martedì 1 settembre 2015

INFO UNIVERSITARIE n. 7 07-09-2015



IN EVIDENZA

ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE. REVISIONE DEL REGOLAMENTO CHE DISCIPLINA LE PROCEDURE PER IL CONSEGUIMENTO
Il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera alla revisione del regolamento dell'abilitazione scientifica nazionale, ossia alla revisione del DPR 14 settembre 2011, n. 222, ovvero il regolamento che disciplina le procedure per il conseguimento. A proposito di quest’ultimo regolamento, un comunicato stampa sul sito del MIUR illustra le principali novità come segue:
        Presentazione delle domande. È introdotta la procedura “a sportello”, nel senso di consentire la presentazione delle domande di partecipazione alla procedura durante tutto l’anno con esclusione del mese di agosto e dei tre mesi precedenti la scadenza della Commissione. L’attuale DPR prevede l’emanazione di un bando e un termine di presentazione delle domande di partecipazione alla procedura.
        Durata dell’abilitazione. Lo schema di regolamento amplia la durata dell’abilitazione scientifica nazionale a sei anni dalla pubblicazione dei risultati (dagli attuali 4 anni dalla data di conseguimento).
        Settore concorsuale. Un decreto ministeriale individuerà i criteri, i parametri e gli indicatori per misurare la produzione scientifica differenziandoli per settore concorsuale, anziché per area disciplinare.
        Commissione (termini e modalità di formazione). Per la valutazione dei titoli e delle pubblicazioni dei candidati, sui quali si basa il rilascio dell’abilitazione a tutte le funzioni di professore, si prevede la formazione di un’unica commissione nazionale per ciascun settore concorsuale (oggi è settore scientifico-disciplinare), di durata biennale.
Il Regolamento dovrà ora essere vagliato dal Consiglio di Stato e dalle Commissioni parlamentari.

TUTTI ADDOSSO AI BARONI. UN COLLAGE DI CITAZIONI DOC
Nicola Casagli su Roars ha messo insieme un collage di citazioni sui baroni che per la completezza e per l'autorevolezza degli autori merita di essere riprodotto.
“Una legge contro ogni forma di clientela e contro i baroni che va esclusivamente nell’interesse del mondo universitario (Letizia Moratti, Ministro, 2005). L’università? È un bordello – Dal palco di Confindustria attacco del ministro alle baronie – C’è un sistema di governo degli atenei che va cambiato: serve una rivoluzione che metta mano al vertice, faremo tutto in un anno (Fabio Mussi, Ministro, 2006). Bisogna finirla con la follia delle università che falliscono, con i corsi che si moltiplicano per i baroni che stanno in giro. Non si può continuare così (Giulio Tremonti, Ministro, 2010). La riforma dell’Università è positiva ma bisogna porre fine ai poteri dei baroni (Giulio Tremonti, Ministro, 2010). Vedo gli studenti, i professori e i baroni manifestare dalla stessa parte (Maria Stella Gelmini, Ministro, 2010). I ricercatori fanno il gioco dei baroni (Maria Stella Gelmini, Ministro, 2010). Via i baroni dagli Atenei, largo ai giovani (Maria Stella Gelmini, Ministro, 2010). Non fatevi strumentalizzare dai baroni e dai centri sociali (Maria Stella Gelmini, Ministro, 2010). Gli studenti che contestano le riforme del governo rischiano di difendere i baroni, i privilegi e lo status quo (Maria Stella Gelmini, Ministro, 2010). Chi è salito sui tetti per protestare contro la riforma dell’Università difende i baroni (Silvio Berlusconi, Presidente del Consiglio, 2010). Il Ministro avrebbe dovuto avere il coraggio di chiudere la metà delle università italiane: servono più a mantenere i baroni che a soddisfare le esigenze degli studenti (Matteo Renzi, sindaco di Firenze, 2013). Ma come sarebbe bello se riuscissimo a fare cinque hub della ricerca, cosa vuol dire? Cinque realtà anziché avere tutte le università in mano ai baroni (Matteo Renzi, sindaco di Firenze, 2013). Basta baroni, offendono le università e i giovani. Col blocco del turnover muore la ricerca (Maria Chiara Carrozza, Ministro, 2013). Ma questo è il vero problema in questo paese, e questo [la procedura AVA] lo portiamo avanti con assoluta fermezza anche se abbiamo bisogno della corazza dalle pallottole dai baroni. Ma questo lo facciamo (Stefano Fantoni, Presidente ANVUR, 2014). Ci dicono di cambiare e noi cambieremo. Sono 20 anni che dicono che le università fanno schifo, smettiamo di dare poteri ai baroni (Matteo Renzi, Presidente del Consiglio, 2015)”. (Fonte: N. Casagli, Roars 14-08-15).
Ci si può domandare se qualcuno degli autorevoli personaggi citati è mai riuscito a migliorare l'università inveendo contro i baroni o se invece quasi tutti abbiano fatto poco per impedire, come ha evidenziato Casagli, "le troppe riforme che hanno sepolto gli Atenei sotto un macigno di inutile burocrazia". Anche V. Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, opina (CorSera 29-08-1) che “c’è una sovrabbondanza di testi normativi disorganici e in continua modificazione ... L’accavallarsi di disposizioni varie in simili provvedimenti non favorisce certo la chiarezza ... Oggi la qualità delle leggi è persino peggiorata: certi testi sono talvolta quasi incomprensibili”.

VALORE DEGLI STUDI UMANISTICI. UN ARTICOLO SU FQ CHE HA APERTO UN DIBATTITO
È giusto studiare quello per cui si è portati e che si ama? Soltanto se si è ricchi e non si ha bisogno di lavorare, dicono gli economisti. Se guardiamo all’istruzione come un investimento, le indagini sugli studenti dimostrano che quelli più avversi al rischio, magari perché hanno voti bassi e non si sentono competitivi, scelgono le facoltà che danno meno prospettive di lavoro, cioè quelle umanistiche. I ragazzi più svegli e intraprendenti si sentono sicuri abbastanza da buttarsi su Ingegneria, Matematica, Fisica, Finanza. Studi difficili e competitivi. Ma chi li completa avrà opportunità maggiori, in Italia o all’estero. Un paper del centro studi CEPS, firmato da Miroslav Beblavý, Sophie Lehouelleur e Ilaria Maselli, ha calcolato il valore attualizzato delle lauree, tenendo conto anche del costo opportunità (gli stipendi a cui rinuncio mentre studio invece di lavorare) delle diverse facoltà nei principali Paesi europei. Guardiamo all’Italia: fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea a cinque anni dalla fine degli studi, per un uomo laureato in Legge o in Economia è 273, ben 398 se in Medicina. Soltanto 55 se studia Fisica o Informatica (le imprese italiane hanno adattato la propria struttura su lavoratori economici e poco qualificati). Se studia Lettere o Storia, il valore è pesantemente negativo, -265. Cioè fare studi umanistici non conviene, è un lusso che dovrebbe concedersi soltanto chi se lo può permettere. L’Italia è il Paese dove questo fenomeno è più marcato. [Nota dell'autore: le tabelle sul valore attualizzato delle lauree non si riferiscono al valore in euro, come può sembrare e come a me è sembrato, ma alla differenza rispetto alla media. I ricercatori fissano a 100 l’NPV medio, cioè il valore attualizzato del titolo di studio (calcolato in euro e poi standardizzato a 100). Quindi se un laureato in materie umanistiche ha un NPD -265 significa che il valore della sua laurea è negativo di oltre due volte il valore medio di un’educazione universitaria.] (Fonte: S. Feltri, FQ 13-08-15)
Un commento di No ponte in coda all'articolo: La conclusione di questo articolo sarebbe di abolire gli studi umanistici, dato "che il valore della sua laurea è negativo di oltre due volte il valore medio di un’educazione universitaria"? Dunque, togliamo dalle discipline di insegnamento la letteratura, il latino, il greco, la storia, la storia dell'arte e quanto altro potrebbe indirizzare gli studenti a scegliere una facoltà umanistica? O meglio, apriamo questi indirizzi solo ai ricchi che possono trastullarsi in queste quisquilie? Non si possono commentare simili proposizioni, perché non esiste una cultura monca e deficitaria di un patrimonio millenario di conoscenza, una cultura privata di una immensa ricchezza letteraria e artistica, di quanto dà lustro a una nazione come la nostra e che il mondo intero ci invidia. Piuttosto - sarebbe la vera riforma della scuola - una visione meno codina del problema condurrebbe a fare delle discipline umanistiche la base propedeutica per l'accesso alle lauree in settori specialistici, giuridici, scientifici, merceologici, amministrativi. Tuttavia c'è chi trae vantaggio da un'involuzione culturale retrograda e deficitaria: la pessima politica e l'analfabetismo di ritorno che la sostiene.
Altro commento di Redazione ROARS (15-08-15): Già nel secondo paragrafo cominciano a scricchiolare le argomentazioni, o meglio non è chiaro come si reggano in piedi: infatti prima Feltri dice che i ragazzi si iscrivono a queste facoltà perché sono portati per le materie umanistiche e le amano (quindi dobbiamo presumere che siano quelli che in italiano, filosofia e storia hanno ottimi voti per esempio), e subito dopo che scelgono le facoltà umanistiche come ripiego i ragazzi che hanno votazioni basse. Non è chiaro da dove Feltri peschi questo ultimo dato (cioè che alle facoltà umanistiche si iscrivono ragazzi con voti bassi), cosa mai affermata nel paper originale, che non prende in considerazione il rendimento precedente degli studenti. Ma in ogni caso, anche se vi fosse davvero una consistente massa di studenti con votazioni basse e scarsa preparazione che si iscrivono alle facoltà umanistiche perché le considerano “più facili”, non è chiaro come questo sarebbe imputabile alle lauree umanistiche in sé e al percorso di studi scelto, né come, invitando un alunno già poco qualificato a non iscriversi a lettere ma a scegliere una facoltà scientifica si potrebbe migliorare la situazione. Se per esempio abbiamo un ragazzo veramente portato per le materie umanistiche (e magari meno, o anche soltanto meno interessato a quelle scientifiche) e lo spingiamo a iscriversi a una facoltà scientifica che non lo attrae o per cui non è affatto portato, rischiamo comunque di votarlo al fallimento La stessa cosa avviene per i ragazzi che si iscrivono a facoltà umanistiche tanto per fare qualcosa: restano lì a vegetare per anni, agguantando voti bassi e imparando poco o nulla, e quando arrivano a conseguire la laurea, sempre che la conseguano, sono assolutamente inadatti al mondo del lavoro e restano disoccupati. Ma, chiediamoci: la colpa è del fatto che hanno una laurea umanistica o del fatto, che, molto semplicemente, l’hanno presa controvoglia e non sono per nulla qualificati o intraprendenti?

CARRIERE UNIVERSITARIE. PROPOSTE DEL CUN E DEL PD
Oggi nelle Università ci sono i professori ordinari e associati – che già c’erano prima – i ricercatori a tempo indeterminato a esaurimento, i ricercatori a tempo determinato ex-legge Gelmini di tipo A e di tipo B, i contrattisti di ricerca ex-Moratti residuali, i docenti a contratto, i Co.co.co. e i Co.co.pro. approvati dalla Corte dei Conti, gli assegnisti di ricerca di tipo A e di tipo B ex-Gelmini, quelli ex 449/97 superstiti, i borsisti di studio e quelli di ricerca, i dottorandi di ricerca suddivisi rigorosamente nei loro assurdi cicli. Il CUN ha recentemente proposto di superare le attuali due tipologie di ricercatori a tempo determinato – A e B – con un’unica figura di pre-ruolo denominata Professore Iunior, perché evidentemente si erano esauriti gli aggettivi del vocabolario italiano per qualificare l’ennesima nuova figura introdotta. Qualche settimana fa è stato diffuso il documento del PD sulla Buona Università e la Buona Ricerca, in cui si dichiara genericamente l’intenzione di introdurre un “contratto unico” per l’Università (cosiddetto Jobs Act).
La proposta del CUN sul Professore Iunior migliorerebbe l’attuale situazione, permettendo il superamento degli RTD A e B, e introducendo di fatto la terza fascia della docenza con un tenure track meno precario dell’attuale e forse più simile ai modelli anglosassoni. La proposta di introduzione di contratti di ricercatore a tempo determinato a tutele crescenti (tipo Jobs Act) potrebbe andare nella stessa direzione, e forse anche coincidere con la proposta CUN. Dovrebbe essere ridotta il più possibile la burocrazia concorsuale. Ma non dovremmo discostarci troppo dai modelli internazionali. La distinzione in professori ordinari, professori associati, ricercatori/lecturer/assistant professor esiste praticamente in tutto il mondo e, accanto a queste, esistono inoltre moltissime altre figure a tempo determinato per scopi di ricerca, didattica, clinica.
Il Jobs Act, nella bozza di documento sulla Buona Università e nelle dichiarazioni, sembra pensato per la didattica, ovvero per l’inserimento con tutele crescenti di docenti per attività formative. Esso potrebbe sostituire l’attuale figura del ricercatore a tempo determinato di tipo B e, in parte, surrogare gli attuali co.co.co. dei docenti a contratto. Nelle Università però non si fa solo didattica, ma anche ricerca, sviluppo, innovazione, assistenza sanitaria e tante altre cose. Sono quindi necessarie forme contrattuali specifiche per ciascuna attività ed è praticamente impossibile che un “contratto unico” possa essere in grado di rispondere a tutte queste esigenze diverse. La migliore cosa da fare, secondo N. Casagli estensore dell'articolo qui riassunto, è, come sempre, tornare a com’era prima: ristabilire il ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato, anche come terza fascia della docenza, e ripristinare le ricostruzioni di carriera anche per il periodo di pre-ruolo. (Fonte: N. Casagli, Roars 31-07-15)

RECLUTAMENTO. UNA LIEVE MODIFICA AL SISTEMA DELLE "FACOLTÀ ASSUNZIONALI" DEGLI ATENEI
C'è stata una lieve modifica quest'anno al sistema delle assunzioni, come ricorda la ministra Stefania Giannini in un post su Facebook: la soglia minima per gli atenei non virtuosi è passata dal 20 al 30% e si potranno reinvestire al 100% le risorse ottenute derivate dalla cessazione dei contratti con i ricercatori a tempo determinato di tipo a. «Si tratta di un'importante eccezione al blocco del turn over a favore dei nostri giovani», afferma la ministra. Ma lo squilibrio tra Nord e Sud resta, come sottolineano le associazioni studentesche. Alberto Campailla portavoce di Link coordinamento universitario: «Gli atenei meridionali subiscono un continuo calo di studenti e risorse». Giancarlo Scuccimarra, dell'Udu, chiede che il sistema sia rivisto. Davide Faraone, sottosegretario all'Istruzione, racconta che una delle ipotesi prevede che i punti organico vengano calcolati tenendo conto «del reddito medio familiare della regione. Ci stiamo riflettendo. Se si ripristinasse il tetto massimo delle tasse al 20% del Ffo (come prima) o se l'importo delle tasse fosse contestualizzato, la forbice tra Atenei si restringerebbe. In modo giusto, attenzione, non regalando nulla a nessuno, ma non avremmo che, rispetto alla media nazionale del 50%, qualcuno arriva al 110% di turnover (e sono al Nord) e tanti (tutti al Sud) che restano sotto al 30%. E' un indicatore che non corrisponde alla qualità o alla virtuosità dell'ateneo ma al contesto economico di quel territorio». (Fonte: F. Amabile, La Stampa 14-08-15)

CENTER FOR WORLD UNIVERSITY RANKINGS. 33 ATENEI ITALIANI FRA I MIGLIORI DEL MONDO
Fra le prime venti università pubbliche presenti nell’edizione 2015 della classifica delle migliori università del mondo redatta dal Center for World University Rankings, istituto di consulenza con sede in Arabia Saudita, figura una manciata di Paesi: Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, Svizzera, Israele, Canada e Francia. L’elenco, che prende in considerazione università pubbliche e private, è stato realizzato tenendo conto di otto parametri come influenza, citazioni, pubblicazioni, impatto e brevetti. Tre variabili, in particolare, rappresentano ognuna il 25% del punteggio totale e cioè: la qualità dell’istruzione, le possibilità di impiego dei laureati e la qualità dei professori. L’Italia vi conta 33 atenei di cui appare al 112° posto Sapienza, seguita dall’Università di Padova (169° posto), dall’Università di Milano (al 172°) e da Bologna (208°). L’elenco completo può essere consultato al seguente link. (Fonte: S. Medetti, Panorama 30-07-15)


ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE

ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE. RASSEGNA DELLE PRINCIPALI MOTIVAZIONI CHE HANNO INDOTTO I GIUDICI AD ANNULLARE ALCUNI ATTI
Il Tar Lazio ha rilevato diverse ipotesi di illegittimità nell'Abilitazione scientifica nazionale (Asn), e pare utile procedere con una breve rassegna delle principali motivazioni che hanno indotto i Giudici ad annullare alcuni atti. I vizi rilevati dal Tribunale attengono sia alla dimensione procedurale, con specifico riferimento alla composizione dell’organo decidente, sia alla dimensione sostanziale, con riguardo alle valutazioni concretamente svolte dalle commissioni giudicatrici – che iniziano ad essere vagliate, in maniera più o meno profonda, dal Giudice.
Sul piano procedurale, con ordinanza 16 giugno 2015, n. 8409/2015, i Giudici della Sezione III-bis di Piazzale Flaminio censurano la composizione della Commissione, per essere un membro, in particolare, non competente nella materia oggetto di valutazione (demografia e statistica sociale). L’ordinanza si distingue sul piano processuale, in quanto dispone l’integrazione del contraddittorio a tutti i controinteressati, per i possibili effetti caducatori.
Quanto ai rilievi sostanziali, si segnalano le seguenti statuizioni. Con pronuncia del 30 giugno 2015, n. 8753, redatta in forma semplificata, a Piazzale Flaminio si giunge a contestare la fondatezza della decisione della Commissione (per l’area concorsuale di Economia e gestione delle imprese), rilevando una motivazione insufficiente o contraddittoria in relazione agli scritti scientifici presentati dal candidato. Qui la critica al giudizio reso è serrata: viene stigmatizzato, infatti, un “difetto evidente di motivazione del giudizio collegiale e dei giudizi individuali resi dalla Commissione nei riguardi della ricorrente, insito nella circostanza che essi si limitano ad enunciare l’avvenuta effettuazione di una valutazione analitica dei titoli e della produzione scientifica, della quale tuttavia non si riscontra traccia concreta nei giudizi stessi, che si limitano ad indicare la valutazione finale e complessiva (titoli: non idonei a dimostrare la maturità scientifica; produzione scientifica: livello “limitato”) senza dar conto alcuno della valutazione operata dei singoli titoli o scritti, in palese violazione dell’obbligo di analiticità previsto dal D.D. n. 161/2013 (cfr. T.A.R. Lazio, III, 13 novembre 2014, n. 11430)”. Anche nella sentenza 8745/2015 sono accolte le censure circa il “difetto di motivazione del giudizio collegiale e dei giudizi individuali resi dalla Commissione nei riguardi della ricorrente, insito nella circostanza che essi operano una valutazione «non positiva» dei titoli del tutto immotivata e contrastante con la parte descrittiva dei medesimi”. In diversi casi, poi, viene rilevata la contraddittorietà e stigmatizzata l’illogicità del ragionamento in base al quale il superamento delle due mediane (su tre) possa poi tradursi nell’insufficienza dell'attività scientifica svolta. Un simile giudizio, infatti, apparentemente contraddittorio, potrebbe essere superato solo da una motivazione adeguata, che invece risultava del tutto carente dai fatti dedotti in controversia (così la pronuncia n. 8753/2015). Sul tema delle mediane, si può compiere un piccolo passo indietro e ricordare come, tre mesi fa (sez. III, 16 aprile 2015, n. 5640), il Tar aveva ritenuto inadeguati i criteri valutativi meramente quantitativi, sostenendo la necessità di una valutazione calibrata e dettagliata, perché legata all’attività scientifica nel suo insieme e in quanto relativa a una procedura abilitativa, vale a dire senza limitazione del numero dei posti. Per il Tribunale, infatti, “premesso che trattasi di procedura abilitativa e non concorsuale, dunque con numero di posti non limitato né predefinito, quindi senza confronto concorrenziale tra un candidato e l’altro (cfr. TAR Lazio, III, n. 11500 del 2014), è necessario evidenziare al riguardo che gli indici correlati alle mediane, essendo a carattere quantitativo (cfr. all. A, B al D.M. n. 76 del 2012), non possono comunque assumere un ruolo decisivo ai fini dell’abilitazione medesima, né dunque il mancato superamento delle stesse mediane risultare preclusivo ai suddetti scopi, essendo preminente all’uopo il giudizio di merito della Commissione sulla maturità scientifica raggiunta dagli abilitandi (cfr. già Tar Lazio, III, ord. n. 3079 del 2014)”. Con altra sentenza della Sezione Terza (23 giugno 2015, n. 8587), si rileva invece la violazione del giudizio del candidato in relazione alla duplice votazione (singola e collegiale) che impegna necessariamente la Commissione. Richiamando l’art. 8 del D.P.R. n. 222 del 2011, in base al quale “la commissione delibera a maggioranza dei quattro quinti dei componenti” (ribadito poi nel bando di concorso, indetto con d. dirett. n. 222 del 2012), il Tar, in linea con altri precedenti, rileva che “perché si giunga alla formazione di tale maggioranza ai fini dell’idoneità o a un giudizio di non idoneità è necessario che ciascun commissario si esprima chiaramente in termini favorevoli o negativi nei confronti di ciascun candidato, e che in seguito la commissione rielabori collegialmente tali giudizi individuali in una valutazione complessiva del candidato, che costituisca – per quanto possibile – una sintesi dei singoli pareri”. Sempre con sentenza del 30 giugno, n. 8751/2015, si rileva la “evidente incoerenza tra il carattere sostanzialmente positivo dei giudizi (sia individuali, sia collegiali) espressi dalla Commissione nei suoi riguardi e la decisione di negare l’abilitazione”. In particolare, viene ritenuta arbitraria e manifestamente incongruente la soglia minima di 80/100 stabilita dalla Commissione. Più articolata la sentenza n. 8742/2015 (Sez. III-bis, del 30 giugno), che prende in considerazione alcuni criteri aggiuntivi stabiliti dalla Commissione, per rilevarne l’illegittimità. Se ne segnalano due. Da un lato, la Commissione aveva introdotto il criterio ulteriore in base al quale “la qualità delle pubblicazioni è più importante rispetto alla collocazione editoriale”. In merito, il Tar rileva che “la suddetta motivazione non appare idonea a sorreggere la scelta effettuata atteso che, da un lato, si riduce sostanzialmente in una mera petizione di principio e, dall’altro, finisce effettivamente per scardinare la logica sulla base della quale è stata impostata la riforma Gelmini nel senso di ancorare per quanto possibile la valutazione sull’abilitazione universitaria a criteri di carattere oggettivo. Dall’altro, la stessa Commissione aveva introdotto una valutazione delle pubblicazioni che poteva considerarsi prioritaria rispetto alla valutazione dei titoli. Infatti, “per quanto attiene all’ulteriore criterio aggiuntivo secondo cui «nel formulare il giudizio complessivo dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche presentati dai candidati, la Commissione considererà prioritaria la valutazione delle pubblicazioni scientifiche rispetto a quella dei titoli», si rileva che, in primo luogo, la predetta scelta non è sorretta da alcuna motivazione e, dall’altro, che, comunque, una scelta in tal senso è in radice illegittima atteso che il combinato disposto dei commi 1 e 3 dell’articolo 3 del D.M. n. 76 del 2012 non consente una ponderazione del peso da attribuire da un lato alla produzione scientifica e dall’altro ai titoli che finisca sostanzialmente per disconoscere il valore dei titoli”. (Fonte: B. Cariotti, http://www.irpa.eu/materiali-commenti/docs/univ-doc/abilitazione-scientifica-nazionale-il-punto-sulla-recente-giurisprudenza/ 09-07-15)


CLASSIFICAZIONI DEGLI ATENEI

"CLASSIFICHE DELLA QUALITÀ" UNIVERSITARIA 2015 DE ILSOLE24ORE
Un balzo in avanti dell'Università di Verona fra gli atenei statali, e della Bocconi fra i non statali, caratterizza la nuova edizione delle "classifiche della qualità" universitaria che IlSole24Ore realizza ogni anno grazie alle informazioni messe a disposizione dalle banche dati di Miur e Anvur. Ma se le graduatorie generali sintetizzano la condizione complessiva degli atenei, sono i singoli indicatori a mostrare con puntualità i risultati ottenuti dalle strutture nei diversi campi, compreso il giudizio degli studenti che invece fatica a entrare nei modelli ufficiali per l'attribuzione dei finanziamenti «meritocratici». Ognuno, insomma, può effettuare una valutazione "personalizzata", guardando ciò che più gli interessa di ogni università: proprio per questo, all'interno dello speciale dedicato alle classifiche sul sito internet del Sole (www.ilsole24ore.com/classificheuniversita) è possibile attribuire pesi diversi a ciascun indicatore, così da costruire una graduatoria personalizzata. Nella classifica generale il gradino più alto è occupato dall'università di Verona, che l'anno scorso lo condivideva con quella di Trento oggi seconda. Ora è il terzo posto a essere diviso fra due atenei, perché l'Alma Mater di Bologna raggiunge sull'ultimo scalino del podio il Politecnico di Milano.
Passando agli atenei non statali, Bocconi e Luiss scalzano dalla vetta il San Raffaele. A far primeggiare l'ateneo milanese è un'eccellenza quasi generalizzata, dall'attrattività nei confronti degli studenti di altre regioni alla struttura docente, accanto a un bassissimo tasso di dispersione (93 studenti ogni 100 confermano la propria scelta al secondo anno) e alle molte esperienze internazionali realizzate dagli studenti. (Fonte: G. Trovati, IlSole24Ore 20-07-15)


CLASSIFICA 2015 DE ILSOLE24ORE. IL SORPASSO DEL SAN RAFFAELE
Nella Classifica 2015 delle Università italiane pubblicata il 20 luglio scorso da il Sole 24 Ore, rispetto al 2014, nella categoria “non statali” si nota il sorpasso del San Raffaele da parte della LUISS, che rimonta ben 6 punti e ottiene l’argento, Ciò anche grazie al crollo del San Raffaele dal secondo al settimo posto nella sottoclassifica “Occupazione”. Uno scivolone, avverte De Nicolao su Roars, che però non riguarda l’indicatore usato nel 2014 (rispetto al quale il San Raffale rimane secondo), ma un nuovo indicatore introdotto in sua sostituzione senza informare i lettori. Senza questa modifica – l’unica su 12 indicatori – la LUISS sarebbe rimasta terza. Se il Sole 24 Ore non avesse cambiato l’indicatore, al San Raffaele sarebbero spettati 89 punti. Invece, spostando la competizione sul tasso di occupazione, ottiene solo 33 punti. In realtà, ne riceve solo 30, visto che, per questo indicatore, il Sole24Ore non assegna i punteggi in modo rigorosamente proporzionale alla posizione in classifica. In conclusione, per il San Raffaele il cambio di indicatore comporta una perdita secca di 89 – 30 = 59 punti. Quanto riferito non deve meravigliare perché, osserva De Nicolao, le classifiche – nazionali e internazionali – degli atenei non hanno basi scientifiche e, proprio per questo, i risultati sono fortemente dipendenti dalle scelte, in larga misura arbitrarie di chi le confeziona. Si può però fare ancora peggio, ovvero aggiustare di anno in anno i criteri senza spiegare ai lettori che le ascese e le discese in classifica, più che riflettere “vizi” e “virtù”, sono frutto di metri che si allungano e si accorciano. Si tratta di condotte disinvolte, imputabili anche ad alcune celebri classifiche internazionali, come per esempio i World University Rankings di Times Higher Education, le cui classifiche citazionali usano metriche tutt’altro che stabili nel tempo. (Fonte: G. De Nicolao, Roars 24-07-15)
Seguito. Il 24 luglio Roars intitolava "Classifica Sole 24 Ore: un “aiutino” e … voilà, la LUISS scavalca il San Raffaele". Passano pochi giorni ed ecco che il Sole “ricalcola” le classifiche, riportando il San Raffaele al secondo posto degli atenei non statali, seppure a pari merito con la LUISS. (Fonte: G. De Nicolao, Roars 01-08-15)

CLASSIFICAZIONE DEGLI ATENEI. A PROPOSITO DEL DATO "ATTRATTIVITÀ"
La pubblicazione dei ranking degli Atenei italiani a livello nazionale e internazionale ci dà ogni anno modo di dibattere sulla "qualità" del nostro lavoro accademico, ma soprattutto sulle modalità di "misurazione" di questa qualità. Inoltre, si tratta di classifiche e graduatorie che, non per niente, in genere vengono rese note a ridosso del periodo di immatricolazione e che vorrebbero quindi essere utili per una scelta ragionata dell’Ateneo da frequentare. Anzitutto è bene chiarire che la "posizione" di un Ateneo nelle singole graduatorie è dipendente dalla varietà di indicatori utilizzati e poi dalla loro specifica combinazione. Applicate a organizzazioni costitutivamente complesse, queste classifiche sono eterogenee, com’è ovvio, anche perché ogni promotore ha interesse a rendere la propria graduatoria diversa dalle altre. Le fonti dei dati utilizzati, inoltre, sono spesso difformi e non del tutto confrontabili tra loro, e sono talvolta riferite a indagini solo apparentemente "quantitative", condotte con metodologie e criteri di fatto né oggettivi né verificabili. Entrando nel merito della graduatoria stilata da "Il Sole 24 Ore", l’Università del Salento perde complessivamente rispetto al 2014 una sola posizione generale e quindi risulta sostanzialmente stabile: qualche anno fa, il nostro Ateneo era nelle ultimissime posizioni. Passando all’analisi delle singole voci, UniSalento è sostanzialmente stabile per "sostenibilità" (cioè numero docenti in materie caratterizzanti), "stage" effettuati, "soddisfazione" dei laureati. Caliamo in "attrattività" (da fuori regione), "mobilità", "borse di studio", "efficacia". Buon miglioramento, invece, su "occupazione" e nelle misure contro la "dispersione". Non ci sono nuovi dati su "ricerca", "fondi esterni" e "alta formazione". In sintesi, qualcosa va meglio e qualcosa meno bene, ma nel complesso la nostra posizione rimane stabile: un dato che, però, non ci pare ben "argomentato" con il ricorso a indicatori chiari e "leggibili", e che in mancanza di aggiornamenti su alcune voci importanti al pari delle altre non dà certezze sulla completezza e l’accuratezza del metodo seguito. Ma soprattutto mancano indicatori di contesto. Lo ripetiamo da anni: come si fa a "posizionare" un Ateneo per "attrattività" senza considerare le caratteristiche geografiche e logistiche del territorio in cui si trova? Come si fa a giudicare la capacità di attrarre studenti da fuori regione senza considerare il dato, appunto, regionale? (Fonte: V. Zara, www.sudnews.it/ 22-07-15)

CLASSIFICA CENSIS 2015 DEGLI ATENEI MEDI
Nella classifica Censis 2015 degli atenei medi dominio dell’Università di Siena, al primo posto della graduatoria dedicata alla categoria degli atenei con un numero di iscritti tra i 10 e i 20mila. Il punteggio medio ottenuto quest’anno è pari a 100,6, un risultato così lusinghiero che vale a Siena anche il primato assoluto tra tutte le università pubbliche del nostro Paese. Borse (106), web e servizi (103), strutture (100) e internazionalizzazione (91): l’ateneo toscano vanta livelli qualitativi eccellenti in ciascun indicatore.
Dietro Siena, al secondo e terzo posto della classifica Censis 2015 degli atenei medi, si sono classificate l'Università di Trento (99,8) e l’Università di Sassari (95,4). Per l’ateneo tridentino si tratta di una conferma rispetto al 2014, mentre per quello sardo – che riconquista il podio, già ottenuto nel 2013 – di un balzo in avanti di due posizioni. La medaglia di bronzo è condivisa da Sassari a pari merito con Trieste, che fu terza anche l’anno scorso. Risale dal settimo al quarto posto, invece, l’Università Politecnica delle Marche (93,8), mentre quella di Udine (91,8) passa dall’ottavo al sesto. (Fonte: www.universita.it 10-08-15)

UNIVERSITÀ: NON BASTANO LE CLASSIFICHE
Nel momento in cui gli studenti e le famiglie devono decidere, terminata la fase della maturità, quale ateneo scegliere per affrontare l’ultimo livello della loro formazione arrivano le classifiche sulle varie sedi. E’ uscita quella de “Il Sole 24 Ore” seguita subito da quella di “Repubblica” su dati del Censis. E’ un meccanismo che ormai ha acquisito una certa tradizione ed è stata senz’altro una innovazione utile. In una fase in cui le risorse finanziarie scarseggiano e di conseguenza gli atenei hanno gran bisogno di non perdere studenti, perché le tasse sono una entrata importante, Senati accademici, Rettori e Consigli di Amministrazione una certa attenzione a questi posizionamenti la concedono, e di conseguenza orientano almeno in parte spesa e investimenti. Soprattutto è molto utile che si riaffermi il fatto che tutti devono abituarsi ad essere giudicati: non è un principio facile da far accettare all’accademia, ma è un passo avanti assolutamente necessario.
Certo esistono tante scappatoie per sottrarsi al peso di questi giudizi, come ne esistono per trarne stimolo per l’immobilismo. La più facile delle prime è rifugiarsi nella considerazione che sono valutazioni fatte su parametri numerici, per loro natura abbastanza astratti. Per dire: nel valutare l’internazionalizzazione, che uno mandi studenti all’università di Cambridge o a quella di Tuzla cambia poco, conta il numero di scambi Erasmus (oggi hanno un altro nome, ma si continua a chiamarli così), così come conta quanti docenti dall’estero si chiamano per un periodo sufficientemente lungo. Poi nessuno valuta che un docente di alto livello è difficilissimo spostarlo, specie facendolo venire in Italia, per un periodo lungo, mentre è più facile farlo con docenti di livello più basso. Non sono critiche infondate, ma superarle richiederebbe un lavoro di analisi ravvicinata nel merito non solo Ateneo per Ateneo, ma corso di laurea per corso di laurea: un’impresa che richiederebbe risorse notevolissime e gran dispendio di tempo, cose che nessuno è disposto ad impiegare. Paradossalmente le stesse ragioni favoriscono l’immobilismo: scoperto come vengono fatte le classifiche, si trova anche il modo di scalarle con la minima fatica, puntando più ad avere “numeri” formalmente in grado di far fare passi avanti piuttosto che promuovere sostanziali riforme che alzino certi livelli di prestazione, ma con cui, non di rado, si pestano i piedi ai detentori di assetti consolidati.
Detto questo, rimaniamo dell’idea che è meglio avere delle classifiche imprecise che non averne. Tuttavia va subito aggiunto che queste classifiche non bastano a rompere le resistenze che il sistema oppone ad essere valutato. Basti pensare che quando in una proposta di legge si è ventilato di dare rilievo alla qualità dell’Ateneo in cui si consegue un titolo e di valutare il punteggio di laurea ottenuto con le medie dei punteggi che si distribuiscono, c’è stata una rivolta e non se ne è fatto nulla. Si sarebbe visto che esistono Atenei dove i voti alti si danno spensieratamente, senza dire che ottenere una valutazione alta in corsi con docenti di non alta qualità è di solito più facile che ottenerli dove insegnano studiosi rigorosi.
Tutto questo ci spinge a ricordare che accanto ai parametri che si usano per il tipo di classifiche sopra ricordate sarebbe bene mettere una seria valutazione del livello di ricerca e della qualità del personale docente. Anche qui siamo in un campo in cui si cerca faticosamente di recuperare il tempo perduto.
Sta finalmente per partire la valutazione della ricerca in capo all’Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR). Si tratta della seconda tornata di valutazioni che parte in ritardo, ma con l’ambizione di correggere qualche errore e qualche imprecisione che si è registrata nell’edizione precedente.
Dire che il sistema accademico e della ricerca attende con ansia questa prova sarebbe mentire platealmente. Eppure solo una seria ed articolata valutazione del “valore” in questo delicato settore può darci veramente la fotografia del posizionamento del nostro sistema di formazione superiore, dove è impossibile parlare di qualità competitiva se non esiste un alto standard della ricerca. Che sia una impresa difficile è fuori dubbio. Il primo problema è ovviamente quello di evitare che i “giudici” siano persone che semplicemente innalzano il loro personale modo di pensare a standard internazionale. E’ un’operazione molto più difficile nelle “scienze dure” che hanno oramai un livello di integrazione internazionale che rende difficile un’operazione del genere (o piuttosto: che rende difficile farla senza essere smascherati, perché in alcuni campi si son viste anche cose davvero poco commendevoli). Si tratta invece di una tentazione molto diffusa nelle scienze umane e sociali dove le barriere linguistiche e anche il peso di certe tradizioni delle “culture nazionali” rendono difficile la creazione di adeguati standard internazionali. Anche qui ci vorrebbe uno scatto di coraggio, quantomeno uscendo dalla pia menzogna che il compito dell’ANVUR è valutare le strutture e non i singoli, perché così il sistema protegge le solidarietà perverse, impedendo che sia noto chi è sotto gli standard accettabili e chi invece nonostante tutto rende credibile il nostro sistema a livello internazionale. (Fonte: M. Iscra, http://www.mentepolitica.it/articolo/universit-non-bastano-le-classifiche/571 25-07-15)

CONTROCLASSIFICA. RICALCOLATA LA CLASSIFICA ARWU DEGLI ATENEI MONDIALI DIVIDENDO I COSTI DI GESTIONE PER IL NUMERO DI PUNTI RAGGIUNTI
Sulla rivista online Roars Giuseppe De Nicolao ha provato ad aggiungere un altro indicatore ai dati raccolti a Shanghai nell'ARWU (Academic Ranking of World Universities: 2015), per stilare una classifica dell'efficienza delle università che mettesse a confronto i risultati con la spesa, dividendo cioè i costi di gestione di ogni università per il numero di punti raggiunti. E a sorpresa — mettendo a confronto i primi venti atenei della classifica Arwu e i venti atenei italiani che vi sono classificati — a guidare questa «gara» sono quattro università italiane: la Scuola Normale di Pisa, l'Università di Ferrara, Trieste e Milano Bicocca, e nei primi dieci posti otto sono gli atenei italiani mentre a reggere II confronto dell'efficienza tra le grandi università ci sono solo Princeton e Oxford.
Non solo, secondo la classifica di Roars, poiché i punti che l'università conquista per i meriti dei suoi studenti e dei prof sono aggiuntivi, "se si fondessero due o tre atenei i risultati sarebbero di molto migliori. Ad esempio, se si unificassero, operazione priva di qualsiasi valore reale, la Statale, la Bicocca e il Politecnico, una futura università milanese potrebbe aspirare a entrare nei primi venti posti".
Lo scopo della controclassifica, che sarà pure un divertimento ferragostano o una «sfida infernale» come la definisce iI suo autore, è rimarcare che iI sistema italiano è sottofinanziato (la qual cosa non è una novità visto che la spesa pubblica italiana per l'università in rapporto al Pil è la penultima in Europa) e tuttavia «nel suo complesso non è meno efficiente di quella delle maggiori nazioni straniere». Si tratta anche di uno scatto di orgoglio a difesa del lavoro degli atenei che all'apparire delle classifiche interazionali diventano bersaglio di critiche e polemiche. (Fonte: G. Fregonara, CorSera 18-08-15)

CONTROCLASSIFICA. L’UNIVERSITÀ DI FERRARA PUÒ ESSERE MEGLIO DI PRINCETON?
Nel corso delle discussioni sul tema del valore e qualità delle università italiane avviato a valle degli articoli sulle “lauree utili”, alcuni colleghi e commentatori hanno mosso forti critiche all’articolo di ROARS che proponeva una “controclassifica” rispetto a quella proposta da ARWU (nota come classifica di Shanghai). La critica è stata ben espressa da un collega economista secondo il quale “è assurdo pensare che l’Università di Ferrara possa essere meglio di Princeton”. Non voglio certo dire che Ferrara sia meglio di Princeton: è ovvio quale siano i rapporti tra le due. Ma un primo punto del ragionamento di ROARS era mettere in discussione queste classifiche che di scientifico hanno poco e che invece nel nostro paese vengono acriticamente assunte come valutazioni indiscutibili e “assolute” per dire che “il sistema universitario (tutto!) fa un po’ schifo”. ROARS ha preso quello che altri hanno definito essere l’output, e cioè il punteggio ARWU, e ha valutato una semplice misura di efficienza. Vuol dire che dal punto di vista accademico Ferrara è meglio di Princeton? No, ovviamente. Ma quanto meno ci deve venire il sospetto che a parità di unità prodotta (per come l’ha definita ARWU, non ROARS!) alla società l’università di Ferrara costi meno di Princeton. È ovvio, come scrivono in prima battuta i colleghi di ROARS, che il loro esercizio è volutamente provocatorio. Ma ha una sua motivazione e ragionevolezza. Peraltro, meccanismi di questo tipo sono stati utilizzati nel report prodotto per il governo inglese, dove si vede che se dal punto di vista dei valori assoluti il nostro paese fa fatica, sul fronte dell’efficienza le nostre università nel loro complesso non vanno per nulla male. (Fonte: A. Fuggetta, articolo pubblicato sul suo blog e riproposto da Roars 22-08-15)


DOTTORATO

DOTTORATO. VALORIZZAZIONE NEI CONCORSI PUBBLICI
Domanda al sottosegretario Faraone: La riforma della PA ha dato via libera alla valorizzazione del dottorato di ricerca nei concorsi pubblici. In che modo? Risposta: Nel decreto Madia adesso in discussione gli emendamenti del deputato Meloni che stabilivano dei canali preferenziali per concorrere nella pubblica amministrazione erano due: uno distingueva l’ateneo di provenienza, l’altro valorizzava il titolo del dottorato. Entrambi hanno immesso nel dibattito temi molto importanti che ci costringono a una riflessione più ampia sul valore e sulla spendibilità dei titoli di studio. Ero e sono contrario a stabilire classifiche tra Atenei, per questo sono stato tra coloro che hanno chiesto la soppressione del primo emendamento. Ma ero e sono favorevole a introdurre pluralità di missioni nel sistema universitario all’interno di un ragionamento più ampio e organico, oltre che franco e condiviso, che investa l’Università e il mondo della Ricerca. Entrambi devono essere legati al sistema produttivo del Paese. Per questo trovo sacrosanto l’emendamento che introduce la valorizzazione del titolo di dottore di ricerca nei concorsi della PA. Che significa? Significa che la classe dirigente della Pubblica Amministrazione deve essere di altissima qualità. Prevedere che il titolo di dottore di ricerca favorisca l’accesso agli alti ranghi dell’amministrazione è una modalità concreta per qualificarla. È una forma che favorisce il merito, senza discriminazioni. (Fonte: F. Amabile, ANSA 13-07-15)

INSERIMENTO DI DOTTORI DI RICERCA ALL'INTERNO DELLE IMPRESE. ACCORDO CONFINDUSTRIA-CRUI-MIUR  
E' nato «PhD ITalents», presentato a Palazzo Italia, all'Expo di Milano. II progetto mette insieme tre partner, Confindustria, Fondazione Crui e Miur, che hanno deciso di proporre e sperimentare un modello di placement per i dottori di ricerca, con il loro inserimento nelle imprese che puntano sulla ricerca e l'innovazione. Date le fondamenta del progetto, il Miur ha deciso di fare la propria parte, finanziandolo con 11 milioni di euro, attraverso il fondo integrativo speciale per la ricerca. Le imprese ne metteranno 5,2. Ogni PhD riceverà una retribuzione annuale di 30mila euro e sul costo totale del PhD l'impresa riceverà per il primo anno un contributo uguale all'80% del costo totale del PhD, per il secondo un contributo del 60% sul costo totale e per il terzo un contributo del 50%. Questo farà si che il costo medio annuo di ciascuna risorsa per l'impresa co-finanziatrice sia di 13mila euro. I numeri sono ancora quelli di un progetto pilota, ma la convinzione che sia la strada da seguire è forte in tutti gli attori. Per ora sono previste 136 borse di ricerca per dottorati che saranno inseriti in impresa per 3 anni. E' un progetto unico in Europa nel suo genere e crea vantaggi per tutti: risorse d'eccellenza per le imprese, efficace placement delle università e, soprattutto, più opportunità di lavoro per i dottori di ricerca italiani. (Fonte: C. Casadei, IlSole24Ore 18-07-15)

PIÙ PESO AL DOTTORATO DI RICERCA CON LA RIFORMA DELLA SCUOLA
"Non possiamo chiudere le porte delle amministrazioni pubbliche, per il blocco del turn over, alle eccellenze di questo Paese. E per questo abbiamo fatto due scelte con la Buona scuola e la riforma della Pubblica amministrazione, prevedendo che i dottorati di ricerca faranno punteggio per entrare nella pubblica amministrazione e per l'insegnamento". Così si è espresso il responsabile del Viminale Angelino Alfano, mentre era a Palazzo dei Normanni, a Palermo, per la cerimonia di proclamazione dei dottori di ricerca dell'ateneo palermitano. Alfano, parlando della fuga dei cervelli, ha aggiunto che "il tema del Sud va portato al centro dell'agenda politica". Perché, ha sottolineato, “sul modello francese, il lavoro nelle istituzioni dello Stato deve diventare appetibile per le eccellenze”. A dire il vero, già prima della Legge 107 del 2015, il dottorato di ricerca universitario permetteva ai candidati docenti di avere un punteggio maggiorato nelle varie graduatorie. Staremo a vedere come, nei decreti attuativi della riforma, si andrà a delineare il peso ulteriore, maxi, di cui parla il ministro Alfano. (Fonte: A. Giuliani, www.tecnicadellascuola.it 28-07-15)


LAUREE. DIPLOMI. FORMAZIONE POST LAUREA. OCCUPAZIONE

TRANSIZIONE SCUOLA-LAVORO. DATI EUROSTAT, OCSE E ALMALAUREA
L’Eurostat ha fatto un tentativo serio di misurazione della durata della transizione scuola-lavoro in tutti i paesi europei  L’Italia è agli ultimi posti, ma la sensazione è che la situazione sia ancora peggiore di quella illustrata da Eurostat. I dati disponibili si soffermano solo sui valori medi per paese e per livello di istruzione. Inoltre, si concentrano sulla transizione al “primo posto di lavoro significativo”, intendendo con ciò uno della durata di almeno tre mesi e, quindi, non necessariamente un lavoro a tempo indeterminato. Con una media di tempi di attesa di nove mesi circa, l’Italia è seconda solo alla Grecia in termini di durata della transizione per i laureati. Per i diplomati è settima, con un tempo di attesa medio di circa 13,5 mesi. Eurostat ha sottostimato ampiamente la durata complessiva delle transizioni scuola-lavoro in Italia. Ci sono almeno due fattori importanti da tenere in considerazione, se si vuole fare un calcolo più realistico. In primo luogo, l’Eurostat considera lavori anche di tipo temporaneo, ma ciò potrebbe non costituire davvero la fine della transizione al lavoro per molti giovani, che continuerebbero a cercare un lavoro permanente. Con le riforme del mercato del lavoro e la diffusione del lavoro temporaneo, si è interrotta la durata della disoccupazione, ma non la durata della transizione a un lavoro a tempo indeterminato. Un autorevole studio dell’Ocse riporta che in Italia la durata della transizione dal sistema di istruzione a un lavoro a tempo indeterminato è pari a 44,8 mesi, cioè quasi quattro volte di più della stima Eurostat. La durata della transizione in Italia dovrebbe essere pesata per il tempo che è necessario per ottenere un diploma di laurea, uno dei più lunghi al mondo. Anche perché, secondo i dati del Miur, circa il 50 per cento degli studenti che si iscrivono all’università abbandonano senza completare il percorso di studi. Tuttavia, molti di loro restano iscritti per anni e, talvolta, riescono ad arrivare alla laurea seppure dopo un periodo di tempo lunghissimo. Circa il 40 per cento dei laureati consegue il diploma con un ritardo compreso fra uno e dieci anni rispetto al percorso curriculare previsto dal 3+2. Secondo i dati AlmaLaurea, l’età media alla laurea per gli studenti che iniziano l’università a 18 anni è di 24 anni per chi ha intrapreso il percorso triennale e di 26,1 anni per chi sceglie anche la specialistica. Ciò significa che se un giovane si laurea con la laurea magistrale a 27-28 anni, deve calcolare che trova un lavoro più o meno stabile verso i 32-33 anni, sulla base dei 45 mesi circa di transizione calcolati dall’Ocse. (Fonte: F. Pastore, lavoce.info 31-07-15)

LAUREATI E IMMATRICOLAZIONI. TASSO DI OCCUPAZIONE A 5 ANNI DALLA LAUREA
Dalle statistiche si rileva il numero troppo esiguo di laureati. Nella fascia d'età 55-64enni siamo all'11%, contro il 22% della media europea e il 26% della Germania; nel range 25-34 anni arriviamo invece al 22%, a fronte del 37% dell'Ue e del 39% dell'Ocse. Ad aggravare ulteriormente il quadro ci pensa il vistoso calo delle immatricolazioni registrato negli ultimi anni. Dal 2003 (anno del massimo storico di 338 mila matricole) al 2014 (con 269 mila) la riduzione è stata del 20 per cento. Restringendo il campo agli ultimi cinque anni la diminuzione è stata pari al 9%: dai 297 mila giovani iscritti all'università nel 2009 si è passati ai 269 mila del 2014. Con un calo più sensibile tra i giovani del Sud. In controtendenza sono cresciute le immatricolazioni (dati riferiti all’a.a. 2014-15) solo a ingegneria (+7,7% rispetto al 2003/2004, +2,1% rispetto al 2009/2010), ad agraria e veterinaria (del 18,4% rispetto all'anno accademico 2003/2004 e +21% rispetto al 2009/2010).
Sebbene i segnali incoraggianti non manchino - a cominciare dall'età media alla laurea che anche grazie alla riforma universitaria è passata dai 27,3 anni del 2004 ai 26,4 del 2014 - il passaggio dalle aule universitarie al lavoro continua a rivelarsi tutt'altro che semplice. Come se non bastassero i tassi record di disoccupazione giovanile (44,2%) e Neet* (26,2%) l'ultimo rapporto di AlmaLaurea sulla condizione occupazionale testimonia che negli ultimi cinque anni si sono ridotti sia il tasso di occupazione dei laureati sia la loro stabilità lavorativa. Secondo le ultime rilevazioni di AlmaLaurea, in cima alla classifica dei titoli di studio che offrono migliori risultati sul mercato del lavoro a cinque anni dal titolo troviamo medici e professioni sanitarie, ingegneri, chimici, economisti e "dottori" in statistica. Più nel dettaglio, i camici bianchi trovano lavoro nel 97% dei casi (professioni sanitarie) e nel 95% per i medici, appaiati dagli ingegneri (95,3%). Subito dopo seguono chimici che nel 90,1% dei casi a cinque anni dalla laurea risultano occupati, e da economisti e statistici (89,6%). Laureati questi che in media vengono premiati anche da stipendi più alti di 200-300 euro rispetto ai colleghi che hanno seguito altri percorsi di studio. I medici a cinque anni dalla laurea guadagnano a esempio in media 1.678 euro (la media dei laureati italiani è 1.356 per i magistrali e 1.283 per le laurea a ciclo unico). Anche chi ha studiato economia o chimica guadagna di più: in media rispettivamente 1.487 e 1.475 euro. Più difficoltà a entrare nel mercato del lavoro le trovano invece i laureati del settore giuridico: risultano occupati il 74,4% a cinque anni dal titolo. Quasi le stesse performance per i laureati del settore letterario (74,9%). Diverse difficoltà anche per chi possiede una laurea in psicologia o un titolo per accedere all'insegnamento: dopo cinque anni dalla tesi circa il 20% risulta infatti disoccupato. Poco meglio vanno infine i laureati in scienze politiche e quelli del settore linguistico: il loro tasso di occupazione supera di poco l'84%.
*L'acronimo «Neet» sta a indicare persone «Not in education, employment or training», circa 1,3 milioni di persone secondo dati dell'Istat.
(Fonte: M. Bortoloni, E. Bruno, IlSole24Ore 28-08-15; Rapporto AlmaLaurea 2015)

ESAMI E LAUREE. SCALE DI VALUTAZIONE
In Italia come in qualunque altra nazione, il ventaglio dei voti di laurea è molto diverso tra una sede e l’altra; e tende a penalizzare i giovani laureati delle sedi ‘a manica stretta’ se il voto è un fattore decisivo. In qualche caso la ‘manica larga’ è diventata anche un fattore competitivo tra sedi universitarie, a causa della caduta verticale delle iscrizioni. L’ordinamento 3+2, introdotto nel nuovo millennio, ha pure aumentato la varietà e la diversità delle valutazioni di merito, in tutta Europa. La proliferazione delle lauree ha creato un guazzabuglio di titoli nel quale non è sempre facile districarsi. Talvolta mi chiedo se abbia ancora senso una scala ‘finissima’ come il voto in trentesimi dei singoli esami e il punteggio finale in 110esimi. L’Europa ha una varietà stupefacente di scale di valutazione. In Germania ci sono sei gradazioni: in ordine decrescente vanno da sehr gut (1, molto buono) a befriedigend (tra 2,4 e 2,9, soddisfacente, la performance media) fino a ungenügend (6, insufficiente). In Francia le gradazioni sono 20, in linea teorica. Di regola, a livello europeo si normalizzano le diverse scale secondo 5 classi di esiti positivi, da A (eccellente) a E (sufficiente). Una norma che si fosse adeguata a questa scala sarebbe stata forse più ragionevole. (Fonte: R. Rosso, FQ 06-07-15)

SULLA VALUTAZIONE DEL VOTO DI LAUREA NEI CONCORSI PER L’ASSUNZIONE NELLE AMMINISTRAZIONI STATALI
Nel disegno di legge sulla pubblica amministrazione è stato prima introdotto (nell’iter in Commissione) e poi soppresso (in Aula) un emendamento relativo all’opportunità di “pesare” il voto di laurea nei concorsi per l’assunzione nelle amministrazioni statali. L’emendamento soppresso prevedeva, congiuntamente, un insieme di scelte tra loro notevolmente disomogenee, il che creava molta confusione. Il tema dei requisiti per l’accesso veniva mescolato con quello degli eventuali punteggi per titoli, e sul voto si sanciva una “possibilità di valutarlo” in rapporto sia a “fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato” sia al “voto medio di classi omogenee di studenti”. Ebbene, il secondo di questi elementi fa riferimento non all’istituzione, bensì a come il laureato si collochi rispetto ai suoi colleghi. Si tratta di un criterio largamente adottato in vari contesti internazionali, nei quali (proprio per l’impossibilità di confrontare “voti” dati in realtà diverse) l’interessato viene considerato in relazione al “decile” (in altri casi, al “quartile”) in cui si colloca: è nel 10 per cento (o, rispettivamente, nel 25 per cento) con il risultato migliore, oppure nel secondo gruppo o nel terzo? Si guarda cioè non alla valutazione “assoluta”, bensì a quella “relativa”; il che appare molto opportuno, poiché una qualunque commissione esaminatrice può avere ottimi criteri di comparazione, mentre raramente esiste la possibilità di un confronto pienamente soddisfacente tra gli standard utilizzati da commissioni differenti. Attraverso i decili o i quartili risulta quindi ben valutato chi, nel contesto in cui si è trovato a operare, ha raggiunto una posizione buona. L’altro riferimento presente nel testo, quello relativo all’istituzione che ha conferito il titolo, avrebbe invece un effetto ben diverso, in quanto farebbe pagare al laureato un elemento che dipende non dalla qualità o dall’impegno suo, bensì dal giudizio che l’ateneo può aver riportato in qualche sede di valutazione.
Proprio quest’ultimo aspetto ha provocato, dopo l’approvazione in Commissione, una marea di critiche che ha indotto alla cancellazione dell’emendamento: con l’acqua sporca è stato così gettato il bambino, poiché due elementi avrebbero meritato l’approvazione. Il primo era il riferimento alla comparazione: avrebbe dovuto essere meglio precisato, ma andava nella direzione giusta. L’altro elemento era proprio la coerenza con l’idea di “valore legale”: l’introduzione di una soglia come requisito di accesso, peggio se riferita al voto “in assoluto”, ne costituisce una negazione, ed è perciò giusto escluderla. Si noti che è stata recentemente iniziata la procedura di “accreditamento” dei corsi di studio: sarebbe del tutto contraddittorio che lo Stato non riconoscesse, per le proprie assunzioni, titoli che accredita.
Si deve perciò auspicare che, pur se questa volta l’occasione è stata persa (anche perché malamente impostata), le questioni sollevate vengano presto riproposte. In particolare, si può stabilire subito che ogni ateneo, per ogni votazione di laurea da esso certificata, debba indicare sistematicamente in quale decile si colloca rispetto alle votazioni dell’ultimo anno per lo stesso corso di laurea: anche se non vi è ancora una norma di legge che codifichi l’utilizzazione di questa informazione, è comunque significativa e – se lo desidera – l’interessato potrà inserirla nel proprio curricolo. (Fonte: G. Luzzatto, lavoce.info 24-07-15)

LAUREATI ITALIANI. ESODI ALL'ESTERO
Negli ultimi anni abbiamo osservato crescere il numero dei laureati italiani che si trasferisce all'estero (quasi uno su quattro nel 2013, e in forte aumento rispetto al passato - dato Istat), mentre cresce da noi la percentuale di giovani (25-34 anni) che, pur possedendo un titolo di istruzione superiore, svolge una mansione al di sotto della propria qualifica (erano il 30,5% nel 2012 - fonteEurostat -, dato che rappresentava il quarto peggiore in Europa dopo Spagna, Cipro e Irlanda). A fronte di questo, la capacità di attrazione di studenti stranieri rimane tra le più basse al mondo (2% nel 2012- fonte OCSE-Unesco, contro ad esempio il 6% di Germania e Francia, il 13% del Regno Unito e il 16% degli Stati Uniti), e se il numero di laureati stranieri che arrivano in Italia appare in crescita (3% nel 2013 secondo il XVI Rapporto AlmaLaurea), occorre ancora verificare quanti di loro svolgano effettivamente mansioni adeguate al titolo conseguito. Dobbiamo stare attenti, in poche parole, che produrre più laureati da qui al 2020 e oltre non significhi soltanto ingrossare le fila dell'esodo, senza peraltro un adeguato "interscambio". Agire sull'istruzione superiore dandole ulteriore impulso, quindi, ma di concerto con adeguati interventi sul sistema, che permettano di "trattenere" i talenti e attrarne di nuovi da noi. (Fonte: G. Lo Storto, IlSole24Ore 31-07-15)

ELEMENTI CHE INFLUENZANO LE VOTAZIONI ALLA LAUREA
Il XVII Profilo AlmaLaurea permette di analizzare la riuscita negli studi universitari in base al voto di laurea. Il Profilo mostra che, a parità di condizioni, sul voto di laurea incidono in modo favorevole alcuni elementi, quali l’aver svolto gli studi superiori in un liceo, ma anche l’avere ottenuto un voto elevato all’esame di maturità. Hanno influenza positiva inoltre l’aver scelto il proprio corso di studi spinti da una forte motivazione di carattere culturale e l’aver intrapreso esperienze di studio all’estero e attività di tirocinio durante l’università. Tutti elementi che dimostrano, in modo indiretto, la migliore preparazione e attitudine agli studi dei giovani più brillanti. Di contro, l’aver svolto attività lavorative continuative durante gli studi penalizza in modo rilevante i voti ottenuti; molto spesso, infatti, non è facile coniugare studio e lavoro. Il voto di laurea varia molto in base al corso di studio e al gruppo disciplinare. Mentre tra i laureati triennali il voto medio è pari a 99,4/110, il punteggio sale per i magistrali a ciclo unico a 103,7 e ancor di più (107,5) tra i magistrali biennali, a riprova che nel passaggio tra primo e secondo livello, in generale, gli studenti ci “guadagnano” in termini di voti di laurea. E questo nonostante il fatto che abbiano voti di laurea alla triennale mediamente più elevati (rispetto a chi non ha poi proseguito): in media hanno infatti incrementato il voto finale di circa 6 punti. Nell’ambito economico-statistico, ad esempio, dove si osservano votazioni di partenza più basse rispetto alla media (97,9 contro 101,6), l’incremento di voto alla magistrale è di oltre 8 punti. All’opposto nei gruppi letterario, linguistico e professioni sanitarie l’incremento di punteggio è molto più ridotto, ma la votazione alla triennale era già talmente elevata che diventa difficile immaginare di poter incrementare in misura rilevante la propria performance. Più in generale, il 21% dei laureati ottiene il titolo con il massimo dei voti (110 e lode), mentre il 35% non arriva al 100. Si laureano con 110 e lode, più degli altri, i laureati del gruppo medico (56%), seguiti dal letterario (36%), geobiologico (29%), scientifico (27%), professioni sanitarie (25%) e linguistico (22%); sotto la media invece si posizionano i laureati del giuridico (14%), insegnamento e educazione fisica (15%), economico statistico e ingegneria (16%) e politico sociale e chimico farmaceutico (17%). (Fonte: AlmaLaurea 07-07-15)

INGEGNERIA: AUMENTANO I LAUREATI E IL 3+2 NON OTTIENE GLI EFFETTI SPERATI
Una ricerca condotta dal Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri dal titolo "La formazione degli ingegneri - Anno 2014"  ha analizzato i dati relativi ai laureati italiani, focalizzando la riflessione sugli studenti in ingegneria, evidenziando alcuni dati fondamentali, tra i quali l’aumento del numero di laureati in ingegneria a cui corrisponde anche una crescita del numero di immatricolati che abbandonano il percorso formativo prescelto. Prendendo come riferimento l’anno accademico 2007-2008 ai corsi di laurea della classe 8-Ingegneria civile ed ambientale, 9-Ingegneria dell’informazione e 10-Ingegneria industriale (secondo la classificazione del DM 509/99), risulta che a 6 anni dall’immatricolazione solo il 41% ha conseguito il titolo di laurea (triennale), il 9,8% non ha ancora completato il proprio iter formativo di primo livello, mentre quasi la metà (49,2%) ha cambiato corso di laurea o addirittura abbandonato del tutto gli studi universitari. Circa il percorso 3+2, secondo i dati del Centro Studi del CNI, prendendo come riferimento il 2013, solo 1/3 di coloro che hanno conseguito il titolo hanno concluso il ciclo di primo livello non prima di 4-5 anni di studi. ”Dal momento che la riforma universitaria che ha istituito il titolo di laurea di primo livello (tre anni di corso) aveva l’intento di abbreviare i tempi di conseguimento del titolo di studio e ridurre gli abbandoni, alla luce di quanto evidenziato e considerando che la stragrande maggioranza dei laureati triennali ingegneristici si iscrive ai corsi di laurea magistrale (nel 2013 era l’82%), appare abbastanza evidente come, almeno per ciò che riguarda i corsi in ingegneria, la riforma non abbia prodotto gli effetti sperati ed anzi abbia snaturato un percorso formativo da sempre valorizzato ed apprezzato in tutto il mondo”. (Fonte: G. Bivo, lavoripubblici.it 14-08-15)

PROFESSIONI LEGALI. IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA HA FIRMATO I DECRETI
Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha firmato due decreti in materia di professioni legali. Il primo, in collaborazione con il ministro dell'Istruzione Stefania Giannini, fissa al 28 ottobre 2015 il concorso pubblico per l'ammissione alle scuole di specializzazione per le professioni legali. Il concorso, per titoli ed esami a 3.700 posti, si svolgerà su tutto il territorio nazionale nelle sedi universitarie di giurisprudenza e ha come scadenza per la presentazione della domanda il 9 ottobre 2015. Potranno partecipare al prossimo concorso, però, i laureati in giurisprudenza secondo il vecchio ordinamento o con laurea specialistica magistrale e, con riserva, chi conseguirà il titolo entro la data della prova d'esame. Il secondo decreto firmato dal Guardasigilli, invece, stabilisce le forme di pubblicità per l'esame di abilitazione all'esercizio della professione di avvocato. (Fonte: Avvenire 14-08-15)

SERVE MAGGIOR DISPONIBILITÀ DI LAUREATI NEL SETTORE STEM (SCIENZE, TECNOLOGIA, INGEGNERIA, MATEMATICA)
La strategia dell'Unione Europea per una crescita intelligente, sostenibile e solidale ha un nome:  EUROPA 2020. In questo quadro l’UE si è posta 5 obiettivi tra i quali spicca una maggior disponibilità di laureati nel cosiddetto settore Stem (Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Matematica).
A tale fine la misura che, nel lungo periodo, contribuirebbe a trasformare il Paese sarebbe la decisione di introdurre il numero chiuso nei corsi di laurea umanistici (tutti; compresa Giurisprudenza). L'idea è che il numero chiuso in ambito umanistico si ripercuoterebbe sulla scuola e obbligherebbe col tempo i dirigenti scolastici, gli insegnanti, le famiglie e gli stessi studenti medio-superiori a investire di più nella formazione scientifica. Se diventasse difficile proseguire gli studi entrando in un corso di laurea umanistico, la stessa offerta scolastica dovrebbe riqualificarsi, dovrebbe rompere con la nostra tradizione, e dedicare più risorse e più attenzione all'insegnamento delle scienze, della matematica in particolare. Le autorità scolastiche dovrebbero cominciare a privilegiare, nel reclutamento, gli insegnanti di materie scientifiche. Le conseguenze sarebbero di grande portata. Tanto per cominciare, gli studi universitari umanistici verrebbero scelti solo da coloro che possiedono una autentica vocazione (il che oggi non accade). Se ne migliorerebbe la qualità. In secondo luogo, si potrebbe ridurre il numero di laureati disoccupati o sottoccupati. Ad esempio, nel Paese con il più alto numero di avvocati d'Europa, gli studi di legge sono diventati una fucina di disoccupazione. Non bisognerebbe dire basta? Riorientando i percorsi scolastici e universitari nella direzione degli studi scientifici, in terzo luogo, riqualificheremmo il "capitale umano": metteremmo a disposizione dell'economia tecnici specializzati nei diversi settori che oggi mancano. La UE ha inoltre espressamente sollecitato i Paesi membri "a rendere il settore
Stem più attrattivo per le ragazze” data la loro scarsa attrazione per il settore, nonostante la forte domanda. Per le ragazze le cause sono l'endemica sotto remunerazione e i diversi sviluppi di carriera che affliggono le laureate. (Fonte: A. Panebianco, SETTE 28-08-15; P. Lo Storto, Il Secolo XIX 28-08-15)

CORSO DI LAUREA IN MEDICINA A NUMERO APERTO A ENNA CONTESTATO DALL’UNIONE UNIVERSITARI DI PALERMO, MESSINA E CATANIA
«Il mese prossimo – si legge in una nota congiunta degli Universitari di Palermo, Messina e Catania - migliaia di studenti saranno in fila per i test d'ingresso ai corsi di Medicina e Chirurgia nelle altre tre città universitarie siciliane, mentre ad Enna basterà una semplice compilazione on-line per intraprendere un corso di studi così tanto richiesto». Si tratta della scelta dell'Università di Enna di aprire un corso di Laurea a numero aperto in Medicina, — scrivono gli studenti — in collaborazione tra la fondazione "Proserpina" e l'Università rumena "Dunarea de Jos". «Ci chiediamo come sia possibile - prosegue la nota - che, nello stesso territorio possa avvenire una simile discriminazione: chi potrà pagare un'università privata avrà accesso agli studi in Medicina, mentre tutti gli altri resteranno vincolati dalla legge che regolamenta l'accesso a tale facoltà». «Ci preme mettere in guardia gli studenti; negli anni è sempre risultato molto difficile fare il passaggio da un corso di studi estero (perché di questo si tratta nel caso di specie) ad uno italiano, convalidare le materie e principalmente fare in modo che il proprio titolo di studi sia poi spendibile in territorio italiano». (Fonte: Gazzetta del Sud 28-08-2015)


RECLUTAMENTO

RIPARTIZIONE DEI PUNTI ORGANICO PER L’ANNO 2015. IL MIUR HA RESO NOTO IL RELATIVO DECRETO
Si tratta del Decreto Ministeriale 21 luglio 2015 n. 503 sui criteri e contingente "assunzionale" delle Università statali per l’anno 2015.
Si segnala la tabella dei punti organico.

RECLUTAMENTO ACCADEMICO
La rivista ad accesso aperto Ius Publicum Network Review (segnalata da Roars) ospita contributi dedicati al problema del reclutamento accademico in Europa, con l'intento di approfondire il dibattito e allargarlo a una dimensione internazionale. Sono già apparsi gli articoli di:
R. Caballero Sànchez, La selecciòn del profesorado universitario en España (n° 2/2014).

RUOLO UNICO DELLA DOCENZA UNIVERSITARIA. UN'IDEA ITALICA INTRAMONTABILE CHE NON HA RISCONTRO A LIVELLO INTERNAZIONALE
L’Associazione Rete29Aprile porta avanti (come da decenni il CNU) una proposta di istituzione del “ruolo unico” della docenza universitaria. In estrema sintesi, l’idea è la seguente: poiché professori ordinari, associati e ricercatori nelle Università svolgono grosso modo gli stessi compiti e le stesse funzioni, distinguiamo il reclutamento dalle progressioni di carriera. Il reclutamento per pubblico concorso potrebbe così essere limitato all’ingresso nel ruolo unico, con un giudizio di conferma dopo tre anni per l’inserimento stabile a tempo indeterminato. All’interno di questo ruolo unico le progressioni di carriera sarebbero a questo punto solo stipendiali, da regolare mediante semplice valutazione. Anche le cosiddette figure di pre-ruolo potrebbero essere inquadrate in un percorso unico e certo, per confluire in tempi ragionevoli nel ruolo unico.
Non sono pregiudizialmente contrario a ipotesi del genere, anche perché il ruolo unico nelle Università lo abbiamo già conosciuto: fu introdotto dal Decreto del Presidente Repubblica 11 luglio 1980, n. 382. Per la verità il DPR di ruoli ne istituiva due: quello dei professori universitari, a sua volta suddiviso in due fasce (ordinari e associati), e quello dei ricercatori. Per passare da un ruolo all’altro, o anche da una fascia all’altra, era previsto un concorso e un giudizio di conferma dopo tre anni. Il cursus honorum accademico completo prevedeva pertanto tre concorsi e tre giudizi di conferma. Con l’introduzione del dottorato poi si aggiunsero un concorso e almeno quattro giudizi di idoneità, tre alla fine di ciascuna annualità con commissione locale, più uno alla fine del dottorato con commissione nazionale o esterna. Con l’arrivo poi delle borse post-dottorato, degli assegni di ricerca e dei contratti di ricercatore a tempo determinato ex-Moratti, i concorsi e i giudizi di idoneità cominciarono a moltiplicarsi diventando praticamente annuali. Il ruolo però era di fatto unico, perché quando un ricercatore veniva confermato poteva ricostruire la carriera, e i periodi di pre-ruolo venivano riconosciuti ai fini dell’anzianità di servizio e della pensione. Anche quando il ricercatore passava al ruolo di professore, associato o ordinario, al momento della conferma, si procedeva sempre alla ricostruzione di carriera. A tutto questo è stato posto fine con la Legge 240/2010 che, abolendo le ricostruzioni di carriera e il ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato ha, di fatto, frazionato la carriera universitaria in ruoli diversi, non comunicanti fra loro e per lo più precari. Il ruolo unico così come proposto dalla Rete29Aprile semplificherebbe forse le cose, poiché il concorso sarebbe solo all’inizio della carriera, mentre le progressioni verrebbero decise mediante valutazione di merito. D’altra parte sono da temere non poco i criteri che potrebbero essere adottati per le valutazioni. Ci vorrebbero regole chiare, condivise e trasparenti, mirate davvero a premiare l’impegno e il merito. Il rischio è, fa notare N. Cassagli estensore dell'articolo, che poi le progressioni dipendano da lobby di pressione, corporazioni e logiche para-sindacali. Ma soprattutto non dovremmo discostarci dai modelli internazionali. La distinzione in professori ordinari, professori associati, ricercatori/lecturer/assistant professor esiste praticamente in tutto il mondo e, accanto a queste, esistono inoltre moltissime altre figure a tempo determinato per scopi di ricerca, didattica, clinica. (Fonte: N. Casagli, Roars 31-07-15)

RECLUTAMENTO. IL RIPARTO DEL CONTINGENTE "ASSUNZIONALE" NELLE UNIVERSITÀ PER L’ANNO 2015 NON PIACE AL SUD
Agli inizi di Agosto sul sito del MIUR è stato pubblicato l’atteso riparto del “contingente assunzionale nelle università” per l’anno 2015. In termini assoluti, gli atenei che hanno dovuto cedere le quote maggiori dei propri pensionamenti ad altri atenei più ricchi sono Palermo (– 15 punti organico), Napoli Federico II (– 14), Roma La Sapienza (– 13), Messina (– 10), Bari (– 9). Tutti atenei virtuosi, cioè con entrambi gli indicatori finanziari previsti dal MIUR in regola. E tutti atenei operanti nel meridione. Non è un caso che le università che hanno, al contrario, prelevato punti organico da altri atenei si trovino tutti ad operare nel Nord-Italia. Anzi, le prime tre hanno sede nella stessa città: Politecnico di Milano (+ 18 punti organico), Milano (+ 11), Milano Bicocca (+ 9). Seguono Padova (+ 8) e Venezia Ca Foscari (+ 7).
Per quanto attiene alle regioni, quella che è notevolmente più penalizzata risulta la Sicilia, a cui sono stati sottratti circa 29 punti organico, benché tutte e tre gli atenei siciliani risultino “atenei virtuosi” secondo i parametri del MIUR. Segue la Campania, con –19 punti organico. La regione che invece ha prelevato più punti organico dalle altre è stata ancora una volta la Lombardia, con un invidiabile primato di +44 punti organico. Per effetto dei criteri utilizzati per la ripartizione dei punti organico, che premiano le università con la più alta tassazione studentesca, gli atenei del Sud e del Centro si sono visti sottrarre 281 e 60 punti organico, rispettivamente. Tali 341 punti organico “extra” hanno ingrossato gli organici delle università del Nord. In pratica è come se, in soli 4 anni, quasi 700 ricercatori siano stati prelevati dagli organici delle università del Centro-Sud e trasferiti d’ufficio negli atenei del Nord-Italia. La sola regione Sicilia perde 120 punti organico. La Campania ne perde 90. Viceversa la Lombardia è la regione che ne guadagna di più: quasi 180. (Fonte: B. Cappelletti Montano, Roars 18-08-15)

RECLUTAMENTO. SULLA RIPARTIZIONE DEI PUNTI ORGANICO TRA NORD E SUD UN INTERVENTO DELL'EX-MINISTRO GELMINI
L’ex-ministro Gelmini interviene con una dura presa di posizione sui commenti alla ripartizione dei punti organico tra Nord e Sud: “Proporre una lettura divisiva e discriminatoria sulla ripartizione dei punti organico tra Nord e Sud – riflette in un comunicato Mariastella Gelmini, coordinatrice regionale di Forza Italia in Lombardia -, non solo è inutile ma rischia di alterare la realtà strumentalizzandola a vantaggio della polemica che sta montando intorno al piano assunzionale previsto dalla Buona scuola.” “Nel momento in cui il meccanismo scelto per le immissioni in ruolo dalla Buona scuola comporterà un esodo dei docenti del Sud verso il Nord – evidenzia l’ex ministro dell’Istruzione -, è troppo semplice cavalcare l’onda della polemica dell’Italia spaccata in due e del Sud penalizzato a favore del Nord.” “All’epoca abbiamo compiuto delle scelte di buon senso, basate su un criterio oggettivo di calcolo e di ponderazione dei punteggi, per premiare il merito e ridurre gli sprechi. Vorrei inoltre precisare che l’attuale attribuzione di punteggi è frutto di più interventi modificativi dell’originario decreto dovuti ai diversi ministri che si sono succeduti. In modo molto semplice, occorre ricordare che criteri utilizzati per la ripartizione penalizzano soprattutto le Università che spendono di più in stipendi e meno in servizi, rispetto alle entrate rappresentate dalle tasse e dall’FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario, ndr). L’anno scorso si discuteva che questi criteri avvantaggiassero le università con rette più alte. Quest’anno, essendo di moda nuovamente il derby Nord-Sud, si stanno cercando altri pretesti per alimentare inutili polemiche” prosegue ancora la Gelmini. “Ancora peggio del falso ideologico che si sta cercando di proporre è quello di mettere in correlazione la riduzione dei punti organico con la perdita degli studenti ritenendo che i limiti all’assunzione del personale docente siano la causa della scarsa attrattività delle università del Sud. – conclude l’esponente azzurra – Chi lo propone è un demagogo che ci vuole portare nel vecchio paradosso di chi da sempre s’interroga se sia nato prima l’uovo o la gallina.”


RETRIBUZIONI

PENSIONI. NEL MIRINO DELL'INPS ANCHE I DOCENTI UNIVERSITARI
Per risanare i conti – nel 2014 l’Inps ha registrato un risultato negativo pari a 12,7 miliardi di euro – si potrebbe cominciare proprio dai vitalizi dei parlamentari, “vere e proprie pensioni” ha detto il presidente dell’istituto di previdenza, Tito Boeri, che negli ultimi 25 anni “sono state sottratte alle riforme previdenziali: è auspicabile che Camera e Senato rendano al più presto pubbliche le regole che storicamente sono state alla base della concessione di questi vitalizi”, per confrontarli con il trattamento riservato a tutti gli altri lavoratori. L’idea quindi è quella di chiedere a chi ha redditi pensionistici elevati “un contributo al finanziamento di uscite verso la pensione più flessibili”. La pratica sarebbe di andare a pescare dalle tasche di alti magistrati, docenti universitari, burocrati e dirigenti privati con stipendi elevati – cioè le categorie con le pensioni più sostanziose – che difficilmente accetteranno di buon grado la rinuncia a un diritto acquisito (eventualità su cui la Corte Costituzionale ha peraltro già dato il suo no). (Fonte: www.wired.it 09-07-15)


RICERCA. RICERCATORI. VALUTAZIONE DELLA RICERCA

CUN. ANALISI E PROPOSTE IN MERITO ALLA BOZZA DI BANDO VQR 2011-2014
Si riportano alcune osservazioni formulate dal CUN sulla Bozza di Bando concernente l’esercizio di Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) 2011-2014 pubblicata dal Consiglio Direttivo dell’ANVUR in data 8 luglio 2015.
Il CUN ribadisce la necessità di una maggiore condivisione con le comunità scientifiche circa gli aspetti tecnici della VQR e auspica che, in future edizioni, il CUN sia messo in condizione di formulare osservazioni e proposte già sulla bozza del decreto ministeriale che ne avvia le procedure. Inoltre suggerisce che la valutazione in peer review, di norma applicata integralmente ai settori non bibliometrici, sia parimenti assicurata almeno alla metà dei prodotti di ciascuna area bibliometrica. Il CUN suggerisce anche che i prodotti con coautori afferenti a diverse aree
disciplinari CUN e a diversi Dipartimenti della medesima Istituzione universitaria possano essere presentati per ciascun Dipartimento cui appartenga almeno un autore. Auspica l’introduzione di un opportuno indicatore per i dipartimenti, parallelo a quello per gli Atenei denominato IRAS2, modificando di conseguenza anche la ripartizione dei pesi per il calcolo dell’indicatore complessivo. Rileva che la condizione che le borse di studio post-dottorato e gli assegni di ricerca siano «istituiti dalla Struttura» (punto 3.2 del bando) sembra essere alquanto restrittiva nei molti casi di borse o assegni istituiti da enti esterni ma goduti presso la truttura.
Il CUN raccomanda di fornire i profili di qualità anche non prendendo in considerazione i soggetti inattivi, tenuto conto che tali posizioni hanno spesso origini non recenti e rappresentano situazioni su cui non è facile per le Istituzioni intervenire efficacemente.
Infine ribadisce che "non è condivisibile il ripetersi di un’impostazione della VQR che sembra  tendere all’obiettivo di stilare classifiche o graduatorie tra le istituzioni (v. art. 6, c. 4, lettera b) del DM concernente le Linee guida o il secondo periodo del punto I.2 dell’Appendice I, Bozza di Bando) quando il fine ultimo di ogni valutazione dovrebbe essere il miglioramento della qualità del sistema. Si ritiene infatti che forme di rating, molto più significative e utili al fine suddetto, dovrebbero sostituire i ranking che inevitabilmente amplificano artificiosamente piccole differenze fra le strutture". (Fonte 23-07-15)

DISTINGUERE LA VALUTAZIONE DALLA POLITICA UNIVERSITARIA
Un recentissimo articolo di Riccardo Realfonso (pubblicato sul Sole24Ore del 10 u.s.) mette in luce come la quota di premialità del FFO (che per il 2015 è giunta al 20%), così come sinora calcolata, abbia di fatto sfavorito le università meridionali a vantaggio di quelle del centro-nord. E giustamente stigmatizza la lacuna di tale sistema di ripartizione in quanto non tiene conto del differente contesto e dei differenti fattori socioeconomici nei quali le diverse università sono inserite. Se ciò venisse fatto – sostiene l’Autore – e venisse ad es. utilizzato un indice della probabilità di trovare impiego dei laureati in rapporto al contesto, allora ai primissimi posti si troverebbero università come quelle di Catania e di Napoli Federico II, che invece con l’attuale calcolo sono state tra le più penalizzate. Quando ad es. si utilizza un indice quale quello della mobilità degli studenti – aggiungo io – è palmare per ogni persona di buon senso rendersi conto che l’università di Catania non può competere con quella di Torino o Milano, anche a parità di qualità dell’offerta: chi dovrebbe attrarre Catania, gli studenti della Libia o della Tunisia? Bisogna dunque mettere in discussione ciò che nessuno discute e concepire una politica opposta a quella sinora messa in atto, col distinguere innanzi tutto la valutazione dalla politica universitaria vera e propria. La valutazione deve avere la funzione di diagnosticare (se fatta bene, e non come sinora fatto) i punti critici e di debolezza del sistema universitario, al fine di dare indicazioni per “policies” in grado di supportare le realtà in difficoltà – università per università, dipartimento per dipartimento – e permettere loro di avviare una pratica virtuosa che possa portare ad un aumento del loro tasso di qualità ed efficienza. Non quindi una punizione con minori investimenti, ma più investimenti, mirati e sapientemente concertati. (Fonte: F. Coniglione, Roars 12-08-15)

VALUTAZIONE DELLA RICERCA E COMPITI DELLA POLITICA
I risultati della valutazione della ricerca (VQR 2004-10) stanno iniziando ad avere un impatto significativo (e lo avranno ancora maggiore nel tempo) sulla distribuzione del finanziamento alle università. L’aumento del peso della cosiddetta quota premiale (si tratta del nome orwelliano dato a una parte del fondo ordinario e non di risorse aggiuntive) ha penalizzato i grandi atenei del Centro-Sud. Molti atenei del Centro-Sud si trovano ora in condizioni molto critiche e, per com’è utilizzata la valutazione dal decisore politico, nel futuro questo squilibrio è chiaramente destinato ad ampliarsi. In pratica la valutazione equivale a una deresponsabilizzazione del decisore politico che, mascherandosi dietro dei risultati apparentemente tecnici, delega alla valutazione scelte prettamente politiche. Questo accade perché gli atenei di tutta Italia sono messi in competizione tra loro, fatto che sta generando un vantaggio cumulativo di alcuni a discapito di altri. Nel Regno Unito, in genere preso a modello per la politica universitaria, non accade lo stesso: università che appartengono a diverse macroregioni - Inghilterra, Scozia, Irlanda del Nord e Galles - non competono tra loro per i fondi associati alla valutazione. Un minimo di buon senso dovrebbe indurre il Ministro a fare altrettanto: dividere la quota premiale in tre parti, assegnare ognuna a tre aree geografiche (Nord, Centro, Sud e Isole) e all’interno di ciascun’area ripartire i fondi sulla base dei risultati della valutazione. Sarebbe un primo passo per evitare l’inutile e dannoso accentramento delle risorse su pochi (al Nord) con conseguente impoverimento d’intere aree geografiche (al Sud): questo è (sarebbe) il compito della politica, piuttosto che quello di implementare il risultato di classifiche basate su pseudo-analisi tecniche. (Fonte: F. Sylos Labini, FQ 16-08-15)

PROGETTO IRIDE. IL CODICE DI IDENTIFICAZIONE INTERNAZIONALE ORCID PER I RICERCATORI ITALIANI
I ricercatori italiani avranno un loro numero identificativo, una sorta di codice a barre che permetterà di collegarli in modo univoco ai propri prodotti di ricerca indipendentemente dal settore e dai confini. Un risultato possibile grazie al progetto Iride (Italian Reserch Identifier for Evaluation), lanciato dall'Agenzia Nazionale per la Valutazione dell'Università e della Ricerca (Anvur), la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (Crui) e il Consorzio Interuniversitario Cineca, in occasione dell'avvio del progetto di Valutazione della Qualità della Ricerca VQR 2011-2014.
Anche i ricercatori italiani avranno quindi assegnato il codice di identificazione internazionale Orcid (Open Researcher and Contributor ID), così come già avviene all'estero, che consentirà di evitare errori e ambiguità di attribuzione in diversi ambiti, dalla paternità degli articoli pubblicati dalle riviste scientifiche alla richiesta di finanziamenti, dalla registrazione di brevetti e gli esercizi di valutazione nazionali e di ateneo. In questo modo si potranno superare gli innumerevoli problemi incontrati in passato da Anvur, università, Cineca e dai singoli ricercatori nell'interrogare le banche dati bibliometriche. Al progetto Iride prenderanno parte 70 università e quattro centri di ricerca italiani. (Fonte: ANSA 05-08-15)

CAMBIARE LA LEGGE ITALIANA SULLA SPERIMENTAZIONE SU ANIMALI. APPELLO DI RICERCATORI ALL'UE
La legge italiana sulla sperimentazione animale in ambito biomedico sta rallentando la ricerca. E' la denuncia di Research4life, piattaforma che riunisce istituti di ricerca e ricercatori italiani, tra cui la senatrice a vita e direttrice del Centro di ricerche sulle staminali dell'Università di Milano Elena Cattaneo, che hanno lanciato un appello per chiedere all'Unione europea di intervenire presso il Governo per chiedere la corretta applicazione della direttiva in materia, interpretata dall'Italia, a loro dire, in maniera troppo restrittiva. A spiegare la situazione è Giuliano Grignaschi, segretario generale e portavoce di Research4life e responsabile dell'Animal Care Unit dell'Istituto Mario Negri. La richiesta di Research4life è che l'Ue “richieda all'Italia il recepimento della direttiva correttamente, esattamente come tutti gli altri Paesi europei, in modo da riportare i nostri ricercatori a svolgere il lavoro in maniera competitiva”. La normativa europea, sottolinea Grignaschi, “è già molto restrittiva rispetto a tutte le altre normative nel resto del mondo. Negli Stati Uniti, tanto per fare un esempio, la sperimentazione biomedica è immensamente più vasta perché ci sono maggiori investimenti in ricerca. Bloccarla in Italia maggiormente rispetto all'Ue, che già la blocca più di altri Paesi, sarebbe proprio decidere di sparire. E' un'autoesclusione”, commenta il ricercatore. (Fonte: http://notizie.tiscali.it/articoli/scienza/15/07/sperimentazione-animali-cambiare-legge.html?scienze 08-07-15)

CRITICITÀ CHE UN USO SOLITARIO E DECONTESTUALIZZATO DELLE TECNICHE BIBLIOMETRICHE INDUCE NEGLI ESERCIZI DI VALUTAZIONE RETROSPETTIVI
Roars segnala ai lettori la pubblicazione dell'importante referto "The Metric Tide: Report of the Independent Review of the Role of Metrics in Research Assessment and Management", commissionato dall'HEFCE (Agenzia governativa finanziatrice del sistema universitario inglese) ad un gruppo indipendente di esperti in scientometria, finanziamento della ricerca, politica della ricerca, editoria scientifica, amministrazione delle Università e amministrazione della ricerca. Il rapporto fa parte delle azioni intraprese dall'HEFCE per progettare e monitorare il ben noto REF (Research Excellence Framework), programma pluriennale di valutazione della ricerca prodotta dalle Università britanniche, co-gestito dallo stesso HEFCE e dalle altre 3 agenzie regionali di finanziamento delle Università (cioè quelle per Scozia, Galles e Irlanda del Nord). In previsione dell'uscita dei risultati del REF 2014, e con l'idea di rinnovare lo studio per fornire un'ancora più comprensiva e dettagliata disamina della materia, l'HEFCE diede mandato l'anno scorso ad un altro gruppo di esperti di produrre un nuovo referto - quello citato all'inizio, appunto, e appena uscito. Già nel 2009, sulla spinta di tendenze e proposte volte ad accrescere il ruolo degli indicatori bibliometrici nell'esecuzione dell'esercizio di valutazione (al posto della peer-review), l'HEFCE aveva sviluppato un progetto-pilota che implementava dei modelli di calcolo attraverso apposite simulazioni, e ne aveva presentato gli esiti alla comunità accademica. Anche questa volta sono emerse, e forse con ancor più chiarezza del 2009, tutte le criticità che un possibile uso solitario e decontestualizzato delle tecniche bibliometriche induce negli esercizi di valutazione retrospettivi, né più né meno come in tutte le altre pratiche valutative della ricerca e dei ricercatori, sempre più diffuse ad ogni livello. (Fonte: R. Rubele, Roars 12-07-15)

NEL TURBINIO DI VALUTAZIONI UNICHE, SCHEDE UNICHE E BANCHE DATI UNICHE
La VQR non poteva rimanere a lungo come unica procedura di valutazione e infatti l’ANVUR sentì presto il bisogno di farne un’altra, sempre rigorosamente unica, che fu chiamata SUA perché doveva essere una “Scheda Unica Annuale”. La Scheda Unica nacque però doppia fin dal principio. C’era la SUA-CdS che riguarda i corsi di studio e la SUA-RD relativa alla ricerca dipartimentale. Per la verità la situazione non è nemmeno così semplice, perché come si vede nel sito dell’ANVUR, nella sezione Documenti AVA, ciascuna scheda unica comprende altre schede uniche. La SUA-CdS si articola in sei sotto-schede uniche, denominate “aree” ciascuna delle quali suddivisa in “quadri”, mentre la SUA-RD si compone a sua volta di tre cluster di sotto-schede uniche, denominate “sezioni”: la Parte I sugli obiettivi, risorse e gestione del Dipartimento; la Parte II sui risultati della ricerca; la Parte III sulla Terza Missione.
La AVA (Autovalutazione, Valutazione periodica, Accreditamento) non prevede però unicamente le Schede Uniche, perché richiede agli Atenei anche altri documenti unici: il rapporto di riesame annuale e ciclico, la relazione dei nuclei di valutazione, il rilevamento delle opinioni degli studenti, la documentazione per l’accreditamento iniziale e periodico. Appena tutti questi adempimenti burocratici unici saranno stati completati bisognerà ripartire da capo: è infatti appena arrivata una nuova edizione della valutazione unica – la VQR 2011-2014 – e, statene certi, si tratterà di un’altra cosa “unica”. Per sostenere tutto questo colossale impianto unico di valutazione unica, la cosa assolutamente necessaria è la piattaforma informatica unica per i prodotti della ricerca. E infatti, ai tempi della prima VQR, la piattaforma unica fu realizzata davvero ma, ovviamente, era tutto fuorché unica, perché c’era quella del MIUR, quella del CINECA, quella del CASPUR-CIBER e quella del CILEA, che dialogavano male o per niente tra di loro. C’era infatti, fra le altre, la piattaforma del sito “LoginMiur” del MIUR prodotto dal CINECA che, ai tempi, non comunicava con “U-GOV Ricerca versione I” dello stesso CINECA, che è rimasta memorabile per l’interfaccia utente a dir poco imbarazzante oltre che inusabile; arrivò presto in parallelo “U-GOV Ricerca versione II” con una nuova interfaccia comunque sempre obsoleta e cervellotica, e poi c’era “SURplus” il cui nome era profetico, anche se l’interfaccia utente era forse di gran lunga la migliore. 
Successivamente, per cercare di uscire dal ginepraio delle banche dati uniche, ci si rese conto che si doveva individuare un unico fornitore di servizi, creando così un soggetto monopolista piuttosto che rivolgendosi al libero mercato con procedure aperte e trasparenti. E fu così che CILEA e CASPUR-CIBER confluirono nel CINECA, proclamato sul campo interlocutore unico del Ministero, per realizzare anche la nuova banca dati unica, dal nome floreale di IRIS (Institutional Research Information System). (Fonte: N. Casagli, Roars 28-07-15)

SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO SU CLASSIFICAZIONE DI UNA RIVISTA DI AREA GIURIDICA
Con una sentenza il Consiglio di Stato ha concluso una lunga controversia relativa alla classificazione di una rivista di area giuridica, la Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale. Il Consiglio di Stato, nel rilevare le numerose e reiterate illegittimità delle procedure valutative condotte dall'Agenzia, ha provveduto a nominare uno speciale collegio, ritenuto terzo e competente in materia e composto dai presidi di giurisprudenza dei tre atenei romani, al fine di provvedere all'attribuzione della fascia alla rivista. (Fonte: Redazione Roars 29-07-15)

CNR. LA CORTE DEI CONTI EVIDENZIA PENALIZZAZIONI PER RICERCATORI E TECNOLOGI DEL CNR
Secondo la Corte dei Conti, Sezione del controllo sugli enti, al CNR solo i tecnici e gli amministrativi fanno carriera, mentre i Ricercatori e i Tecnologi sono “condannati” a rimanere al livello iniziale a causa di percorsi di carriera per loro fortemente penalizzanti. La Corte sottolinea che “più del 72% dei ricercatori e del 73,2% dei tecnologi appartiene al livello iniziale – rispetto al personale tecnico e amministrativo che si concentra nei profili apicali in funzione di una dinamica che ha fortemente risentito dei percorsi selettivi interni”. Inoltre, per quanto riguarda la composizione del personale a tempo indeterminato, di cui il 54,7% è costituito da Ricercatori, il 6,8% da Tecnologi, e il 38,4% da “personale di supporto tecnico-amministrativo”, la Corte ritiene che il personale di supporto sia “ancora sovradimensionato rispetto alla mission dell’ente”, nonostante un rallentamento negli ultimi anni del relativo turn over. Eppure, nonostante quanto evidenziato dalla Corte dei Conti, il CNR con l’ultimo Piano Triennale 2015-2017 (Provvedimento n. 56/2015 del Presidente Nicolais) ha deliberato tagli agli organici dei livelli apicali dei Ricercatori (-321 posti da Dirigente di Ricerca e Primo Ricercatore) al fine di realizzare ulteriori progressioni di livello del personale tecnico ed amministrativo (417 progressioni nel solo 2015!), come ufficialmente ammesso dallo stesso CNR. (Fonte: www.anpri.it 04-08-15)

QUANDO VALUTAZIONE DEL MERITO E DEMOCRAZIA COLLIDONO.
Come si fa a diventare "la migliore" università? Semplice: si costruiscono grandi infrastrutture e si assumono molti docenti nei settori disciplinari in cui si è deciso di eccellere. Ma non basta. Gli investimenti devono dare risultati. I docenti su cui si è investito, per esempio, devono avere una produzione scientifica di alto livello, e devono attirare, attraverso i bandi competitivi, cospicui finanziamenti. Quali risultati si sono ottenuti? Si chiama valutazione. E non può essere fatta dagli stessi che sono valutati. Bisogna chiamare personaggi eccellenti a livello mondiale nelle varie branche del sapere e chiedere: a che livello è, nella tua disciplina, questa Università? I giovani devono sapere che le triennali sono bene o male di qualità uniforme in tutte le Università, ma con le magistrali le cose cambiano. E, in base alle proprie aspirazioni, devono sapere dove ci sono i docenti migliori, per avere la migliore istruzione. Sapete perché queste cose, così logiche, di solito non si fanno? Perché per farle ci vuole una decisione a maggioranza, e la maggioranza non le vuole fare. La maggioranza dei docenti è impegnata nelle triennali, e solo una minoranza dovrebbe essere impiegata nelle magistrali. Nessuno, avendo la maggioranza, accetterà di farsi declassare a seguito di valutazione. Valutazione e democrazia collidono. E' un paradosso. Ogni Università deve decidere "dove vuole andare" e non lo può decidere con la logica delle mani alzate. Deve prevalere il merito. Per le Università che non lo faranno, la decadenza sarà inevitabile, e ... meritata! (Fonte: F. Boero, Il Secolo XIX 29-08-15)


STUDENTI

D.M. ISEE-ISPE
Lo scorso 14 luglio è stato finalmente emanato il DM Aggiornamento Indicatori ISEE-ISPE e Importo minimo Borse di Studio a.a. 2015-2016, con quattro mesi e mezzo di ritardo rispetto alle tempistiche previste dalla normativa nazionale, secondo cui deve essere predisposto entro il 28 febbraio di ogni anno. Oramai tutti gli enti regionali per il DSU (o quasi) hanno pubblicato i bandi per la concessione delle borse di studio 2015/16 e l’auspicio è che si attengano agli importi e ai limiti ISEE-ISPE aggiornati. (Fonte: F. Laudisa, http://tinyurl.com/pgwyhkz 27-07-15)

1.700 BORSE DI STUDIO IN MENO CON IL NUOVO ISEE NEGLI ATENEI LOMBARDI
Secondo le prime stime, un calo di 1700 borse potrebbe abbattersi sugli studenti degli atenei lombardi a causa del nuovo ISEE, ovvero l'indicatore della situazione economica equivalente, che viene preso dalle università come discrimine fondamentale per assegnare gli incentivi economici e che da quest'anno ha visto un cambiamento dei parametri. A calcolare questa riduzione sono stati gli "Studenti indipendenti" della Bicocca, che hanno avuto accesso al dati di 1.300 studenti di piazza dell'Ateneo Nuovo i quali hanno consegnato in ritardo l'ISEE per questo anno accademico, e i cui redditi sono quindi stati calcolati col nuovo sistema. Dai dati della Bicocca emerge che il 18 per cento dei borsisti risultati idonei con il vecchio metodo non lo sarà più col nuovo, mentre i nuovi idonei saranno solo il 7 per cento. Inoltre la maggioranza degli studenti sarà considerata più ricca a parità di reddito e patrimonio, mentre l'ISEE sarà mediamente più elevato di circa 2200 euro. Proiettando queste percentuali sul totale degli aventi diritto a una borsa di studio in Lombardia (circa 16mila), si ottiene il numero delle 1.700 borse di studio in meno. Secondo quanto calcolato dagli studenti il Cidis da solo - Consorzio per il diritto allo studio che gestisce le borse per Statale, Iulm, Bicocca e Insubria - vedrà i borsisti passare da 5.060 a 4.500 circa. (Fonte: L. De Vito, La Repubblica Milano 26-06-15)

NELLE UNIVERSITÀ ITALIANE STUDENTI-LAVORATORI DAL 39% AL 26% IN 3 ANNI
L'Indagine Eurostudent, promossa e co-finanziata dal MIUR, è stata realizzata dalla Fondazione Rui con la collaborazione dell'Università per Stranieri di Perugia. Premesso che, nei Paesi europei, il lavoro studentesco è un aspetto strutturale e non occasionale, in Italia la percentuale di studenti che svolgono un lavoro retribuito è passata in tre anni dal 39 al 26%, un valore nettamente inferiore a quello registrato altrove. Gli studenti lavorano per dipendere meno dalle famiglie (che continuano a coprire circa il 70% delle spese), per entrare in contatto con il mondo del lavoro e per arricchire il proprio bagaglio di competenze. Il calo della loro occupazione rappresenta un insuccesso delle politiche di inclusione sociale e un indebolimento delle prospettive di occupabili. Per contrastare questo fenomeno è necessario adottare azioni mirate: aumentare le politiche di aiuto agli studi per garantire pari opportunità di accesso, creare nelle università le condizioni favorevoli per coniugare studio e lavoro, offrire opportunità per rinforzare le prospettive di occupabili (tirocini, riconoscimento dei titoli acquisiti all'estero, etc.). (Fonte: I. Cuccarini, rivistauniversitas giugno 2015)

ACCESSO AI CORSI DI MEDICINA
Ogni anno al test per l'accesso ai corsi di medicina si presentano circa 80 mila aspiranti matricole. Di questi solo uno su otto riesce a entrare nei corsi, ma ancora meno sono quelli che hanno accesso alla formazione specialistica. I posti disponibili quest'anno per gli aspiranti medici saranno 9.513, 470 (pari al 4%) in meno rispetto all'anno scorso. La sforbiciata imposta dal Miur è il risultato di una mediazione fra il fabbisogno espresso da ordine e federazione dei medici, preoccupati dall'imbuto creato tra laurea e specializzazione. (Fonte: B. Pacelli, ItaliaOggi 16-07-15)

TEST PER L'AMMISSIONE A MEDICINA. ELIMINARE SUI PLICHI IL CODICE ALFANUMERICO SOTTO QUELLO A BARRE?
Che succederà, se i candidati che non passeranno il test ricorreranno anche quest'anno al Tar del Lazio, come accaduto dopo i fatti dell'aprile 2014? Ritenendo che fu violato il principio di riservatezza, infatti, il giudice amministrativo della capitale ordinò che fossero ammessi in sovrannumero a Bari circa 700 studenti, ben oltre il numero programmato. Tra aule che mancavano e professori che davano forfait, l'ex facoltà medica si è ritrovata ad avviare le lezioni del primo anno in Medicina e chirurgia in sovraffollamento e sotto organico. Tappando i buchi con avvisi di vacanza all'ultimo momento, videoconferenze in streaming e corsi di recupero per i ritardatari.
Sul piano tecnico, il cavallo di troia che ha fatto crollate il numero programmato è stato un codice a barre. Un numero seriale, applicato sui plichi in distribuzione ad ogni partecipante, è risultato secondo il Tar del Lazio facilmente decrittabile: così andava a farsi benedire l'anonimato di chi compilava il quiz. E addio, di logica conseguenza, ad ogni pretesa di imparzialità e trasparenza, nonostante le rigide misure di sicurezza dell'Ateneo. La gestione del concorso, in mano ancora una volta al Cineca, era viziata per violazione dell'anonirnato, in quanto la documentazione che tale Consorzio mette a disposizione, nonostante ogni accortezza che possa essere messa in campo dagli Atenei, è inidonea ad escludere che la Commissione possa abbinare, con facilità, il nome dei candidati al codice segreto. Come sin dal 2007 aveva fatto notare il Commissario per la lotta all'anticorruzione, nominato dall'allora Governo, per individuare soluzioni idonee a scongiurare i noti fatti basterebbe eliminare il codice alfanumerico sotto quello a barre. «II ministero dell'Università - rileva il professor Livrea, presidente della Scuola di Medicina di Bari - dopo il pasticcio del 2014 annunciò che stava studiando un nuovo sistema, ma siamo arrivati a fine agosto e non abbiamo ancora ricevuto alcuna informazione al riguardo». (Fonte: L. Barile, Gazzetta del Mezzogiorno 21-08-15. Gazzetta del Sud 21-08-15)

RAPPORTO SULLA CONDIZIONE STUDENTESCA 2015 REDATTO DAL CNSU (CONSIGLIO NAZIONALE DEGLI STUDENTI UNIVERSITARI). BORSE. ALLOGGI. TASSE
Il problema principale, nell’analisi del Cnsu, è costituito dalla scarsità di risorse, ulteriormente acuita dai tagli degli ultimi anni.
Borse di studio. Nell’anno accademico 2013/14 sono stati spesi per le borse di studio oltre 470 milioni di euro: meno del 2009/10 (493), ma in risalita rispetto ai 392 milioni del 2011/12.  Quasi la metà delle risorse (42,2% del totale) proviene inoltre dagli stessi studenti, attraverso la tassa regionale per il diritto allo studio: in media 140 euro all’anno per ogni studente, con punte di 200 variabili a seconda del reddito e della regione. In misura minore gli assegni sono finanziati dallo Stato (34,2%) e dai contributi diretti delle Regioni (23,6 %), con un peso di questi ultimi che è molto diminuito nel corso degli anni. Il risultato è che in Italia ci sono 183.654 studenti idonei per la borsa di studio: appena l’8,2% degli iscritti, contro il 18% della Germania, il 19 della Spagna e il 27 della Francia, per non parlare di paesi come Olanda (95%), Danimarca e Svezia (che viaggiano intorno all’80%). Oltre un quarto degli idonei inoltre non percepisce materialmente il contributo a causa della mancanza di fondi, dando luogo a un’anomalia tutta italiana sconosciuta negli altri paesi europei. La percentuale varia a seconda del territorio considerato: in 10 regioni (tra cui il Veneto) nel 2013/14 tutti gli idonei hanno ricevuto l’assegno mentre in Sicilia si arriva appena al 32,3%, in Calabria al 42,1% e anche il Piemonte raggiunge solo il 55,1%. I requisiti di accesso sono eterogenei (anche se di norma comprendono un tetto di reddito e criteri di merito) così come gli importi delle borse, con una media nazionale di 3.422 euro all’anno, che arriva a 5.053 per i fuori sede. Resta il fatto che, secondo il CNSU, i criteri economici per l’accesso alle borse sono ben al di sotto delle reali necessità delle famiglie; bisogna infine considerare anche i ritardi nell’assegnazione, che possono arrivare ad oltre un anno.
Alloggi. Se le borse di studio sono poche, meno ancora sono gli alloggi. Sempre nel 2013/14 gli enti per il diritto allo studio mettevano a disposizione – in una selva di tariffe e di condizioni – 40.017 posti letto sul piano nazionale, che riuscivano a soddisfare appena il 32% degli studenti fuori sede in graduatoria, circa il 4% del totale degli studenti in corso.
Tasse universitarie. Anche se l’Italia risulta allineata alla media Ocse, negli ultimi 10 anni le contribuzioni sono cresciute del 63%, parallelamente ad una significativa riduzione (-17%) del numero di iscrizioni all’università: si è infatti passati da un picco di 338.496 immatricolati nel 2003/04 ai 269.549 del 2012/13, con un calo particolarmente vistoso nelle Isole e nel Mezzogiorno.
(Fonte: D. Mont D’Arpizio, IlBo 11-08-15)

STUDENTI. IN MEDIA IL 42,2% DEL DIRITTO ALLO STUDIO È FINANZIATO DAGLI STUDENTI
L’ultimo "Rapporto sulla condizione studentesca 2015", come riportato su Skuola.net, evidenzia chiaramente come i fondi statali siano nettamente diminuiti, a differenza delle tasse che gravano sempre più pesantemente sugli studenti, in particolare la tassa regionale. Questa è versata al proprio ateneo al fine di garantire il diritto allo studio a tutti gli studenti meritevoli in condizioni economiche particolarmente svantaggiose, stando all’art. 34 della Costituzione. La tassa regionale è aumentata, ma i fondi statali sono diminuiti. Secondo il rapporto: “Si evidenzia come in media il 42,2% dello stesso diritto allo studio sia finanziato dagli studenti e un 23,6% dalla volontà delle regioni di inserire risorse proprie”. Sono quindi gli studenti, principalmente, a pagare le proprie borse di studio. In particolare, l’incremento della tassa regionale, è percepibile al Sud con un incremento del 100%: negli atenei di Reggio Calabria, Catanzaro, Campania, Puglia e Sicilia si è passati da un contributo medio di 70 € nel 2009, ad uno di 140 € nel 2014. Non sono da escludere, però, nemmeno le regioni più a Nord come Lazio e Lombardia che, in soli 5 anni, hanno aumentato la tassa rispettivamente del 18,6% e del 40%. (Fonte: A. Presti, http://catania.liveuniversity.it/ 26-07-15)


VARIE

MODERNIZZARE LE UNIVERSITÀ INVESTENDO NON SOLO IN RICERCA MA ANCHE IN INSEGNAMENTO DI ALTA QUALITÀ
Nel suo terzo articolo su FQ in meno di una settimana, Feltri dichiara laconico che “il sistema universitario italiano fa un po’ schifo”. Se fosse davvero così, tuttavia, non si capirebbe come mai i nostri laureati italiani abbiano così spesso notevole successo all’estero sia nelle discipline umanistiche che nelle scienze e nelle scienze sociali. Né lo studio del CEPS né gli altri dati citati nel terzo articolo (relativi per altro alle scuole superiori) sembrano giustificare le conclusioni alle quali Feltri giunge. Come in tutti i paesi del mondo, ci sono università d’eccellenza e altre meno buone, laureati bravissimi e altri meno bravi. L’eccellenza si trova sia nelle scienze sociali, legge e economia (inclusa la Bocconi di Feltri), che nelle scienze umanistiche (in università come la Scuola Normale Superiore di Pisa, ma non solo). Il problema vero, semmai, è la scarsa modernizzazione delle università italiane di fronte a un mercato del lavoro sempre più complesso e articolato. Tale modernizzazione è al centro di un recente rapporto indirizzato alla Commisione Europea che invita le università e i governi europei a investire non solo in ricerca ma anche in insegnamento di alta qualità. In sostanza, perché le università europee e italiane raggiungano valori di eccellenza nella ricerca e producano studenti competitivi nel mondo del lavoro nazionale e internazionale bisogna che la qualità dell’insegnamento sia elevata e integrata con la ricerca (quello che nel mondo anglosassone si chiama ‘research-led teaching’). Eppure, stando a un recentissimo rapporto prodotto dall’European Parliamentary Research Service (EPRS), l’Italia è uno dei paesi europei che a livello governativo investe meno di tutti nella formazione, mentre l’investimento privato richiesto alle famiglie pare essere in crescita. L’investimento del governo negli anni 2008-2013, inoltre, è calato di oltre il 10%. Perciò il vero ascensore sociale, rispondendo ad un altro punto discusso nell’ultimo articolo di Feltri, non è tanto la materia scelta all’università quanto l’accesso a un’istruzione pubblica di qualità. (Fonte: D. Azzolini, Roars 21-08-15)


UN OTTIMO INDICATORE D'INTERNAZIONALIZZAZIONE: L’INDICATORE DI VANTAGGIO COMPARATO RIVELATO
Si consideri un’ipotetica Area Cun per la quale esistano numerose riviste internazionali indicizzate in Isi o Scopus e privilegiate per le proprie pubblicazioni dai docenti delle università estere collocate per quella stessa area in posizione preminente in ranking come Qs o Thes. Nella prospettiva di una loro piena integrazione nel contesto internazionale, le università italiane dovrebbero spingere i propri docenti a (cercare di) pubblicare in quelle riviste. Ad esempio, una corretta procedura di valutazione dovrebbe precludere la possibilità che un dipartimento della ipotetica area i cui docenti pubblicano su riviste nazionali non indicizzate Isi o Scopus “scavalchi” nella valutazione un dipartimento internazionalizzato di altra area.
Operativamente, si potrebbe costruire un indicatore di vantaggio comparato rivelato nella ricerca (Vcrr) concettualmente analogo all’indice di Balassa (1965), largamente utilizzato negli studi sulle differenze internazionali nella tecnologia. Utilizzando dati relativi alle pubblicazioni in sedi editoriali indicizzate in Isi o Scopus, l’indicatore Vcrri,j dell’ateneo i per l’area Cun j sarebbe calcolato per un dato intervallo temporale come rapporto tra due rapporti: al numeratore il numero medio per ricercatore di pubblicazioni in sedi editoriali indicizzate in Isi/Scopus nell’area j dell’ateneo i sul numero medio per ricercatore di pubblicazioni in sedi editoriali indicizzate in Isi/Scopus in tutte le j aree dell’ateneo i e al denominatore il numero medio per ricercatore di pubblicazioni in sedi editoriali indicizzate in Isi/Scopus nell’area j dei primi i atenei mondiali sul numero medio per ricercatore di pubblicazioni in sedi editoriali indicizzate in Isi/Scopus in tutte le j aree dei primi i atenei mondiali. Per tutti i valori di Vcrri,j ≥1 l’ateneo i avrebbe un vantaggio comparato rivelato nella ricerca all’interno della corrispondente area j. Sulla base di questo parametro potrà poi decidere se potenziare ulteriormente le aree nelle quali Vcrri,j≥1 o le altre aree, optando a seconda delle proprie preferenze per una strategia picking the winners o una strategia picking the losers. (Fonte: E. Santarelli, lavoce.info 10-08-15)

LAUREE UMANISTICHE. DISCUSSIONE SULL'UTILITÀ
Si fa un gran parlare degli articoli pubblicati su Il Fatto Quotidiano dal vicedirettore Stefano Feltri a partire dal 12 agosto sull’utilità delle lauree umanistiche. Le lauree umanistiche sono una perdita di tempo e soldi e quindi adatte solo a chi non ha bisogno di lavorare per vivere, come conclude con convinzione Feltri? Non è assolutamente vero che le lauree umanistiche siano del tutto inutili, almeno se insegnate in un certo modo. Nel contesto anglosassone la discussione sul valore delle scienze umanistiche è da tempo vivace, e le proposte non sono mancate. Molti osservatori hanno posto l’accento sulle capacità pratiche che possono essere acquisite grazie a studi umanistici e trasferite in una varietà di contesti lavorativi diversi (si parla infatti di ‘transferable skills’). Queste includono la creatività e la capacità di lettura e analisi, di ricerca di informazioni, di elaborazione dati, di scrittura e di comunicazione, senza contare le doti linguistiche nel caso dello studio di lingue straniere. Tutte queste capacità, se valorizzate e applicate, possono risultare utili nell’industria come in altri campi. È auspicabile dunque che anche in Italia si sviluppi una riflessione analoga e che le lauree umanistiche vengano adeguatamente modernizzate e valorizzate per consentire ai laureati di trovare una collocazione più diversificata di quella offerta finora. Questo non vuol dire che si debba abbandonare quanto c’è di buono e importante nelle lauree italiane per copiare maldestramente quelle anglosassoni, ma forse semplicemente ridimensionare una formazione nozionistica in favore di un approccio più analitico e pragmatico che risponda meglio alle esigenze del mondo del lavoro. Inoltre, anche mettendo da parte il valore umano delle ‘humanities’ e l’importanza di studiare la nostra e altre culture con apertura mentale e curiosità, il valore economico delle scienze umanistiche è tutt’altro che irrilevante. Senza contare che a riaffermare il valore delle scienze umanistiche sono anche innumerevoli articoli o libri importanti e diversi come Not For Profit di Martha Nussbaum o The Value of the Humanities di Helen Small. In sostanza, le ‘tranferable skills’ degli studi umanistici, oltre ad avere un valore sociale, possono aiutare in settori lavorativi che vanno dalle ‘creative industries’ (settore che in Italia è certamente poco valorizzato considerando l’incredibile patrimonio artistico e culturale del paese), alla pubblica amministrazione, alle industrie tecnologiche. (Fonte: M. Azzolini, Roars 21-08-15)

QUATTRO DATI SULLE UNIVERSITÀ
II primo dato è che l'università e chiaramente sottofinanziata rispetto ai partner europei. Lo è da sempre, ma dal 2008 la situazione è ulteriormente peggiorata. Questo è un dato fondamentale per capire la situazione, un dato che non si può liquidare dicendo: «Si, d'accordo, ma a parte quello...». No, non possiamo mettere da parte nulla; parlare di finanziamenti, infatti, è come chiedersi se il campione che ci rappresenta alle Olimpiadi può permettersi scarpette da corsa o se deve invece correre con gli zoccoli. Chi direbbe nel giudicare un corridore: «Si, va bene, ma a parte gli zoccoli...?» Nessuno. Il secondo dato è che - nonostante il sottofinanziamento - la produzione scientifica italiana è qualitativamente al livello delle più ricche Francia, Inghilterra, Germania. Qualcosa evidentemente funziona nelle università italiane, come peraltro dimostrato anche dalle migliaia di giovani ricercatori che, costretti a emigrare, vengono assunti dalle migliori università straniere. Il terzo dato è che in Italia ci sono pochi laureati, non troppi. Così pochi che, se continuiamo così, presto saremo l'ultimo paese Ocse per quantità, scavalcati persino dalla Turchia.
Il quarto dato è che le università in Italia sono probabilmente un po' meno di quante dovrebbero essere - non troppe come spesso si dice. In Italia, infatti, ci sono un milione 700 mila studenti. Questi studenti secondo la Commissione Europea dovrebbero frequentare una rete di università distribuite su tutto il territorio nazionale (e non solo in alcune regioni) e ciascuna università dovrebbe avere non più di 20 mila studenti per essere in linea con le migliori pratiche internazionali. Secondo questi parametri, in Italia dovrebbe esserci 85 università, ovvero, una ventina di più di quelle che ci sono in questo momento (non contando alcune piccolissime realtà).
(Fonte: J. C. De Martin, La Stampa 04-08-15)

FRENI ALL'INNOVAZIONE IN UNIVERSITÀ
«Quando i vincoli normativi diventano stringenti, se non contraddittori, e su qualsiasi decisione incombe il terrore del ricorso al Tar e/o del “danno erariale” (per il quale chi ha deciso male deve mettere mano al portafoglio per rifondere lo Stato delle sue decisioni errate), è ovvio che una struttura tenderà a chiudersi a ogni ipotesi rischiosa e quindi a ogni atteggiamento “imprenditoriale”». «Oggi, tra misure per il contenimento della spesa pubblica (ad esempio un ateneo in crescita non può acquistare banchi e sedie per le proprie aule nuove, perché lo Stato ha posto dei limiti alle pubblica amministrazione sulla spesa per arredi!), normativa sulla trasparenza e la corruzione (che agita lo spettro del conflitto d’interesse dietro ogni angolo), e altre norme, la cosa migliore finisce essere: non fare nulla. E, anche in un ateneo che voglia essere dinamico, in qualsiasi riunione si passerà la maggior parte del tempo a dibattere “cosa si può fare” anziché “cosa si vuole fare”». «A questi problemi si aggiungono quelli legati al reclutamento di persone che possano lavorare su progetti finanziati. Tra autorizzazioni e procedure di concorso, fosse anche per una collaborazione limitata, possono passare tempi incompatibili con quello che chiedono gli enti committenti». «I docenti sono contemporaneamente dipendenti e gestori dell’istituzione stessa. In tempi passati vi era il rischio di avere atenei autoreferenziali e incapaci di avere un impatto significativo e positivo sulla società, e questo era sicuramente un male. Oggi vedo il rischio opposto: quello di avere atenei chiusi in una “gabbia” molto stretta di indicatori di performance e regole, retti da una burocrazia che ne è interprete, e nei quali il personale docente e ricercatore finisce per essere considerato come un “operatore della ricerca” incaricato di produrre, come su una linea di montaggio, rendiconti finanziari, pubblicazioni, e ore di lezione». (Fonte: F. Sironi, intervista a M. Cantamessa, espresso.repubblica.it 10-08-15)

SECONDO I GURU DELL'INNOVAZIONE DELLA SILICON VALLEY LE UNIVERSITÀ NON STANNO INSEGNANDO LE COSE GIUSTE
Le startup, che oggi rappresentano la speranza dell'impresa giovane in Italia, hanno in realtà conosciuto il pieno sviluppo almeno 10 anni fa. Dove? Ma nella Silicon Valley, of course. Per questo, se i guru dell'innovazione sanciscono il fallimento degli studi universitari dovremmo aspettarcelo anche qui in Italia. Probabilmente, tuttavia, dovremmo aspettare altri dieci anni perché la profezia si compia. Il problema, si legge su Techcrunch.com, è che "non solo i costi dell'istruzione stanno entrando in una spirale fuori controllo, ma gli studenti lasciano l'università senza la capacità di produrre...qualsiasi cosa. Viviamo nell'era del codice, e tuttavia, gli studenti universitari si laureano a malapena in grado di leggere o scrivere un saggio - per non parlare di fare un app". Davanti all'estrema unzione dell'università da parte degli impietosi nerd della Silicon Valley, a nulla vale sbandierare le classifiche universitarie mondiali, dove tuttavia i college a stelle e strisce occupano sistematicamente le prime posizioni. Eppure, "i piani di studio sembrano progettati in un epoca preistorica" si legge sul portale statunitense. "Ovunque negli Stati Uniti, Austin, o New York o in altre città, o al di fuori degli Stati Uniti come il Giappone e l'India, stiamo vedendo lo stesso problema fondamentale, cioè che le università non stanno insegnando le cose giuste" dichiara Ashu Desai, co-fondatore di "Make School", percorso alternativo all'università dalle caratteristiche particolarmente tecniche. Le più promettenti e/o affermate aziende californiane sembrano così guardare con sempre più interesse alle scuole che preparino al "saper fare", e velocemente. Questi percorsi alternativi all'università hanno di norma una durata inferiore, e hanno il pregio di infondere agli studenti non solo il pensiero critico, ma anche capacità ingegneristiche e produttive da mettere subito all'opera nel campo dell'innovazione e della tecnologia. Se questo si avverasse anche in Italia, potremmo assistere al boom delle scuole professionalizzanti e degli ITS (Istituti Tecnici Superiori). In comune con le scuole tecniche americane, come la Make School di Desai, hanno infatti il carattere tecnico e la rapidità del percorso rispetto ai classici corsi di laurea.
(Fonte: redazione ANSA 22-07-15)

L'INFLUENZA DEL SETTORE DI STUDIO SUI RITORNI ECONOMICI DELL'EDUCAZIONE UNIVERSITARIA
In una ricerca del Ceps (Centro Europeo per gli Studi Politici), appena messa in rete: "L'influenza del settore di studio sui ritorni economici dell'educazione universitaria - Le implicazioni per i politici e gli studenti", gli autori, utilizzando come indicatore il Van (Valore Attuale Netto), misurano la convenienza economica (il ritorno) dell'investimento in formazione. Fatti i conti, e confrontando i risultati con le tendenze rilevate sugli intervistati, giungono alla conclusione che gli studenti non scelgano il settore di studio valutandone i benefici proiettati su un lontano futuro, ma facendo invece un bilancio fra costi e benefici, e limitandolo al breve/ medio termine (5 anni dalla laurea).
La formula trovata risponde alla domanda: se mi iscrivessi a un corso del settore X, questo investimento quanto mi renderebbe, a 5 anni dalla laurea, in valuta attuale? Starei già guadagnando, o starei ancora ripagando i costi sostenuti e i guadagni mancati? Gli intervistati sono laureate e laureati di cinque nazioni (Francia, Italia, Ungheria, Polonia e Slovenia) e di quattro settori formativi (Scienze della formazione, umanistiche, delle arti; Scienze sociali, Economia, Giurisprudenza; Stem; Agraria, Veterinaria, Medicina e Professioni sanitarie).
Dai risultati emergono forti differenze nel Van a seconda del genere, della nazione e del settore disciplinare, che appaiono coerenti con le scelte degli studenti. Per esempio in Italia, nel settore Stem, i maschi a 5 anni dalla laurea si troverebbero in cassa 2.025 euro di oggi; mentre le ragazze non avrebbero ancora coperto i costi della loro formazione. (Fonte: P. Lo Storto, Il Secolo XIX 28-08-15)


ATENEI. IT

UNIBO. LUGLIO ALL'INSEGNA DELL'INTERNAZIONALIZZAZIONE
All'insegna dell'internazionalizzazione il mese di luglio 2015 per l'Università di Bologna, che è stata protagonista di incontri con atenei di tutto il mondo, dalla Cina alla Colombia, dalla Spagna all'Iran (e di nuovo alla Cina). Si sono strette nuove relazioni e sono stati siglati accordi, studenti internazionali hanno incontrato il Rettore e nuove delegazioni sono attese anche nei prossimi giorni. Una carrellata di incontri internazionali che si è aperta giovedì scorso, 2 luglio, con un momento importante: la firma dell'accordo tra l'Università di Bologna e la Beijing Sport University, una delle più grandi università di sport al mondo. I due atenei hanno infatti sottoscritto un accordo quadro di collaborazione per attivare e favorire la mobilità di studenti di ogni grado e di docenti, sia per attività didattiche che di ricerca. Fondata nel 1958, la Beijing Sport University ha diecimila studenti e tremila docenti, e diversi dei suoi impianti sportivi sono stati utilizzati per le Olimpiadi di Pechino. Dopo l'accordo cinese, venerdì 3 luglio il Rettorato dell'Alma Mater ha visto altri due appuntamenti internazionali di rilievo. Il primo è stata la visita del decano della Facoltà di Scienze Naturali e Matematica dell'Università del Rosario, in Colombia, che ha incontrato il prorettore per le relazioni internazionali dell'Università di Bologna Carla Salvaterra. Una visita durante la quale il docente colombiano ha discusso delle possibilità di internazionalizzazione della sua Facoltà. E poco più tardi è stata la volta di una folta delegazione di docenti universitari in arrivo dall'Iran. Dopo aver visitato il Museo di Palazzo Poggi, la Biblioteca Universitaria e il Centro Interdisciplinare di Scienze dell’Islam, il prorettore Salvaterra ha presentato agli ospiti iraniani l'Università di Bologna, con la sua storia millenaria e la sua vasta offerta formativa. A chiudere la carrellata di incontri internazionali targati Unibo sarà poi l'incontro con la delegazione della North China Electric Power University, ateneo cinese leader nel settore degli studi energetici. Obiettivo della visita è discutere possibili accordi tra le due università per mobilità e ricerca. Un dialogo, quello tra Alma Mater di Bologna e North China Electric Power University, già avviato, grazie alla collaborazione tra i due atenei nell'ambito del progetto "IRES-8 Instigation of Research and Innovation Partnership on Renewable Energy, Energy Efficiency and Sustainable Energy Solutions for Cities”, finanziato dalla Commissione Europea e coordinato dall’Università di Manchester. L’Ateneo di Bologna partecipa come partner. (Fonte: www.magazine.unibo.it 06-07-15)

UNIBO. PRIMO ACCELERATORE ITALIANO D’IMPRESA PER GIOVANI RICERCATORI
Si chiama Launch Pad ed è il primo acceleratore lanciato dall’Università di Bologna al fine di promuovere le idee innovative di ricercatori e dottorandi dell’ateneo. Il programma mira a coltivare il talento imprenditoriale fornendo un ricco percorso di formazione. Il progetto Launch Pad è nato da una partnership tra l’Università di Bologna, l’Istituto italiano imprenditorialità e alcune fondazioni ed imprese dell’Emilia Romagna con lo scopo di realizzare un percorso di formazione per l’imprenditorialità a partire dall’idea innovativa di ricercatori e dottorandi dell’Ateneo emiliano. Le iscrizioni si sono chiuse il 31 luglio e il processo di selezione dei 5/6 progetti più meritevoli terminerà il 10 Settembre con un colloquio: interviste approfondite per scoprire chi tra i selezionati ha uno spirito incline ad intraprendere un percorso imprenditoriale. A Ottobre, invece, prenderà il via il processo di formazione vero e proprio della durata di 10 settimane, periodo in cui verrà dato largo spazio all’esperienza sul campo. A conclusione della formazione, verrà organizzata una giornata di esposizione dei progetti davanti ad una giuria di investitori: ai team più meritevoli verrà data la possibilità di partecipare a 3 settimane di formazione in Silicon Valley. (Fonte: S. Schiavon, urbanpost.it 20-08-15)

POLIMI. IL CONSIGLIO DI STATO RESPINGE LA RICHIESTA DI SOSPENSIVA DEL POLITECNICO SUI COMPITI DIDATTICI DEI RICERCATORI
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, a seguito dell’udienza tenutasi il 22 gennaio 2015, aveva disposto l’annullamento del “Regolamento per l’impegno didattico dei professori e dei ricercatori” emanato nel 2012 dal Politecnico di Milano, in merito ai compiti dei ricercatori di ruolo. Per essi era originariamente previsto un impegno didattico complessivo annuo di 350 ore, di cui almeno 80 da svolgere nella forma di esercitazioni o laboratori didattici curriculari, commutabili con la titolarità di uno o più insegnamenti a titolo gratuito per un numero di crediti formativi pari a 8 CFU. Il TAR aveva accolto nella sua interezza il ricorso presentato nel 2013 da 87 ricercatori del Politecnico di Milano, rilevando come l’Ateneo avesse “operato in sostanziale elusione della ratio e della lettera della legge”. A seguito di tale sentenza, il Politecnico di Milano si era appellato al Consiglio di Stato per l’annullamento – previa sospensione dell’efficacia. Il 31 luglio, il Consiglio di Stato ha respinto la richiesta di sospensione, ritenendo “ad un primo sommario esame, che non emergano adeguate ragioni di confutazione della linea interpretativa, esposta nella sentenza appellata, la cui esecutività non appare peraltro produttiva di danno grave e irreparabile”. (Fonte: redazione Roars 04-08-15)

UNITS. PROTESTA DEI PROFESSORI UNIVERSITARI PER IL BLOCCO DELLE CHIAMATE
In una nota il Coordinamento degli abilitati a professore ordinario dell'Università di Trieste si rivolge alle forze politiche, economiche e culturali e all'opinione pubblica regionale e nazionale «per sollevare l'attenzione sul grave problema». «L'abilitazione nazionale - si legge - ha comportato un enorme impegno organizzativo e finanziario, operando per la prima volta una selezione severa dei candidati, selezione basata fra l'altro su una forte internazionalizzazione dell'attività scientifica, certificata anche da esperti stranieri. Gli esiti sono stati lusinghieri per gli atenei regionali: a Trieste, per esempio, gli abilitati sono stati circa sessanta». Continua la nota: «Il blocco di fatto delle chiamate, largamente imputabile a un metodo fittizio di calcolo dei costi, rischia di tradurre tutto ciò in un colossale spreco di energie e risorse, disattendendo il principio meritocratico che sulla carta si intendeva affermare e creando una falsa contrapposizione tra giovani ricercatori e studiosi maturi, laddove solo una crescita armonica di tutte le posizioni può garantire una organizzazione universitaria solida e produttiva. Il blocco del turnover impedisce anche la mobilità dei docenti tra atenei diversi». Questa situazione osservano i docenti «sta già creando vuoti preoccupanti nelle posizioni apicali della ricerca e della didattica, che non possono essere ricoperte da giovani validi ma ancora in formazione e per di più assunti con contratti a tempo determinato. Le ripercussioni sulla qualità dell’insegnamento e la presenza autorevole nelle reti di ricerca internazionali non possono che essere gravi. Il blocco del turnover perpetua inoltre il tradizionale sbilanciamento di genere nelle posizioni apicali a sfavore delle donne. (Fonte: Il Piccolo 06-07-15)


UE. ESTERO

ADULTI CON ISTRUZIONE TERZIARIA. IN ATTO SORPASSO DEI PAESI DEL G20 NON-OCSE NEI CONFRONTI DEI PAESI OCSE
Secondo una recente pubblicazione dell’Ocse (Education Indicators in Focus, aprile 2015) i primi anni di questo decennio vedono il sorpasso dei paesi del G20 non-Ocse (Argentina, Brasile, Cina, India, Indonesia, Federazione Russa, Arabia Saudita e Sud Africa) nei confronti dei paesi Ocse in termini di numero di adulti di età compresa tra i 25 e i 34 in possesso di una “istruzione terziaria”, che per semplificare identifichiamo con una laurea. Nel 2005 i paesi Ocse ospitavano il 60 per cento dei 94 milioni di persone tra i 25 e i 34 anni con formazione terziaria. Oggi questi laureati sono saliti globalmente a 150 milioni e la maggioranza risiede nei paesi del G20 non-Ocse: secondo le proiezioni, entro il 2030 ospiteranno il 70 per cento dei laureati nella fascia di età 25-34. 
Stando alle previsioni Ocse, nel 2030 Cina ed India “produrranno” più del 60 per cento di tutti i laureati in discipline Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) nei paesi Ocse e G20.
Stati Uniti e Germania sono ancora in testa alla classifica dei brevetti assegnati dall’European Patent Office per nazionalità del proponente, ma mentre il loro numero di brevetti per anno è più o meno stabile dal 2005, la Cina – seppure per ora con numeri modesti – ha più che decuplicato i suoi nello stesso periodo (da 80 a 1186). (Fonte: P. Martin, lavoce.info 19-08-15)

CER - CENTRO EUROPEO DELLA RICERCA - HA LANCIATO IL PRIMO BANDO PER LE SOVVENZIONI DI AVVIAMENTO 2016 ("STARTING GRANT")
La Commissione europea ha adottato il 28 luglio il programma di lavoro 2016 del CER – Centro
Europeo della Ricerca – che prevede lo stanziamento di 1,67 miliardi di euro per attribuire sovvenzioni ai migliori ricercatori di tutto il mondo disposti a raggiungere l'Europa – o a rimanervi - per portare avanti progetti innovativi. Nell’ambito della nuova serie di concorsi, il CER ha lanciato oggi il primo bando per le sovvenzioni di avviamento 2016 ("Starting Grant") - dotato di un bilancio di 485 milioni di euro - il cui termine è il 17 novembre 2015. Le sovvenzioni di avviamento del CER sono destinate a ricercatori di qualsiasi nazionalità con 2-7 anni di esperienza maturata dopo il completamento del dottorato di ricerca (o titolo equivalente) e con un percorso scientifico promettente. Il programma di lavoro prevede poi altri bandi per sovvenzioni nel 2016.
Istituito nel 2007 dall'UE, il Consiglio europeo della ricerca (CER) è la prima organizzazione europea che finanzia l'eccellenza nella ricerca d'avanguardia. Ogni anno seleziona e finanzia i migliori ricercatori creativi di tutte le nazionalità ed età per realizzare progetti di cinque anni in Europa. I bandi sono aperti a ricercatori di qualsiasi nazionalità, età o settore scientifico, comprese le scienze umane e sociali, ospitati in un’università o in qualsiasi centro di ricerca aventi sede nell’UE o in uno dei paesi associati a Orizzonte 2020. Le domande sono valutate e selezionate dopo un processo di valutazione inter pares che vede ogni anno la partecipazione di centinaia di scienziati di chiara fama provenienti da tutto il mondo. La qualità scientifica della proposta, che mira all’eccellenza, è l’unico criterio di selezione. Il CER opera sulla base di un approccio "dal basso" che coinvolge i ricercatori consentendo loro di identificare nuove possibilità in qualsiasi campo della ricerca. Dal 2007 al 2013, nell’ambito del settimo programma quadro di ricerca dell’UE (7º PQ), il bilancio del CER è stato pari a 7,5 miliardi di euro. Attualmente, nell’ambito del primo pilastro (“Eccellenza scientifica”) del nuovo programma dell’UE per la ricerca e l’innovazione (2014-2020), “Orizzonte 2020”, il CER dispone di un bilancio di circa 1,6 miliardi di euro per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016.

FRANCIA. ANNO SABBATICO PER GLI STUDENTI
Il presidente della Repubblica francese, François Hollande, aveva promesso tre mesi fa alle organizzazioni studentesche che sarebbe stato possibile autorizzare gli universitari a prendersi un intervallo di sei mesi/un anno dal loro corso, senza penalizzazioni. D’ora in avanti si può fare: è stata infatti pubblicata la circolare, secondo cui gli studenti potranno chiedere una pausa di minimo sei mesi e massimo un anno alla direzione della loro facoltà, presentando una lettera con le motivazioni e, soprattutto, il loro progetto di impiego per quel periodo. La motivazione potrebbe essere uno stage, un corso di lingua all’estero, l’avvio di un'impresa, un contratto di lavoro a tempo determinato, un’esperienza nel servizio civile o nel volontariato. Se il "sabbatico" è accordato, lo studente potrà mantenere il suo status e rientrare alla sua università alle stesse condizioni, anche nei corsi più selettivi o a numero chiuso, senza alcun tipo di penalità, nemmeno la perdita di eventuali borse di studio. La sospensione può essere richiesta fin dal primo anno di corso, ma non dopo l’ultimo. (Fonte: G. Boffa, orizzontescuola.it 14-08-15)

GRAN BRETAGNA. “UNIVERSITIES FOR EUROPE”
Mentre tra i politici si dibattono le strategie sul quando e come arrivare alla consultazione sui rapporti tra Europa e GB, una scelta di campo drastica è venuta pochi giorni fa dalle università britanniche. Universities UK, l’associazione che riunisce 133 atenei del Regno Unito (compresi tutti i più importanti), ha ufficialmente avviato la campagna “Universities for Europe”, con la quale il gotha accademico del Paese invita i cittadini a votare per rimanere nell’Unione. Per rimarcarne il carattere trasversale, la presentazione dell’iniziativa è avvenuta alla presenza di due esponenti dei maggiori partiti: Damian Green, il leader dell’ala europeista dei conservatori, e Chuka Umunna, il giovane ministro-ombra laburista di origine anglo-nigeriana che molti vedono come futuro leader (anche se per il momento ha rinunciato a correre per il vertice del partito). Secondo Julia Goodfellow, presidente di Universities UK e vice-chancellor della University of Kent, “è chiarissimo che l’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea ha un impatto immensamente positivo sui nostri atenei”. L’iniziativa delle università era stata preceduta da un’analoga campagna di una rappresentanza meno folta ma, se possibile, ancora più prestigiosa di studiosi: subito dopo le elezioni del 7 maggio e la vittoria di Cameron, Scientists for Europe, un gruppo di scienziati e accademici di grande fama, ha scritto al Times che “non è abbastanza noto al pubblico che l’Unione Europea è una manna per la scienza e l’innovazione nel Regno Unito”. Secondo Universities UK, ogni anno gli atenei britannici beneficiano di un flusso di finanziamenti europei pari a un miliardo 700 milioni di euro. (Fonte: M. Periti, IlBo 06-08-15)

GRAN BRETAGNA. CLEARINGS ILLIMITATI ALLE UNIVERSITÀ
C'è qualcosa di diverso e nonostante la propensione britannica per l'understatement si può parlare di cambiamento epocale e rivoluzione copernicana. Da quest'anno le università inglesi, indipendentemente dagli A-levels, possono ammettere un numero illimitato di studenti per mezzo dei clearings, che fino all'anno scorso erano una quota fissa minoritaria per garantire il diritto allo studio ai meno capaci e più sfortunati. L'abitudine era che nell'istante della pubblicazione dei risultati gli studenti si precipitavano ad accettare il posto che avevano ottenuto nell'università preferita prima che se l'accaparrasse qualcun altro. Nei giorni scorsi è accaduto il contrario: grazie ai clearings illimitati alcune università dell'elitario Russell Group - Birmingham, Leicester, Nottingham, Sussex - hanno già offerto posti incondizionati (l'uovo oggi) onde accaparrarsi studenti bravi ma dall'ammissione incerta in università prestigiose (la gallina domani).
In un periodo di elevata incertezza economica, gli studenti tendono ad accettare anche perché l'offerta è accompagnata da borse di studio non generosissime ma dignitose. Potrebbe essere un effetto a lunga scadenza dell'innalzamento delle rette voluto cinque anni fa dal forse troppo biasimato ex ministro David Willetts, che ha portato a una maggiore disponibilità di liquidi che permette offerte alla cieca. A lungo andare il cambiamento sarà paragonabile alla repentina apertura delle nuove università a inizio Novecento (Birmingham, Manchester, Liverpool, Leeds...) dopo che per più di sei secoli, fino all'inaugurazione di Durham e Londra nell'Ottocento, le sole università inglesi erano state Oxford e Cambridge. Nell'ultimo secolo gli studenti hanno scelto l'università; d'ora in poi le università sceglieranno gli studenti. Un inevitabile effetto collaterale dei clearings illimitati sarà l'abbassamento di livello dei corsi: gli studenti migliori erano già sicuri di andare all'università, stiamo parlando di ammettere quelli meno promettenti. (Fonte: A. Gurrado, Il Foglio 13-08-15)

OLANDA. OPEN ACCESS GOLD
"Science is not a goal in itself. Just as art is only art once it is seen, knowledge only becomes knowledge once it is shared". Queste le parole di Sander Dekker, Sottosegretario olandese all’Istruzione, durante l’inaugurazione dell’anno accademico 2014 dell’università di Leida. Il governo olandese ha così dichiarato in maniera chiara e forte la propria adesione all’accesso aperto. Target di Dekker è di arrivare al 40% delle pubblicazioni in Open Access entro la fine del 2016 e al 100% entro la fine del 2024. La via prescelta è quella dell’Open Access gold. Ricordiamo che due sono le vie attraverso cui l’accesso aperto si realizza: la via verde, che è la ripubblicazione di lavori pubblicati presso riviste accessibili tramite abbonamento dopo un periodo di embargo definito dall’editore e in una versione che di solito è l’ultima dell’autore e che contiene tutte le correzioni dei referee, ma non ha il layout editoriale, e la via d’oro per cui la pubblicazione accettata dalla rivista viene pagata dall’autore o dalla sua istituzione affinché tutti possano accedere fin da subito al lavoro. Alcuni governi, fra questi quelli di UK e Olanda, hanno optato per una forma di open access gold finanziato dallo stato. Questo vuol dire che le pubblicazioni dei ricercatori che lavorano nelle istituzioni di ricerca britanniche o olandesi pubblicano con un finanziamento da parte dello stato i propri lavori una volta che sono stati accettati. Questo risulta essere un problema perché mentre tutti possono accedere ai lavori prodotti dalle istituzioni britanniche o olandesi perché ad accesso aperto, le istituzioni britanniche e olandesi devono continuare a pagare gli abbonamenti per poter accedere ai lavori degli altri. Questi abbonamenti vengono acquistati in blocco in una forma che prende il nome di big deal. Vale a dire una istituzione non sceglie quali e quante riviste sottoscrivere, ma le compra tutte ad un prezzo che viene calcolato sulla base dei full-time equivalent e tenendo conto di altre variabili definite nei contratti consortili che sono diversi da nazione a nazione. La transizione del sistema della ricerca olandese o di quello britannico all’Open Access non risolve infatti il problema dell’accesso a livello mondiale, e il fatto che ci siano nazioni che sono passate a questo modello di pubblicazione dal punto di vista del costo degli abbonamenti non ha portato ad alcuna riduzione dei costi. Anzi, di fatto le entrate per gli editori sono aumentate, perché hanno incassato sia le fee per gli abbonamenti sia quelle per l’Open access gold. (Fonte: P. Galimberti, Roars 26-07-15)

SVIZZERA. CONSEGUENZE DELLA SOSPENSIONE DA PARTE DELL'UE DELLA PARTNERSHIP CON GLI ELVETICI PER HORIZON 2020 ED ERASMUS+
Associata al Settimo Programma Quadro (il più importante strumento di finanziamento europeo per la ricerca per gli anni 2007 – 2013), la Svizzera è stata esclusa dal nuovo progetto ora in vigore (Horizon 2020, che copre il periodo 2014 - 2020) a causa del referendum con cui nel 2014 i cittadini svizzeri hanno deciso di rendere più rigide le regole per l’immigrazione. La risposta dell’Unione non è stata lieve: Bruxelles ha sospeso la partnership con gli elvetici per Horizon 2020. Lo stesso è avvenuto per Erasmus+, il programma di scambi per studenti e docenti aperto, in forme differenziate, ai Paesi extra Unione. La perdita dello status di Paese associato ha avuto una conseguenza immediata: la Svizzera ha dovuto interamente farsi carico dei progetti di ricerca che in precedenza si basavano su finanziamenti europei; allo stesso modo, per preservare un programma di scambi, Berna è stata costretta a finanziare, oltre agli spostamenti in Europa dei propri professori e studenti, tutte le borse per docenti e studenti stranieri che volevano recarsi in Svizzera, a condizione che ogni progetto prevedesse un parallelo flusso di professori e studenti svizzeri verso l’Europa. Riguardo a Horizon 2020, con le autorità europee si è poi raggiunto un accordo parziale che ha consentito alla Svizzera di ripristinare lo status di Paese associato solo per un numero limitato di voci all’interno del programma. Sia nel caso di Erasmus+ che di Horizon 2020, le misure provvisorie adottate fin qui avranno efficacia fino alla fine del 2016. Cosa significa per la Svizzera, in concreto, privarsi dei fondi europei per la ricerca? La risposta l’ha data lo stesso governo elvetico, che nel rapporto sul Settimo Programma Quadro ha fornito alcune cifre interessanti. Per il periodo di vigenza del programma (2007/2013), la stima più recente disponibile dei fondi europei ottenuti nel complesso dai ricercatori svizzeri è di un miliardo 460 milioni di euro.
(Fonte: M. Periti, IlBo 06-08-15)

TURCHIA. SI LICENZIANO DOCENTI UNIVERSITARI STRANIERI
Alla Artuklu Üniversitesi di Mardin, una città di circa 80.000 abitanti a pochi chilometri dal confine siriano, a 14 docenti stranieri è stato comunicato il termine anticipato del loro contratto. Tra loro anche Federica Broilo, laurea in lingue e civiltà orientali a Ca’ Foscari di Venezia e dal 2011 docente presso l’ateneo. “I nostri contratti scadevano tutti a fine anno, ma il 22 giugno l’amministrazione ci ha comunicato che già a partire dal 30 settembre non servivamo più – spiega la studiosa –. Dei 42 stranieri che insegnano qui sono stati mandati via tutti gli europei e gli americani, più una parte dei curdi iracheni o siriani”. I sindacati contestano la rigidità e soprattutto la natura politica del provvedimento, che sarebbe accompagnato da una vera e propria campagna diffamatoria. Gli studenti intanto hanno scelto da che parte stare: una petizione on line a favore della professoressa italiana ha infatti già superato le 500 firme. Contro gli stranieri, accusa Federica Broilo, ci sarebbe inoltre stata una vera e propria campagna di mobbing: “Prima ci hanno negato l’alloggio, a cui hanno invece diritto i professori fuori sede, in seguito anche i rimborsi per la partecipazione a convegni. Solo noi siamo rimasti esclusi dagli aumenti di stipendio. Ultimamente mi hanno perfino negato le ferie e il permesso di accedere alle biblioteche”. “Credo che la situazione sia peggiorata dopo che, alle ultime elezioni del 7 giugno, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) del presidente Erdoğan ha perso la maggioranza assoluta del parlamento. Adesso il governo si sente con l’acqua alla gola e cerca di colpire non tanto gli stranieri quanto i nostri capi dipartimento, molti dei quali sono curdi”. Mardin infatti, splendida città medievale sul fiume Tigri, è in larga parte abitata da una popolazione curda. (Fonte: D. Mont D’Arpizio, IlBo 14-07-15)

USA. STARBUCKS FINANZIA L’UNIVERSITÀ AI DIPENDENTI CON BENEFICI PER TUTTI
Nelle scorse settimane, Starbucks ha lanciato il College Achievement Plan, un progetto attraverso cui il gruppo guidato da Howard Schultz offre il pagamento o rimborso delle spese universitarie a tutti i propri partners (così Starbucks chiama i propri dipendenti) a tempo pieno o parziale. Oltre 140 mila lavoratori possono scegliere liberamente tra oltre 50 corsi di laurea offerti da Arizona State University, una delle scuole leader al mondo nella online education. Tale investimento non ha vincoli, tant’è che Starbucks esplicitamente prevede che i propri dipendenti possano poi cambiare impiego e datore di lavoro senza alcuna penalizzazione. Starbucks sa che più del 70 per cento dei propri giovani dipendenti aspira a laurearsi e ha deciso di aiutarli.
Decisioni come quelle di Starbucks non si spiegano in termini di ottimizzazione dei costi o di convenienza di bilancio, né in termini di interventi per innalzare la motivazione. Ciò che Schultz sembra voler trasmettere è che il capitale umano e il lavoro sono, alla fin fine, una sorta di bene pubblico, un «common» che non può essere gestito senza considerare e valutare le conseguenze successive alla conclusione di qualsiasi rapporto di lavoro. Per cui è responsabilità delle imprese e dei loro gruppi dirigenti far sì che le persone rimangano impiegabili lungo tutto l’arco della vita professionale. (Fonte: S. Severino, CorSera 19-08-15)

USA. INDEBITAMENTO DEI LAUREATI E AIUTI DAL GOVERNO
I laureati indebitati per oltre centomila dollari sono ormai in tutto 1,82 milioni. Risultato di un meccanismo con buone intenzioni ma che si è rivelato perverso e oggi viene messo in discussione: programmi federali che hanno incentivato una spirale tra aumenti delle rette da parte delle università e debito. Il governo nel 2007 ha varato un programma che consente a chi ha pagato rate per 10 anni lavorando nel settore pubblico o in una non profit di chiedere  la cancellazione dei restanti oneri. Per i lavoratori del settore privato, che abitualmente guadagnano di più, il perdono arriva dopo 20 anni di rate regolarmente pagate. Ma l'università americana oggi sta diventando sempre meno accessibile e crea una generazione a rischio di bancarotta. (Fonte: M. Val., IlSole24Ore 20-08-15)

USA. 350 MILIARDI DI DOLLARI PER ALLEGGERIRE IL PESO DEI DEBITI UNIVERSITARI
L’educazione e la riforma del sistema universitario sembrano noiose lezioni per secchioni della policy. Invece i candidati stanno usando parecchie energie già in questa fase preliminare per spiegare le loro visioni in merito, e il motivo è semplice: i giovani. La fetta elettorale più grande è anche quella che porta sulle spalle mille miliardi di dollari di debiti universitari, cifra in perenne crescita e che soprattutto non è compensata da un’adeguata espansione del mercato del lavoro. Se per i boomers la bolla educativa è un fatto di cui lamentarsi in modo generico, come ci si lamenta dei cambiamenti climatici o dei vicini di casa, per i millennial fluidi e post-ideologici quelle lauree appese al muro che sono costate tantissimo e in molti casi valgono pochissimo sono una croce quotidiana. Questo spiega l’enfasi di Hillary Clinton nel presentare il piano per la riforma universitaria, intitolato senza troppa fantasia “New College Compact”. Il piano è complicato almeno quanto il sistema che si propone di aggiustare, ma il cuore della questione è un investimento da 350 miliardi di dollari per alleggerire il peso dei debiti universitari con diverse formule, dai sussidi diretti alla riduzione dei tassi sui prestiti fino alla drastica diminuzione delle rette nei college pubblici. (Fonte: M. Ferraresi, Il Foglio 13-08-15)

INDIA. NALANDA MAHAVIHARA, LA PIÙ ANTICA UNIVERSITÀ DEL MONDO
La Nalanda Mahavihara, la più antica università del mondo, cominciò le sue attività nel V secolo dopo Cristo. Nel momento in cui fu fondata la prima università europea, a Bologna, nel 1088, la Nalanda offriva istruzione superiore a migliaia di studenti da oltre seicento anni. La Nalanda originaria era gestita da una fondazione buddista nella prospera (all'epoca) regione del Bihar, epicentro della religione, della cultura e dell'illuminazione del buddismo. Nel VII secolo la Nalanda aveva settemila studenti, che venivano istruiti non solo alla filosofia e al buddismo, ma studiavano anche una serie di materie laiche, come grammatica e letteratura, astronomia, architettura, scultura, medicina. Dopo più di sette secoli di insegnamento, la Nalanda fu distrutta nel XII secolo dagli eserciti invasori provenienti dall'Asia occidentale. Il primo attacco fu condotto dal conquistatore turco Balchtiyar Khilji, che devastò con le sue armate molte città dell'India settentrionale. Tutti gli insegnanti e i monaci della Nalanda vennero uccisi e gran parte della struttura rasa al suolo. I conquistatori dedicarono particolare cura alla demolizione delle bellissime statue del Buddha e di alti personaggi del buddismo disseminate per l'università. La biblioteca, un edificio di nove piani che conteneva migliaia di manoscritti, si dice che abbia bruciato per tre giorni. La distruzione dell'Università di Nalanda avvenne fra la fondazione dell'università di Oxford (1167) e quella dell'università di Cambridge (1209).
Una proposta per riportare in vita la Malanda sotto le vesti di una moderna università internazionale ha assunto i contorni di un'iniziativa panasiatica fin dal principio. L'idea è stata sostenuta dai sedici governi che avevano partecipato al cosiddetto vertice dell'Asia orientale del gennaio 2007. Oltre all'India, c'erano Cina, Giappone, Corea del Sud, Indonesia, Singapore, Tailandia, Malaysia, Vietnam, Laos, Cambogia, Australia e Nuova Zelanda. L'università è stata istituita con una legge nel 2010. Il Nobel per l'Economia Amartya Sen ha denunciato che l'indipendenza accademica della Nalanda è ora minacciata dall'attuale governo dell'India nel quadro generale di interferenze nella guida delle istituzioni accademiche in ogni parte del Paese. (Fonte: La Repubblica 17-07-15)


LIBRI. RAPPORTI

DOSSIER UNIVERSITÀ
A cura di Giulio Vesperini e Bruno Carotti. Si raccolgono in questo dossier scritti e materiali in materia di Università. Prima pubblicati dal Comitato di redazione del sito Irpa (Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione) come post singoli e, poi, all’interno di un forum, i materiali vengono ora inseriti e organizzati in un’unica raccolta, a fini di facilitarne la consultazione e favorire la ricerca in materia. Il Dossier ordina in modo sistematico il complesso dei materiali pubblicati dalla Redazione del sito dal 2011 ad oggi. Si tratta di un insieme corposo di documenti, che comprendono scritti di dottrina, normativa e giurisprudenza. La sistematizzazione dei materiali consentirà una lettura unitaria e offrendo una suddivisione per temi, al fine di favorire chi voglia orientarsi nello studio della materia. Si leggono qui scegliendo nell'indice i vari argomenti trattati. (Fonte: www.irpa.eu 08-05-15)

THE VALUE OF EVERYTHING
Autore: Mariana Mazzucato. Pronto a fine 2015 per Penguin e a inizio 2016 per Laterza.
Il Domenicale ha incontrato la Mazzuccato, economista inglese di origine italiana che insegna Teoria dell'innovazione all'Università del Sussex, per fare il punto sui suoi nuovi lavori scientifici e sulle reazioni al libro che l'ha resa una star fra gli economisti del mondo, "The State entrepreneur", uscito nel 2013 nel mondo anglosassone e nel 2014 in Italia col titolo "Lo Stato Innovatore". Il libro sosteneva che, da sempre, il principale merito della crescita economica attraverso l'innovazione sia degli investimenti pubblici a lungo termine in ricerca e sviluppo, che producono risultati importanti che poi le aziende, attraverso la ricerca applicata, trasformano in prodotti di successo. Durante la conversazione con Mariana Mazzucato è stata mossa un'obiezione: ma non sarà che dalle sue analisi emerge una certa superiorità etica della ricerca pubblica su quella privata? Eppure, anche la ricerca privata ha prodotto importanti innovazioni. «Non ha alcun senso parlare di scale di valori, o di etica, fra chi fa ricerca pubblica e chi privata. Anche perché molti soggetti si dedicano a entrambe. Il mio punto non è assolutamente questo. Mi interessa che si faccia molta ricerca tout court, perché è l'unica strada per riprendere a crescere adeguatamente e colmare le disuguaglianze della nostra società, e che lo Stato possa continuare a finanziarla senza che venga nascosto o sminuito nel suo ruolo. II vero problema è che esiste pochissima "finanza paziente" che sia disposta ad aspettare 15-20 anni per godere dei risultati economici dei suoi investimenti in ricerca». Per Mazzucato, «al sistema delle imprese manca un ecosistema serio di innovazione, industria e finanza a lungo termine. Esiste un'urgenza di questo tipo di riforme». (Fonte: F. Astone, Sole Domenica 12-07-15)

UNIVERSITÀ 3.0 – QUATTRO ANNI VISSUTI PERICOLOSAMENTE
Autore: Redazione ROARS, ecommons, 2015, pp. 1-236.
Composto da una rassegna commentata degli articoli più significativi pubblicati dalla redazione, questo libro rappresenta al contempo una micro-storia degli ultimi anni dell'università italiana e un vademecum utile a chiunque voglia partecipare al dibattito pubblico sul destino della ricerca e dell'istruzione superiore nel nostro Paese. In Italia ci sono troppe università. I professori universitari sono baroni strapagati e producono ricerca mediocre. L’università italiana è quasi gratuita per chi studia. La laurea non aiuta a trovare lavoro: meglio alcuni lavori manuali. Queste sono alcune delle affermazioni ricorrenti che negli ultimi anni si trovano in giornali e media a proposito di università. Affermazioni che hanno plasmato il dibattito pubblico, dipingendo l’università italiana come un «sacco bucato» che andava non solo riformato ma radicalmente cambiato. Sfatare questi – e altri – «miti e leggende» attraverso il fact checking è stata – ed è tuttora – una delle principali missioni di Roars (Returns On Academic ReSearch), un blog nato a fine 2011, che conta 13 redattori, a vario titolo appartenenti al mondo accademico e scientifico.
Università 3.0 – Quattro anni vissuti pericolosamente è un libro che raccoglie e commenta alcuni dei più significativi articoli apparsi su questo blog per raccontare l’università post-Gelmini. Frutto del lavoro congiunto di tutta la redazione (coordinato da Marco Viola), il volume ospita e sistematizza – in una logica tematica piuttosto che cronologica – alcuni contributi scritti dai redattori e apparsi sul blog, con l’aggiunta di un articolo a firma Pietro De Nicolao e due articoli a firma di Federica Laudisa.
Lo scopo principale del testo è prendere in esame le vicissitudini dell’università e della ricerca italiane, in particolare dopo la riforma Gelmini del 2010, con una prospettiva diversa da quella usualmente adottata dai media e dal dibattito politico. Secondo gli autori, «la riforma Gelmini ha usato e pervertito in particolare tre parole chiave: “sprechi”, “eccellenza” e “valutazione”». Su questi temi si focalizza quindi la scelta dei contributi, raggruppati in 10 sezioni tematiche, ognuna preceduta da un’apposita nota introduttiva. (Fonte: M. Cinque, Roars luglio 2015)

INTERNET NON È LA RISPOSTA
Autore: Andrew Keen. EGEA (Collana Cultura e società) 2015. 224 pp.
Saggio rigoroso e ricco di riflessioni originali, "Internet non è la risposta" costituisce quasi un unicum nella pubblicistica sulle evoluzioni e applicazioni di Internet ai vari settori dell’economia, e pertanto una lettura quasi obbligata in tempi nei quali quasi non si sente altro che elogi sperticati su come Internet ci abbia cambiato (in meglio) la vita. Oggi che Internet è arrivato a collegare quasi tutti e tutto sul pianeta, sostenere che si tratti di uno strumento capace di democratizzare gli aspetti positivi dell'umanità e disgregare quelli negativi, creando un modo più aperto e paritario, è una falsa promessa. Di fronte alle tante domande in sospeso di natura economica, sociale, politica, culturale - sull'odierna società interconnessa, tutti hanno una risposta pronta sul perché tante di quelle promesse non si siano realizzate. Tali risposte, più o meno coerenti e praticabili, si pongono come comprensibili rimedi alla frantumazione collettiva e al dissesto economico della società e sono esse stesse, in un certo senso, la testimonianza del perché Internet non è la risposta. Almeno, non ancora. Almeno fino a quando non avremo affrontato la sfida di dare una forma corretta ai nostri strumenti in Rete prima che siano loro a plasmarci. Andrew Keen sfata una serie di luoghi comuni sul presunto ruolo di Internet nel democratizzare l’informazione e nel far diminuire le disparità economiche. E mette a fuoco in questo saggio documentatissimo e controcorrente perché, a partire dall’invenzione del World Wide Web da parte di Tim Berners-Lee nel 1989, Internet sia divenuto la domanda centrale del mondo interconnesso del XXI secolo piuttosto che la risposta alle disuguaglianze.
Nel 2018 sarà online il 60% della popolazione mondiale, stimata a oltre 7 miliardi: dei 4,5 miliardi degli individui che saranno interconnessi, più della metà dei nuovi utenti, ovvero 2,5 miliardi, saranno provenienti da Medio Oriente, Asia e Africa. Entro il 2020 saranno connessi non solo gli individui, ma oltre 50 miliardi di dispositivi mobili. Il fatto è che, sostiene Keen, più usiamo la rete e minore è il vantaggio che ne ricaviamo. Invece di creare e distribuire maggiore ricchezza, il capitalismo distribuito della nuova economia interconnessa ci impoverisce. Anziché generare nuovi posti di lavoro come nelle promesse iniziali, è la causa principale della «fine del lavoro» come spiegava anni fa Jeremy Rifkin. (Fonte: dalla presentazione dell'editore)

NOW! STRATEGIE PER AFFRONTARE LE NUOVE FRONTIERE DEL WEB
Autore: Danilo lervolino. Ed. Mondadori 2015, 109 pagine.
Un luogo dove il sapere è alla portata di tutti e il capitale intellettuale conta più di quello fisico. E' il web, pur con tutte le sue contraddizioni, la nuova frontiera della conoscenza. Per usare le parole di Danilo lervolino, autore del libro, per affrontare le nuove frontiere del web ci troviamo di fronte alla prima era in cui «l'uomo ha l'incredibile opportunità di accedere in una sola volta a tutto il sapere accumulato nel corso di millenni, semplicemente grazie a una connessione internet e a un device».
Un salto di qualità paragonabile solo all'invenzione della stampa, secondo lervolino, e proprio come l'invenzione della stampa capace di moltiplicare i canali d'accesso a cultura e formazione, rendendole possibili anche per chi fino a ieri pareva tagliato fuori. E' questo l'approccio che segue l'e-learning, esplicitando il suo valore soprattutto per quanto riguarda i settori più complessi come la formazione post-diploma e post-laurea a distanza. Negli Stati Uniti, dove è nata, è ormai un fenomeno da 15 miliardi di dollari di ricavi, vale a dire più della metà del giro d'affari mondiale. In Italia, in poco più di un decennio dal suo riconoscimento, è passata da 1.500 a 40 mila iscritti, e continua a crescere a medie comprese tra il 16 e il 17 per cento annuo, quasi il doppio rispetto all'incremento mostrato dagli atenei tradizionali. Anche da noi, insomma, l'università telematica e ormai diventata una realtà. (Fonte: Panorama 19-08-15)

DIFFERENZE DI GENERE NEI RISULTATI EDUCATIVI: STUDIO SULLE MISURE ADOTTATE E SULLA SITUAZIONE ATTUALE IN EUROPA
Documento pubblicato dall'Agenzia esecutiva per l'istruzione, gli audiovisivi e la cultura (EACEA P9 Eurydice). Disponibile anche su Internet (http://www.eurydice.org).
Questo studio è un contributo della Rete Eurydice alla discussione sui problemi di genere in ambito educativo, come richiesto dalla Presidenza svedese del Consiglio dell’Unione Europea per la seconda metà del 2009. L’idea iniziale era di esaminare quanto e attraverso quali modalità la disuguaglianza di genere nell’istruzione fosse un argomento di discussione nei paesi europei. Sebbene negli ultimi decenni la situazione sia radicalmente cambiata per quanto riguarda la percentuale di partecipazione all'istruzione, le differenze di genere persistono sia nei risultati scolastici che nella scelta dei percorsi di studio. Lo studio perciò esamina se tali disparità abbiano portato a iniziative politiche come proposte di cambiamenti di leggi e regolamenti relativi all’istruzione, indagini nazionali, progetti o qualsiasi altro tipo di misure ufficiali incentrate sul genere. Lo studio cerca, inoltre, di fornire una mappa delle politiche e delle strategie in atto nei paesi europei per combattere le disuguaglianze di genere negli attuali sistemi educativi. (Fonte: dall’introduzione allo studio)