IN EVIDENZA
LA RICORRENTE MALA STAMPA SULL’UNIVERSITÀ
Qualche riflessione sulle maldicenze
in tema di università:
1) Nessun sano di mente nega,
minimizza, copre, difende episodi di mala università.
2) Non ci sono dati sulla
sistematicità dei concorsi truccati/baroni/amanti/ecc. Sono tutti? No. E’
nessuno? No. Sono quasi tutti? No. È quasi nessuno? No. In genere dipende dai
settori/università e sicuramente ci sono settori/università più toccati da
questo fenomeno e i settori sono per ovvi motivi quelli più vicini alle
professioni.
3) Ci sono altri dati
sull’università che mostrano che il sistema, date le risorse, non funziona per
niente male ma è cronicamente sotto finanziato.
4) Vanno bene gli articoli di
denuncia? Qui si entra nello spinoso campo del ruolo dei media. Se non si è
capito (soprattutto i giovani, soprattutto i precari) che i media usano le
storie dei singoli per manganellare il sistema a prescindere, senza mai
riportare analisi ragionate e dati attendibili, questo a mio parere è un
problema di prima grandezza. Articoli che sparano sul mucchio o che
generalizzano impropriamente vicende personali non sono mai utili a nulla. La
retorica del secchio bucato (non bisogna mettere risorse in un sistema che
perde acqua) ha però precarizzato un’intera generazione di giovani,
sotto-dimensionato il sistema e annullato le risorse alla ricerca.
Invito infine di nuovo a riflettere,
soprattutto i più giovani, che il sistema universitario italiano ha prodotto,
date le risorse e dato il paese, moltissimo. In nessun settore l’Italia come
paese si colloca tra i primi posti al mondo eccetto che nella qualità della
ricerca scientifica in molti campi. È un sistema da preservare e migliorare,
non da buttare. Chi propone ricette mai sperimentate sul pianeta Terra e/o chi si
affida allo smantellamento seguendo facili slogan che nascondono il vuoto
progettuale, è il vero protagonista e responsabile del degrado attuale. Vari
esempi di mala stampa sull’università sono riportate nell’articolo fonte di questa nota. (23-03-2015)
L’ITALIA CAMPIONE MONDIALE DELLA RICERCA SPAZIALE
La ricerca italiana nel settore “space
science” copre oltre l’11% della produzione mondiale di articoli scientifici
del settore. Lo dicono i dati riportati da Sciencewatch.com, servizio di analisi della produzione
scientifica realizzato da Thomson Reuters. A completare il podio virtuale
sono le neuroscienze (5,98% della produzione mondiale) e le scienze
geologiche (5,92%). Per “space science” dobbiamo pensare a tutte le discipline
che si occupano dello spazio, dall’astronomia e l’astrofisica ai viaggi
spaziali (come testimoniano gli astronauti italiani) e l’esplorazione
dell’universo. Questo risultato non stupisce Patrizia Caraveo, direttore
dell’istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica Cosmica dell’Istituto Nazionale
di Astrofisica (INAF) a Milano. La space science italiana conta anche
4 highly cited scientist (su 100 nel mondo) mentre nelle altre
discipline il contributo italiano è, in media, meno del 2%. “Gli scienziati
spaziali e gli astrofisici italiani sono preparati, determinati e gioiscono
delle scelte fatte anni addietro di partecipare a missioni, spaziali e non, che
si sono rivelate dei fantastici successi”. Sempre
Sciencewatch dice
che la space science italiana, in termini di pubblicazioni, dà un contributo
più alto del 40% rispetto agli altri paesi nel medesimo settore. Un dato che
viene superato solamente dal 47% della medicina clinica, un settore dove si
pubblica moltissimo e nel quale spesso le ricerche hanno bisogno di grandi
numeri di pazienti arruolati. La buona tradizione italiana nella space science
è confermata anche dai dati di SCImago, un portale che analizza e
crea indici sulla ricerca scientifica dei paesi a partire dal contenuto di
Scopus, un database di abstract e citazioni scientifiche tra i più vasti al
mondo. (Fonte: http://tinyurl.com/pk8ptkn febbraio
2015)
IL MINISTRO: STIAMO VARANDO IL PIANO NAZIONALE DELLA RICERCA E TOGLIEREMO
L'UNIVERSITÀ DAL REGIME CONTRATTUALE DELLA FUNZIONE PUBBLICA
A conclusione della visita al Politecnico
milanese Stefania Giannini ha dichiarato: «Stiamo varando in Italia il Piano
nazionale della ricerca che diventerà lo strumento strategico per la
pianificazione e la selezione delle priorità, un progetto che si collega
direttamente alle politiche europee. Qui abbiamo vari esempi di eccellenza».
Inoltre il ministro Giannini, ospite a Repubblica Tv ha annunciato novità
sull’università: "Toglieremo l'università dal regime contrattuale della
funzione pubblica e costruiremo un contratto proprio. L'università e la ricerca
hanno regole specifiche e obiettivi specifici che non sono esattamente quelli
del pubblico impiego. Riuscire ad arrivare a un obiettivo del genere sarebbe
veramente un grande traguardo". E si deve avviare una riflessione sul
ringiovanimento degli atenei e il reclutamento accademico. "Questo sarà un
anno costituente per l'università, come è stato per la scuola. Ricordo che
abbiamo liberato, garantito 1200 nuovi posti da ricercatore nel biennio, ma ci
vuole uno sforzo in più. Sui precari dell'università si deve fare una
riflessione più economica, perché sono numeri diversi rispetto alla scuola, ma
anche più lungimirante per quanto riguarda la comparazione necessaria con il
contesto internazionale. Chi fa ricerca non la fa in Italia, la fa in uno
spazio europeo destinato a essere sempre più omogeneo e
interscambiabile". (Fonti: CorSera
Milano 01-04-2015; repubblica.it/scuola 02-04-2015)
DOCENTI. LA SENATRICE PUGLISI:
ARRIVARE IN CATTEDRA CON UN CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI, ATTRAVERSO
STEP DI VALUTAZIONE.
Dalla senatrice del Pd Francesca
Puglisi - responsabile scuola, università e ricerca nella segreteria nominata
da Renzi – arrivano anticipazioni sui propositi del governo in tema di
università. Premesso che "gli atenei sono afflitti da troppi vincoli e
troppa precarietà che ne soffoca l'autonomia", la Puglisi, alla giornata
di ascolto del mondo universitario YOUniversity. Lab
(28-02), ha spiegato: "Occorre
sottrarre l'università dai vincoli della pubblica amministrazione restituendole
autonomia. Occorre ringiovanire gli atenei e semplificare il percorso per
arrivare in cattedra con un contratto a tutele crescenti, attraverso step di
valutazione. Occorre rivedere il sistema di diritto allo studio per assicurare
in tutte le regioni livelli essenziali delle prestazioni, che vanno tracciati,
perché non accada più che capaci e meritevoli privi di mezzi, non possano avere
accesso ai più alti gradi di istruzione". (Fonte: S. Intravaia, La
Repubblica 04-04-2015)
REQUISITI PER L’ACCREDITAMENTO DEI CORSI DI STUDIO. ALLENTATI I VINCOLI
Il MIUR si è reso conto che
“l'offerta formativa dell'Università rischia di essere pregiudicata dalle
limitazioni in materia di turnover previste dalla normativa vigente”. Così
esordisce il Decreto
Ministeriale 194 del 27 marzo 2015 “Requisiti accreditamento corsi di
studio”. Al fine di consentire la tenuta dell’offerta formativa, infatti, tale
decreto allenta i vincoli posti dal rispetto dei requisiti minimi necessari
all'accreditamento dei corsi di studio, permettendo di conteggiare tra i
docenti di riferimento di un corso fino al 30% di docenti a contratto e
allargando le tipologie contrattuali ammissibili anche a: 1) docenti ai quali
siano attribuiti contratti ai sensi dell'art. 23 della legge 30 dicembre 2010,
n. 240; 2) docenti ai quali siano attribuiti contratti ai sensi dell'articolo
1, comma 12, della legge 4 novembre 2005, n. 230.
Queste norme sono “transitorie” e
rimarranno valide solo in vigenza di limitazioni del turnover e non oltre
l'anno accademico 2017-2018. Nelle
intenzioni del MIUR questa è certamente una misura tampone di fronte ad una
vera e propria emergenza Università certificata dal crollo dei docenti, dei
ricercatori e anche degli immatricolati.
Il commento della Flc Cgil evidenzia
che è però preoccupante il richiamo alla necessità di norme transitorie nella
condizione “transitoria” del blocco del turnover. Tale misura risponde a
logiche note e sbagliate: sostituire con lavoro precario funzioni stabili. È
positivo l’aver posto un limite alle docenze a contratto indicando dei
requisiti minimi per l’attivazione dei corsi di studio connessi alla numerosità
del personale strutturato. Tuttavia, la ragionevolezza di questi limiti non
poteva che fondarsi su reclutamento ordinato di nuovi docenti e sul pieno
riconoscimento della didattica svolta, spesso a titolo gratuito, dei
ricercatori in esaurimento. La storia è andata diversamente e i requisiti
minimi si sono trasformati in una vessazione burocratica in un contesto di
blocco sostanziale del reclutamento e di scarse prospettive di carriera per
tutti. L'emergenza Università richiede altri interventi a fronte del crollo del
personale universitario: servono piuttosto un reclutamento straordinario di
nuovi docenti, sblocco del turnover per tutto il personale universitario e
serie politiche di investimento. (Fonte: Flc Cgil 02-04-2015)
PUR DI NON SBLOCCARE IL TURNOVER PROFESSORI A CONTRATTO PROMOSSI SALVATORI
DEI CORSI DI STUDIO
Le insidie della “toppa pericolosa”
che “istituzionalizza il precariato nelle università”, contenuta in un recente
decreto del MIUR (DM n.
194) sui requisiti di accreditamento dei corsi di studio, è stato lo stesso
vicepresidente della CRUI a sottolinearle sulle pagine de Il Fatto Quotidiano.
Come noto, il DM 47/2013 stabilisce una numerosità minima di docenti per
l’accreditamento dei corsi di studio declinata in termini di tipo di docente
(professore o ricercatore), tipo di SSD (base/caratterizzante o affine) e
corrispondenza tra settore disciplinare del docente e settore disciplinare
delle attività formative previste. La numerosità minima varia in base al tipo
di corso di studi (triennale, magistrale e ciclo unico) e all’anno accademico,
essendo previsto un graduale raggiungimento della numerosità richiesta nel
2016/2017. La mancata sussistenza dei requisiti può comportare la soppressione
del corso di studi. Ma il 27 marzo scorso il MIUR ha concesso alle università di poter
conteggiare anche i docenti a contratto. Basta prevedere un po’ di contratti
qui e là, con un qualsiasi esperto preso a caso ed il corso di laurea è salvo.
Si può insegnare qualsiasi cosa, purché non si assumano nuovi docenti. La
motivazione per l’alleggerimento dei requisiti di docenza è nel blocco del
turnover. Prendendo atto di un turnover decisamente ridotto, il Ministero,
seguendo parzialmente i suggerimenti dell’ANVUR ha concesso un regime di
requisiti più elastico. Se da una parte si blocca il turnover, dall’altra si
concede una boccata di ossigeno ai corsi a rischio di chiusura, legittimando il
ricorso a docenza esterna ai fini dei requisiti di accreditamento. Non è chiaro
se si tratti di un tipico intervento emergenziale, oppure se ci sia una
differente logica. Tra le FAQ del sito dell’ANVUR relative al requisito di
numerosità minima dei docenti si legge che “Il principio ispiratore che guida
questo indicatore è che il docente di riferimento deve essere “competente” sul
Corso di Studio in modo da poterne seguire la progettazione, lo svolgimento e
la verifica (cioè l’AQ del corso)”. Di
conseguenza, deduciamo che un contrattista, anche se non appartiene a uno
specifico SSD e svolge attività didattica per un solo anno accademico, è
considerato competente sul Corso di Studio, tanto da poterne seguire la
progettazione, lo svolgimento e la verifica. Di contro, un docente del corso,
appartenente ad un SSD affine a un settore previsto nell’offerta, non è
sufficientemente “competente”. Ci
avevano fatto capire che per insegnare (e fare ricerca) all’Università è
necessaria una severa selezione basata sull’accertamento della qualificazione
scientifica nello specifico settore disciplinare. Salvo poi scoprire che
qualsiasi esperto senza abilitazione è in realtà più “competente”. D’altra
parte, il contratto per attività di insegnamento previsto dalla 240/2010 ha la
funzione di arricchire l’offerta formativa attraverso la collaborazione di
esperti di alta qualificazione, non quella di coprire buchi di docenza. C’è una
logica, oppure è la solita legge scritta nel retrobottega di un Ministero?
A queste considerazioni riportate
nell’articolo di B. Bruno (Roars
07-04-2015) si aggiunge il commento di A. Figà Talamanca: Si elimina così ogni
incentivo a una ragionevole distribuzione dell’organico. Tutti i posti di ruolo
resteranno nelle aree e nei settori più forti nell’ateneo, gli altri settori
dovranno accontentarsi di contratti di insegnamento mal pagati ed assegnati a
soggetti di dubbia competenza. In particolare continueranno a fiorire corsi di
laurea in ingegneria sostanzialmente privi di docenti di ruolo nelle materie di
base il cui insegnamento è affidato ad insegnanti della scuola secondaria. Non
sarà possibile aspettarsi un ridimensionamento del personale docente delle
facoltà di medicina, quasi sempre sovradimensionato per le attività didattiche,
e dimensionato per le attività assistenziali quando non era prevista attività
assistenziale a pieno tempo per gli specializzandi. Sospetto che l’eliminazione
delle clausole indicate dall’ANVUR sia anche il frutto del “lobbying” delle
università telematiche, le prime vittime dei “requisiti minimi”. Per continuare,
il commento di G. Salmeri: Che un docente a contratto (incardinato in nessun
SSD) «valga» di più di un docente organico che insegna in un SSD che non
coincide con il proprio è un’enormità. E quello di Fido: Se si vuole veramente
evitare la chiusura di molti corsi di laurea il metodo più ovvio sarebbe quello
di assumere almeno alcuni dei tanti talenti (abilitati, internazionalizzati,
premiati ecc.) che ci sono in giro…Infine la chiosa di G. De Nicolao: A quanto
pare, le telematiche hanno vinto e l’ANVUR ha perso.
ABILITAZIONE
SCIENTIFICA NAZIONALE
ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE. IN ATTESA DI SUPERARE LE CONTESTATE
“MEDIANE”
Il testo del Dm, cui spetterà il
delicato compito di superare le contestate “mediane” in favore di parametri e
criteri più equi per valutare il curriculum dei futuri docenti, non sarebbe
ancora stato inviato né all’ANVUR né al CUN, che – come prevede la riforma
della Pa (la legge 114/2014) – devono essere «ascoltati» prima del varo del
nuovo decreto che sostituirà il Dm 76/2012. Più attuali che mai le parole di
Mario Ricciardi (Redazione Roars) il quale, un paio di settimana fa a
YOUniversity Lab., ha sollecitato maggiore trasparenza per un progetto di
revisione che sembra svolgersi persino all’oscuro del principale partito di
governo: bisogna smettere di scrivere le leggi nei retrobottega dei ministeri.
Mi sembra preoccupante quello che sta accadendo per l’abilitazione. Circolano
voci di progetti di revisione delle regole dell’abilitazione, sui quali, però,
non c’è nessun tipo di dibattito pubblico e rispetto ai quali sarebbe
interessante sapere se il PD, non dico abbia delle posizioni, ma almeno ne
abbia notizia. (Fonte: Redazione Roars 17-03-2015)
ASN (PROFESSORI DI I E II FASCIA): NON SI PUÒ DICHIARARE L’INIDONEITÀ SENZA
MOTIVARE, QUANDO IL CANDIDATO SUPERA ALMENO UNA DELLE TRE MEDIANE
In merito all’abilitazione
scientifica nazionale per professori universitari di Prima e Seconda fascia, la
commissione, in caso di attribuzione dell’inidoneità nonostante il superamento
di una delle tre mediane, deve indicare le ragioni per cui non ha concesso
l’abilitazione all’interessato.
Diversamente, il provvedimento è
annullabile ed impone una nuova valutazione ad opera della commissione. (Fonte:
Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sentenza del
CLASSIFICAZIONI
DEGLI ATENEI
CLASSIFICA DEGLI ATENEI 2015 DI U-MULTIRANK
Dalla classifica dei migliori atenei
2015 di U-Multirank, diffusa il 30-03-15, la Bocconi è, in assoluto, l'università
italiana che ha ottenuto il punteggio più alto in termini di offerta didattica
e numero di laureati, pubblicazioni accademiche e iniziative volte alla
mobilità degli studenti, intese come possibilità di trasferte, scambi, doppie
lauree, e così via. Secondo la piattaforma online lanciata lo scorso anno e
finanziata con 4 milioni di euro dalla UE, risulta che a portare a termine un
master con successo sono per lo più gli studenti che frequentano, oltre alla
Bocconi, l'Università di Trieste. Gli atenei di Verona e di Trento si piazzano
invece nei primi tre posti per quanto riguarda la qualità delle pubblicazioni
scientifiche. Mentre tra le università che hanno ottenuto migliori performance
nell'ambito del trasferimento tecnologico e nello stringere rapporti con
partner industriali spiccano il Politecnico di Torino e di Milano e
l'Università di Trieste. Sempre secondo la classifica europea, le facoltà
maggiormente orientate all'internazionalizzazione sono quelle di Bologna e
Bolzano.
La prima cosa che risalta è la
totale assenza ai vertici delle istituzioni accademiche del Sud Italia.
Confrontando tra loro le prestazioni di 1.200 università del mondo, provenienti
da 83 Paesi, con oltre 1.800 facoltà e 7500 programmi di studio, U-Multirank
permette ricerche personalizzate, a seconda della materia e del tipo di
preparazione che si vuole ottenere.
«Non esiste la migliore università
al mondo — spiega Frans van Vught, direttore della piattaforma web realizzata
dal Centre for Higher Education tedesco con la collaborazione delle due
università olandesi di Twente e Leiden. - C'è chi si specializza in alcuni
ambiti, chi in altre aree di studio». Oltre alla Business School milanese, nel
ranking europeo si posiziona in testa alla classifica per l'eccellente qualità
della ricerca anche l'Università di Trento. «Abbiamo attivato 13 spin-off, per
lo più nel settore delle tecnologie biomediche ed informatica e nella
protezione del suolo - dichiara CIaudio Migliaresi, delegato dell'Università di
Trento per il trasferimento tecnologico e rapporti con le imprese -. L'ultimo
progetto di ricerca innovativa sfociato in un'azienda, diventata un'eccellenza
sull'ingegneria tessutale, è Bio Tools. La start up progetta e realizza
attrezzature, materiali e strumenti per le applicazioni della medicina
rigenerativa e il settore biomedicale». (Fonte: B. Millucci, Corriere economia
30-03-2015)
DOCENTI
DOCENTI. EVOLUZIONE DEL LORO NUMERO NELLE TABELLE DI PAOLO ROSSI
Nel presentare l’ultimo
aggiornamento delle tabelle dedicate all’evoluzione della
docenza universitaria è
assolutamente indispensabile una breve premessa metodologica. I dati annuali
sono riferiti alla situazione al 31 dicembre dell’anno precedente quello
indicato nelle Tabelle, come desumibili (con un pò di sforzo) dal sito CINECA.
Quindi il dato 2015 rappresenta la situazione del sistema universitario al
31.12.2014, e non quella attuale, che in taluni casi può già essere significativamente
differente, a causa della dinamica delle promozioni successiva al completamento
delle prime due tornate dell’ASN.
A puro titolo esemplificativo
segnaliamo che nei primi 75 giorni del 2015 il numero degli associati è
aumentato di circa 520 unità e quello dei ricercatori è diminuito di quasi 630
unità, mentre il numero degli ordinari è rimasto pressoché stabile, segnando al
più una lieve flessione. Ci aspettiamo comunque una riduzione del numero dei
docenti universitari di ruolo nella misura di circa 1.600 unità in meno l’anno
(-3,2%) per i prossimi tre anni. Le tabelle sono visibili qui.
DOCENTI. DECRETO SU REQUISITI MINIMI DOCENZA
Considerata l'esigenza di prevedere
un temporaneo alleggerimento degli indicatori relativi alla docenza minima
necessaria per gli Atenei la cui offerta formativa rischia di essere
pregiudicata dalle limitazioni in materia di turn over previste dalla normativa
vigente, anche i professori a contratto potranno rientrare nel calcolo del
numero minimo di docenti necessario per mantenere un corso di laurea. E’ quanto
prevede il decreto sui requisiti minimi di docenza firmato dal Ministro dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini. “La novità - si legge in una
nota del Miur -, che sarà in vigore fino all’anno accademico 2017/2018, punta
al mantenimento dell’offerta formativa negli atenei in cui i limiti al turn
over del personale previsti dalla normativa vigente rischiano di imporre lo
stop ad alcuni corsi. A svantaggio degli studenti. Il ritorno al turn over al
100% è infatti previsto nel 2018. Il decreto alleggerisce i parametri attuali
sia per le Università statali sia per quelle non statali, riducendo in media
del 30% il numero di docenti a tempo indeterminato indispensabili per tenere
aperto un corso di laurea triennale e magistrale. Oggi il numero minimo di
docenti necessari è 9 per i corsi di primo livello e 6 per quelli di secondo.
Il decreto non varia questo numero, ma prevede che fino a un terzo di questi
posti possa essere assegnato a professori a contratto o a professori
straordinari a tempo. Vale a dire, ad esempio, docenti ed esperti di chiara
fama, studiosi e professionisti, anche stranieri. Fra i 5 e i 6 docenti sul
totale di quelli minimi previsti potranno essere a ‘tempo’ anche nei corsi di
laurea magistrale a ciclo unico di durata, rispettivamente, di 5 o 6 anni. Il
decreto si applicherà unicamente ai corsi già accreditati al momento della sua
pubblicazione”. (Fonte: ilVelino/AGV NEWS 26-03-2015)
PERCHÉ MARITO E MOGLIE NON DOVREBBERO LAVORARE INSIEME NELLO STESSO
DIPARTIMENTO?
Impedirlo è ingiusto e al limite
dell'incostituzionalità, sostiene Gianmaria Ajani, rettore dell'università di
Torino, che ha deciso di fare di questo tema una battaglia chiedendo un parere
legale che dà il via libera alle assunzioni dei coniugi attraverso le procedure
valutative, le selezioni riservate a chi è già interno alle università, ponendo
l'ateneo di Torino in controtendenza rispetto a quanto deciso nel resto
d'Italia e dal Consiglio di Stato. Quale è stato il responso degli avvocati?
«L'Ateneo non può che adeguarsi all'orientamento prevalso nella giurisprudenza
amministrativa. Vuol dire che ai procedimenti realizzati in base all'articolo
18 della riforma Gelmini non possono partecipare coloro che abbiano un grado di
parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore
appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero
il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di
amministrazione, e che fra le cause di esclusione deve essere compreso anche il
legame tra coniugi. Ma l'esclusione non vale per le procedure in base
all'articolo 24 della riforma perché non è prevista in modo esplicito
nell'articolo di legge e, dal nostro punto di vista, le limitazioni non possono
essere estese, in particolare quando sono gravose come questa che è in
contrasto anche con l'articolo 51 della Costituzione».
Insomma non permettere a marito e
moglie di lavorare nello stesso dipartimento è anche
incostituzionale? «Questa norma,
voluta dal legislatore per eliminare situazioni di nepotismo e di malcostume,
finisce con la sua rigida formulazione per compromettere la progressione
accademica di docenti che hanno l'unico torto di aver scelto di condividere
percorsi personali e professionali comuni e obbliga il marito o la moglie a
lasciare il posto». Ma diventa anche molto difficile
giustificare la presenza di marito e
moglie nello stesso dipartimento, soprattutto quando i casi iniziano ad essere
numerosi. «Su questo punto molta stampa ha scritto cose sbagliate e ha
insistito sulla facile retorica dei baroni, ma va ricordato che all'estero si
facilita in ogni modo lo spostamento del coniuge al fine di conciliare nel modo
migliore le esigenze lavorative e familiari. E soprattutto la presenza di
legami tra coniugi riguarda una minoranza dei procedimenti concorsuali». (Fonte:
La Stampa 30-03-2015)
DOTTORATO
DOTTORATO. ACCREDITAMENTO DEI CORSI
Il 20 marzo, ANVUR ha pubblicato il documento sull’accreditamento dei corsi di
dottorato del XXXI ciclo. La
pubblicazione segue di pochi giorni la nota MIUR che fornisce “Indicazioni
operative sulle procedure di accreditamento dei dottorati a.a. 2015-2016″
d’intesa con l’ANVUR.
L’accreditamento dei corsi di
dottorato di ricerca ha preso avvio con il XXX ciclo (a.a. 2014-2015) e ha
durata quinquennale. Per i Nuclei di valutazione non era previsto alcun ruolo
nelle procedure di accreditamento, fatte salve le forme di coinvolgimento che i
singoli Atenei potevano aver promosso autonomamente, come più volte ribadito
dalla stessa ANVUR in occasione delle presentazioni dell’iniziativa. Adesso,
all’avvio del XXXI ciclo, ANVUR sottoporrà a verifica annuale i corsi che sono
già stati accreditati per quanto riguarda i requisiti (art. 4, comma 1, DM
45/2013) relativi a:
- composizione del collegio del dottorato (almeno 16
docenti, di cui non più di 4 ricercatori, appartenenti a macrosettori coerenti
con gli obiettivi formativi del corso);
- disponibilità di borse di studio (numero medio di
almeno 6 borse e comunque non inferiore a 4 per il singolo ciclo), di finanziamenti
(congrui e stabili) e di strutture operative e scientifiche per l’attività di
studio e di ricerca del dottorando (specifiche e qualificate);
- previsione di attività, anche in comune tra più
dottorati, di formazione disciplinare e interdisciplinare e di perfezionamento
linguistico e informatico e nel campo della gestione della ricerca e della
conoscenza dei sistemi di ricerca europei e internazionali.
Alla verifica annuale l’ANVUR
procederà “anche sulla base dei risultati dell’attività di controllo degli
organi di valutazione interna delle istituzioni accreditate”, cioè dei Nuclei
di valutazione, ai sensi dell’art. 3 del DPR 76/2010 che faceva generico
riferimento al “contributo delle procedure di autovalutazione”. (Fonte: Roars 26-03-2015)
DOTTORANDI ESCLUSI DAI PERCORSI PER L’ABILITAZIONE NELLA SCUOLA
In questi giorni si rinnova
l’attenzione mediatica verso la scuola. Tra i temi emergenti, quello
dell’assunzione degli insegnanti – a partire dall’anno scolastico 2016/2017 –
esclusivamente per concorso: ottima cosa per i futuri studenti, se i concorsi
saranno adeguatamente organizzati e gestiti. Per l’ammissione ai nuovi concorsi
sarà necessario essere in possesso di abilitazione all’insegnamento, e anche su
questo nessuna obiezione. È stato tuttavia opportunamente rilevato da alcuni
(ad esempio dal professor Claudio Giunta dell’Università di Trento) che dai
percorsi annuali o biennali per il
conseguimento dell’abilitazione attivati negli scorsi anni (SISS, TFA, PAS…)
sono rimasti esclusi molti giovani altamente qualificati che stavano invece
seguendo i ben più impegnativi percorsi triennali per il conseguimento del
dottorato di ricerca. A questi corsi, occorre ricordarlo, questi giovani erano
stati ammessi tramite concorsi banditi dalle università e la frequenza
risultava generalmente incompatibile con altri corsi abilitanti e con attività
di supplenza nelle scuole. La maggior parte di questi giovani si trovano ora
esclusi – non per loro demerito, ma a causa della riduzione delle risorse
allocate per la ricerca e del blocco delle assunzioni in ambito accademico –
sia dall’università sia dalla scuola. (Fonte: A. Moreni,
scuoladivita.corriere.it 19-03-2015)
FINANZIAMENTI
FINANZIAMENTI ALL’ISTRUZIONE. MONITO ALL'ITALIA DALLA UE
La Commissione Libertà civili e
affari interni dell'Europarlamento, attraverso un rapporto sullo stato della
Giustizia, la libertà e la sicurezza, chiede al nostro Paese di fare di più per
migliorare il sistema giudiziario, pensionistico e scolastico. Per quanto
riguarda la scuola, il rapporto esorta l'Italia a non tagliare più i fondi alla
formazione e ad investire di più sul suo capitale umano. "L'Italia - si
legge nello studio - ha una lunga tradizione nel ridurre i finanziamenti alla
scuola ed è questa forse una delle ragioni degli scarsi risultati degli
studenti italiani nei test internazionali. L'Italia dovrebbe ribaltare questa
tendenza, tenendo conto che l'istruzione è cruciale per essere competitivi
nell'economia globale". A tal proposito, vale la pena ricordare che alcuni
giorni fa la Rete Eurydice, attraverso una ricerca europea commissionata
proprio dalla Commissione Ue, ha ricordato che l’Italia è il Paese del vecchio
Continente che spende meno di tutti per l’istruzione pubblica: a fronte di una
media Ue del 10,84%, da noi si investe nella scuola appena il 9,05% del totale.
Con gli stipendi dei nostri insegnanti ridotti ai minimi termini. (Fonte: A.
Giuliani, tecnicadella scuola.it 19-03-2015)
FINANZIAMENTI E LAUREATI. ITALIA IN CODA
L’Italia dedica alla spesa pubblica
per l’istruzione — in larga parte scuola ed università — l’8,5% del totale
delle risorse a disposizione, contro una media del 12,5% dei Paesi più ricchi
appartenenti all’Ocse ed un 15,5% degli Stati Uniti. L’università italiana da
mesi è un pò oscurata nei racconti dei media sulla (buona?) scuola, e forse
nessuno si è accorto del disagio che sta vivendo. Eppure l’Europa su di essa ha
scommesso in maniera rilevante: chiedendo, ad esempio, che ogni Paese si
impegni affinché tra i suoi trentenni vi siano — sin dal 2020 — almeno il 40%
dei laureati. Restiamo clamorosamente al palo, ultimi (!) tra i Paesi
dell’Unione europea con un misero 23%, quando molti tra questi hanno già
raggiunto il traguardo. Il noto sito Roars sull’università italiana mostra
come, complessivamente, il minor finanziamento da qui al 2023 ammonti a quasi
un miliardo e mezzo di euro, una cifra poco minore del taglio Tremonti. I
docenti lamentano una crescente burocratizzazione nel loro lavoro, impegnati
come sono a compilare schede spesso copiate ed incollate da quelle di altri
colleghi di altre università. (Fonte: M. Pirani, La Repubblica.it 23-03-2015)
FINANZIAMENTI. DRASTICO CALO NEGLI ANNI DEI FINANZIAMENTI ALLE UNIVERSITÀ
DA PARTE DELLE IMPRESE
«Da una sperimentazione su 24
università, corrispondenti circa ad un quarto del totale degli atenei
considerando anche quelli telematici, risulta che nel 2014 hanno ricevuto 200
milioni di euro di finanziamenti da parte di enti pubblici e privati». Di
questi - continua Andrea Bonaccorsi, membro del Consiglio direttivo dell’Anvur
- 50 giungono da investimenti privati. Ci sono poi i contributi provenienti
dalla filantropia (istituzioni sociali private) per altri 2,6 milioni. E,
ovviamente, quelli pubblici. Quello che emerge è il drastico calo negli anni
dei finanziamenti da parte delle imprese alle università. In merito, invece, il
Piano nazionale della ricerca (appena presentato al Cípe secondo quanto si
apprende) prevede uno stanziamento di 5,4 miliardi di euro nel triennio
2014-2016, di cui 1,6 miliardi dal MIUR e 3,8 miliardi dai fondi europei come
Por ed Horizon 2020.
(Fonte: B. Millucci, Corriere
economia 30-03-2015)
SPESA PER L'ISTRUZIONE TERZIARIA IN ITALIA
In Italia la spesa per l'istruzione
terziaria in percentuale del PIL è ben al di sotto della media UE, ma si sta
dedicando maggiore attenzione alla qualità dell'istruzione superiore. Tra il
2009 e il 2013, il finanziamento pubblico complessivo all'istruzione terziaria
è stato ridotto di circa il 20% in termini reali e la spesa
dell'amministrazione pubblica per l'istruzione terziaria in percentuale del PIL
è la più bassa dell'UE (0,4% nel 2012) (cfr. grafico). Secondo i principi della riforma del 2010, una quota
crescente dei finanziamenti pubblici per le università dovrebbe essere
assegnata sulla base dei risultati conseguiti in materia di insegnamento e di
ricerca. Tuttavia, fino al 2013, ciò è stato difficile da attuare in pratica
a causa dei tagli dei finanziamenti destinati all'istruzione superiore e delle
norme restrittive che hanno limitato la variazione annua dell'importo dei fondi
che ogni università poteva ricevere. Nel 2014 la quota di finanziamenti
pubblici alle università legati ai risultati è aumentata dal 13,5% al 18%
(con norme di attuazione meno restrittive rispetto al 2013) e sono stati
definiti costi standard che vengono gradualmente introdotti fino al 2018 come
criteri di assegnazione della quota residua di finanziamento pubblico. A medio
e lungo termine, per migliorare i risultati del settore dell'istruzione
terziaria in Italia sarà di fondamentale importanza che i finanziamenti siano
adeguati. (Fonte: Relazione
per paese relativa all'Italia 2015 pubblicata dalla Commissione Europea,
26-02-2015).
Grafico. Spesa pubblica per l’istruzione
terziaria 2007-2012 in Paesi dell’UE (Germania, Spagna, Francia, Italia, Regno
Unito)
LAUREE-DIPLOMI-FORMAZIONE
POST LAUREA-OCCUPAZIONE
SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE IN MEDICINA. VIA LIBERA DAL CONSIGLIO DI STATO
AL REGOLAMENTO PER L’AMMISSIONE
Via libera di ieri del Consiglio di
Stato (n. 1001/15) al «Regolamento concernente le modalità per l'ammissione dei
medici alle scuole di specializzazione in medicina». Le date: Il bando per il
secondo concorso nazionale entro fine mese e lo svolgimento delle prove entro
il 31 luglio. I giudici di palazzo Spada hanno accolto senza rilievi il decreto
in questione che arriva così spedito alla Corte dei conti per il visto di
legittimità. Diverse le modifiche già annunciate nel regolamento in entrata che
hanno avuto il via libera dello stesso CdS. La prima riguarda i tempi di uscita
del bando e la scelta della scuola da parte dell'aspirante alla formazione. La
variazione del termine finale della pubblicazione del bando dal 28 febbraio al
30 aprile di ciascun anno, dice il CdS, «risulta conforme alle tempistiche
relative alla programmazione sanitaria» da parte delle regioni, così come
coerente con la numerosità delle scuole stabilire che ogni candidato potrà
concorrere per un massimo di tre tipologie (invece di sei) di scuola che dovrà
indicare in ordine di preferenza, onde evitare «una dilatazione dei tempi
concorsuali».
Positiva per i giudici anche la
modifica sui quiz, inserita all'ultimo momento nel regolamento, secondo la
quale i 70 quesiti (su 110 generali) della parte generale della prova di
selezione faranno riferimento alla formazione clinica del percorso di laurea,
una scelta che «trova il suo fondamento nella necessità di assegnare alle prove
una maggiore caratterizzazione pratico-applicativa». E poi ancora l'utilizzo in
sede di valutazione dei curriculum dei partecipanti della media ponderata in
sostituzione di quella aritmetica si pone in linea, dicono i giudici, «con
l'ormai avviato sistema dei crediti formativi universitari quali strumenti di
misura e razionalizzazione del carico didattico». Infine la validazione dei
quesiti d'esame che passa dalla mano degli esperti nominati dal ministro tra
professori di prima fascia a quella della commissione nazionale composta da
almeno cinque professori universitari per ciascuna area, scelta che rafforza
«il ruolo di detto organo agevolando le sue funzioni relative alla validazione
dei quesiti di esame». Nel frattempo comunque le scuole devono aggiornare al
più presto i relativi ordinamenti didattici per partire con la riforma. In
questo senso il Miur, a seguito di una nota della Conferenza dei rettori, ha
comunicato agli atenei il differimento, al 9 aprile, del termine ultimo per la
comunicazione del numero di specializzandi che intendono esercitare il diritto
di scegliere il nuovo ordinamento didattico. (Fonte: B. Pacelli, ItaliaOggi
01-04-2015)
SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE IN MEDICINA. IL CONSIGLIO DI STATO SANCISCE 300
IMMATRICOLAZIONI EXTRA (27 MLN A CARICO DEL MIUR)
Il pasticcio dei test per
l’ammissione alle Scuole di Specializzazione di Medicina è stato più volte
negato dal Miur, che ha sostenuto che tutte le varie complicazioni fossero in
qualche modo state risolte. Questo, però, non ha impedito ai ricorsi di andare
avanti e, soprattutto, non ha impedito al Consiglio di Stato di sancire
l’immatricolazione in sovrannumero di 300 aspiranti specializzandi. Una
sentenza che, stando ai calcoli de Il Sole 24 Ore Sanità, costerà al Ministero
27 milioni di euro in borse per le Specializzazioni Mediche extra. (Fonte: www.studenti.it 07-04-2015)
FORMAZIONE MEDICA. CRITICHE DALL’ANAAO GIOVANI
"Di fronte alla necessità di
rivedere l'intero sistema formativo, inefficiente e costoso, come richiesto da
anni, e non solo da noi - si legge in una nota della sezione giovanile del
sindacato Anaao giovani - l'annuncio di volere ingranare la quinta si riduce ad
un restyling della durata dei corsi, limitandosi ad una scelta economica in una
mera partita di giro. Per qualche centinaio di contratti in più. La montagna
partorisce il topolino mentre l'articolo 22 del Patto della Salute è finito
nelle secche del 'niet' del Miur a qualsiasi cambiamento non gattopardesco e
nella ossessione delle Regioni di avere manodopera professionale a basso costo.
L'obbligo di rivedere in maniera approfondita gli ordinamenti didattici ed i
percorsi professionalizzanti, in una scelta che segnerà la professione e il
curriculum del medico specialista, scarica però i suoi effetti collaterali, del
tutto prevedibili, sui giovani, costretti ad optare tra vecchio e nuovo
ordinamento praticamente al buio ed in pochi giorni". Proseguono i giovani
medici: "Certo, la coperta è corta. E la strategia dei ricorsi, da
chiunque animata, oltre a interrogare seriamente costi e contenuti della
formazione, libera la politica dalle sue responsabilità demandando le sue non
scelte alla azione sostitutiva dei giudici, oltre ad evidenziare i buchi
presenti nel sistema. Il quale oggi è un trivio al quale si accede per via
concorsuale, con i limiti noti, per via giudiziaria, per chi ha possibilità
economiche, e per la via del rientro dall'estero, per chi ha eluso lo scoglio
del test. Alla faccia del merito, dei sacrifici e del rispetto delle regole. In
attesa della quarta via, low cost, cui le Regioni stanno lavorando".
(Fonte: uninews24.it 02-04-2015)
LIVELLI DI ISTRUZIONE SUPERIORE DELLA POPOLAZIONE. CONFRONTO NORD-SUD
L'Italia ha uno storico ritardo
accentuato al Sud rispetto a tutti i paesi europei nei livelli di istruzione
della popolazione; è ultima su 28 nell'Unione Europea per percentuale di
giovani (30-34 anni) laureati: nel 2013 l'Italia è al 24%, ma il Sud al 18,9% e
la Campania al 16,3% (in calo rispetto al 2012). Le conseguenze di questo sulla
produttività delle imprese sono evidenti: la Sardegna è la regione con la più
bassa percentuale di laureati sulla forza lavoro: meno del 16%, circa la metà
della peggiore regione spagnola, un pò più di un terzo rispetto all'Irlanda.
Così come lo sono sulla mobilità sociale: l'Italia è il paese OCSE con la
minore percentuale di studenti con genitori laureati; percentuale molto più
bassa al Sud: nel 2013 a Bari il 4% degli studenti aveva entrambi i genitori
laureati. L'università è un ascensore sociale fondamentale. Ma il quadro
peggiora, invece di migliorare. In tutta Italia si sta riducendo la percentuale
di diplomati che si iscrive all'università. Ma di più al Sud: il tasso di
passaggio dal diploma è 52% in Italia, 49% al Sud, 46% in Campania. Questo fa
il paio con tendenze demografiche sfavorevoli: mentre al Nord aumentano i
giovani grazie agli immigrati, al Sud si passa dai 128.000 giovani che si
iscrivono (in qualunque sede) nel 2007-08 ai 101.000 dello scorso anno; fra i
giovani campani si scende da 37.000 a 30.000. Al Centro Sud la durata degli
Studi universitari è maggiore (5 anni e mezzo per una laurea triennale contro
4,5 al Nord) e maggiore è la percentuale di fuoricorso. È tutta la filiera
dell'università che si va restringendo. In un paese che ha un drammatico
bisogno di professionalità di altissimo livello i posti di dottorato sono scesi
dai 15.000 del 2008 ai 12.000 del 2013. Il crollo è quasi tutto nel
Mezzogiorno. Al Sud, oggi, ogni 100 laureati meno di 3 possono frequentare un
dottorato, contro quasi 5 nel resto del paese; Catania ha 99 posti di
dottorato, Milano-statale 400, Bologna 585. (Fonte: G. Viesti, Il Mattino
26-03-2015)
Tabella. Immatricolazioni di
studenti (18/20 anni) all'università nel 2013 -14. Aumenti
e diminuzioni rispetto al 2007-08 (Il Mattino)
CORSI DI LAUREA TRIENNALI IN SANITÀ. MINORE INGRESSO DI STUDENTI
Da un’analisi della situazione
occupazionale nell’ambito degli Infermieri Italiani, emerge chiaramente che c’è
bisogno di un 10% di studenti di Infermieristica in meno nell’annualità
2015/2016. Qualche anno fa il 94% degli Infermieri Italiani trovava lavoro
entro 6-12 mesi (e la richiesta di nuovi adepti era vastissima), mentre oggi
questa forbice si è ampiamente allargata passando al 63% in 12 mesi (e forse
più). “La riduzione riguarda anche altre professioni, come Ostetrica su cui sia
la categoria che le Regioni riducono del -10%, dai 916 dello scorso anno a 830
circa di quest’anno; anche maggiore è la riduzione delle Regioni su Tecnico di
radiologia con il -12% fra i 980 dello scorso anno e gli 859 attuali, mentre la
Categoria conferma la proposta di 737 dello scorso anno. Queste riduzioni non
influiranno sui posti a bando per Infermieristica perché l’offerta formativa
delle Università è inferiore del 12% circa, essendo ormai consolidata attorno a
circa 16mila posti l’anno, mentre dovrebbe toccare Ostetricia con la riduzione
del -9% dai 916 posti dello scorso anno a 830 e, soprattutto, Tecnico di
radiologia dai 1.007 posti a bando dello scorso anno verso circa 800, con un
-20%. Questa riduzione sarebbe in linea con l’attuale trend negativo del tasso
occupazionale, come si può rilevare dai dati di AlmaLaurea (“Il Sole24Ore
Sanità” n. 36/2014), in media con -24 punti percentuali, in sei anni, dall’86%
del 2007 al 62% del 2012, con punte fino a -49 punti percentuali nel caso del
Tecnico di radiologia che scende dal 93% del 2007 al 42% del 2012.” Per questo
le università hanno bisogno di meno studenti, per non creare disoccupati. Il
MIUR ha previsto un minor ingresso di studenti ai corsi di laurea triennali in
sanità, abbattendo di 3000 unità la richiesta di 29.000 presenze preventivate
dalle Regioni. (Fonte: A. Mastrillo, nurse24.it
04-04-2015)
RETRIBUZIONI
RETRIBUZIONI. IPOTESI DEL SISTEMA CONTRIBUTIVO PER TUTTI I PENSIONATI
Una delle proposte che da sempre fa
agitare maggiormente i contribuenti che percepiscono già un trattamento
pensionistico è quella dell’estensione del sistema contributivo alla totalità
delle pensioni pagate dall’INPS. La proposta, da sempre sostenuta da Tito
Boeri, già da quando era docente alla Bocconi, prevede che anche per i
trattamenti pensionistici attualmente erogati con il sistema retributivo e il
sistema misto venga applicato il sistema contributivo, con un ricalcolo
relativo dell’assegno pensionistico. A titolo di completezza è opportuno
ricordare che il sistema retributivo prevede che l’importo dell’assegno
pensionistico venga calcolato tenendo conto dello stipendio percepito negli
ultimi 5 anni di lavoro del contribuente, mentre il sistema contributivo tiene
conto della totalità dei contributi versati dal contribuente in tutto l’arco
della sua carriera lavorativa.
Anche se è stato rilevato che
l’applicazione del sistema contributivo alla totalità dei contribuenti potrebbe
rappresentare addirittura una scelta incostituzionale dal momento che la Corte
Costituzionale, nella sentenza n. 116/2013, ha ritenuto inapplicabile qualsiasi
revisione del trattamento pensionistico già erogato a contribuenti pensionati,
l’eventuale applicazione di tale proposta al livello operativo colpirebbe
maggiormente i contribuenti che percepiscono un reddito pensionistico superiore
ai 2000 euro al mese. Si tratta di circa 1,7 milioni di persone così divise:
• 850.000 pensionati ex-privati;
• 770.000 pensionati ex INPDAP;
• 100.000 ex lavoratori autonomi.
Per quanto riguarda lo squilibrio,
ossia la differenza, tra l’attuale trattamento pensionistico e un eventuale
nuovo trattamento con sistema contributivo, sarebbe così quantificabile:
• 20% dello squilibrio su pensioni
tra 2000 e 3000 euro;
• 30% dello squilibrio su quelle tra
3000 e 5000 euro;
• 50% dello squilibrio su quelle
superiori a 5000 euro.
Per quanto riguarda i risultati è
stato calcolato che l’applicazione di tale misura produrrebbe un gettito di
4,18 miliardi di euro, di cui 3,736 a carico dei pensionati ex INPDAP
(dipendenti pubblici) e 0,444 miliardi di euro a carico degli ex Lavoratori
Autonomi (Liberi professionisti).
(Fonte: S. Casavecchia, www.forexinfo.it
22-03-2015)
RICERCA.
RICERCATORI. VALUTAZIONE DELLA RICERCA
RICERCA. ALLA SPERIMENTAZIONE ANIMALE NON C’È ALTERNATIVA
L’Accademia dei Lincei a Roma e la
convention Telethon a Riva del Garda sono gli scenari che hanno visto nuovi
tentativi di dialogare con la politica, i media, ma anche con il grande
pubblico, per spiegare le conseguenze che avrà la direttiva europea 2010/63
sulla sperimentazione animale, così come è stata applicata in Italia. E con lo
sguardo preoccupato verso l’iniziativa di Stop Vivisection, che giocando su
questo termine fuorviante, “vivisezione”, il 3 marzo ha depositato in Europa
più di un milione di firme, oltre 600.000 delle quali raccolte in Italia, per
chiedere il bando totale della sperimentazione animale negli Stati membri. Ci
sono tre mesi perché la Commissione dia una risposta, ma se fosse un sì, le
conseguenze di questa decisione sarebbero catastrofiche, bloccando gran parte
della ricerca biomedica in tutto il continente. La sperimentazione animale è
ancora imprescindibile per la ricerca biomedica. «Non solo per verificare la
sicurezza di nuovi farmaci, ma prima ancora per capire i meccanismi di base
della biologia e quelli all’origine delle malattie, indispensabili per arrivare
a ideare possibili nuovi approcci terapeutici» ha precisato Giacomo Rizzolatti,
membro del Gruppo 2003, famoso in tutto il mondo per aver scoperto i cosiddetti
“neuroni specchio”, che nel corso del convegno ha citato vari esempi di
malattie come la miastenia grave, un tempo inesorabilmente mortali, che oggi
possono essere curate grazie al bagaglio di informazioni raccolte in questa
fase imprescindibile della ricerca, quella detta “di base”. «Le obiezioni
sollevate contro l’uso degli animali nella ricerca sono sempre meno motivate da
scrupoli etici, e sempre più da ragioni a cui si vuole dare una valenza
scientifica» ha fatto notare Silvio Garattini, dell’Istituto Mario Negri di
Milano. «Si dice per esempio che gli animali sono diversi dall’uomo, e i
risultati ottenuti su un topo non possono essere traslati agli esseri umani. Ma
la storia della medicina insegna il contrario: sono moltissime, anzi la maggior
parte, le cure messe a punto sugli animali che hanno cambiato il destino di
molti ammalati». Alla fine, prima di poter portare una terapia al letto
dell’ammalato, il passaggio preliminare sugli animali resta indispensabile»
conclude Garattini. Senza contare che la sperimentazione serve anche per
produrre cure per gli stessi animali da compagnia cui siamo tanto affezionati.
Non ci guadagnano gli animali nemmeno da uno degli elementi introdotti dalla
normativa italiana rispetto a quella europea: il divieto cioè di allevare cani,
gatti e primati sul territorio italiano a scopo di ricerca. «La necessità di
importarli dall’estero non ha solo un impatto economico» ha spiegato Gianluca
Grignaschi, dell’Istituto Mario Negri di Milano alla tavola rotonda organizzata
il 9 marzo nell’ambito della convention Telethon, «ma incide sul loro
benessere, costringendoli a lunghi trasporti che li espongono a rischi e
stress». Molti ricercatori italiani sono incastrati in una situazione
paradossale: da un lato cercano di accedere ai finanziamenti europei per
ottenere i fondi che in patria scarseggiano, dall’altro non possono ottenerli
proprio a causa di una legge italiana, nata per applicare una direttiva
comunitaria, ma che da questa si è poi distaccata. (Fonte: scienzainrete marzo 2015)
RICERCA. RISULTATI DEI CONSOLIDATOR GRANTS 2014
Sono stati pubblicati i risultati
dei Consolidator Grants 2014 dell’European Research Council, riservati a
ricercatori con esperienza. Facciamo un confronto con i risultati della
precedente tornata 2013: tra i paesi che ospiteranno i progetti finanziati,
Regno Unito, Germania e Francia restano ai primi posti; la Spagna raggiunge
l’Olanda al quarto posto mentre l’Italia resta invariata al quinto posto (la
sparizione della Svizzera è dovuta alla sua temporanea uscita dal gruppo di
paesi destinatari dei Grant ERC). In Italia dominano i progetti riguardanti le
Scienze Fisiche e l’Ingegneria, sorpassando gli altri panel rispetto al 2013.
Per quanto riguarda la nazionalità dei ricercatori vincitori, l’Italia crolla
dal secondo al quinto posto, con una maggiore partita di genere. Anche la
capacità di attrarre ricercatori non migliora: tutti i progetti assegnati in
Italia saranno gestiti da ricercatori italiani che restano in Italia, a
differenza degli altri “grandi” paesi europei.
Inversione di tendenza per i nostri
connazionali all’estero: sono più i ricercatori italiani che vincono per
restare in Italia che quelli che vincono in un paese straniero. Peccato che i
numeri e le percentuali siano in calo rispetto al 2013: non assistiamo ad un
“Rientro di cervelli”. (Fonte: Redazione Roars
30-03-2015)
RICERCA E VALUTAZIONE. CRITICHE ALL’ANVUR
Che cosa non funziona nell’ANVUR e
che cosa occorre fare per porvi rimedio secondo Roars:
-democrazia: non esiste un tavolo
ANVUR-Atenei, ove la valutazione, come tipo, metodi, procedure, siano discussi
e approvati;
-trasparenza: il presidente
dell’ANVUR ultimamente si bea che la SUA-CdS è disponibile agli utenti (come se
prima dell’ANVUR fosse diverso), ma all’ANVUR è ignota qualsiasi trasparenza:
non si pubblicano i rapporti sui CdS di nuova istituzione, non si pubblicano i
rapporti della maggior parte degli atenei finora sottoposti ad accreditamento
periodico, non si pubblicano le liste dei valutatori finora impiegati, non si
indicano i criteri di scelta di questi valutatori, non si indica il tipo di
formazione a cui sono stati sottoposti;
-efficienza ed efficacia: non esiste
un Riesame per l’ANVUR, né alcun sistema di autovalutazione, miglioramento e
accreditamento (verso l’ENQA ad esempio): l’ANVUR è più un’agenzia di
Inquisizione o di Dottrina della Fede verso gli Atenei che un’Agenzia che
promuove il miglioramento e lo sviluppo degli Atenei, miglioramento che non può
essere che dal basso, seminando le buone pratiche, e non imposto dall’alto: se
non fai come ti dico, ti chiudo;
-confusione totale: le normative
sono elastiche e modificabili come il momento vuole, mediane per l’ASN che
possono essere impiegate o no, a discrezione delle commissioni; numerosità dei
docenti di riferimento che cambiano secondo il volere del MIUR, e l’ANVUR
ovviamente lega l’asino dove MIUR vuole…;
-rapporto ANVUR-MIUR: l’ANVUR
propone ed il MIUR delibera (DM 47 e 1059/2013 insegnano), la qualità, araba
fenice, non si sa chi la fà, fino allo sproloquio dell’Allegato C al DM
1059/2013 in AQ1 – L’Ateneo stabilisce, dichiara ed effettivamente persegue
adeguate politiche volte a realizzare la propria visione della qualità della
formazione, ripetuto pari pari per l’AQ6 per la Ricerca (ma siamo sicuri che
gli Atenei, tutti, abbiano avuto queste benedette visioni?);
-burocratismo: prima di varare delle
norme si dovrebbero fare delle simulazioni per verificare gli effetti di queste
norme, ma siamo in un mondo al di là dei bizantini (beati i bizantini …) in cui
io comando, tu ubbidisci e se ti comando di fare le stalle per gli asini
volanti, tu devi farle con tutte le specifiche che io ti do: se poi nessuno ha
visto gli asini volanti, non importa, io (ANVUR) credo fortemente negli asini
volanti … Se qualcuno sa spiegare come un’Assicurazione di Qualità casareccia
tramite Requisiti strampalati possa assicurare una Qualità non definita (se non
tramite le famose visioni degli Atenei …) ce lo spieghi, e sarà sentitamente
ringraziato.
-doppioni NVA e PQ (Presidio di
Qualità): non si capisce chi fa che cosa … ma sono ambedue necessari? (Fonte:
P. Biondi, Roars 16-03-2015)
VALUTAZIONE. L’INVENZIONE DELLE RIVISTE DI CLASSE A. CONFRONTI CON L’ESTERO
Secondo gli autori dell’articolo “La
supercazzola prematurata delle riviste di classe A ... ” ce ne sarebbe più che
abbastanza per decidere di sbarazzarsi una volta per tutte dell'enigmatico
neo-oggetto “riviste di fascia A”. Ad esempio, un documento firmato da circa
sessanta sociologi (tra cui Franco Ferrarotti, uno dei pionieri della
disciplina sociologica nel nostro Paese) denuncia come l'invenzione delle
riviste di classe A abbia già favorito la formazione di monopoli
accademico-editoriali in grado di condizionare l'esito delle recenti
abilitazioni scientifiche. Senza contare che
all'estero analoghe esperienze si sono rivelate così fallimentari e
ricche di insidie da essere bandite da più di una comunità accademica. È
accaduto per il cosiddetto ranking ERA in Australia che è stato ritirato dopo
la constatazione dei suoi effetti distorsivi e che oggi è sostituito da un
elenco che si limita a discriminare fra riviste scientifiche (le cui
pubblicazioni sono valutabili) e non scientifiche (le cui pubblicazioni non
sono valutabili). Simile sorte ha incontrato la lista ERIH, promossa dall’European
Science Foundation e riservata alle scienze umane, che si è rivelata un
sostanziale fallimento. Anche in Francia l'AERES nel campo delle Scienze umane
e sociali ha accreditato un certo numero di riviste “delimitando un perimetro
scientifico, senza classificazione” riservandosi la possibilità di effettuare
una prima gerarchizzazione solo per quelle discipline “nelle quali le basi di
dati bibliometrici internazionali [fossero] maggioritariamente accettate dalla
comunità scientifica”. Da ultimo, in occasione del recente Research Exercise
Framework britannico, si è deciso che nessun panel di valutatori facesse
ricorso a classifiche di riviste. A quanto pare, però, per noi newcomer della
neovalutazione questa decisione non è ancora matura. (Fonte: D. Borrelli e M.
Stazio, Roars 20-03-2015)
RICERCA.
MAGGIORE SUCCESSO CON LA DIVERSIFICAZIONE
È più efficiente e conveniente per
un paese diversificare la propria produzione scientifica o specializzarsi?
Distribuire le risorse in vari campi di ricerca o accentrarle in pochi “centri
di eccellenza”? Le nazioni di maggior successo tecnologico non si specializzano
in pochi specifici domini scientifici quanto piuttosto diversificano il più
possibile il loro sistema di ricerca. La diversificazione è l’elemento chiave
per le nazioni al fine di realizzare un sistema di ricerca di successo e
competitivo: questa conclusione suggerisce che l’eccellenza scientifica si può
intendere come un effetto collaterale naturale di un complesso, eterogeneo,
diversificato, e quindi sano, sistema di ricerca. In un mondo ideale, questo
tipo di analisi dovrebbe essere usata dai decisori politici a livello nazionale
e europeo per meglio strutturare l’organizzazione della ricerca, che dovrebbe
essere di primario interesse pubblico dal momento che un sistema universitario
e della ricerca efficiente rappresenta una condizione necessaria, ma certamente
non sufficiente, per stimolare innovazione e sviluppo nel sistema economico. (Fonte: F. Sylos Labini, FQ 22-03-2015)
RICERCATORI. INSTABILITÀ CONTRATTUALE E RENDIMENTO NEL LAVORO
Meno del 10% dei giovani
professionisti della ricerca, probabilmente, riuscirà a stabilizzare la propria
posizione nei prossimi anni, molti di più coloro che resteranno «fuori dal
sistema», scegliendo l’estero o altre professioni per l’avanzamento delle
proprie carriere. A rivelarlo lo studio «Ricercarsi: Indagine sui percorsi di
vita e lavoro nel precariato universitario» curato dai ricercatori Emanuele
Toscano e Orazio Giancola, in collaborazione con la FLC-CGIL del Trentino. Un
lavoro tuttora in evoluzione che ha visto passare in rassegna 1.864 vite da
precari, analizzandone ambizioni, difficoltà quotidiane, percorsi precedenti. «Una
popolazione difficile, quasi magmatica in cui si passa dagli assegnisti ai post
doc, dai tempi determinati ai co.co.pro. o a chi lavora con collaborazioni
occasionali o a partita iva» – spiega Giancola, che precisa: «negli ultimi
anni, a partire dalle riforme Moratti e Gelmini il cambiamento è stato epocale,
la figura del ricercatore a tempo indeterminato è stata praticamente soppressa,
tanto che dal 2008 a oggi si sono perse oltre 4mila unità». Crollo cui si
accompagna un drammatico aumento dell’instabilità contrattuale, almeno fino ai
37 – 38 anni. I ricercatori intervistati (tutti per lo più afferenti a grandi
università del Centro e del Nord Italia) affermano di essere passati negli
ultimi anni per circa 6 contratti diversi, arrivando nel 10% dei casi a
collezionarne addirittura tra i 13 e i 30, con uno scoramento più che
prevedibile per la propria condizione. Il 62% dei ricercatori, infatti, è
decisamente poco soddisfatto del proprio impiego e l’84% è convinto che il
proprio rendimento possa essere influenzato dall’instabilità contrattuale.
(Fonte: S. Pagliuca, http://tinyurl.com/ofn3y48
28-03-2015)
RICERCATORI. IL PROGETTO GARCIA
Il progetto GARCIA (Gendering Academy and Research:
Combating Career Instability and Asymmetries) è coordinato dall’Università di
Trento. Gli altri partner sono University of Iceland (Islanda), University of
Louvain (Belgio), Radboud University (Olanda), ZRC-SASU Research Centre of the
Slovenian Academy of Science and Arts (Slovenia), University of Lausanne
(Svizzera) e Joanneum Research (Austria). Il progetto di ricerca, di durata triennale, ha ottenuto un finanziamento
di oltre due milioni di euro dalla Commissione europea. Finanziato nell'ambito
del programma Science and Society del settimo programma quadro della
Commissione europea, coinvolge in particolare i dipartimenti di Sociologia e
Ricerca Sociale e di Ingegneria e Scienza dell'Informazione dell'Università di
Trento, ponendo particolare attenzione alle prime fasi della carriera
scientifica, caratterizzate da instabilità occupazionale e da limitate
prospettive di lungo periodo. Tra gli obiettivi principali vi sono anche la
costruzione e il consolidamento di network, a livello nazionale e
internazionale, mirati sia ad alimentare il dibattito intorno all'articolazione
delle carriere scientifiche, sia a progettare e implementare azioni di
cambiamento e proposte di policy. Con questo intento, in collaborazione con la
FLC-CGIL del Trentino, è stata organizzata la presentazione del progetto
Ricercarsi, un’indagine sui percorsi di vita e lavoro nel precariato
universitario, promossa dalla FLC-CGIL nazionale e realizzata da Emanuele
Toscano, Orazio Giancola, Francesca Coin, Claudio Riccio, Barbara Grüning e
Francesco Vitucci. (Fonte: http://garciaproject.eu/ 13-3-201%)
RICERCA. TROPPA PRESSIONE A PUBBLICARE: LE FRODI SFUGGONO
Ma le riviste non hanno i loro
metodi di controllo? «Sì, e sono i cosiddetti referee: esperti che valutano
l'articolo prima della pubblicazione. Solo che questi guardano il metodo,
rifanno i conti, controllano la statistica. Ma non ripetono la ricerca. Del
resto, fare il referee porta via tempo già così. Poi in settori molto specifici
gli esperti sono pochi, anche quattro o cinque. Per cui, per quanto coperti
dall'anonimato, si può capire chi siano mentre loro possono capire a chi
appartenga la ricerca che stanno valutando. Questo può aprire a meccanismi
problematici come il ritardo della pubblicazione di un rivale». E allora come
vengono scoperte le frodi? «Le intercettano gli altri scienziati. Solo che
intanto è passato del tempo e i finanziamenti possono essere andati a ricerche
sbagliate o fraudolente».
Le frodi scientifiche sono sempre
esistite e sempre esisteranno. Per tenerle sotto controllo servirebbero più
soldi e il tempo per rifare gli esperimenti, spiega Giovanni Boniolo, filosofo
della scienza all'Università di Milano e autore tre anni fa di una lettera a
Nature in cui denunciava la sempre minore condivisione dei risultati e le sue
conseguenze. Perché non è facile intercettare le frodi ed evitarle? «Il
problema è che tutti ci fidiamo dei metodi di autocorrezione della scienza, che
si basano sul fatto che i risultati degli esperimenti vengono resi pubblici e
possono essere replicati. Ma oggi c'è un'enorme pressione a pubblicare, e a
farlo in fretta, perché è da quello che dipende la carriera di uno scienziato.
Così molte volte nessuno replica l'esperimento. E scappano frodi che vengono
scoperte quando le intercettano altri articoli ma intanto i finanziamenti sono
stati sprecati. (Fonte: S. Bencivelli, La Repubblica 30-03-2015)
RICERCA. REVISORI FASULLI PER ARTICOLI SCIENTIFICI
Stando a quanto spiega Elizabeth
Moylan, senior editor di BioMed, un’indagine interna iniziata lo scorso anno ha
rivelato l’esistenza di un sistema volto a “ingannare gli editori suggerendo
revisori fasulli per gli articoli sottoposti”. Alcune delle “manipolazioni”
sarebbero state condotte da agenzie specializzate in correzione linguistica e
assistenza nell’invio dei manoscritti per autori non anglofoni. “Non è chiaro
se gli autori degli articoli coinvolti fossero al corrente del meccanismo o
meno”. I sospetti sono iniziati notando, tra i revisori, indirizzi mail
“strani, inusuali per scienziati che lavorano in un’istituzione”: dopo una
serie di controlli incrociati, è emerso che gli autori delle revisioni non
corrispondevano ai titolari delle caselle di posta elettronica. In altre parole,
qualcuno si era spacciato, in modo fraudolento, per scienziato, falsificando il
processo di peer review. “Le indagini”, conclude il Commitee on Publication
Ethics, “hanno svelato che alcune agenzie vendono servizi che vanno
dall’attribuzione autoriale di articoli già scritti alla creazione di indirizzi
mail fasulli di revisori. Alcuni di questi profili hanno i nomi di ricercatori
apparentemente reali, ma con indirizzi mail che differiscono da quelli reali,
altri sono inventati di sana pianta”. (Fonte: S. Iannaccone, wired.it
01-04-2015)
BENI CULTURALI. APPLICAZIONI TECNOLOGICHE DAL MONDO DELLA RICERCA
Da un convegno del CNR nel 2012 è
emerso che la percentuale dei beni culturali a noi noti, sia dai risultati
delle ricerche che dai dati rivenienti dalle sovrintendenze, è minore del 10 %
di quanto è ancora esistente, visibile o ancora sotto terra. Questo 10% non è
del tutto tutelato dagli organi preposti alla tutela (per carenza di organico e
fondi) ed è valorizzato in minima parte spesso in modo generico. Le
professionalità formate in Italia atte a conoscere, gestire, conservare e
valorizzare il patrimonio culturale sono assai qualificate, perché il livello
di formazione in questo settore è molto alto, ma si continua a pensare che la
gestione vada affidata ad esperti di economia aziendale o grandi manager di
altrettanto grandi aziende. Il mondo della ricerca invece produce con
continuità applicazioni tecnologiche di alto livello riferibili a questo
settore, sia a supporto del livello conoscitivo che di quello operativo, con
forte integrazione interdisciplinare. La tecnologia e l’innovazione nell’ambito
della ricerca e la conservazione dei beni culturali diventano ausiliari e
profondamente utili solo e soltanto se sostanziate da una approfondita e
analitica conoscenza del bene in questione su cui intervenire. Senza un
adeguato livello di conoscenza ciò a cui continueremo ad assistere sarà la distruzione
progressiva del nostro territorio, del patrimonio culturale ed ambientale
italiano. (Fonte: G. Occhilupo, Roars
06-04-2015)
RIFORMA
UNIVERSITARIA
RIAPPARE DAL SECOLO SCORSO LA PROPOSTA DI UN RUOLO UNICO DELLA DOCENZA
Nel ricevere e pubblicare il testo
firmato da vari colleghi sulla proposta di un ruolo unico della docenza, si
legge nel sito Roars che la redazione ha convenuto di dare spazio alla
discussione (al 22 marzo ben 120 note di commento-discussione) sul ruolo unico
pur non condividendo tale proposta. Le opinioni di alcuni dei redattori di
Roars potranno essere lette nei commenti all’articolo. Le due principali obiezioni che la redazione di
Roars muove rispetto alla proposta sono:
-essa si presta ad essere utilizzata
quale strumento per aumentare il grado di burocratizzazione delle università
poiché aggiunge alla pletora di strumenti di valutazione allo stato esistenti,
un ulteriore livello di “valutazione continua” dei singoli ricercatori;
-a fronte di ciò la proposta non
pare apportare alcun beneficio ai numerosi ricercatori non strutturati e in
formazione che vedono incombere sulle loro teste il rischio dell’espulsione dal
sistema.
Si riportano inoltre due fra i tanti
commenti all’articolo menzionato:
Il ruolo unico si presenta come una
soluzione “todos caballeros”, interamente indirizzata agli attuali strutturati,
che personalmente trovo inaccettabile difendere con il paravento della
“democrazia”. In alternativa, essa finirà per risolversi in una mostruosità di
valutazione permanente senza eguali al mondo e che produrrà molti più danni che
benefici alla ricerca italiana. (A. Banfi)
La proposta soffre a mio avviso
dello stesso identico problema di cui tutte le riforme epocali hanno sofferto
finora. L’idea che i problemi si risolvano tutti (magicamente) cambiando una
sola o poche variabili in gioco. Nella Legge Gelmini il focus consisteva nella
modifica sostanziale della governance universitaria accompagnata dalla
valutazione centralizzata. Qui il cambiamento della struttura gerarchica dei
professori, associato alla “valutazione continua”, dovrebbe cambiare l’assetto
complessivo del sistema.
Non si tiene conto del fatto che
questi cambiamenti normativi si inseriscono in una struttura istituzionale e
amministrativa che concorre a determinare il funzionamento complessivo del
sistema; e che le migliori intenzioni del legislatore potranno dare luogo a
conseguenze non previste e non volute (unintended consequences).
In questa prospettiva della proposta
mi preoccupano particolarmente due cose:
1. Il fatto che si metterà ad esaurimento
l’intero corpo docente dell’università; cioè si ripeterà per associati e
ordinari la scelta a mio avviso profondamente errata di mettere ad esaurimento
i RTI. Con conseguenze che mi sembra facile prevedere disastrose.
2. Il riferimento a una non meglio
precisata “valutazione continua”, che, con i tempi che corrono e con una ANVUR
disegnata come plenipotenziaria in tema di valutazione, non credo si possa
risolvere semplicemente in una valutazione del dipartimento di appartenenza
come sembrano sperare i proponenti. (A. Baccini). (Fonte: Redazione Roars
22-03-2015)
Un commento del redattore di INFO
UNIVERSITARIE: Quando negli anni ’80 si vollero trasformare (fondere,
accorpare) gli Istituti nei Dipartimenti un arguto collega osservò che
l’operazione non avrebbe comunque trasformato i somari in corsieri. Lo stesso
potrebbe dirsi oggi a proposito della ventilata operazione ruolo unico della
docenza. (PSM)
CINQUE ARGOMENTAZIONI SULLA PROPOSTA DEL RUOLO UNICO DELLA DOCENZA
UNIVERSITARIA
(1) Si tratta nella sostanza, e al netto del
prevedibile restyling terminologico, di una proposta vecchissima. Da sempre
sostenuta dalle parti più politicizzate dell’università, è un vecchio sogno di
molti, che di tanto in tanto viene riesumato col solito velleitarismo. Si
tratta in altre parole della carriera automatica e antimeritocratica per tutti.
Certo, può piacere a qualcuno, ma la sostanza rimane quella: carriera per tutti
indipendentemente dal merito. Caos decisionale e organizzativo, decisioni
importanti in mano ad assemblee di non precisata natura ed eventualmente
condotte da qualche professionista della politica accademica, ecco quali
sarebbero le prime conseguenze. Uno spettacolo già visto altrove, che adesso si
vuole importare anche all’università. Si tratta, in altre parole, della ope
legis continua.
(2) La proposta sulla valutazione
continua, implicita a questa sul ruolo unico, fa abbastanza sorridere. I motivi
sono assai semplici. Una valutazione continua (specialmente se basata su
parametri nazionali come da più parti ho sentito) è impossibile da realizzare:
troppe le particolarità, troppe le differenze, troppi i casi da analizzare.
Essa si trasformerebbe nel migliore dei casi in una nuova versione dei giudizi
di idoneità, che tanta devastazione hanno portato. Nel peggiore dei casi si
fisserebbero dei parametri generali, di gradimento alla massa, che finirebbero
per penalizzare immancabilmente le persone migliori e meno inquadrate (le cui
abitudini creative, come noto, sono molto invise al gusto medio e sfuggono alle
medie). Inoltre, finirebbero per indirizzare l’attività creando una forse
distorsione di quelle che sono le libertà intellettuali basilari insite al
nostro ruolo. Non è un caso che tutte queste proposte parlino di valutazione,
ma in nessuna si dica esattamente come si vorrebbe farla (il che la dice lunga
sulla serietà delle proposte stesse). Quindi, credo che chiunque voglia
avanzare proposte del genere, debba farlo presentando una descrizione seria di
come andrebbe fatta la valutazione in dettaglio, altrimenti si parla del nulla.
Altrimenti, meglio tacere, meglio che fare brutta
figura.
(3) La proposta è descritta con un
linguaggio che trovo di sapore demagogico. Si parla di vassallaggio, di
baronaggio, di sistema feudale, si elencano tutti i peggiori luoghi comuni che
troviamo sulla stampa quando si parla di università e che ora vengono usati
proprio da parti dell’università stessa. Personalmente lo trovo intollerabile.
Si parla addirittura di apartheid. Si usano paroloni. Si parla di “omaggio vassallatico-beneficiario”
come se le abitudini di alcuni fossero quelle di tutti. Il tutto atto a far
sembrare lo status quo italiano una singolarità innaturale e obsoleta. Invece è
tutto il contrario: in tutto il mondo i professori universitari si dividono in
tre fasce e il passaggio è regolato da meccanismi spesso molto più selettivi
dei nostri e, soprattutto, fortemente competitivi. Nessuno si sogna di
sindacare questa organizzazione, poiché serve. Serve a creare incentivi, serve
a evitare il caos, serve a creare merito. Il ruolo unico esiste solo al liceo,
che molti segretamente vedono come il modello a cui arrivare. Il ruolo unico
farebbe diventare l’università italiana un qualcosa che vista da fuori
apparirebbe come una strambissima singolarità mondiale.
(4) Una cosa del genere, è bene
ripeterlo, servirebbe soltanto a completare quel processo di appiattimento
verso il basso, di svilimento delle eccellenze e di livellamento generale a cui
da anni assistiamo nelle università italiane (con la soddisfazione di qualcuno,
evidentemente). Un malinteso senso di democrazia, che vuol dire uguali
opportunità per tutti, non uguali meriti per tutti, ha già portato il
meccanismo decisionale a essere spesso preda di assemblee dalle quali non
possono che emergere persone che non vengono selezionate con meccanismi di
merito. In altre parole, si parla di governare l’università con meccanismi
politici. Qui si rafforzerebbe questa tendenza.
(5) Trovo intollerabile il legare la
proposta del ruolo unico, che mi pare serva ad assecondare i desideri di
qualcuno che mal sopporta le carriere fatte per merito, al problema del
precariato, dei giovani ricercatori etc. Sono strumentalizzazioni che si
commentano da sole. Le due cose non sono legate. Anzi, per quanto riguarda le
persone di eccellenza scappate all’estero, esse verrebbero soltanto
incoraggiate a rimanere dove sono: con davanti non la possibilità di una
carriera rapida e meritocratica, ma di un percorso burocratico e automatico, al
pari di altri meno talentuosi. Questo quando nei paesi più avanzati la carriera
può essere fulminea per i migliori (ma si sa, è questo un concetto fastidioso
per alcuni). Non solo, ma il progressivo avanzamento automatico di tutti
andrebbe a drenare le risorse, impedendo a nuovi e freschi talenti di entrare e
farsi spazio. D’altra parte, cos’altro ha fatto l’ope legis (che qui si
pretende di stabilizzare) se non tagliare le gambe a tanti giovani e creare
colli di bottiglia generazionali?
(Fonte: G. Mingione, commento a un articolo su Roars 23-03-2015)
DOCENZA SU TRE
LIVELLI E DISTINZIONE FRA TEACHING UNIVERSITY E RESEARCH UNIVERSITY
Fra le cose assolutamente da fare vi è quella della Docenza articolata in
tre livelli, equivalenti agli attuali Ruoli di Ricercatori, Associati e
Ordinari. Sempre nei Paesi con i quali dovremmo competere, esistono le figure
di Assistant, Associate e Full Professors, tutti docenti di ruolo. Per passare
dalla posizione inferiore a quella superiore, non si bandisce nessun concorso.
Ogni Università stabilisce chi deve passare di categoria (con conseguente
aumento salariale) sulla base della produttività scientifica (prevalente) e
didattica di ognuno.
Vengo, infine, alla necessità di fare una chiara distinzione fra Teaching
University e Research University. La Teaching University dovrebbe corrispondere
all'insegnamento nella Laurea Triennale, mentre la Research University dovrebbe
identificarsi con la Laurea Magistrale e il Dottorato di Ricerca. Va da sé che
i Docenti non in possesso di adeguato curriculum scientifico non dovrebbero
accedere alla Research University, e conseguentemente non dovrebbero avere
accesso al tutoraggio di Dottorandi. Questo è quanto succede ed esiste in tutto
il mondo avanzato, dagli USA, all'Europa, all'India, alla Cina. (Fonte: B.
DeVivo, http://tinyurl.com/n5lxaqp 24-03-2015)
STUDENTI
STUDENTI. DIRITTO ALLO STUDIO IN UN PAESE PER STUDENTI
Sono tre le aree chiavi
dell’istruzione universitaria: la ricerca, la didattica e i servizi agli
studenti, come in modo lungimirante sostiene il presidente del Deutsches
Studentenwerk, l’associazione nazionale tedesca degli enti per il diritto allo
studio. Perché il sostegno agli studenti: garantisce pari opportunità di
accesso agli studi universitari (attraverso l'aiuto economico); assicura delle
condizioni di vita socialmente sostenibili (tramite mense e residenze);
favorisce il completamento del percorso accademico (attraverso i servizi di
counseling); supporta gli studenti internazionali (con programmi culturali);
facilita la transizione nel mondo del lavoro (con i Career Services).
Questo è il significato che assumono
i servizi agli studenti in Germania. Mentre “in Italia questa catena -
didattica e ricerca - già debole, ha al suo interno un anello ancora più debole
che sono i servizi agli studenti.
Un Paese per studenti almeno
“garantisce la borsa a tutti gli studenti che ne hanno diritto, con criteri di
accesso uguali a prescindere dalla sede di studio”, mentre nel 2013/14, 46.000
studenti idonei non hanno ottenuto borsa di studio e a seconda della sede di
studio è stato richiesto un ISEE diverso;
È chiaro che “non sarà il mago
Silvan a far scomparire la figura dell’idoneo non beneficiario ma semplicemente
la revisione del sistema di finanziamento, ovvero non solo più risorse, ma
bisogna chiarire chi paga che cosa tra Stato e Regioni. Siamo l’unico Paese che
finanzia le borse di studio con tre fonti di finanziamento, lo Stato, le
Regioni e le entrate da tassa regionale per il diritto allo studio [a carico
degli studenti], che non è in grado di dare la borsa a tutti [gli idonei]”; non
supporta un numero congruo di studenti perché solo l’8% degli iscritti è
borsista; non dispone di un numero congruo di residenze perché soltanto il 2%
degli studenti in Italia alloggia in una residenza universitaria. (Fonte:
Redazione Roars 23-03-2015). Si veda anche la presentazione con 21 slide di F.
Laudisa (Siamo un paese per studenti) al convegno YOUniversity Lab., Roma 26-03-15.
STUDENTI. 50.000 ITALIANI ALL’ESTERO
Nel 2006 i nostri connazionali
iscritti a un corso di laurea in una nazione straniera erano 34.000, numero che
oggi è salito fino a superare quota 50.000 (dati Unesco). Dati che parrebbero
esigui se confrontati con quelli degli iscritti agli atenei nostrani (circa
1.670.000 nell’anno accademico 2013-2014), ma considerando lo sforzo economico
che una scelta del genere comporta e il periodo storico in cui ci troviamo, non
sono certo da trascurare. Soprattutto se si tiene presente che la cifra è più o
meno pari al numero di studenti dell’Università di Firenze, uno degli atenei
più frequentati d’Italia. Tra le europee, le preferite dagli studenti italiani
sono le università di Regno Unito, Austria, Francia e Germania. Trasferirsi in
uno dei paesi dell’UE piuttosto che in uno che non ne fa parte ha molti
vantaggi: gli iscritti comunitari godono degli stessi diritti sia che siano
cittadini dello stato in cui è situato l’ateneo, sia che provengano da un altro
dei 27 paesi dell’Unione Europea. Al di fuori dei confini europei, invece, non
è sempre così e la validità dei titoli di studio può variare di molto da paese
a paese. (Fonte: universita.it 24-03-2015)
STUDENTI. IL NUOVO ISEE PUÒ PENALIZZARE BORSE DI STUDIO
La fascia di contribuzione aumenta
perché si riceve la borsa di studio. Sembra un paradosso, ma è quello che
accadrà a causa dell’introduzione del nuovo ISEE. L’allarme arriva dagli
studenti, che si scagliano contro il sistema di calcolo dell’Indicatore della
situazione economica equivalente per l’università (ISEEU) entrato in vigore dal
1° gennaio 2015, che include le borse di studio tra i redditi. Secondo gli
studenti, i nuovi parametri per il calcolo dell’ISEE faranno sembrare più
ricchi coloro che in realtà non lo sono e proprio per questo ricevono la borsa
di studio. Quello che accade esattamente con il nuovo ISEE è che la borsa di
studio viene inclusa tra i redditi e, sebbene non venga considerata per
l’ottenimento dello stesso beneficio l’anno successivo, essa incide comunque
sulla determinazione della fascia di contribuzione per quanto riguarda le tasse
universitarie. Su questo punto le associazioni studentesche stanno cercando di
aprire un dialogo con gli atenei, per
ottenere una revisione delle aliquote. L’inclusione delle borse di studio tra i
redditi prevista dal nuovo ISEE rischia di incidere anche sulle agevolazioni
ottenute dal nucleo familiare nel suo complesso, con la possibilità che la
famiglia perda il diritto ad altre agevolazioni, come lo sconto sulle bollette.
Un altro punto contestato dagli studenti è la modifica riguardante il reddito
percepito dai fratelli. Prima era calcolato al 50 per cento, con il nuovo ISEE,
invece, è conteggiato interamente. (Fonte:
universita.it 23-03-2015)
STUDENTI. ORIENTAMENTO PRE-UNIVERSITARIO AGLI STUDI DI MEDICINA
Contro il caos dell'ammissione alla ex
facoltà di medicina, l'Università «Federico II» di Napoli - prima in Italia -
attua un progetto “formazione in medicina”. Apre agli studenti del IV e V anno
di liceo interessati alla ex facoltà e li riunisce nell'aula universitaria per
un percorso formativo di orientamento. Dopo una giornata di approfondimento sull’offerta
didattica, sulle modalità di partecipazione e frequenza, sulle opportunità ed
aperture post laurea, i 300 liceali aderenti hanno risposto a un questionario.
Sulla scorta delle risposte, l'80% circa, per tre giorni farà il «medico per
prova». Sarà ammesso ed accompagnato nelle corsie mediche e chirurgiche, nei
laboratori di esami e ricerca clinica e di radiologia, in aula. «Noi
auspichiamo di selezionare ragazzi tutti motivati e quindi - dice il rettore G.
Manfredi - responsabili e coscienti della propria scelta. Fare il medico è
opzione difficile, è darsi al prossimo, mettersi in discussione, aggiornarsi
sempre, indossare un abito perenne». «Scampato il rischio dell'ammissione
"alla francese" - dice l'on Calabrò - confermato l'accesso
programmato, proponiamo l'abolizione/riduzione dei quiz di logica a favore di
quelli scientifici e la preparazione, da parte del ministero, di un volume dal
quale - e solo da quello - estrapolare i quiz». (Fonte: N. Simonetti, La
Gazzetta del Mezzogiorno 01-04-2015)
STUDENTI. TEST PER L’ACCESSO A MEDICINA
È il ministro dell'istruzione
Stefania Giannini ad annunciare che con i Test d'ammissione a Medicina si parte
l'8 e il 9 settembre, spiegando che ci sarà meno spazio alle domande di cultura
generale. Tramonta, pertanto, l'esperimento dello scorso anno di anticipare il
test ad aprile, contro di cui si erano sollevate le critiche di studenti e
docenti per la sovrapposizione con la maturità. Ma si archivia anche l'idea di
abolire del tutto il test, come aveva promesso la stessa Giannini lo scorso
anno. È l'ennesimo rinvio del c.d. modello francese, cioè l'ingresso libero a
tutti con sbarramento alla fine del primo anno di corso. «Il mio auspicio —
spiega il ministro — è che in qualche tempo, forse anche in un anno, si possa
arrivare ad avere le condizioni per il cosiddetto modello alla francese». Che
intanto già dallo scorso anno è criticato e ripudiato proprio in Francia da
massime autorità dell’istruzione. Il ministro annuncia anche: «A partire da
questo anno scolastico» si faranno «test di autovalutazione e autocollocamento,
che naturalmente non hanno nessuna funzione selettiva, ma danno allo studente
la misura della comprensione della propria attitudine e delle proprie
competenze acquisite». L'obiettivo è orientare gli studenti, perché il numero
di aspiranti camici bianchi in Italia è «ancora una massa critica anomala»:
delle circa 230.000-240.000 matricole che ogni anno entrano neIle università
italiane circa 70.000 sono aspiranti medici. (Fonte:
ItaliaOggi 24-03-2015)
VARIE
AFAM. PRECARIATO DA RISOLVERE
L’intero sistema dell’alta
formazione artistica e musicale in Italia si regge in parte sui professori con
contratti, ormai decennali, a tempo determinato, con punte percentuali del 40%,
mentre la pianta organica delle Accademie è ferma a 25 anni fa quando gli
iscritti e gli indirizzi di specializzazione erano un quinto rispetto agli
attuali. Nelle Istituzioni AFAM c’è un problema reale che si chiama precariato
storico inserito nelle graduatorie nazionali vigenti e che deve essere risolto
prima di qualsivoglia riforma. (Fonte: da una lettera di docenti Afam
pubblicata da Roars 16-03-2015)
“ALL'UNIVERSITÀ TUTTO TRUCCATO”
PERCHÉ NON È PROMOSSO UN PROF CON UN SOLO LAVORO SU RIVISTA INTERNAZIONALE
Un giornalista de L’Espresso si
cimenta con l’intervista-recensione a un “un ex dottorato” (sic), autore di un
libro non pubblicato, il quale si esibisce in una requisitoria che tocca tutti
o quasi i topoi della letteratura sulle malefatte baronali. Il giornalista
dell'Espresso vuole farci credere che l'università non è in grado di
riconoscere il merito perché non ha accolto a braccia aperte un ammirevole
studioso come M. F. Beh, se c’è qualcosa
di ammirevole, è che l'autore dell'articolo non sia nemmeno sfiorato dal dubbio
che quanto ha scritto potrebbe dimostrare esattamente il contrario: nei suoi
“quasi dieci anni di esperienza accademica” M. F. ha collezionato una sola
pubblicazione scientifica su rivista internazionale, cui si aggiunge un solo
altro lavoro scritto in inglese, apparso in un volume che raccoglieva gli atti
di un convegno. Ai lettori giudicare se sia più grave la mancanza di
meritocrazia nel reclutamento accademico o in quello dei giornalisti. Si invita
a riflettere, soprattutto i più giovani, che il sistema universitario italiano
ha prodotto, date le risorse e dato il paese, moltissimo. In nessun settore
l’Italia come paese si colloca tra i primi posti al mondo eccetto che nella
qualità della ricerca scientifica in molti campi. È un sistema da preservare e
migliorare non da buttare. Chi propone ricette mai sperimentate sul pianeta
Terra e/o chi si affida allo smantellamento seguendo facili slogan che
nascondono il vuoto progettuale, è il vero protagonista e responsabile del
degrado attuale. (Fonte: Redazione Roars 18-03-2015)
DIPARTIMENTI. RACCOMANDAZIONE CUN SULLA NUMEROSITÀ MINIMA
In una Raccomandazione il CUN si è
espresso a proposito della numerosità minima dei dipartimenti, in particolare a
salvaguardia della ricerca e della formazione in aree disciplinari a bassa
numerosità di professori e ricercatori. Il CUN ha fatto notare che il rispetto
del limite numerico ‘assoluto’, non ponderato in relazione alla numerosità
delle Aree Disciplinari CUN, seppur ispirato a criteri di semplificazione ed
efficienza delle strutture, ha d’altro canto condotto alla perdita di numerose
specifiche identità, spesso confluite in Dipartimenti multidisciplinari, talora
del tutto eterogenei. Si richiede un intervento legislativo di modifica, volto
a consentire la deroga ai criteri minimi fissati esclusivamente per i
Dipartimenti costituiti dalla stragrande maggioranza dei professori e
ricercatori di Ateneo appartenenti a un’Area Disciplinare CUN. (Fonte: https://www.cun.it/uploads/5748/ra_2015_01_29.pdf?v 05-02-2015)
LA TERZA MISSIONE DELL’UNIVERSITÀ
Si parla di “terza missione”
dell’Università per sottolineare che gli atenei devono assumere un nuovo
fondamentale obiettivo accanto a quelli tradizionali dell’alta formazione e
della ricerca scientifica: il dialogo con la società. In realtà il termine
“terza missione” è ambiguo perché usato per indicare una molteplicità di
attività che mettono in relazione la ricerca universitaria e la società.
Una prima fondamentale tipologia è
quella delle attività di trasferimento tecnologico finalizzate alla
valutazione, alla protezione, al marketing e alla commercializzazione di tecnologie
sviluppate nell’ambito dei progetti di ricerca condotti dal mondo accademico e,
più in generale, alla gestione della proprietà intellettuale in relazione con
gli stessi progetti. Una seconda modalità di interazione tra mondo della
ricerca e società riguarda la produzione di beni pubblici che aumentano il
generale livello di benessere della società, aventi contenuto culturale,
sociale, educativo e di sviluppo di consapevolezza civile. La necessità di tale
missione è anche data dall’emergere di contesti di studio e ricerca che sempre
più vanno a incrociare aspetti etici della società e a occupare in maniera
crescente la comunicazione con il pubblico: da temi fondamentali per il futuro
dell’umanità, come le questioni dell’energia e dei cambiamenti climatici, a
temi controversi come le cellule staminali, gli Ogm e le nanotecnologie, che
hanno portato la scienza a essere un elemento sempre più presente nel dibattito
pubblico. Per offrire ai cittadini la possibilità di operare scelte
democratiche anche in settori legati alla scienza e alla tecnologia è
necessario fornire adeguati strumenti per affacciarsi in maniera consapevole e
informata a tali scelte e sviluppare un sentimento di cittadinanza scientifica
che permetta a tutti di contribuire al dibattito pubblico su temi di carattere
scientifico e tecnologico. (Fonte: I. Susa, scienzainrete marzo 2015)
LIMITI DI SPESA DELLE UNIVERSITÀ PER IL TRIENNIO 2015-2017
Disposizioni per il rispetto dei
limiti delle spese di personale
e delle spese di indebitamento da parte
delle università, per il
triennio 2015-2017, a norma dell'articolo 7,
comma 6, del
decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 49. (15A02094)
(GU n. 66 del 20-3-2015). Tutte le disposizioni qui.
ATENEI. IT
FONDI ERC. PIÙ DELLA METÀ DELLE UNIVERSITÀ ITALIANE PREMIATE SONO MILANESI
O LOMBARDE
Due milioni per un progetto della
Statale. Tre milioni per altri due progetti presentati da professori della
Bicocca. Sono stati distribuiti in questi giorni i preziosi Erc, fondi europei
per la ricerca, «grant» che vengono assegnati al singolo ricercatore o
professore che può decidere in quale ateneo realizzare con successo il proprio
progetto. Più della metà delle università italiane premiate sono milanesi o
lombarde, registra oggi l'università Bicocca: «Su sedici grant, nove sono
andati ad atenei milanesi». Registrano il successo i rispettivi atenei, allora.
Ma resta il tema di fondo della ricerca «dimenticata». E a lanciare l'allarme
sono anche le università appena premiate. «Sui finanziamenti nazionali credo
che il governo stia lavorando. Auspichiamo che venga definito al più presto il
fondo per la ricerca di base», dice il rettore Cristina Messa. Su finanziamenti
come gli Erc, dove la gara è competitiva, la risposta non è la stessa in tutto
Il Paese. «Qui l'indice di successo è nella media europea — sostiene il pro
rettore alla ricerca della Statale, Chiara Tonelli — In altre regioni è del 5
per cento, contro il nostro 10 "europeo"». Poi pesa l'attrattività
dei nostri atenei. «Abbiamo i cervelli, perché gli italiani, compresi quelli
che hanno scelto di completare la formazione all'estero, di finanziamenti ne
ottengono eccome. È il Paese che non è sempre attrattivo», dice Tonelli.
Secondo il prorettore della Statale ecco le criticità: «L'eccessiva burocrazia
è percepita come un ostacolo. Per alcuni settori, come le scienze della vita e
le scienze dure poi c'è la necessità di accedere a infrastrutture di
avanguardia che non tutti gli atenei hanno. E infine i bassi salari. Per queste
ragioni quelli che scelgono di restare sono davvero bravi. Non c'è sostegno
oggi nel nostro Paese né alla formazione né alla ricerca». (Fonte: F. Cavadini,
CorSera Milano 01-04-2015)
UE. ESTERO
IL FUTURO DELL’EUROPA NELLA SCIENZA
A ridosso della prima grande guerra
mondiale, Albert Einstein e Georg Friedrich Nicolai pubblicarono un Manifesto
con il quale esortarono gli scienziati e gli artisti a opporsi al conflitto tra
le nazioni e a impegnarsi per costruire la pace. I due scienziati invitavano
poi i giovani, “buoni europei di domani”, a fare dell’Europa una casa comune.
Siamo partiti da quell’invito e dalla sua straordinaria attualità con questi
anni di crisi e di radicalizzazione dei fondamentalismi, perché siamo convinti
che, ancora una volta, la comunità degli scienziati possa e debba far sentire
la sua voce e dare un contributo importante a invertire la rotta. Non è
secondario che alcune recenti azioni terroristiche si siano rivolte contro
persone e luoghi a vario titolo collegati alla cultura, alla libertà, al
dissenso, alla laicità. Colpire la conoscenza vuol dire spezzare anime,
devastare l’identità, la memoria e quindi il futuro e le libertà. Indebolire le
democrazie, sottrarre libertà fa aumentare il senso di insicurezza nelle
persone e devasta la stessa produttività della ricerca scientifica, perché
anch’essa necessita di libertà, in quanto esprime la forma più alta di
creatività e di solidarietà fra le persone. Per questo la scienza e la ricerca
da sempre rappresentano baluardi e strumenti per contrastare ogni forma di
violenza e oscurantismo e rinforzare la pace, la libertà e la democrazia. Alla
Scienza, a questa idea di conoscenza, inoltre noi possiamo, come nell’auspicio
di Einstein e Nicolai, affidare il futuro dell’Europa, affinché possa lanciare
risposte migliorative alle condizioni di vita individuale e collettiva,
attuando modelli alternativi di sviluppo e crescita qualitativa. (Fonte: dall’intervento
del Presidente del Cnr Luigi Nicolais nel corso dell’incontro Science: Europe,
Democracy and Peace, scienzainrete marzo 2015)
UNIVERSITÀ. COMBINARE L’ECCELLENZA CON L’ESPANSIONE
In ciascun Brics (Brazil, Russia, India, China e South Africa) è
ormai chiaro che l'eccellenza va combinata con l'espansione (l'India, per
portare il tasso d'iscrizione universitaria allo stesso livello della Cina, che
rimane peraltro inferiore a quello del Brasile, dovrà garantire 14 milioni di
posti in più nei prossimi cinque anni) e l'equità (investire maggiori risorse
in termini assoluti, senza limitarsi a trasferire quelle esistenti dalle
istituzioni medie alle world-class universities). L'anno scorso il premier Li
Kegiang ha enfatizzato l'importanza di sviluppare la formazione tecnica
superiore, cioè i programmi biennali o
triennali che entro il 2020 dovranno accogliere quasi 15 milioni di studenti. E
per raggiungere questo obiettivo nessun timore a indicare la strada della
conversione di 600 università in vocational colleges (che già sono 1300), oltre
che l'apertura al settore privato.
Insomma, per discutere seriamente di
università, piuttosto che citare a sproposito il concetto di democrazia per
fare il processo alle intenzioni di chi si limita in fondo a constatare
un'ovvietà, sarebbe meglio capire quali sono le diverse funzioni di un sistema
di istruzione superiore a struttura piramidale.
Per risollevarsi e competere nel
mondo reale, sempre più complesso e in cui le economie emergenti intaccano le
rendite di posizione dell'Occidente, l'Italia ha bisogno di scrollarsi di dosso
l'illusione di poter sopravvivere con l'aurea mediocrità. Va riscoperto il
gusto dell'ambizione all'eccellenza: non sono certo rari i dipartimenti,
università e business schools che hanno mantenuto il passo con i migliori
omologhi esteri, come dimostrato dal fatto che il peso delle pubblicazioni italiane
sul totale europeo (11,2%) è ampiamente superiore al livello della spesa in
R&S (appena il 7,8%) (dati Observatoire des sciences et des techniques).
Altri atenei sono necessariamente meno prestigiosi e sarebbe ingenuo e
paradossale valutarli sulla base dei ranking internazionali. Altrettanto
inappropriato sarebbe interpretare il diritto allo studio come un diritto alla
"vita senza foga": come le omologhe nel resto del mondo, anche le università
meno blasonate e specializzate nell'insegnamento vanno valutate, in questo caso
soprattutto sulla base della capacità di aumentare il numero di giovani dotati
delle competenze trasversali di cui tanto ci sarà bisogno per risalire la
china. In ambedue i casi, è la qualità a essere premiata. (Fonte: A. Goldstein,
IlSole24Ore 08-04-2015)
EU. STARTING
GRANT E ADVANCED GRANT
Per capire quali sono i luoghi
migliori per fare ricerca una buona indicazione sono i finanziamenti dello
European Research Council, conosciuti come grant ERC. Si tratta di bandi
diretti alla ricerca di punta e consistenti in termini economici, assegnati a
un singolo scienziato che può poi decidere di svolgere la propria attività dove
desidera. I cosiddetti starting grant,
in particolare, sono fondi diretti a giovani ricercatori che hanno conseguito
il dottorato da non più di sette anni, dunque al massimo sulla quarantina. Dal
2009 ne sono stati concessi poco più di 2.200: ma chi ne ha presi di più? Il
21,6% è andato a programmi di stanza nel Regno Unito, mentre Germania e Francia
– entrambe intorno al 14% – sono più o meno simili. L’Italia è ottava, con 124
grant e una percentuale poco inferiore a quella della Spagna. Per i ricercatori
più esperti esiste invece un’altra classe di finanziamenti chiamati advanced grant: in cinque anni l’Europa
ne ha assegnati 1700. Qui l’Italia va meglio e si piazza al sesto posto
ricevendo il 6,3% dei progetti. Regno Unito, Francia e Germania restano però in
testa: la prima anzi aumenta la fetta di finanziamenti ricevuti arrivando quasi
a un quarto del totale. Bisogna però ricordare che stiamo parlando di nazioni
diverse – non solo per popolazione, ma anche per quanto investono in ricerca.
Secondo i dati Eurostat il numero di ricercatori varia molto dall’una
all’altra: per esempio in Germania sono il triplo che in Italia e un terzo più
che in Francia. Se vogliamo capire chi è più bravo ad accaparrarsi i fondi non
possiamo che tenerlo a mente. In questo modo scopriamo che non sempre essere grande
paga. Svizzera e Olanda hanno ottenuto pochi Grant, nel complesso, ma
considerato il numero di ricercatori di cui dispongono sono stati molto più
efficaci di altri. Proprio la Svizzera è il paese in cui questo rapporto – una
misura rozza ma in qualche modo indicativa – è più elevato: qui gli starting Grant
ricevuti ogni 10mila ricercatori sono stati 41, contro i 32 dell’Olanda. La
ricerca inglese continua a fare bene, e qui è terza con 19,7. L’Italia fa
leggermente peggio della Francia, e poco meglio di Spagna e Germania.
(Fonte: D. Mancino, http://tinyurl.com/pjdfydo
28-03-201%)
Tabella. Starting grant ricevuti ogni 10mila ricercatori in
Paesi dell’EU.
FRANCIA. LES UNIVERSITES TOUJOURS EN ATTENTE DE LEUR BUDGET
Le malaise monte dans les
universités et les écoles d’ingénieurs publiques au budget supposé sanctuarisé
et en réalité de plus en plus incertain. Les universités et les écoles
naviguent dans le brouillard: elles n’ont toujours pas reçu la notification de
leurs dotations publiques pour 2015. Le ministère de l’éducation nationale, de
l’enseignement supérieur et la recherche attend toujours les rapports de
l’Inspection générale des finances et de l’Inspection générale de
l’administration de l’éducation nationale et de la recherche pour le notifier
aux universités. (Fonte: Le Monde 26-03-2015)
SVIZZERA. POTREBBE TROVARSI TAGLIATA FUORI DALL'ACCESSO ALLE BORSE DEL
CONSIGLIO EUROPEO DELLE RICERCA
Le conseguenze della votazione del 9
febbraio 2014 contro l'immigrazione di massa preoccupano il rettore
dell'Università di Zurigo Michael Hengartner, entrato in carica un anno fa.
L'ateneo dovrà lottare per poter reclutare i cervelli migliori per la ricerca.
Il danno più grave dell'iniziativa è di natura soggettiva. I ricercatori
stranieri non sono più sicuri di essere i benvenuti in Svizzera, ha dichiarato
oggi Hengartner davanti ai media, presentando un bilancio del suo primo anno
alla testa dell'università. L'accesso alle borse del Consiglio europeo della
ricerca, da cui la Svizzera potrebbe trovarsi tagliata fuori, sono un criterio
determinante per poter attirare gli scienziati migliori, ha aggiunto il
rettore. Altro motivo di preoccupazione è l'esclusione dai programmi europei di
scambio per studenti e ricercatori. In questo ambito, l'Università di Zurigo è
comunque riuscita a rinnovare il 90% dei contratti con gli atenei stranieri. (Fonte: http://plus.cdt.ch
25-03-2015)
OLANDA. CRESCE LA PROTESTA STUDENTESCA
In Olanda il 24 febbraio scorso gli
studenti hanno occupato il palazzo del Bungehuis, sede della Facoltà umanistica
dell’UvA, Università di Amsterdam. A dare il via alle proteste è stata la
discussione di un piano di riforme (Pluriel 2016) che prevedrebbe una
governance non elettiva per gli Atenei, la chiusura di alcuni corsi di studio,
soprattutto nelle aree umanistiche, e la fusione di dipartimenti, ma che sembra
più in generale mettere in discussione l’attuale assetto dell’università
pubblica in Olanda. Le rivendicazioni degli studenti mirano alla realizzazione
di una “nuova università” (De
Nieuwe Universiteit) che
metta al centro delle politiche pubbliche studenti e ricercatori, con una
governance più democratica e maggiore trasparenza nelle finanze universitarie.
(Fonte 25-03-2015)
UK. COSTI ECCESSIVI DELLE LAUREE E SEI ALTERNATIVE PER FINANZIARE
L’UNIVERSITÀ
La Higher education Commission, in
un rapporto
(Too Good to Fail: The financial sustainability of higher education in England)
dedicato al finanziamento delle università inglesi, conclude che introdurre
“forze di mercato in un settore che non funziona come un mercato” non è per
nulla una soluzione per il miglioramento del sistema universitario. I conti che
la Commissione fa in tasca alla riforma inglese, che ha portato pochi anni fa
alla lievitazione delle rette universitarie fino a 9.000 sterline l’anno, non
cessano di far discutere e sono decisamente allarmanti: il 73% degli studenti
non ripagherà mai completamente il debito contratto. Di fatto – si commenta nel
rapporto – il governo ha scelto di finanziare indirettamente l’università
cancellando domani i debiti degli studenti anziché investire in maniera più
diretta oggi. Il risultato è un sistema in cui il governo spende, ma senza
alcun beneficio, arrivando a danneggiare anche “la percezione del valore
pubblico associato all’educazione superiore”.
Chi ha usufruito dell’università
quando non c’erano rette ha poi contribuito ai costi dell’educazione superiore
pagando tasse elevate come cittadino; chi entra all’università oggi
contribuisce due volte, pagando le rette ora e le tasse poi; chi si iscriverà
tra 10 anni contribuirà tre volte, pagando le rette prima, le tasse poi, e
infine ripianando i debiti non ripagati di chi lo ha preceduto. Un patto tra
generazioni decisamente a senso unico.
La Commissione suggerisce sei
opzioni per finanziare l’università. Le sei opzioni sono riassunte nell’articolo
de IlBo che è la fonte di questa nota. (02-04-2015)
ALBANIA. MANIFESTAZIONI DI STUDENTI E DOCENTI CONTRO LA RIFORMA
UNIVERSITARIA
Migliaia di studenti e professori
universitari albanesi si sono riuniti ieri a Tirana per una marcia di protesta,
la più grande dall’inizio delle manifestazioni, oltre un anno fa, per esprimere
il loro dissenso contro la riforma del sistema accademico varata
dall’esecutivo, chiedendo al premier Edi Rama di ritirare la legge. A dire dei
rappresentanti del comitato Për Universitetin, promotore della contestazione,
questo provvedimento consentirebbe al governo di porre sotto il proprio
controllo l’intero comparto universitario nazionale e, contemporaneamente, di
deviare i fondi destinati a quest’ultimo verso gli istituti privati,
compensando la spesa con l’aumento delle rette. Opposta invece la versione
dell’esecutivo, il quale afferma che l’incremento delle tasse servirà solo ad
aumentare la disponibilità di fondi per l’istruzione pubblica e che nessuno
punta a limitare l’autonomia dell’Università; la nuova legge, sempre secondo il
governo, avrà invece il fine di garantire a tutti gli studenti una parità di
trattamento a prescindere dal loro reddito.
In seguito ai provvedimenti di
liberalizzazione dell’economia, richiesti da Bruxelles a Tirana come
prerequisito per il suo ingresso nell’Unione Europea, sono stati aperti nel
paese diversi istituti universitari privati, destinati però principalmente a
studenti con un reddito elevato; il taglio dei fondi all’istruzione pubblica,
dovuto anche alla mancanza di liquidità nelle casse statali, rischia quindi di
rendere l’accesso alla formazione superiore un privilegio per pochi. (Fonte: G.
Dolzani, www.notiziegeopolitiche.net
09-04-2015)
USA. LA CORSA A COLLEGE SEMPRE PIÙ CARI CHE NON DANNO PIÙ CERTEZZE
In primavera moltissime famiglie
americane coi figli adolescenti vivono col fiato sospeso: ogni anno si dice che
non ha più senso questa corsa a college sempre di più cari e che non danno più
certezze; ti iscrivi pensando a un certo lavoro e prima di laurearti quel
mestiere non esiste già più. Ogni anno arrivano in libreria saggi che
annunciano l'implosione del sistema scolastico (ora tocca a Kevin Carey della
New America Foundation col perentorio “La fine del College”). Ogni anno sembra
quello buono per la transizione alle università online destinate a sostituire
quelle fisiche o, almeno, a calmierarne i costi coi loro corsi digitali, i
«Mooc». Alla fine, però, l'unica tecnologia che fa veramente progressi è quella
utilizzata per selezionare le domande di accesso ai college di qualità — 3,5
milioni solo quelle che passano attraverso il portale web del sistema Common
Application — mentre i «Mooc» non decollano: le università accettano qualche
corso digitale, ma l'interazione nelle aule e nel campus è giudicata
insostituibile. E i costi restano stellari. Del resto ci sono intere città che
vivono sulle loro accademie. Col tempo si arriverà a un sistema ibrido meno
costoso e più flessibile con l'introduzione degli Spoc (corsi digitali su
discipline molto specifiche organizzati per un numero limitato di studenti). Ma
intanto la novità che fa più discutere, nel 2015, è la scelta di alcuni (ancora
pochi) college Usa di semplificare la selezione dei candidati sostituendo il
test di profitto in inglese, matematica e nelle altre materie e il saggio
scritto con un video nel quale il candidato «si racconta». Preparato? Chissà.
Ma capisci se è sveglio e intraprendente. (Fonte: M. Gaggi, CorSera 27-03-2015)
Grafico. Università degli USA con elevata reputazione che stanno accogliendo un
maggior numero di studenti (Fonte. Time 30-03-15)
LIBRI
UNIVERSITÀ 3.0 – QUATTRO ANNI VISSUTI PERICOLOSAMENTE
Autore: Redazione Roars. Ed.
eCommons, 2015, pp. 240.
“Università 3.0 – Quattro anni
vissuti pericolosamente”, un libro che raccoglie e commenta alcuni dei più
significativi articoli apparsi su questo blog per raccontare l’università post
- Gelmini osservata con l’occhio critico (e ironico) della Redazione di Roars.
Frutto del lavoro congiunto di tutta la redazione (coordinato da Marco Viola),
il libro ospita e sistematizza alcuni contributi scritti dai redattori e
apparsi (anche) sul blog, con l’aggiunta di un articolo a firma Pietro De
Nicolao e due articoli a firma di Federica Laudisa. L’organizzazione per
capitoli, pur non ambendo a fornire in sole 240 pagine una “storia totale”
dell’università e della ricerca, mira a offrirne un quadro il più poliedrico
possibile. L’editore ha messo a disposizione il libro sia in formato cartaceo sia
in formato elettronico.
Lo scopo principale di questo libro
è prendere in esame le vicissitudini dell’università e della ricerca italiane,
in particolare dopo la riforma Gelmini del 2010, con una prospettiva diversa da
quella usualmente adottata dai media e dal dibattito politico. Per banale che
sia, vale la pena di precisare che il libro non pretende di rappresentare una
sintesi esauriente della storia dell’università e della ricerca italiane: per
ragioni di spazio e di competenze sono stati omessi alcuni temi importanti,
come ad esempio quello della governance interna degli atenei, e trattato
piuttosto rapidamente alcuni altri, come la spinosa questione dei ranking degli
atenei. (Fonte: la presentazione degli autori 01-04-2015)
STORIA DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA- DALL'UOMO DA LAVORO AL
LAVORO PER L'UOMO
Autore: Nicola D'Amico. Ed. Franco
Angeli, Milano,2015, pp. 730.
Se oggi abbiamo troppi precari fra i
giovani laureati, lo dobbiamo agli effetti di una scolarizzazione protratta nel
tempo e indistinta; se oggi abbiamo una crescente difficoltà a fare mobilità
professionale nei vari settori della vita economica e sociale, lo dobbiamo alla
crescente fragilità delle sedi di formazione professionale degli adulti; se
oggi abbiamo stanchezza collettiva di fronte alla pesantezza anche finanziaria
dell’apparato scolastico, lo dobbiamo all’inconsapevolezza che ha guidato le
avventure della scolarizzazione a tutti i costi. Come sarebbe bello, e giusto,
se riuscissimo a riportare in equilibrio il rapporto fra formazione scolastica
e lavoro! Ma sono ben cosciente che un tale obiettivo incontra oggi oggettive
forti difficoltà. Da una parte, infatti, è cambiata la base del primato
dell’opzione scolastica, che oggi si poggia sulla tematica, quasi sul mito,
dell'“eccellenza”: del fattore umano, degli studi, dell’università, della
ricerca scientifica, degli atenei, del livello complessivo delle tecnologie e
del sistema produttivo. Qualcuno, quorum ego, può avanzare dubbi per questa
enfasi sull’eccellenza, e il conseguente disinteresse per la dimensione mediana
della realtà aziendale e formativa (dalle piccole aziende alla varia gamma dei
“quadri” aziendali). Ma anche nell’apparato economico-produttivo e nel mondo
del lavoro c'è poco entusiasmo verso nuove convergenze tra formazione e lavoro
e verso la rivalorizzazione della formazione alla professione. Le grandi
aziende hanno smantellato i loro centri di formazione; lo sviluppo
dell'apprendistato (come strumento antico di formazione sul lavoro) non riesce
a uscire dalle secche; l'esperienza di fare gestire alle Regioni la formazione
per il lavoro è stata fallimentare. Sono così testardo da pensare ancora che,
oggi, addirittura più che ieri, i processi formativi dovrebbero incamminarsi
verso una sostanziale descolarizzazione, chiamando in causa quel po’ di cultura
di formazione professionale che è ancora vivo in Italia e di cui Nicola D’Amico
dà notizia e testimonianza. (Dalla prefazione di G. De Rita, www.scuola24.ilsole24ore.com 05-03-2015)
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