, QUO VADIS? TRA PASSIONE INTELLETTUALE E MERCATO
Autore: Gianfranco Pacchioni, il Mulino 2017, 146 pgg.
«Il mondo della ricerca è cambiato profondamente: siamo sommersi dalla quantità e la qualità sfugge. È ora di pensare a un futuro diverso, soprattutto i giovani attratti dall'affascinante prospettiva: è il momento della slow science». Gianfranco Pacchioni pro-rettore all'Università di Milano-Bicocca ha alle spalle una lunga esperienza internazionale. «Ho voluto approfondire», sottolinea, «confrontandomi con mia figlia impegnata in un dottorato in Svizzera». Così è nato Scienza, quo vadis?, una preziosa, ricca e appassionata analisi critica della realtà nella quale lo scienziato ora vive in ogni angolo del pianeta da Seul, a Pechino, a Roma o a New York. Ma è il sottotitolo del libro a fornire la chiave di lettura nella quale si dibatte ogni ricercatore "tra passione intellettuale e mercato"; una parola, quest'ultima, che fa rabbrividire solo a pronunciarla e potenzialmente capace di sterilizzare e uccidere la prima, la passione. Il numero di articoli pubblicati è ora intorno ai due milioni l'anno. «Resta difficile credere che ogni anno vengano fatte due milioni di scoperte che portano ad altrettanti tangibili avanzamenti nel mondo scientifico. È impossibile leggere tutto anche nel proprio settore. Sempre più spesso si assiste alla pubblicazione di studi in cui vengono presentate come novità assolute cose che sono note da anni». L'arrivo di Internet ha provocato una rivoluzione. Prima i risultati erano diffusi solo su carta ma dai primi anni Duemila sono nate le riviste open access, ad accesso aperto rendendo subito disponibile i risultati di un'indagine. In questo caso l'autore paga in media tra i mille e duemila euro per rendere pubblici senza filtri i risultati delle proprie ricerche. Il nobile concetto dell'accessibilità è così diventato un mercato. Le incertezze e le ambiguità scaturite dalla situazione talvolta capace di incentivare, com'è accaduto, truffe e plagi, spingono molti scienziati a chiedere il ritorno alle pratiche e ai rigori di un tempo favorendo nel 2010 la nascita del movimento "slow science" nel cui manifesto si legge che «la scienza richiede tempo per pensare, necessita di tempo per leggere e persino per sbagliare». (Fonte: G. Caprara, CorSera Sette 03-03-17)

I DOVERI DEI PROFESSORI E RICERCATORI UNIVERSITARI E IL REGIME DELLE SANZIONI TRA NORME DISCIPLINARI E CODICI ETICI
Autore: Loredana Ferluca, Rivista “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni 2”. 2016. 29 pgg. 
L’esclusione del rapporto di impiego dei docenti universitari dall’ambito di operatività della contrattualizzazione comporta, con riferimento alla materia disciplinare, che la stessa non è soggetta alle norme previste per i dipendenti pubblici “privatizzati”. La legge di riforma dell’Università n. 240/2010 introduce una rilevante novità, rappresentata dal decentramento del potere disciplinare presso i singoli Atenei, ma non interviene sui profili sostanziali degli illeciti e delle sanzioni disciplinari applicabili ai docenti universitari, con riferimento ai quali il T.U. del 1933 delinea un sistema disciplinare lacunoso, caratterizzato da un elevato grado di indeterminatezza ed elasticità e dalla mancata previsione della correlazione tra gli illeciti sostanziali e le sanzioni applicabili. La legge n. 240/2010 contiene un’altra innovativa previsione relativa all’introduzione dell’obbligo per tutte le Università di adottare codici etici, la cui violazione può assumere rilievo disciplinare. Emerge quindi la necessità di un coordinamento tra le disposizioni contenute nel codice etico e le norme disciplinari, che rappresenta l’occasione per le Università di rimediare alla indeterminatezza del quadro degli illeciti e delle sanzioni e di porre le premesse per il corretto esercizio del potere disciplinare da parte degli organi competenti. (Fonte: Cineca Iris,

VALUTAZIONE DELLA RICERCA, VALUTAZIONE DELLE RIVISTE E COOPTAZIONE UNIVERSITARIA*
Autore: Guido Clemente di San Luca. federalismi.it-ISSN 1826-3534, n. 4/2017. 10 pgg.
Sommario: -1. La questione nel quadro della più generale contingenza politico-istituzionale. -2. Il tema è tipico oggetto di studio della scienza giuridica. -3. Il  tema tocca il nucleo fondamentale  degli ordinamenti liberal-democratici: gli artt. 3, 9, 21 e 33 Cost. -4. In particolare, perché e a quale scopo bisogna valutare la ricerca: finanziamento delle strutture e cooptazione degli studiosi  accademici. -5.Continua: la valutazione delle singole opere.-6. Continua: la valutazione delle riviste. -7. Come valutare: valutazione cieca e critica aperta, le recensioni e il dibattito culturale. -8. Quali proposte. Qui il testo* del saggio > http://tinyurl.com/zgdzmez .
*Testo dell’intervento al convegno su “La valutazione delle riviste scientifiche in ambito umanistico”, tenutosi a Roma lo scorso 26 gennaio, presso il MIUR, in versione scritta successivamente integrandola con un resoconto dei risultati del confrontosvoltosi in quella sede.