IN EVIDENZA
400 MILIONI ALLA RICERCA DI BASE. 250 PROVENGONO DALL’IIT
L’esecutivo,
ha spiegato la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, intervenuta al Forum
Ambrosetti di Cernobbio, ha deciso di destinare 400 milioni in tre anni alla
ricerca di base, 250 milioni dei quali saranno attinti dalle disponibilità
liquide dell’Iit di Genova, quello cui è stata affidata la regia del nuovo polo
di ricerca nell’ex area Expo alle porte di Milano. Secondo Fedeli il prelievo «non è
affatto una penalizzazione». «Sono 400 milioni che, per una decisione e per
responsabilità del Miur, mettiamo sulla ricerca di base quindi sui Prin
(Progetti di ricerca di interesse nazionale), che vuol dire alla ricerca più
importante, pura, libera per le università, con una particolare attenzione ai
giovani ricercatori che possano entrare». (03-09-17)
INCENTIVI
ECONOMICI E QUALITA' DELLA RICERCA SCIENTIFICA*
Un
interessante articolo pubblicato lo scorso 11 Agosto su Science analizza
gli effetti prodotti dalla corresponsione di più o meno "adeguati"
incentivi economico-finanziari a quei Ricercatori che vedano pubblicato il
frutto dei propri studi su prestigiose Riviste del calibro di Nature,
Science e/o Cell. Trattasi di una "pratica" che
risulterebbe particolarmente in voga in Cina, ove alcune Università avrebbero
"foraggiato" i principali Autori di alcune delle suddette
pubblicazioni con cifre superiori ai 40.000 dollari statunitensi, fino ad
arrivare alla stratosferica somma di 165.000 dollari. Seppur non comparabili
sotto l'aspetto quantitativo, analoghi "approcci" sarebbero
perseguiti da altri Paesi quali gli Stati Uniti e la Repubblica Ceca, come si
legge in una mia "Letter to the Editor" pubblicata su Science in
data 16 Agosto (http://science.sciencemag.org/content/357/6351/541/tab-e-letters). L'Italia, tuttavia, non sembra andare nella medesima
direzione, continuando peraltro a investire non più dell'1.3% del PIL per il
finanziamento pubblico della ricerca scientifica su base annuale. Ciò si
traduce, generalmente, in una ridotta disponibilità di risorse
economico-finanziarie anche per la pubblicazione di manoscritti su idonee
Riviste internazionali, elemento quest'ultimo di cruciale rilevanza dal momento
che rappresenta la "via maestra" attraverso cui i risultati
scientifici ottenuti acquisiscono la "visibilità" che agli stessi
compete. In un siffatto contesto di cronica, inveterata inadeguatezza del budget nazionale
devoluto alla nobile e sacrosanta causa della "Ricerca Scientifica"
andrebbe parimenti letto quel drammatico fenomeno rappresentato dalla
"fuga dei cervelli", che da almeno 25-30 anni attanaglia il nostro
Paese in una morsa letale. A dispetto di questa rappresentazione "a tinte
fosche", andrebbe parimenti sottolineato che il nostro Paese occupa - in
maniera tanto sorprendente quanto encomiabile - l'ottava posizione su scala
globale per rilevanza e qualità della produzione scientifica. Ne deriva che la
chiave del successo "made in Italy" non sarebbe da
individuare, almeno per il momento, nella corresponsione di incentivi economici
analoghi a quelli destinati ai Ricercatori cinesi. (*Autore: Giovanni Di
Guardo, UniTe 09-17)
IL REGISTERED REPORT, UNA NUOVA TIPOLOGIA DI ARTICOLO SCIENTIFICO
La cosiddetta crisi di
riproducibilità è la presa di coscienza da parte della comunità scientifica
dell’impossibilità di ripetere molti dei risultati pubblicati sulle riviste di
settore. Un problema non da poco, che mette in crisi uno dei capisaldi della
scienza moderna: la sua oggettività, garantita appunto (almeno a livello
teorico) dalla possibilità di ripetere e verificare in ogni momento i risultati
di un esperimento. Proprio in questi giorni ha fatto il suo debutto uno dei
tentativi di soluzione più radicali: il registered report, una nuova tipologia
di articolo scientifico pensato per attaccare alla radice le cause di questa
crisi, che da oggi sarà accettato, e pubblicato, sulle pagine di Bmc Medicine, una delle più prestigiose
riviste mediche del pianeta.
Sotto pressione, schiacciati
dalla logica del publish or perish (letteralmente pubblica o muori, una formula
che indica la necessità di pubblicare a ritmo sostenuto per mantenere una
posizione prestigiosa a livello universitario) molti ricercatori possono cedere
però alla tentazione di ritoccare i risultati, cambiando in corso l’obiettivo
di uno studio per garantire un risultato positivo, e quindi più facile da
pubblicare. E proprio da atteggiamenti di questo tipo, ritocchi dei dati o dei
protocolli sperimentali per facilitare la pubblicazione del proprio studio,
nasce la crisi di riproducibilità.
È per affrontarla, eliminando i
due bias, che nasce il concetto di registered report: una tipologia nuova di
articolo scientifico che vuole garantire la pubblicazione delle ricerche
indipendentemente dal risultato, e impedire al contempo che sia modificato in
alcun modo il protocollo degli studi. In un registered report uno studio è
sottoposto alla rivista prima che s’inizino a raccogliere i dati, e questa lo
valuta basandosi unicamente sul tema affrontato e sulla qualità del protocollo
sperimentale scelto. Ottenuto l’ok, i ricercatori sanno che il loro lavoro sarà
pubblicato in ogni caso, indipendentemente dai risultati, e procedono quindi
con la raccolta dei dati. Ottenuti i risultati, questi sono nuovamente
sottoposti a peer review, per verificare che non sia stata effettuata nessuna
deviazione dal protocollo proposto. E se tutto va come sperato, l’articolo viene
quindi pubblicato. Una risposta tutto sommato semplice alla crisi di
riproducibilità, nata qualche anno fa proprio nell’ambito della psicologia (uno
dei campi più colpiti dal problema) ma che solo oggi sbarca finalmente su una
delle più importanti riviste scientifiche del pianeta. Gli altri grandi
dell’editoria scientifica seguiranno l’esempio di Bmc Medicine?
A Registered Report is an article format that includes only the
rationale and proposed methodology behind the study (with some pilot data
potentially included). The initial report is peer-reviewed and accepted in
principle, based on the strength of the suggested methods and hypotheses. Other
assessment criteria include the importance of the research question(s) and its
potential implications for future research, policy or practice; and the novelty
and need for the study vis-à-vis existing literature and the arguments
presented by the authors.
A second round of peer review
is conducted to assess compliance with the original report and the validity of
the conclusions. A report that passes this stage is guaranteed publication as a
complete article.
Image credit: Center for Open Science CC 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by/4.0/legalcode
(Fonte: S. Valentini, HOME
SCIENZA LAB 25-08-17. https://blogs.biomedcentral.com 24-08-17)
RAPPORTO OCSE. EDUCATION AT A GLANCE 2017: LA SCHEDA DELL’ITALIA
Francesco
Avvisati e Giovanni Semeraro sono gli esperti italiani dell’Ocse che hanno
illustrato la scheda
nazionale italiana in occasione della presentazione dell’edizione 2017 di
Education at a Glance (EAG).
Sono vari gli
aspetti del sistema educativo italiano, più strutturali e di lungo periodo, a
destare preoccupazione. Intanto la bassa percentuale di laureati tra gli adulti
(25-64 anni), il 26% rispetto alla media europea del 39%, cui si aggiunge
l’altrettanto bassa disponibilità degli occupati italiani alla formazione
continua. Poi l’eccesso di laureati in materie umanistiche (30% nel 2016,
contro la media europea del 19%), cui corrisponde una carenza di laureati
nell’area delle competenze ‘Stem’ (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e
Matematica), che penalizza in particolare le donne. Queste sono invece
massicciamente presenti nel settore educativo, dove l’Italia presenta il
divario di genere più importante dell’area Ocse: il 95% delle lauree di primo
livello e il 91% delle lauree di secondo livello è conseguito da donne. Sempre
preoccupante in Italia il numero dei Neet (persone di età tra i 15 e i 29 anni
non impegnate nello studio, nel lavoro, nella formazione), che nel nostro Paese
ammontano al 26%, rispetto al 14% della media degli altri Paesi Ocse, con punte
superiori al 30% in Campania, Sicilia e Calabria. In questa classifica l’Italia
si colloca al penultimo posto, subito prima della Turchia (28%). Che occorra
riportare l’istruzione tra le priorità dell’azione di Governo lo dimostra anche
la spesa in istruzione in rapporto al Pil, pari al 4,1%, ben al di sotto della
media Ocse (5,2%) e in calo, secondo il rapporto Ocse, del 7% rispetto al 2010.
Puntuale il commento della ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli:
“Finanziamento al sistema? Passo già cambiato. Il dato riguarda il 2014.
Quest’anno il Fondo per le Università aumenta dell’1%, crescerà del 4,2% nel
2018”. (Fonte: www.tuttoscuola.com
12-09-17)
SULL’ACCESSO PROGRAMMATO
ALL’UNIVERSITÀ. IL PARERE DI UN GIUDICE EMERITO DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Il Tar del
Lazio ha dato provvisoriamente ragione a studenti che impugnavano la delibera
del Senato accademico dell'Università di Milano sull'accesso programmato. Di
seguito le argomentazioni di Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale.
Il Tar, nella
decisione provvisoria presa, si è fermato all'esame delle norme nazionali, che
riguardano solo alcune facoltà (medicina, ad esempio), e ha dimenticato di
considerare sia l'autonomia universitaria, sia le procedure di accreditamento e
di programmazione degli accessi, che consentono ad altre facoltà (lettere, ad
esempio) di stabilire quanti studenti possono iscriversi. Questo non vuol dire
negare il diritto allo studio, perché vi sono altre università (a Milano, nella
stessa città). Per non parlare del fatto che le prove di ammissione
all'università hanno anche un valore di orientamento: consentono allo studente
di misurarsi con le sue aspirazioni e alle facoltà di giudicare la preparazione
di base indispensabile per continuare il corso di studi al quale ci si vuole
iscrivere.
Prima di
parlare della questione dei diritti e della loro interpretazione, vorrei fare
una riflessione su un tema che sta alla base della questione: il disprezzo
della competenza. Il problema, infatti, nasce dal disprezzo o dalla
disattenzione per l'opinione degli esperti. Nel caso, una meditata e ben argomentata
delibera del Senato accademico dell'Università, presa il 23 maggio 2017, nella
quale si spiegava che la disponibilità di spazi, biblioteche e professori
impediva di accogliere un numero illimitato di studenti. Chiedo: se su un
autobus vi sono 50 posti, a sedere e in piedi, e sull'autobus vogliono salire
100 persone, non è utile dare ascolto al guidatore che avverte gli utenti sulla
disponibilità di posti? Diritti, diritti solo individuali, o diritti-doveri? Ma
il ministro dell'Istruzione dell'università e della ricerca ha detto che
abbiamo pochi laureati. Giusta constatazione. Un ministro che la fa dovrebbe,
lo stesso giorno, far approvare dal Consiglio dei ministri un disegno di legge
per aumentare corsi di studio, università, facoltà, borse di studio,
biblioteche, laboratori, prevedendo il relativo finanziamento. Altrimenti, fa
quello che potrebbe chiamarsi un salto logico: come l'autista che invita i 100
passeggeri a salire su un autobus con 50 posti. Il diritto allo studio deve
raccordarsi all'offerta formativa (per questo esistono le procedure chiamate di
accreditamento e di programmazione degli accessi). Per evitare che gli studenti
stiano seduti a terra, si sta cercando da qualche anno di raccordare domanda e
offerta formativa, diritto allo studio e apprestamento di strutture idonee a
realizzarlo. Il primo non si realizza a pieno senza il secondo. Questo raccordo
è operato per alcune facoltà a livello nazionale, con legge, per altre in sede
locale. Una sentenza della Corte costituzionale del 1998 afferma che l'accesso
ai corsi universitari è materia di legge, ma aggiunge che non tutta la
disciplina deve essere contenuta nella legge. Altrimenti non vi sarebbe
autonomia delle università, come prescritto dalla stessa Costituzione. (Fonte:
S. Cassese, Il Foglio 12-09-17)
SUL RAPPORTO DI PUBBLICO IMPIEGO NELL'UNIVERSITÀ
Ripercorrendo
gli elementi che contrassegnano l’impianto costituzionale di cui l’opzione per
il rapporto di pubblico impiego si fa storicamente espressione, con il conforto
delle indicazioni emerse nella più recente giurisprudenza costituzionale e
amministrativa, Rosario Santucci risponde a stretto giro ai ragionamenti svolti
da Francesco Sinopoli (comunicati
stampa Flc Cgil) in tema di contrattualizzazione dei professori
universitari. Santucci non usa giri di parole per affermare che è giunto il
momento di ripensare “l’attuale assetto normativo universitario che, a partire
soprattutto dal nuovo secolo, ha sostanzialmente svilito la garanzia dello
status, ha aperto falle che consentono a ‘poteri’ politici, sociali e
accademici di condizionare la libertà di ricerca e, sintonicamente, ha
flessibilizzato quel che non si doveva flessibilizzare: il lavoro dei
ricercatori che ha bisogno di stabilità, beninteso nell’ambito di un sistema di
controlli seri e imparziali. Con buona pace della legge 240 del 2010,
principale responsabile della deriva”. E su questo – aggiunge – “il momento è
giusto (…) perché si alzi la voce dei docenti universitari”. Il momento – se è
giusto – è quello in cui bisogna agire all'opposto della proposta di
“contrattualizzazione”, per evitare il colpo di grazia al sistema universitario
e a diritti e doveri costituzionali – funzionali ad una democrazia sostanziale
– che vi sono implicati: la libertà di ricerca e quella di insegnamento (art.
33 Cost.); l’impegno di promozione della cultura da parte del potere pubblico
(art. 9 Cost.). (Fonte: R. Santucci, Roars 05-09-17)
A PROPOSITO DEI DIPARTIMENTI “ECCELLENTI”
Il
Miur sta dando corso alle norme previste dalla Legge di Stabilità 2017,
relative a un finanziamento per complessivi 1,3 miliardi di euro (271 milioni l’anno
per cinque anni) di 180 dipartimenti universitari «eccellenti». Si tratta di
una decisione preoccupante, che produrrà effetti negativi strutturali, di lungo
periodo, sul sistema universitario italiano. Ma che cosa c’è di male nel
«premiare l’eccellenza»? Tre conclusioni generali.
La prima è che non vi è un’eccellenza e un
metodo per calcolarla, né vi sono depositari della verità su questi aspetti.
Anche grazie alla costante e documentata opera di vera e propria
contro-informazione operata dal sito www.roars.it
in questi anni, siamo in grado di valutare la grande discrezionalità, e le
scelte politiche implicite che vi sono in queste norme, anche nelle più
apparentemente oscure. Ne può addirittura scrivere chi proviene da Atenei del
Sud (sui quali erano già piovuti gli strali del primo dei due Commissari Anvur,
in teoria neutrale), nonostante essi siano caratterizzati, come hanno tenuto a
sottolineare Checchi e Rumiati, da “disabilità”.
Seconda. Non sono fatti tecnici ma questioni
politiche. Il Parlamento ha fatto queste scelte? Certo, ma solo votando la
fiducia ad una Legge di Stabilità a cavallo fra due esecutivi, nella quale sono
state inserite queste ben preparate (chissà da chi, in sede tecnica) e
dettagliate disposizioni, non discusse nel merito e nelle loro implicazioni di
lungo termine.
Terza ed ultima. Il conflitto è evidente. E
a mio avviso è fra un gruppo di esperti, tecnocrati “illuminati”, che, in base
alla conoscenza che solo essi hanno del Bene e del Male, perseguono un disegno
politico-ideologico (assai simile nelle sue linee ispiratrici a quello del
partito conservatore britannico) volto a un radicale ridisegno del sistema
dell’istruzione superiore, concentrandolo su poche sedi da essi prescelte,
anche attraverso scelte politiche mascherate da decisioni tecniche. Magari
destinando alle altre, ed in particolare a quelle delle aree più deboli del
paese, un po’ di misure compassionevoli (per i “disabili”). E fra quanti
sollecitano un confronto aperto sulle politiche e sui principi che le ispirano,
sui criteri per valutare “a che servono le università” e quali sono i loro
meriti, sull’universalismo dei diritti all’istruzione terziaria
indipendentemente dal luogo di nascita, sull’effetto delle università sullo
sviluppo dei territori. Grazie al disinteresse della politica, i primi hanno
già stravinto. Ma sia almeno consentito discutere di questioni così importanti.
(Fonte: G. Viesti, Il Mulino 10-07-17)
IL PERCHÉ DI UNO SCIOPERO: LA VERA STORIA DEGLI SCATTI STIPENDIALI
DEI PROFESSORI UNIVERSITARI
Per tutti gli altri statali
“generici”, nel momento in cui è terminato il blocco, in busta paga si sono
cominciati a ritrovare il corrispettivo degli scatti maturati durante il
periodo di blocco. Quindi, al di là della durata del periodo di blocco, per loro
la busta paga attuale è la stessa che se il blocco non ci fosse stato. Han
perso soldi negli anni di blocco, e nessuno glieli restituirà mai, ma poi la
loro retribuzione è tornata a essere quella prevista dal loro contratto, come
se il blocco non ci fosse stato. Invece a
noi permane il mancato avanzamento degli scatti che sarebbero maturati durante
il periodo di blocco, e tale mancato avanzamento si ripercuoterà per tutte le
nostre future buste paga, TFR e pensioni! Noi continueremo a pagare lo
scotto degli scatti mancati da qui all’eternità … Con un danno cumulato che per
me, che ho 58 anni, ha un valore attualizzato di circa 108.000 euro. Ma per un
giovane di 32 due anni vale oltre 150.000 Euro! Al confronto, il mancato
pagamento degli scatti per 5 o 6 anni è una bazzecola, il vero danno è il
taglio PERMANENTE che stiamo subendo tuttora, e che durerà per sempre! E’ per
questo che stiamo tuttora protestando vivacemente, ed è questa la vera anomalia
che differenzia gli universitari da tutti gli altri dipendenti pubblici.
(Fonte: N. Casagli e Red.ne Roars 08-08-17)
ABILITAZIONE SCIENTIFICA
NAZIONALE
CdS. ABILITAZIONE SCIENTIFICA
NAZIONALE: LA MOTIVAZIONE DEL GIUDIZIO FINALE
La Sesta
Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 18 settembre 2017 ha
affermato che "Un dato normativo è pacifico: la commissione che valuta il
conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale è composta da cinque
membri. L’abilitazione si consegue (a seguito dell’intervento
giurisprudenziale: Consiglio di Stato VI, n. 470/2016) o non si consegue (sulla
base del principio della maggioranza semplice) con il punteggio minimo di tre
su cinque.
Il giudizio
finale, espresso collegialmente dalla commissione, deve tener conto della
maggioranza formatasi nel corso del procedimento.
È di tutta
evidenza che il giudizio sintetico sarà di più immediata percezione se la
votazione finale sia unanime (5/5) ovvero a maggioranza (3/5).
Questo
collegio ritiene che la motivazione del giudizio finale debba manifestare
semplicemente l’esito della votazione; e non essere più o meno approfondita
(ma, com’è ovvio, nel caso di sola inidoneità) a seconda del risultato numerico
finale (3/5).".
(Fonte: segnalazione
del prof. avv. Enrico Michetti della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI,
del 18.9.2017 riportata da gazzettaamministrativa.it)
CLASSIFICAZIONI DEGLI ATENEI
CLASSIFICHE DELLE UNIVERSITÀ.
TRASCURANO LA RELAZIONE TRA RISULTATI E RISORSE DISPONIBILI
Potremmo
rispolverare le analisi che dimostrano quanto le classifiche degli atenei siano
più vicine alle fake news che alla
scienza, non solo a causa dei loro errori metodologici, ma anche perché
trascurano di misurare l’aspetto più importante, ovvero la relazione tra
risultati e risorse disponibili (questa estate abbiamo mostrato che 14
università italiane sono più efficienti di Cambridge e Harvard in termini di
rapporto costi-prestazioni). Potremmo ripetere questa lezione, ma non lo
faremo. Piuttosto, a chi si ostina a prendere per buone queste classifiche,
facciamo notare che per Times Higher Education la quinta università italiana è
la Libera Università di Bolzano, che batte atenei come la Statale e il
Politecnico di Milano, la Sapienza di Roma e l’Università di Padova, per
citarne solo alcune. Ma quale è la forza di Bolzano? È nell’indicatore
Citations, quello che misura l’impatto scientifico, dove ottiene un fantastico
88,6 (meglio di McGill e Purdue, tanto per dire). Gli addetti ai lavori sanno
che quell’indicatore rappresenta la principale debolezza metodologica della
classifica THE, la stessa debolezza che agli esordi della classifica nel 2010
aveva portato Alessandria d’Egitto al quarto posto assoluto, davanti a Harvard
e Stanford nella classifica dell’impatto e al 147-esimo posto nella classifica
generale. Il tutto grazie a un professore egiziano che pubblicava centinaia di
lavori sulla rivista (edita da Elsevier) che dirigeva lui stesso. (Fonte: G. De
Nicolao, https://www.roars.it/online/affidabilissima-la-classifica-times-higher-education-bolzano-batte-statale-e-politecnico-di-milano-sapienza-e-padova/
05-09-17)
ARWU RIMANEGGIATA IN BASE AL VALUE-FOR-MONEY
É arrivata la classifica di Shanghai, nota
anche come ARWU (Academic Ranking of World Universities). Nessuna italiana
nelle prime 100, anzi nelle prime 150. Non diversamente dagli esiti di altre
classifiche internazionali, sembra la certificazione del deplorevole stato in
cui versano le nostre università. Ma se la nostra ARWU League si giocasse
proprio in base al value-for-money,
chi la vincerebbe? Per saperlo basta dividere il PUB score per le Operating
Expenses e vedere chi, a parità di costi, produce di più. Per facilitare la
lettura dei risultati, normalizziamo il risultato in modo che l’Efficiency
score di Harvard sia pari a 100. Ecco il risultato.
L’Italia fa cinquina. I primi cinque posti
sono occupati da Milano Statale, Ferrara, Pavia, Milano Bicocca, Padova. Ma
anche Trieste e Torino entrano nelle prime dieci. Un risultato che può apparire
clamoroso solo a chi non conosce i numeri dei finanziamenti e della produzione
scientifica. Da sempre, l’università italiana è sottodimensionata e
sottofinanziata (nelle statistiche OCSE siamo ormai penultimi per spesa in
rapporto al PIL e ultimi come percentuale di laureati nella fascia 25-34 anni).
Tuttavia, a fronte di un impegno
finanziario modesto, la produttività è all’altezza se non migliore di
quella delle altre nazioni. (Fonte: https://www.roars.it/online/classifica-arwu-ununiversita-italiana-nella-top-100-subito-e-a-costo-zero/
15-08-17)
CONSIGLI PER DOCUMENTARSI SULLE INCONSISTENZE DELLE CLASSIFICHE
DELLE UNIVERSITÀ
Le classifiche delle università
sono dei cocktail in cui diversi ingredienti vengono mescolati in proporzioni
empiriche. Al contrario, un’analisi scientifica della produttività scientifica
deve basarsi sui dati bibliometrici originali, non contaminati da pesature
arbitrarie. Chi fosse interessato a una brillante spiegazione divulgativa dei
trabocchetti e delle inconsistenze delle classifiche accademiche, può leggere
“The order of things – What college rankings really tell us” di Malcolm
Gladwell, famoso editorialista del New Yorker. Chi invece fosse interessato ad
aspetti più tecnici può leggere “Higher Education Rankings: Robustness Issues
and Critical Assessment – How much confidence can we have in Higher Education
Rankings?” di M. Saisana and B. D’Hombres. Si tratta di un documento di un
centinaio di pagine che utilizza metodologie statistiche per valutare la
robustezza della classifica di Shanghai (Jiao Tong) e di quella del Times Higher
Education Supplement (THES). Le risultanze tecniche non sono favorevoli a
queste classifiche:
“Robustness analysis of the
Jiao Tong and THES ranking carried out by JRC researchers, and of an ad hoc
created Jiao Tong-THES hybrid, shows that both measures fail when it comes to
assessing Europe’s universities”. (Fonte: Red.ne Roars 01-09-17)
WORLD UNIVERSITY RANKINGS 2018 DEL
TIMES HIGHER EDUCATION. LE PRIME 1.000 UNIVERSITÀ AL MONDO
Nella lista
definitiva delle prime 1.000 università al mondo distribuite in 77 Paesi,
l’Italia si piazza con la Scuola Superiore Sant’Anna e la Scuola Normale
Superiore di Pisa rispettivamente al 155° e al 184° posto, entrando anche
quest’anno nella top-200 a livello globale e nella top-100 europea. Tra gli
atenei in classifica anche l’università di Bologna, il San Raffaele di Milano,
l’università di Trento, oltre ai tre atenei romani. Le università con maggior
presenza di studenti stranieri sono Sant’Anna di Pisa, Politecnico di Milano e
Politecnico di Torino (14% a pari merito), seguite dall’università di Bolzano
(12%) e di Bologna (10%). A guidare la classifica dei punteggi per numero di
citazioni è il San Raffaele di Milano (96,3), seguito dall’università di
Bolzano (88,6) e dalla Sant’Anna di Pisa (88), mentre sulla ricerca vincono la
Sant’Anna (36), Sapienza università di Roma (34,7) e Scuola Normale (33,3). Sul
trasferimento tecnologico e di conoscenze verso il sistema industriale la
Sant’Anna vola e con un punteggio di 87,8 stacca di parecchi punti il
Politecnico di Milano (58,1) e l’università di Pavia (54,7). Sulla
internazionalizzazione a guidare è Bolzano (68,9), seguita dall’università di
Trento (58,2) e dal Politecnico di Milano (53,1), mentre sull’insegnamento il
podio è della Normale (53,7), seguita dall’università di Bologna (43,6) e dalla
Sant’Anna (41,6). (Fonte: diregiovani.it 05-09-17)
ARWU. THE BEST 500 UNIVERSITIES
ARWU has been
presenting the world top 500 universities annually since 2003. It claims to be
the precursor of global university rankings and “the most trustworthy” league
table. It adopts six ‘objective indicators’ to rank world universities with
different weightings, including the number of alumni and staff winning Nobel
Prizes and Fields Medals (10% and 20% weighting respectively), the number of Highly
Cited Researchers (20%), the number of articles published in journals of Nature
and Science (20%), the number of articles indexed in the Science Citation Index
– Expanded and Social Sciences Citation Index (20%), and per capita performance
of the institution (10%). For institutions specialised in humanities and social
sciences, such as the London School of Economics and Political Science, the
number of papers in Science and Nature is not considered and the weight of that
criterion is redistributed to other indicators, ARWU says. About 1,300
universities are actually ranked by ARWU every year and the best 500
universities are published. This is the first year that those universities
ranked between 501 and 800 in the world have also been published. (Fonte: http://www.universityworldnews.com
15-08-17)
LA CLASSIFICA ARWU: PADOVA E SAPIENZA DI ROMA MIGLIORI
ATENEI ITALIANI
L’Università
di Padova e Sapienza di Roma sono i migliori atenei italiani, almeno stando
all’Academic Ranking of World Universities 2017 (Arwu) pubblicato dalla Jiao
Tong University di Shanghai. La classifica presenta le 500 migliori università
a livello globale, in ordine di merito dal primo al 99° posto e poi
raggruppandole in range di 50 o 100 posizioni. Padova e Sapienza si collocano
così in testa agli atenei italiani, essendo le uniche a riuscire a entrare nel
range 151-200, posizione che l’università romana mantiene dal 2014. Seguono tra
la 201esima e la 300esima posizione le università di Bologna, Milano, Pisa,
Torino e il Politecnico di Milano. Complessivamente sono 16 gli atenei del nostro
Paese nelle prime 500 posizioni su 1.300 università censite e su circa 17.000
stimate nel mondo. Nel range 301-400 vi sono le università di Milano Bicocca,
Firenze, Pavia, Roma Tor Vergata e Napoli Federico II. Chiudono Ferrara,
Palermo, Trieste e il San Raffaele di Milano. A livello globale trionfano le
statunitensi Harvard e Stanford, seguite dall’inglese Cambridge. (Fonte: FQ
15-08-17)
“Institutions
within the same rank range are listed alphabetically”: i curatori della
classifica ARWU lo scrivono sia nella pagina della classifica globale che in
quelle delle classifiche nazionali. Eppure, c’è sempre qualcuno che si distrae
e scambia l’ordine alfabetico per una classifica di merito. Quest’anno, tocca a
La Repubblica che annuncia “Sapienza miglior ateneo italiano … secondo posto per Padova, terzo per il
Politecnico di Milano“. In realtà, se si ricostruiscono i punteggi, Padova è
prima, Sapienza seconda e il Politecnico solo settimo. Infatti, nella coppia di
testa, ad avere il punteggio migliore è Padova. E, nel secondo blocco di cinque
atenei, il Politecnico, è primo nell’ordine alfabetico, ma ultimo come
punteggio. (Fonte: Red.ne Roars 16-08-17)
ARWU.
Non in ordine alfabetico diffuso da stampa ma in base ai punteggi in Italia
UniPd è 1° (ex 2°), Sapienza 2° (ex 1°), PoliMi 7° (ex 3°). Vedi Tabella.
Secondo
gli oltre 230mila tweet raccolti dal sito Voices from the blogs, tra gennaio e
inizio luglio 2017, sarebbe Sapienza di Roma l’università più “social”
d’Italia. Seguono sul podio il Politecnico di Milano, medaglia d’argento, e la
Cattolica di Milano. Si aggiudicano poi un posto nella top ten delle più
nominate su Twitter – nell’ordine – l’UniTo, la Bicocca di Milano, l’Università
di Padova, la Bocconi, l’Università di Roma Tor Vergata, la Federico II di
Napoli e la Statale di Milano. (Fonte: catania.liveuniversity.it 09-08-17)
LE UNIVERSITÀ PIÙ GIOVANI AL MONDO
Nella
«Top 50 Under 50», una graduatoria redatta dal portale QS sulle università con
meno di 50 anni, le prime 10 posizioni sono dominate dall'Asia, con sei atenei
spartiti tra Singapore (la stessa Nanyang), Hong Kong (The Hong Kong University
of Science and Technology, City University of Hong Kong e The Hong Kong
Polytechnic University, rispettivamente seconda, quarta, sesta) e Corea del Sud
(Korea Advanced Institute of Science & Technology). Seguono l’Europa (con
la finlandese Alto University in settima posizione, la francese Centrale Supélec
in nona e l'Universidad Autónoma de Madrid in decima) e l’Oceania
(l'australiana University of Technology di Sidney), mentre spunta un'italiana
appena fuori dalla top 10: la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, il collegio
d'eccellenza pisano nato come divisione della Normale per le discipline
applicate nelle scienze sociali. (Fonte: A. Magnani, IlSole24Ore 10-08-17)
DOCENTI
I RETTORI E LO SCIOPERO REGOLAMENTATO
DEI PROFESSORI
9000 docenti
universitari hanno aderito fino ad oggi allo sciopero degli esami per ottenere
l'eliminazione del «mutuo perpetuo» sugli stipendi che porterà a eliminare ben
cinque anni di carriera dal calcolo dell'anzianità di servizio. Invece di
incalzare il Miur, e il governo, per ottenere la restituzione di una cifra che
sembra superiore ai 100 mila euro a testa per docente, o per sbloccare gli
scatti stipendiali fermi da quattro anni, la Conferenza dei Rettori (Crui) ha
inviato alle rappresentanze sindacali dei docenti e alla ministra
dell'università e ricerca Valeria Fedeli un invito a presentarsi il 5 ottobre a
piazza Rondanini a Roma per discutere sulla «regolamentazione dell'astensione
collettiva». Una richiesta, contenuta in una lettera del 13 settembre scorso,
che appare oggi tardiva, se non proprio intenzionata a limitare o interferire
con una protesta in crescita. Lo sciopero è stato regolamentato da un
intervento del garante degli scioperi il 28 agosto scorso, che, insieme al
promotore dell'agitazione (il «movimento per la dignità della docenza universitaria»),
ha definito nel dettaglio le modalità per non danneggiare il diritto degli
studenti a sostenere gli esami. Fino a oggi i rettori erano intervenuti sulla
vicenda solo a luglio, quando avevano chiarito l'intenzione di operare una
trattenuta sullo stipendio a chi sciopera. Intenzione ribadita nella lettera
del 13. «La Crui - sostiene Carlo Ferraro, portavoce del movimento - è
un'associazione che, a norma del suo statuto, non è riconosciuta dal codice
civile». Le sue regole sono valide per i soci, ma non sono passate a un vaglio
esterno. Senza contare che il suo essere «datore di lavoro» è valido per il
personale contrattualizzato, non per i docenti. I rettori, anch'essi docenti,
sono «primi inter pares». (Fonte: Il Manifesto 19-09-17)
ASTENSIONE DEI DOCENTI DALLO SVOLGIMENTO DEGLI ESAMI DI PROFITTO
NELLE UNIVERSITÀ. IN UN COMUNICATO STAMPA DELLA SEGRETERIA NAZIONALE L’USPUR
AFFERMA DI SOSTENERE INVECE L’ADESIONE AL RICORSO AMMINISTRATIVO PER IL
RECUPERO DELL’ANZIANITÀ GIURIDICA
In questi giorni è in corso
l’astensione dei docenti dallo svolgimento degli esami di profitto nelle
università italiane, proclamata dal Movimento per la Dignità della Docenza
Universitaria. L’USPUR, nel rispetto delle posizioni individuali, ha suggerito
ai propri associati di procedere regolarmente a tutte le attività didattiche
che li coinvolgono. L’USPUR ritiene doveroso precisare la propria posizione in
merito. È indiscutibile che i docenti universitari hanno subito un trattamento
peggiorativo rispetto ad altre categorie non contrattualizzate (le categorie la
cui progressione economica è fissata da una legge e per le quali non si procede
ad una contrattazione sindacale). Per loro il blocco degli scatti stipendiali è
cessato nel 2016, un anno dopo le altre categorie del pubblico impiego. Inoltre
non è stato previsto alcun recupero dell’anzianità giuridica. Altre categorie,
vedi i magistrati, oltre che della progressione giuridica sono stati
reintegrati anche di quella economica. Tutto ciò s’inquadra in una diminuzione
della spesa pubblica per l’università dal 2009 ad oggi di circa il 22%.
Nonostante le ragioni alla base dello sciopero (sotto finanziamento
dell’università, penalizzazione maggiore della docenza rispetto ad altre
categorie del pubblico impiego, mancato recupero dell’anzianità giuridica), la
Giunta del nostro sindacato ritiene poco fruttifera l’adesione allo stesso per
i seguenti motivi: non sposterà di un millimetro l’attenzione del Governo nei
nostri confronti, penalizzerà esclusivamente gli studenti che dovranno
riprogrammare i loro calendari d’esame. Uno sciopero è un’azione sindacale
estrema, nel passato se ne è abusato e per questo motivo ha perso d’efficacia.
In particolare nei pubblici servizi i disagi ricadono unicamente sugli utenti
senza creare danno alcuno all’ente erogatore. La Giunta dell’USPUR sostiene
invece l’adesione al ricorso amministrativo per il recupero dell’anzianità
giuridica. Già oltre un migliaio di docenti hanno aderito. I numeri non sono
millantati, trovano riscontro nelle quote già pagate presso gli studi legali
preposti. Riteniamo che solo di fronte a un successo in ambito giuridico le
nostre richieste troveranno ascolto da parte del Governo, al quale continuiamo
a chiedere l’apertura di un tavolo di trattativa sindacale. L’USPUR (Unione
Sindacale Professori e Ricercatori Universitari) è un sindacato riconosciuto
con legge dello Stato (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 11
Novembre 1985). (Comunicato stampa della segreteria nazionale USPUR 31-08-17)
UNA STUDENTESSA PARLA DELLO SCIOPERO DEI DOCENTI
«Da
parte nostra riteniamo assurdo che una battaglia di questo tipo venga promossa
sulle spalle degli studenti – insistono i rappresentanti degli studenti – senza
coinvolgere i sindacati e dividendo la comunità universitaria che si era
opposta alla riforma Gelmini». Ma questa grande “comunità universitaria che si
era opposta alla riforma Gelmini”, che tra l’altro non riguardava gli stipendi
dei professori, può davvero vantarsi di aver fatto tutto il possibile affinché
la riforma venisse migliorata o, al limite, bocciata? D’altra parte se la
“comunità universitaria” non è riuscita a smuovere il blocco degli stipendi,
perché mai i docenti non dovrebbero usare altri mezzi di lotta? Siamo sicuri
che siano stati i professori a dividere la comunità? O, piuttosto, sono state
le altre componenti universitarie a “tradire” i docenti, lasciando che i loro
diritti continuassero ad essere lesi, lamentandosi poi per lo sciopero di
alcuni di loro, giunto dopo tre anni di petizioni presentate inutilmente al
governo? (Fonte: G. Fusco, stralcio da lettera al quotidiano Il Trentino
13-07-17)
LA MINISTRA ANNUNCIA: «SBLOCCO STIPENDI E RIFORMA PRE
RUOLO IN LEGGE DI BILANCIO»
L'impegno
arriva dalla ministra dell'Istruzione, Valeria Fedeli, che ieri in question
time - rispondendo a una interrogazione dei Cinque stelle - ha spiegato che
saldi di bilancio permettendo nella prossima manovra potrebbe arrivare un
«parziale ristoro» del blocco degli scatti di stipendio che ha colpito i
docenti universitari. Ma la ministra ha anche annunciato l'intenzione di
mettere mano al percorso che porta alla cattedra semplificandolo con interventi
«sulla filiera contrattuale che precede l'ingresso al ruolo di professore
universitario». Oggi la fase pre ruolo è costellata da una miriade di
contratti: assegnisti, dottorati, post-doc e ricercatori di tipo «a» e «b» (gli
unici con concrete possibilità di accedere alla cattedra). L'obiettivo sarà
quello di favorire l'ingresso «a una minore età per coloro che dimostrano di
avere i requisiti scientifici richiesti», ma anche «consentire a coloro che non
li possiedono di individuare tempestivamente percorsi di carriera alternativi»,
ha chiarito la ministra. (Fonte:
IlSole24Ore 27-07-17)
L’ETÀ DEI PROFESSORI
Un’intera
generazione perduta dalla nostra accademia dove oggi si contano solo 20
professori ordinari con meno di 40 anni su un totale di 12.975 docenti di prima
fascia: in pratica meno dello 0,2%. Non va molto meglio tra i professori
associati dove gli under 40 sono 906 su 19.924 (il 5%). Mentre tra i
ricercatori a tempo indeterminato i giovani sono 1.422 su 15.982 studiosi
(neanche il 10%). In pratica meno del 5% di tutto il corpo docente e di ricerca
stabile delle nostre università (2.343 tra professori e ricercatori su un totale
di 48.881 studiosi) ha meno di 40 anni. Nel 2008 erano cinque volte di più,
come dimostrano gli ultimi dati elaborati dal centro studi Here (Higher
education research) della Fondazione Crui (la Conferenza dei rettori). Una
fotografia più o meno simile che si “ritrova” anche nella scuola (lunedì
partirà il nuovo anno): l’età media degli insegnanti è risalita a 51,2 anni, e
sotto i 30 anni ci sono appena 5.500 professori. (Fonte: M. Bartoloni,
IlSole24Ore 09-09-17)
“I PROFESSORI UNIVERSITARI ITALIANI HANNO GLI STIPENDI PIÙ ALTI DEL
MONDO”. UNA ESAGERAZIONE: PERCEPISCONO MENO DI QUANTO AFFERMATO DA OCSE E
GIORNALISTI ITALICI
Il 26 maggio 2012, il Giornale
scriveva che i professori universitari italiani (PO, professori ordinari) con 13.667 euro mensili lordi sono proprio i più pagati dell’Unione Europea, seguiti dai
britannici, che incassano 12.554 euro e dagli olandesi che guadagnano 10.685
euro. Il Giornale seguiva a ruota ItaliaOggi che il giorno prima aveva
pubblicato un articolo dai toni meno gridati, ma altrettanto chiaro nei
contenuti. Ma anche recentemente si scrive: «Stipendi docenti universitari,
quelli italiani i più alti al mondo»: questo il titolo dell’articolo pubblicato
ieri (31-08-17) da Termometro Politico. C’è però una novità importante: Termometro
Politico documenta la sua affermazione con una figura tratta dall’Edizione 2016
del rapporto OCSE Education at a Glance (Vedi grafico qui sotto).
C’è un modo semplice per capire
in trenta secondi come stanno veramente le cose e confutare i dati OCSE del
grafico sopra riprodotto. La Banca Dati Economica del MIUR (Ministero
dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca) è liberamente consultabile al
seguente indirizzo: https://dalia.cineca.it/php4/inizio_access_cnvsu.php
. Il valore medio della retribuzione
lorda annuale per PO, professori
ordinari, risulta il seguente:
90.970 €: Professori Ordinari a
tempo pieno (non 125.000 USD come nel grafico OECD).
Questi sono gli stipendi lordi
effettivamente erogati dal ministero ai professori ordinari. Notare la distanza
rilevante tra questi numeri (la realtà) e il dato pubblicato da Il Giornale:
164.004 € annui per un professore ordinario. (Fonte: Red.ne Roars 01-09-17)
Nell’ultimo rapporto annuale di
INOMICS (un sito web abbastanza quotato a livello internazionale che offre
risorse online per le opportunità di carriera nelle università e nel settore
privato a laureati in economia, management e altre scienze sociali) si può
consultare il Salary Report 2016 che può essere scaricato al seguente link: https://inomics.com/ISR2016
. Relativamente alla metodologia, gli estensori del rapporto specificano che
“The INOMICS Salary Report Survey 2016 was conducted through an anonymous
online questionnaire between August and October 2016. It was placed on the
INOMICS website, a global online platform for academics and professionals in
economics, business and social sciences with more than 150,000 visits a month
from 120 countries worldwide. […] This year, we were able to gather the highest
number of respondents; more than double compared to the salary report of 2015.
In total, answers from 1,959 respondents from 99 countries were used to compile
this analysis.” Se si consulta la figura 14 del rapporto (a pag. 13) si trovano
i salari medi espressi in dollari USA (non corretti per la parità di potere di
acquisto) per gli accademici nel 2016. Per i professori di prima fascia (full
professor) vengono riportati 91.458 dollari. Applicando il tasso di cambio
euro/dollaro del 2016 (media dell’anno = 1.1) fanno 83.144 euro. Una cifra
inferiore a quella ripresa dalla redazione di Roars dalla banca dati economica
del MIUR: 90.970 euro (stipendio del 2012 comparabile con quello del 2016 dato
il blocco degli scatti). Tale discrepanza è probabilmente dovuta al fatto che
al questionario hanno risposto professori ordinari italiani più giovani della
media. Personalmente (essendo relativamente molto giovane come prof. ordinario)
nel 2016 avevo uno stipendio mensile lordo di 6.243 euro che moltiplicato per
13 mensilità fa 81.160, quindi meno di quanto indicato da INOMICS per l’Italia.
Il confronto internazionale
proposto dal rapporto per i full professor (professori ordinari) è il seguente:
Italia: 91.458
Germania: 112.273
United Kingdom: 139.306
North America: 172.446
Western Europe: 99.799
Asia: 83.397
Sono dati affidabili per un
confronto internazionale solo se assumiamo che in tutti i paesi considerati un
full professor in economia, management o diritto guadagni, in media, quanto un
full professor in altre discipline. In Italia è sicuramente così. Negli Stati
Uniti e nel Regno Unito, ad esempio, non possiamo dirlo. In Germania è così ma
il salario base di un full professor può variare a seconda del Länder. Non
sappiamo quindi se alla survey hanno preso parte full professor di Germania,
USA e UK che risultano mediamente più “quotati” dei loro colleghi. Qualsiasi
dato statistico va quindi interpretato con estrema cautela: come ricorda un mio
collega statistico quelli con cui lavoriamo non sono “dati” ma “presi”. Quello
che possiamo concludere in base ai “presi” di INOMICS è che i professori
universitari italiani non sono mediamente più pagati dei loro colleghi
stranieri (a parte gli asiatici), ma meno. Quanto meno è più difficile dirlo.
(Fonte: A. Sterlacchini, Roars 01-09-17)
Senza fare troppe ricerche
strane, tutte le Università aggiornano regolarmente la pagina “amministrazione
trasparente” e, alla voce “personale”, riportano i costi (non gli stipendi)
medi per la varie categorie di dipendenti. Per il Politecnico di Milano https://www.polimi.it/fileadmin/user_upload/Trasparenza/amministrazione_trasparente/personale/2016_conto_annuale.pdf
risulta che i 331 professori ordinari a tempo pieno sono costati mediamente 71
mila 400 euro l’anno e quindi meno della metà di quanto affermato da OCSE e
giornalisti. (Fonte: indrani maitravaruni, Roars 02-09-17)
CONTRATTUALIZZARE I DOCENTI UNIVERSITARI? PERCHÈ NON SI DEVE FARE
Sotto il titolo “Università. Contrattualizzare i docenti
universitari. Il momento è giunto” la
FLC CGIL ha pubblicato il 29 agosto un comunicato in cui si legge: È maturo il
momento per affrontare la questione della contrattualizzazione del personale
docente delle Università, considerando anche che nel mondo accademico è
avvenuta una trasformazione radicale del proprio contesto istituzionale senza
che si sia avviata un’adeguata riflessione sulle nuove professionalità e sulle
relative logiche. La mancanza di una interlocuzione contrattuale per i docenti
universitari con lo Stato, come avviene per tutti gli altri lavoratori
pubblici, rischia di far pagare a questa categoria un prezzo altissimo. Non c’è
più nessun motivo per non pensare ad una riforma che consideri la
contrattualizzazione dei docenti universitari.
Roberta
Calvano su Roars (31-08-17) ha risposto in merito: Lo status (stato giuridico
ed economico) dei docenti universitari a tempo indeterminato è disciplinato
integralmente dalla legge e non da un contratto, come avviene invece oramai per
la quasi totalità del pubblico impiego. Le radici di questa scelta legislativa,
coerentemente seguita sin dalla nascita della Repubblica è da ritenere si
trovino nelle peculiari caratteristiche della funzione svolta dai professori
universitari, cui presiedono alcuni principi costituzionali fondamentali su cui
è bene soffermarsi brevissimamente. Sin dalla discussione in Assemblea
costituente su quello che sarebbe poi diventato l’art. 33 (in particolare per i
commi che riguardano l’Università, c. 1 “L’arte e la scienza sono libere e
libero ne è l’insegnamento” e c. 6 “Le istituzioni di alta cultura, università
e accademia, hanno diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti
dalle leggi dello Stato”), si pensò bene che la posizione del professore
universitario dovesse essere contraddistinta dalla massima indipendenza,
sottraendola alle possibili influenze della politica, o comunque da una
“ricattabilità” per ragioni di ordine economico, che ne avrebbe compromesso la
libertà. I costituenti in questa discussione svolsero non a caso significativi
parallelismi con la posizione della magistratura. Sappiamo bene che la legge n.
240/2010 ha introdotto significativi elementi di delegificazione dello stato
giuridico/economico dei docenti. Ciò è avvenuto ad esempio affidando ai
regolamenti di ateneo la disciplina del reclutamento, così come quella
dell’attribuzione degli scatti stipendiali (non più automatici, ma previa
richiesta e valutazione positiva da parte dell’ateneo). Non si è forse
riflettuto abbastanza sul dato per cui affidare l’attribuzione degli scatti a
una valutazione tutta interna all’ateneo sostanzialmente mette il docente in
una posizione di “ricattabilità” e di soggezione agli organi di governo
dell’università, oltre che alle condizioni finanziarie dell’ateneo in cui
opera. Un aspetto questo che non mancherà di manifestarsi quando inizieranno ad
essere svolte le prime tornate di valutazione ai fini dell’attribuzione degli
scatti stipendiali, e che non potrebbe che aggravarsi ulteriormente in regime
di contrattazione. Le ragioni fondative dello status pubblicistico, che
risultano oggi invariate, peraltro appaiono semmai sempre più evidenti proprio
perché ci troviamo oggi dinanzi ad una certa invadenza della politica nella
vita degli atenei, così come ad un assoggettamento delle attività svolte dai
docenti a vincoli ed oneri burocratici sempre più stringenti. Del resto se lo
status pubblicistico avesse una ragion d’essere che è venuta meno, il passaggio
al regime privatistico dovrebbe essere perseguito allora anche per magistrati,
ambasciatori, funzionari delle autorità indipendenti
DOTTORATO
INIZIA DAL COMPENSO LA VALORIZZAZIONE DEL DOTTORATO
La
proposta è che il Dottorato di Ricerca sia valorizzato sotto due aspetti: il
suo ruolo nella società e la remunerazione che ne deriva. Questo è un
investimento dovuto nel diritto allo studio ed è essenziale per arginare il
trasferimento tecnologico verso l’estero derivante dalla “fuga dei cervelli”,
dando dignità al Dottorato dentro e fuori dell’Accademia. Alla luce di queste e
altre considerazioni, un rappresentante
dei dottorandi alla Statale di Milano nel Senato Accademico, che lo scorso anno
ha varato un importante aumento, ha promosso una petizione per chiedere alla ministra
Fedeli di aumentare l’importo minimo delle borse di dottorato in tutta Italia.
Roars ha pubblicato la lettera di Eugenio
Petrovich, Giulio Formenti e Nicola Chiaromonte, dottorandi presso le
Università di Milano e Pavia, sulla proposta di aumentare l’importo minimo
delle borse di dottorato. (25-07-17)
IL DOTTORATO NEGLI STATI UNITI
Negli
Stati Uniti, il dottorato dura dai 5 agli 8 anni ed è strutturato in maniera
sistematica. I primi tre anni sono durissimi, con esami che devono essere
superati entro date prestabilite, pena la perdita del posto di dottorato. A
partire dal terzo anno, i dottorandi cominciano a insegnare, e solo durante il
quinto anno iniziano a scrivere la tesi. Contemporaneamente, entra in gioco il
Career office, col compito di guidare nella ricerca del lavoro chi si
approssimi alla fine del percorso. Il personale dell’ufficio carriere ha
competenze specifiche (per acquisire le quali ha studiato e si è formato): è
aggiornato sulle statistiche relative allo stato di salute delle varie
discipline, e insegna al candidato le regole base della negoziazione di salari
e “benefits”, oltre a fornire una formazione che va dalle linee guida per la
compilazione di un curriculum, all’etichetta di una cena di affari. Il
prestigio di un ateneo si misura anche dalla sua abilità di impiegare i propri
“addottorati” e ogni dipartimento serio dedica una pagina web al cosiddetto
“placement”, ovvero per ogni addottorato indica il suo presente impiego.
(Fonte: T. Gazzarri, FQ 15-08-17)
ESTENSIONE DELL'INDENNITÀ DI DISOCCUPAZIONE (DIS-COLL)
ANCHE AGLI ASSEGNISTI DI RICERCA E AI DOTTORANDI DI RICERCA
Con
la circolare Inps n. 115 del 19 luglio 2017 sono state impartite le indicazioni
operative per l'estensione dell'indennità di disoccupazione (Dis-Coll) anche
agli assegnisti di ricerca e ai dottorandi di ricerca con borsa il cui
contratto termini dopo il 30 giugno 2017. L'estensione di tale beneficio, di
natura assistenziale, anche alla platea dei cosiddetti "precari della
conoscenza" (quali sarebbero appunto assegnisti e dottorandi) è stata resa
possibile a seguito dell'approvazione a maggio scorso da parte del Senato della
Repubblica, a larga maggioranza, della legge sul lavoro autonomo non
imprenditoriale, entrata in vigore il 1° luglio 2017. Con questo voto la
Dis-Coll, l'indennità di disoccupazione, introdotta dal d.lgs. n. 22/2015 e
rivolta ai collaboratori coordinati e continuativi, iscritti in via esclusiva
alla gestione separata dell'Inps, è diventata strutturale anche per le
categorie predette
CRITICHE ALLA DIS-COLL PER I DOTTORANDI
L'argomentazione
che ha portato ad estendere la Dis-Coll anche ai dottorandi ha fatto leva sul
fatto che i dottorandi devono essere iscritti alla gestione separata dell'Inps
e per questo versano nel triennio contributi previdenziali assimilabili a
quelli da lavoro dipendente. Tuttavia, l'iscrizione alla gestione separata è
una soluzione tecnica valida soltanto ai fini pensionistici, dalla quale
risulta alquanto forzato evincere l'assimilazione tra dottorato e attività
lavorativa. Peraltro, l'introduzione della Dis-Coll ha comportato un aumento
dell'aliquota contributiva per tutti i dottorandi dello 0,51 per cento, che
contribuirà ulteriormente ad erodere l'importo della borsa. Quest'ultima si
configura comunque come una borsa di studio, esente da imposizione fiscale, il
che consente peraltro di contenerne il costo per gli atenei ai soli due terzi
dei contributi previdenziali. Se, invece, la borsa diventasse reddito da
lavoro, l'intero sistema andrebbe rivisitato altrimenti il costo da lavoro
dipendente, a parità d'importo, diventerebbe alquanto insostenibile.
Se
dunque il dottorato non è stato concepito, né tuttora si configura, quale
attività lavorativa, a quale pro prevederne sottoposizione alle medesime regole
inerenti all'attività lavorativa? È improprio ed anzi fuorviante parlare di
precariato e disoccupazione nel dottorato di ricerca, semplicemente perché
trattandosi di un percorso di formazione, esattamente come il percorso di
studio all'università, non da diritto ad alcun posto di lavoro inteso in senso
tradizionale, ma fornisce un titolo di studio che abilita alla formazione e
alla ricerca sia in ambito pubblico sia privato. Per questo, il dottorato di
ricerca dev'essere un'esperienza altamente qualificata di investimento e di
formazione del capitale umano, indispensabile per accrescere le proprie
credenziali, con ricadute in termini di premialità occupazionale. Non per
questo è da sottovalutare la condizione di inattività che si materializza per
molti dottorandi al termine del percorso formativo, ma le risposte dovrebbero
essere trovate evitando il ricorso a misure assistenziali pubbliche, che
assolvono unicamente a una funzione di ammortizzatore sociale e che risultano
dall'estensione delle tutele concepite in un contesto e su presupposti
completamente differenti. Il percorso dottorale, trasformato nell'ennesima
categoria destinataria di misure di assistenzialismo e welfare pubblico,
potrebbe essere così ridotto ad una categoria di precariato qualunque. (Fonte:
G. Mulazzani, Ilsussidiario.net 16-08-17)
DOTTORATO. PROPOSTE PER MIGLIORAMENTI
Il confronto del sistema dei
dottorati anglosassoni con quelli italiani evidenzia alcuni problemi
strutturali che determinano sia precarietà lavorativa sia scarsa competitività.
Di seguito un link per leggere dieci proposte, alcune di facile attuazione,
altre difficili da realizzare, per ridare linfa al sistema italiano di
formazione post-laurea: https://tinyurl.com/yd9vd7y5
(Fonte: T. Gazzanti, FQ 27-08-17)
CULTURA DEL DIGITALE
IMMERSIONE NELL’ERA DIGITALE E CAMBIAMENTO DEI CERVELLI
DEI GIOVANI
Anna
Angelucci, stimolata dalla lettura di Susan Greenfield (Cambiamento mentale.
Come le nuove tecnologie stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli.
Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2016) torna a riflettere su uno degli aspetti
più significativi legati alla nostra ormai irreversibile immersione nell’era
digitale. Guardiamoci intorno, osserviamo le persone che ci circondano:
all’esigenza di una diffusa e libera energia sociale, che si opponga ai
processi politici in atto – a partire da scuola e università – alla necessità
di un dialogo reale, dunque dialettico e in corpore vili, tra una pluralità di
soggetti che si incontrano e agiscono in una dimensione autenticamente
collettiva e che non siano espressione di un’eccezionale minoranza, corrisponde
oggi una risposta inerte, una passività diffusa, un adattamento flebilmente
critico – e più spesso compiaciutamente acritico – all’ineluttabilità
dell’esistente, una inettitudine collettiva generata anche dall’inazione
prolungata, dalla delega pigra con cui abbiamo sostituito la voce, il gesto,
l’espressione critica con un I like cliccato su una tastiera o con un emoticon
che qualcun altro ha stilizzato per noi, con un linguaggio binario povero e
polarizzato, prigioniero di una sterile contrapposizione tra tesi e antitesi ma
incapace di qualunque sfumatura dialettica. Dove possiamo trovare un antidoto?
Dove possiamo creare gli anticorpi per difendere l’humanitas da questo fuoco
incrociato in cui il digitale in tutte le sue forme appare il perfetto coagulo
dell’interesse economico, politico e militare globale? Un tempo avrei risposto,
con fiducia: a scuola e all’università, sui libri, tra i banchi, nel dialogo
tra studenti e con gli insegnanti, nello studio, nell’approfondimento critico,
nella riflessione collettiva, nella lettura e nella scrittura. Oggi, dopo vent’anni di pessime riforme della
scuola e dell’università ... anche l’ottimismo della volontà si arrende al
pessimismo della ragione: i cervelli dei nostri ragazzi cambieranno
rapidamente. E saranno molto presto perfettamente adattati al mondo
dematerializzato e post-umano – popolato da droni, robot e indistinguibili
replicanti – che si sta così velocemente stagliando davanti ai nostri occhi. (Fonte: A. Angelucci, Roars
29-07-17)
FINANZIAMENTI
FONDO DI FINANZIAMENTO ORDINARIO (FFO). CRITERI DI
RIPARTO PER IL 2017. OSSERVAZIONI DEL CONSIGLIO UNIVERSITARIO NAZIONALE
A
stabilire i criteri di riparto per il 2017 del Fondo di finanziamento ordinario
(Ffo) delle università è il decreto firmato il 12 agosto dalla ministra Valeria
Fedeli. Per il 2017 il Ffo si attesta a 6,982 miliardi di euro con un
incremento di 62,5 milioni (+0,9%) rispetto al 2016.
La
somma delle tre quote principali del Fondo (quota base, quota premiale, fondo
perequativo) è di 6,273 miliardi, con un paletto preciso per garantire la
sostenibilità: ogni università non perderà o guadagnerà più del 2,5% rispetto
all'anno precedente, grazie anche a un intervento perequativo che vale 145
milioni. Cresce l'incidenza della quota premiale che sale a 1,536 miliardi di
euro. Fondi questi che saranno divisi in base a tre criteri: il 60% sarà
assegnato sulla base dei risultati della ricerca (come fotografati dall'Anvur),
il 20% in base alla qualità delle politiche di reclutamento e il restante 20%
con il nuovo criterio dell'autonomia responsabile (in pratica gli atenei si
fanno misurare su due indicatori scelti da loro tra le attività di didattica,
ricerca e internazionalizzazione).
Secondo
il Corriere della Sera – Università, in base alle tabelle allegate dal Miur al
comunicato sul Ffo, sommando le tre voci del Ffo (quota base, quota premiale e
risorse perequative) nel 2017 alle università arriveranno 6,272 miliardi di
euro: 63 milioni meno del 2016, il segno è negativo per l’1%.
Il
costo standard per studente - il "prezzo giusto" delle attività
universitarie sulla base di alcuni indicatori - quest'anno decide invece il
riparto tra gli atenei di 1,285 miliardi di euro. In pratica il 20% dei fondi,
Ma il costo standard per studente, dopo una bocciatura della Consulta, è stato
rivisitato nel recente decreto per il Mezzogiorno dove è previsto che cresca
solo tra il 2% e il 5% l'anno fino a un massimo del 70% della spesa storica.
Tra le altre voci del Ffo, si segnala l'aumento dei fondi per dottorati di
ricerca (140 milioni di euro), orientamento preuniversitario (5 milioni di
euro), sostegno a studenti con disabilità (7,5 milioni di euro) e
cofinanziamento delle chiamate dirette e assunzioni di soggetti esterni
all'ateneo, in particolare ricercatori (14 milioni).
Il
CUN ha approvato i criteri di riparto del FFO 2017, ma ha rilevato il mancato
recupero delle risorse complessive assegnate al sistema universitario,
osservando che la «prolungata carenza complessiva di risorse disallinea il
Paese rispetto alle buone pratiche delle nazioni UE e OCSE e compromette la
capacità di perseguire con efficacia l’attività istituzionale universitaria».
Non senza stigmatizzare un «contesto nazionale nel quale sono state destinate
risorse economiche molto significative al finanziamento di iniziative di
ricerca non riconducibili al sistema universitario». (Fonti: M. Bartoloni,
IlSole24Ore 11-08-17. CUN, Adunanza del 03-08-17. A. De Gregorio, CorSera
Università 13-09-17)
FINANZIAMENTO DELLE ATTIVITÀ BASE DI RICERCA.
OSSERVAZIONI DEL CONSIGLIO UNIVERSITARIO NAZIONALE
A
proposito dello stanziamento di
45.000.000 euro l’anno al fine di finanziare le attività base di ricerca dei
professori di seconda fascia e dei ricercatori in servizio a tempo pieno presso
le Università statali, con un importo individuale del finanziamento pari a
3.000 euro, da assegnarsi in modo da soddisfare il 75% delle domande dei
ricercatori e il 25% delle domande dei professori di seconda fascia, il CUN
osserva: La procedura valutativa delineata allo scopo di individuare, per ogni
settore scientifico-disciplinare, i beneficiari del finanziamento si configura
come procedura completamente automatica. Scelta della quale pur si comprende la
ragione: l’elevato numero dei possibili candidati e i tempi ristretti (dovuti
alla cadenza annuale) impediscono di adottare, anche parzialmente, la peer-review.
Tuttavia, questo conduce a una valutazione interamente fondata su criteri
bibliometrici/quantitativi così trascurando di fatto la complessa articolazione
interna dei settori scientifico-disciplinari (SSD). Automatismo che risulta
tanto più delicato in quanto si tratta, in questo caso, di valutazioni riferite
a singoli e non a strutture, come avviene invece nell’ambito degli esercizi per
la Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR). (Fonte: CUN Adunanaza
25-07-17)
FFABR (FONDO PER IL FINANZIAMENTO DELLE ATTIVITÀ BASE DI
RICERCA) UMILIA I RICERCATORI
Il
blog Homo scientificus Europaeus (un’iniziativa ospitata da EuroScientist, webmagazine
pubblicato da EuroScience) ha pubblicato una lettera
firmata da alcuni componenti del Circolo universitario pavese Giorgio Errera.
L’argomento è il cosiddetto FFABR (Fondo per il finanziamento delle attività base
di ricerca) che finanzierà con 3.000 Euro a testa la ricerca di non più del 25%
dei professori associati e del 75% dei ricercatori che faranno domanda.
« Astonishment
is the only possible reaction at reading the latest call for funding of MIUR. The
idea of supporting basic research activity by funding less than half of the
35.363 associate professors and researchers with a sum of 3000 euros, after a
time consuming and centralized selection process, sheds light on the tragic
state of funding for our Universities.
[…] The amount of money made available to the applicants humiliates once
again the professional figure of Italian researchers and represents a clear
mistrust on the University autonomy and financial independency. This action
raises once again very serious questions regarding the level of awareness of
the Italian policy makers on the financial framework in which researchers and
teachers operate in the Italian Universities. Nevertheless, this action has the
merit to confirm a widespread feeling that basic activity of researchers and
teachers in our universities is going to die. The cost of such death will be
dramatically paid by future generations that, in the absence of any good and
internationally competitive university education, will even miss the outmost
possibility of the brain drain.» (Fonte: http://blog.euroscientist.com
10-07-17)
'EXCELLENT SCIENCE' DI HORIZON 2020.
Il
Consiglio Europeo per la Ricerca (ERC) nell'ambito del pilastro 'Excellent science'
di Horizon 2020 concede diverse tipologie di sovvenzioni a ricercatori
internazionali interessati a lavorare in Europa. La bozza del programma di
lavoro 2018 prevede diversi tipi di sostegno:
- Sovvenzioni
di avviamento (starting grants), rivolte ai ricercatori con esperienza da 2 a 7
anni, che possono ricevere un contributo fino a 1,5 milioni di euro per 5 anni;
- Sovvenzioni
di consolidamento (consolidator grants), rivolte ai ricercatori con esperienza
da 7 a 12 anni che possono accedere a un contributo massimo di 2 milioni di
euro per 5 anni;
- Sovvenzioni
avanzate (advanced grants), rivolte ai ricercatori in possesso di un curriculum
accademico che li identifichi come leader dei rispettivi settori di ricerca. Il
contributo massimo è di 2,5 milioni di euro per 5 anni;
-
'Proof of concept', rivolte ai ricercatori già assegnatari di una borsa ERC,
che abbiano un progetto ancora in corso o terminato da non più di 12 mesi dalla
data di pubblicazione del bando. I beneficiari accedono a un contributo pari a
150mila euro per 18 mesi;
- Synergy
grants, cioé sovvenzioni rivolte a piccoli gruppi di ricercatori (da 2 a 4
Principal investigator) con i rispettivi team di lavoro, che possono accedere
ad un contributo massimo di 10 milioni di euro per 6 anni (può essere richiesta
anche un'integrazione fino a 4 milioni di euro).
Le
risorse a disposizione ammontano a oltre 1,8 miliardi di euro, ripartiti tra le
diverse tipologie di sovvenzione e altri interventi. (Fonte: V. Di Sandro, FASI.biz
21-07-17)
LAUREE-DIPLOMI-FORMAZIONE POST
LAUREA-OCCUPAZIONE
LE NUOVE REGOLE PER LE SCUOLE DI
SPECIALIZZAZIONE IN MEDICINA
Pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale 208 di ieri le nuove regole per l'accesso dei medici
alle scuole di specializzazione in medicina, contenute nel decreto 130/2017,
puntano a rendere la selezione più qualificata, snella, semplificata. Con
un'attenzione specifica alla questione logistica. Le sedi d'esame saranno
accorpate per area geografica e rese meno frammentate, anche per garantire un
maggiore controllo durante lo svolgimento delle prove stesse. Tra le novità si
segnala che il concorso di ammissione sarà bandito entro il 31 maggio (prima
era il 30 aprile); il numero di quesiti della prova scritta sale a 140 (dai 110
precedenti) e le risposte multiple tra cui scegliere passano da 4 a 5; ogni
risposta esatta vale 1, non data o errata - 0,25 (prima era - 0,30). (Fonte:
IlSole24Ore 07-09-17)
SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE MEDICA. «UNA SU DIECI NON È IN
REGOLA». LA PROPOSTA DELL'OSSERVATORIO AI MINISTERI: 135 NON VANNO AUTORIZZATE
È
la prima volta che le scuole di specializzazione sono censite e valutate in
base a criteri precisi. Risulta che una scuola di specializzazione su dieci che
oggi in Italia prepara i giovani medici alla professione è senza i requisiti minimi
di qualità. E quanto emerge da documenti riservati all'esame del ministero
della Salute di Beatrice Lorenzin e di quello dell'Istruzione di Valeria
Fedeli. Un dossier scottante dove viene messo nero su bianco che 135 scuole di
specializzazione su 1.433 non sono in grado di formare al meglio. La
convinzione è dell'Osservatorio nazionale della formazione medica
specialistica, una costola tecnica dei due ministeri. Il parere l'ha stilato
dopo un lavoro di due anni sulla base di criteri come la presenza di spazi
adeguati e laboratori specifici nelle sedi universitarie, la garanzia di
standard assistenziali di alto livello negli ospedali dove viene svolto il
tirocinio. (Fonte: G. Fregonara e S. Ravizza, CorSera 21-08-17)
BANDO SPECIALIZZAZIONI MEDICHE 2017.
NUOVO ACCREDITAMENTO STRUTTURE
Il MIUR ha
comunicato la data della pubblicazione del bando di accesso alle scuole di
Specializzazione Mediche 2017: il 29 settembre ci sarà la pubblicazione del
bando di concorso;
il 28
novembre si svolgerà la prova scritta secondo le nuove modalità del
regolamento; entro il 2017 ci sarà la presa di servizio
Quest'anno, a
seguito dell’entrata in vigore del decreto congiunto Miur-Salute (n. 402 del 13
giugno 2017), è partito un nuovo e più rigoroso sistema di accreditamento delle
Scuole di specializzazione, improntato a garantire una sempre maggiore qualità
della formazione dei futuri professionisti medici. Le Università hanno
presentato, in base ai nuovi parametri per l’accreditamento, le nuove proposte
delle Scuole entro il 10 luglio scorso. L’Osservatorio nazionale della
formazione medica specialistica (organo istituito presso il MIUR, con la
partecipazione di rappresentanti del MIUR, della Salute, delle Regioni e del
mondo della medicina universitaria) ha presentato il 31 luglio scorso le
proposte di accreditamento rispetto alle quali, nel mese di settembre, sono
stati effettuati ulteriori approfondimenti e controlli di merito su richiesta
dei due Ministeri. Il complesso percorso dell’accreditamento sarà concluso
nella prossima settimana con l’emanazione dei decreti ministeriali della
Salute, di concerto con il MIUR, di accreditamento delle strutture e con i
decreti MIUR di accreditamento delle Scuole. (Fonte: M. Ferrucci, studenti.it
18-09-17)
TASSO DI OCCUPAZIONE DEI LAUREATI
I corsi
universitari che hanno il maggiore tasso di occupazione alla conclusione degli
stessi sono quelli a indirizzo scientifico, tecnico ed economico. Solo il 25%
dei laureati proviene dai corsi Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e
matematica) che sono i più richiesti sul mercato del lavoro. Se sommiamo a
questi i laureati in corsi giuridici ed economici superiamo di poco il 50%.
Il tasso di
occupazione per i laureati Stem è dell'82% (85% per ingegneria). Per i corsi
giuridici ed economici il tasso di occupazione è analogo (81%). Ma nel nostro
Paese la gran parte degli universitari è in corsi umanistici dove il tasso di
occupazione risulta più basso (74%). I nostri giovani arrivano all'affaccio sul
mercato del lavoro dopo almeno 13 anni di corsi scolastici e diventano 18 se
proseguono con l'università. Arrivano così alla scelta lavorativa da due a tre
anni dopo i coetanei degli altri paesi europei. Solo 18 italiani su cento sono
laureati e ciò ci colloca penultimi, davanti al Messico, nella classifica dei
paesi a economia avanzata. Nei paesi dell'area Ocse la media è del 37%, il
doppio del nostro dato. (Fonte: www.ilsussidiario.net
16-09-17)
CORSI DI LAUREA PRESTIGIOSI ALL’ESTERO
MATEMATICA E
FISICA. L'ETH - Swiss Federal Institute of Technology, questo Istituto di
Zurigo, si classifica nelle top 10 a livello mondiale sia per matematica che
per fisica. L'ETH è un'università pubblica molto antica che conta circa 30.000
studenti. La retta va da 1.700 a 5.400 euro l'anno. L'Imperial College of
London, è un'università con un alto livello di ricerca, ha prodotto in passato
risultati importanti quali la penicillina, le fibre ottiche e l'olografia.
Retta: 9-10mila euro l'anno. L'École Polytechnique di Parigi: il focus
principale è sulle scienze, l'eccellenza è matematica. Un migliaio di euro
l'anno la retta grazie alla copertura dei fondi statali. L'eccezione nel campo.
ECONOMIA. Tra
le più blasonate figura la LSE (London School of Economics), dove ben dodici persone,
tra ex studenti e membri del corpo accademico, si sono meritati un Premio Nobel
per l'economia. Portafoglio alla mano, solo il primo anno costa 8.500 sterline.
L'Università Pompeu Fabra di Barcellona, dove insegna Andreu Mas-Colell, autore
di «Microeconomia Theory», uno dei testi più utilizzati in microeconomia, ha un
costo che si aggira sui 2.500 euro l'anno. La School of Economics di Stoccolma
(SSE) che ha «sfornato» il premio Nobel Gunnar Myrdal. Come in tutti i Paesi
scandinavi i suoi corsi sono gratis.
INGEGNERIA.
ETH Zurich Swiss Federal Institute of Technology: Al Politecnico federale di
Zurigo Albert Einstein ha preso qui il suo diploma nel 1901. Costo, 1.300
franchi l'anno; l'Imperial College di Londra, dove la retta è di 9.000 sterline
l'anno;
GIURISPRUDENZA.
I migliori futuri avvocati tedeschi sono i laureati del Ruprecht-Karls-Università di Heidelberg. Frequentare questo ateneo
prevede il pagamento di una piccola tassa da 150-250 euro. Altre prestigiose
scuole di diritto in Europa includono la belga Katholieke Universiteit Leuven
che ha però tasse elevate (da 1.900 a
3.850 euro l'anno) e la francese Université Paris Panthéon-Sorbonne.
Nonostante il prestigio la Sorbona ha un sistema di tassazione molto bassa, al
massimo 500 euro.
LETTERE. La
Friedrich-Schiller-Università Jena: punto d'incontro dei più famosi romantici
tedeschi. Vi insegnarono Fichte e Hegel e vi studiarono Wilderlin, Novalis,
Schopenhauer. Non ci sono tasse d'iscrizione; l'Université Paris-Sorbonne:
attiva già dal 1257, è l'erede della classe di Lettere e Scienze umane
dell'antico Collège della Sorbona.
(Fonte: S.
Fraschini, Il Giornale 11-09-17)
I LAUREATI TRIENNALI CHE PROSEGUONO E CONSEGUONO UNA LAUREA MAGISTRALE
SONO MENO DEL 50%. RISPETTO AL 2000 I LAUREATI SONO AUMENTATI DEL 20%
La Repubblica il 2 settembre riportava il dato
seguente: Oggi, il 79/80% dei triennalisti prosegue e consegue la laurea
magistrale. I conti però non tornano. Infatti, sfogliando il Rapporto biennale
Anvur (pag. 144) si vede che la percentuale di passaggio dai corsi triennali a
quelli di secondo livello è del 57,9%, se non si considerano le Scienze
Mediche. Includendole, la percentuale scende al 51,1%. Sempre secondo il
Rapporto Anvur (pag. 130), nei corsi di laurea di secondo livello i tassi di
abbandono più recenti si aggirano intorno al 15%. Basta una moltiplicazione per
concludere che tra i laureati triennali quelli che proseguono e conseguono una
laurea magistrale sono meno del 50% (Anvur) non il 79/80% citato da La
Repubblica (02-09-17) (Fonte: Red.ne Roars 08-09-17))
Anche il CUN
ha sentito “l’obbligo di segnalare che i dati presentati nell’articolo portano
a una conclusione opposta a quella indicata nel titolo: i laureati sono in
aumento, non in calo”. Ebbene: come riportato nell’articolo, nel 2000 abbiamo
avuto 144mila laureati vecchio stile e nel 2016 abbiamo avuto 175mila laureati
triennali. In altre parole, rispetto al 2000, nel 2016 ben 21mila giovani in
più hanno conseguito un titolo di studio di livello universitario, con un aumento
di oltre il 20%. Inoltre, l’età media dei laureati triennali 2016 (fonte:
rapporto Almalaurea 2017) è di 24,9 anni, contro un’età media di 27,6 anni dei
laureati vecchio stile del 2000. Con l’introduzione del 3+2 abbiamo dunque più
giovani in possesso di un titolo di studio universitario, ottenuto in media con
2,7 anni di anticipo rispetto ai loro colleghi del 2000. (Fonte: Lettera del
CUN a La Repubblica 02-09-17)
CRESCE LA RICHIESTA DI LAUREATI IN
INGEGNERIA MA PERSISTE IL DISALLINEAMENTO TRA DOMANDA E OFFERTA
Soprattutto
grazie al varo del piano Industria 4.0 cresce consistentemente la domanda di
laureati in ingegneria, in particolare nel settore dell'informazione ed in
quello industriale. E' quanto emerge dalle analisi del Centro Studi Cni
(Consiglio nazionale degli ingegneri) attraverso l'elaborazione degli ultimi
dati del Sistema Informativo Excelsior. I dati confermano un trend positivo che
chiude la lunga stagione di crisi degli anni scorsi e conferma come vasta parte
del sistema produttivo si sia rimesso in marcia, seguendo un sentiero di
crescita nuovo. In particolare, adottando l'approccio di Industria 4.0 ed
incorporando progressivamente crescenti livelli di digitalizzazione dei
processi, ambito nel quale gli ingegneri esprimono competenze specifiche e per
i quali attualmente risultano particolarmente richiesti. Sulla base dei dati
medi trimestrali attualmente disponibili, la domanda di ingegneri si mantiene
su livelli soddisfacenti. Per il periodo luglio-settembre 2017 la domanda di
personale con laurea in ingegneria si è avvicinata, secondo le analisi del Cni,
a 24.000 unità, così come la media per il periodo agosto-settembre 2017 si è
attestata a poco più di 25.000 unità. E' verosimile pensare che la domanda di
ingegneri per tutto l'anno 2017 possa superare le buone performance dello
scorso anno, in cui la richiesta di figure con laurea in ingegneria si era
attestata a 26.540 unità (la domanda annuale è data dalla media dei dati
trimestrali). Ma se la domanda di ingegneri si mantiene su livelli elevati, la
crescita potenziale rischia di affievolirsi per un persistente fenomeno di
disallineamento tra domanda e offerta. Secondo le stime del Sistema Informativo
Excelsior, gli ingegneri sono attualmente tra le figure più difficili da
reperire. Il tasso di difficoltà di reperimento manifestato dalle imprese è
infatti, secondo l'ultima rilevazione, del 65,1% per gli ingegneri elettronici
e dell'informazione (il 65% delle aziende che ricerca queste figure ha
difficoltà a reperirle), del 62,4% per gli ingegneri industriali e del 59% per
gli ingegneri degli altri indirizzi di specializzazione. (Fonte: F. Meta, www.corrierecomunicazioni.it
05-09-17)
ERASMUS. XIX INDAGINE DI ALMALAUREA SULLA CONDIZIONE OCCUPAZIONALE
DEI LAUREATI
A
cinque anni dal conseguimento del titolo di studio, il 16% dei laureati ha
dichiarato di avere svolto un'esperienza all'estero (Erasmus, preparazione
della tesi o formazione post-laurea) e poi di essere rimasto nel paese per motivi
di lavoro. «Ciò conferma che mobilità richiama mobilità - sostiene la ricerca -
ovvero maturare esperienze lontano dai propri luoghi di origine favorisce una
maggiore disponibilità a spostarsi». A questi ragazzi è stato chiesto di esprimersi sulla
possibilità di tornare in Italia: il 42% degli interpellati ritiene tale
ipotesi improbabile, quanto meno nell'arco del prossimo quinquennio. Il 28% la
considera poco probabile, solo l'11% si è mostrato ottimista in tal senso.
Sull'analisi socio-economica degli studenti Erasmus influisce anche l'ateneo di
provenienza. La
collocazione geografica a Sud o a Nord influisce sulla mobilità dei giovani. Le
università dell'Italia Nord-orientale inviano più studenti all'estero (11%),
mentre quelle del Sud o delle isole solo il 6 e 7%. In dieci anni i numeri
dell'Erasmus sono cresciuti. Nel 2006 gli studenti che facevano questa scelta
erano il 6% degli immatricolati, nel 2016 l'8%. La possibilità di trovare un
lavoro a un anno dalla laurea sono cresciute del 12%. La meta più gettonata
resta la Spagna - la sceglie il 30% degli studenti. Seguono la Francia, la
Germania e il Regno Unito. La scelta di affrontare questo percorso, anche in
vista di un espatrio, avviene spesso nel biennio magistrale e non durante la
laurea di primo livello. Il viaggio all'estero è più diffuso tra gli studenti
dell'«area linguistica» (22 laureati su 100) e meno tra i medici (16%),
architetti (13%) e studenti di giurisprudenza e scienze politiche (10%).
(Fonte: Il Manifesto 02-08-17)
LAUREATI E STUDENTI STRANIERI IN ITALIA
I
laureati stranieri nelle nostre università sono cresciuti del triplo nell’arco
di 11 anni, tra 2005 e 2016: da 3.000 a 9.556. Il tutto mentre la quota di
studenti esteri iscritti è arrivata al 5% della popolazione universitaria nel
2015, pari a più di due volte rispetto al 2005 (2,2%) ma ancora a distanza da
Germania (7%), Francia (10%) e Regno Unito (18%). Il problema principale arriva
dopo la fine degli studi: solo il 30% dei laureati darebbe la priorità
all'Italia come luogo di lavoro, mentre il 36% abbandona la Penisola a un anno
dalla laurea magistrale. Dionigi (Almalaurea): servono borse e docenti
internazionali. Il trend è comunque positivo, se si considera che tra 2004 e
2014 il saldo della mobilità internazionale è riuscito a virare in positivo:
gli studenti stranieri in entrata hanno superato il totale di quelli italiani
in uscita. Ma si resta su livelli «non paragonabili» a quelli del resto
d'Europa, dove la mobilità di studenti è da anni un fattore di competizione. Il
bacino degli internationals frutta alla sola Gran Bretagna oltre 420mila
iscritti, con ricadute economiche nell’ordine dei miliardi di sterline tra
rette, affitti e indotto. Handicap principale: l’internazionalizzazione, ad
esempio nell’offerta didattica in inglese. Secondo i dati di Universitaly, un
portale del Miur, i nostri atenei hanno attivato un totale di 338 corsi
insegnati integralmente in lingua. Un progresso rispetto alla nicchia di
qualche anno fa, ma comunque ben al di sotto dei 1.034 offerti dai Paesi Bassi,
gli 835 della Germania e i 550 della Svezia. Un ritardo che spiega, in parte,
perché la maggioranza di iscritti stranieri confluisca sugli atenei più predisposti
all'internazionalità come Perugia Stranieri (30%), Bolzano (unica università
trilingue in Italia, 17%), Siena Stranieri (14%), Trento e Trieste (8%).
(Fonte: A. Magnani, IlSole24Ore 11-08-17)
CREDITI FORMATIVI PROFESSIONALI PER LA LAUREA. SISTEMA
VAE
Oggi
è possibile tramutare l’esperienza lavorativa e curricolare in crediti
formativi professionali. La possibilità è offerta dal sistema VAE (validazione
degli apprendimenti esperienziali) che tramuta esperienza lavorativa in Cfu
ovvero in Cfp. Il sistema VAE di convalida dell’esperienza acquisita mira ad
agevolare il percorso universitario degli studenti lavoratori. Il VAE si
rivolge a persone che praticano attività professionale retribuita o volontaria
da almeno tre anni. E’ necessario possedere esperienza professionale
certificata, da documentare in Curriculum Vitae in formato europeo. Il CV unito
a un’apposita richiesta di riconoscimento dei Cfp, dovrà poi essere vagliata
dal singolo ateneo di riferimento. I crediti formativi sono l’unità di misura
in base alla quale vengono certificate le competenze dello studente o del
lavoratore. I crediti formativi possono essere universitari (Cfu) o
professionali (Cfp). In Italia, il riconoscimento dei crediti formativi
professionali è principalmente attivo nelle università telematiche. Il
meccanismo della tramutazione dell’esperienza formativa pregressa in Cfu non è
tutto automatico. Varia a seconda dei singoli atenei e corsi di studio
prescelti dal candidato. Per saperne di più > https://www.controcampus.it/2017/08/crediti-formativi-professionali-per-la-laurea-quali-sono-e-come-funzionano/ .
RECLUTAMENTO
RECLUTAMENTO. VALE POCO LA LEGGE DELLA DOMANDA E
DELL’OFFERTA
Un
professore ordinario ogni cinque lascerà la cattedra tra quest'anno e i
prossimi due. Negli studi classici l'abbandono tocca quasi un ordinario su tre,
a medicina, storia e scienze politiche esce di scena un cattedratico ogni
quattro, mentre l'esodo è un po' meno intenso a matematica, economia e
giurisprudenza. Allargando lo sguardo ai professori di seconda fascia e ai
ricercatori, dove l'età media è più bassa, la via verso l'uscita rimane
affollata: poco meno del 10% dei docenti ha ancora al massimo due anni da
passare in aula. I numeri dei censimenti ministeriali parlano di un esodo in
pieno corso, destinato ad aprire spazi enormi negli organici. Il tutto accade
mentre, dopo anni di dieta forzata, il turn over tornerà al 100% dal 2018,
quando il sistema universitario potrà dedicare a promozioni e nuove assunzioni
tutti i risparmi prodotti dalle uscite. La lunga fase dell'austherity
anti-crisi ha ridotto del 16% i docenti mentre gli iscritti agli atenei sono
aumentati dell'8,6%, anche grazie alla ripresina degli ultimi due anni. Ma è
nelle singole aree di studio che si incontrano le contraddizioni più evidenti.
Quella che le etichette ministeriali definiscono «area sociale», e che in
pratica comprende Economia, Giurisprudenza e Scienze politiche, è l'unica a non
guadagnare iscritti rispetto a dieci anni fa,ma è anche quella che subisce
l'emorragia più contenuta di docenti (-4,6%): la forbice fra la robustezza del
corpo docente e la platea degli studenti si allarga invece nell'area medica,
che paga anche un certo gigantismo del passato, e in quella scientifica, che si
è alleggerita di un docente su sei mentre gli studenti sono aumentati del
18,6%. E nello stesso periodo gli atenei del Centro-Nord, che hanno visto
crescere dell'11,6% gli iscritti, hanno subito la stessa perdita di professori
che si è registrata al Sud, dove gli studenti sono calati del 2 per cento. La
tabella che segue mette a confronto l'evoluzione degli ultimi dieci anni nella
geografia dei docenti con quella degli studenti (Fonte: G. Trovati, IlSole24Ore
28-07-17)
RECLUTAMENTO. DISTRIBUZIONE DEI PUNTI ORGANICO
La
ministra Fedeli ha inviato alla Corte dei conti un decreto cruciale per la vita
degli atenei. Si tratta di quello sulle assunzioni, che per quest'anno prevede
la distribuzione agli atenei di circa 1.526 punti organico (333 in più rispetto
al 2016) che aprono le porte a oltre 2mila assunzioni (il professore ordinario
vale un punto organico, l'associato 0,7 e il ricercatore 0,5) con il turn over
che passa dal 60% del 2016 all'80% di quest'anno (nel 2018 tornerà al 100%). La
distribuzione dei preziosi «punti organico» necessari per le assunzioni si basa
sulla virtuosità dei bilanci dei singoli atenei con le facoltà assunzionali
graduate tra un minimo del 50% e un massimo del 110% sulle cessazioni del 2016.
Fonte: https://tinyurl.com/y72xfnkc 10-08-17)
MIGLIORARE IL RECLUTAMENTO
Una
selezione meritocratica, basata su modelli condivisibili, come la procedura con
doppio livello di selezione, con abilitazione nazionale e concorso locale, non
basta ad attrarre, ma soprattutto, a trattenere i migliori ricercatori e
professori in un contesto universitario che è chiamato a essere sempre più
competitivo, internazionale e motore dello sviluppo sociale, economico e
culturale del Paese. Sebbene il meccanismo di reclutamento del personale
docente abbia subìto diversi cambiamenti negli anni, non è stato ancora in
grado di valorizzare l'autonomia degli Atenei.
Affinché
l'Università italiana possa essere al passo con una dimensione europea e
internazionale deve essere grande, in termini di maggiori risorse e fondi. La
risposta per garantire ai ricercatori più possibilità di crescita professionale
in futuro è, pertanto, l'investimento in ricerca e didattica, il superamento di
vincoli interdisciplinari nel reclutamento dei giovani con concorsi aperti, nei
quali gli Atenei possano selezionare secondo le proprie reali necessità
contingenti e vengano valutati, poi, per le scelte fatte in un sistema di
autonomia responsabile.
Investire
su un nuovo modello universitario significa: accorciare i tempi di precariato
per ricercatori e docenti; dare loro maggiori prospettive di carriera; superare
il localismo e agevolare la mobilità fra sedi locali e internazionali; e
soprattutto impegnare più risorse pubbliche e private nella ricerca italiana,
sollecitando alla partecipazione un maggior numero di enti finanziatori e alla
donazione che è molto limitata nel nostro Paese. (Fonte: C. Messa, IlSole24Ore
17-08-17)
UN RAPPORTO SUI CONCORSI ELABORATO DALL'UFFICIO
VALUTAZIONE IMPATTO DEL SENATO SCOPRE LA COOPTAZIONE
Università,
concorsi per diventare professori associati o ordinari. Un rapporto elaborato
dall'Ufficio Valutazione Impatto del Senato spiega come non importa quali
accorgimenti si prendano e quali riforme si facciano: nel mondo accademico si
troverebbe sempre il modo di aggirare il sistema. Ora, oltre agli aneddoti e
agli studi degli esperti, ci sono anche i dati del Senato: 664 concorsi analizzati
(230 per ordinari e 434 per associati), un arco temporale che va dal 2004 al
2010, quattro atenei (l'Università di Padova, la Statale di Milano, La Sapienza
di Roma e la Federico II di Napoli). Sono state considerate le liste di tutti i
candidati, calcolata la qualità scientifica, rilevate le variabili
(dall'H-Index - il parametro che misura la prolificità e l'impatto scientifico
di un autore sulla base delle sue pubblicazioni e sul numero di citazioni -
alla sede di provenienza dei candidati rispetto ai commissari), misurata
l'incidenza dei vincitori tra gli interni e gli esterni prima e dopo il 2008,
anno in cui le commissioni di valutazione sono diventate quasi completamente a
sorteggio, nel tentativo di garantire maggiore oggettività. Risultato: la
percentuale dei vincitori interni all'ateneo che aveva indetto il concorso non
mutava. E un parallelismo: oggi, anche le commissioni che valutano
l'abilitazione nazionale dei professori rispondono a un sorteggio simile mentre
la chiamata negli atenei spesso avviene con commissioni scelte dall'interno.
"Questo pericolo - si legge nelle conclusioni - sembra rimanere anche con
l'attuale sistema delle abilitazioni scientifiche nazionali: le chiamate degli
abilitati sono ampiamente nelle mani dei singoli atenei e dei
dipartimenti". (Fonte: V. Della Sala, FQ 20-08-17)
COOPTAZIONE DEI DOCENTI. QUATTRO CONSIDERAZIONI
Dario
Braga ha esposto su IlSole24Ore tre importanti considerazioni sull'Università
italiana. Primo: L'accesso dei docenti all'Università avviene inevitabilmente
per cooptazione, perché «ricercatori e studiosi non sono intercambiabili». Nei
sistemi universitari migliori si tratta di una cooptazione trasparente e
responsabile, poiché soggetta al vaglio della comunità scientifica
internazionale. In Italia essa avviene dietro al paravento del concorso
pubblico, il cui formalismo annacqua fino a far scomparire la responsabilità
della scelta e favorisce l'esercizio del potere accademico a difesa di comodi
recinti disciplinari.
Secondo:
La mancanza di una cooptazione trasparente e responsabile è la principale causa
del localismo, della scarsa capacità di attrazione internazionale,
dell'emorragia di talenti verso l'estero e di altri malanni che affliggono la
nostra università.
Terzo:
Serve un ripensamento profondo dell'Università italiana, che coinvolga le
risorse a essa destinate, gli incentivi alla mobilità, la liberalizzazione
delle forme contrattuali.
Sono
considerazioni che condivido. Vorrei però renderne esplicita una quarta, che mi
sembra le sottenda, e che credo andrebbe messa al centro del dibattito. La
cooptazione funziona bene quando la scelta di persone di qualità è premiata,
quella di persone di scarso valore stigmatizzata. Nei sistemi universitari
migliori questo è ciò che accade; talvolta attraverso una valutazione
centralizzata, autorevole e indipendente, a cui corrisponde l'attribuzione di
risorse cospicue e fortemente concentrate sui dipartimenti meglio valutati
(sistema inglese). (Fonte: D. Terlizzese, Il Sole24Ore 25-07-17)
572 RICERCATORI DA ASSUMERE NEL PIANO DI SVILUPPO
TRIENNALE 2017-2019 DELL’ENEA
Con
572 assunzioni di giovani e di nuove professionalità e oltre 51 milioni di
investimenti in attrezzature e impianti, prende il via il Piano di sviluppo
triennale 2017-2019 dell’Enea, cioè l’ente nazionale per le energie alternative
e il risparmio energetico. Il Piano approvato dal CdA ha come obiettivo dare
nuovo slancio alle attività di ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico
e rafforzare la capacità di autofinanziamento dell’Agenzia nei settori di
competenza, puntando, in particolare, su quattro settori strategici: fusione e
sicurezza nucleare; efficienza energetica; sostenibilità dei sistemi produttivi
e territoriali; tecnologie energetiche. (Fonte: L. Grassia, La Stampa Economia
27-07-17)
RICERCA
ALEXANDRA ELBAKYAN, LA “PIRATA” DELLA SCIENZA FONDATRICE
DI SCI-HUB
A
differenza degli editori normali che devono pagare gli scrittori e poi
compensare i revisori tecnici o scientifici delle opere pubblicate, le case
specializzate ottengono quasi tutto gratuitamente. Uno studio della Deutsche
Bank ha definito il sistema «triplo pagamento». In un Paese qualunque, lo Stato
finanzia la ricerca alla base del lavoro da pubblicare. Paga gli stipendi di
coloro che vengono chiamati a rivedere scientificamente i lavori e alla fine
paga nuovamente, magari tramite le università, per far ottenere ai suoi
scienziati l’accesso a quei saggi. Diversi siti pirata hanno iniziato a rompere
questo incantesimo che ha consentito a editori come Elsevier di accumulare
profitti enormi. Il più popolare di tutti è proprio quello della ricercatrice
kazaka Elbakyan, dal quale ogni giorno vengono scaricati migliaia di documenti.
L’archivio di Sci-Hub contiene almeno 60 milioni di ricerche. Uno studio ha
verificato che in sei mesi gli utenti hanno scaricato 28 milioni di testi,
anche in questo caso soprattutto da Iran, India e Cina. Ma anche grandi
università americane, come Harvard, dicono di essere in difficoltà a pagare i
crescenti prezzi richiesti dagli editori scientifici. È partita da qui la
rivolta della più famosa «pirata scientifica» del mondo, una ragazza di origini
armene, asiatiche e russe che ha aperto un sito da dove è possibile scaricare
gratuitamente milioni di pagine scientifiche. Un sito in guerra con i grandi
editori e che ultimamente è stato anche colpito da una sentenza di un tribunale
americano che ha imposto alla sua proprietaria una multa di 15 milioni di
dollari. Ma lei, la ventinovenne Alexandra Elbakyan, fondatrice di Sci-Hub ,
continua per la sua strada, sostenuta da milioni di ricercatori in tutto il
mondo, dall’Iran (il Paese che scarica più documenti dal suo sito) alla Cina,
agli stessi Stati Uniti: «La scienza — dice — dovrebbe appartenere agli
scienziati e non agli editori». (Fonte: F. Dragosei, CorSera 30-07-17)
SCI-HUB E L’ACCESSO LIBERO E GRATUITO AI RISULTATI DELLA RICERCA
Su Roars Paola Galimberti fa il
punto su Sci-Hub, oltre la retorica basata sul
fondamentalismo dell’accesso libero e gratuito. Ma siamo davvero sicuri che
oggi il vero problema per la comunicazione scientifica sia quello dell’accesso?
O invece è il sistema che sta per implodere? Si può considerare il tema
dell’accesso svincolato dal sistema di produzione, validazione e valutazione
della informazione scientifica? Si può pensare ad una produzione di contenuti
scientifici che sia a costo zero? O invece a costo zero è solo la riproduzione?
Poniamo ad esempio il problema della conservazione e dell’accessibilità ai
contenuti nel tempo. Senza una organizzazione e una metadatazione dei contenuti
(che attualmente non ci pare esista) che garanzia abbiamo di poter accedere a
questi stessi contenuti fra 4 o 5 anni? Oppure poniamo che, come sta accadendo
in Germania o in Olanda o in UK, e come suggerisce la Max Planck Gesellschaft,
il modello di acquisto dei contenuti scientifici passi dalla sottoscrizione
degli abbonamenti a un sistema di gold open access (il Paese converte i soldi
spesi per abbonamenti in pagamento per il gold OA e i ricercatori di quel Paese
pubblicano i loro contributi ad accesso aperto in un numero definito di riviste
e per un numero definito di articoli. Se il modello olandese prendesse piede,
gli articoli sarebbero certamente
accessibili a tutti, Sci-Hub diventerebbe superfluo, ma gli editori
continuerebbero a dettare legge rispetto a costi che non sono comunque più
sostenibili dalle istituzioni in qualunque punto della catena della
comunicazione scientifica li si collochi. E resterebbe ancora aperto il tema spinoso
della validazione dei contenuti, della trasparenza dei meccanismi di
accettazione degli articoli, della influenza dei sistemi di valutazione nelle
scelte delle tematiche di ricerca, della conservazione a lungo termine. Tutti
problemi che Sci-Hub non affronta e non risolve e che neppure una transizione
al modello gold open access a livello di interi paesi potrebbe sanare. Il tema
è dunque più complesso dell’accesso e deve essere affrontato da tutti gli
attori del circuito della comunicazione scientifica in maniera responsabile, in
primo luogo dalle istituzioni e dai ricercatori. (Fonte: P. Galimberti, Roars
27-08-17)
STATO ATTUALE DELLA RICERCA APERTA. MANCATA APPLICAZIONE DELLA
LEGGE 112/2013
L’Unione Europea ha definito le
linee guida per l’accesso aperto alle pubblicazioni e ai dati della ricerca con
riferimento al programma Horizon 2020. L’ acronimo FAIR identifica le 4
caratteristiche che dovrebbero avere i dati della ricerca. Dovrebbero essere
cioè: Findable (reperibili) Accessible (accessibili) Interoperable
(interoperabili) Reusable (riutilizzabili). La Legge 112/2013 dispone l’accesso
aperto agli articoli scientifici, prodotti almeno al 50% con fondi pubblici,
entro 18 mesi, molto più tempo dei sei mesi disposti dalla Unione Europea o in
USA, o da agenzie erogatrici di fondi come Telethon o Wellcome Trust. Ma, allo stato attuale, tale legge non
risulta affatto applicata. Nel 2016, in Italia è stato condotto il primo studio
sull’accesso aperto alle pubblicazioni scientifiche che ha coinvolto i 60
istituti di ricerca del Servizio Sanitario Nazionale. La metà delle istituzioni
(30) ha risposto. Solo due istituzioni hanno dichiarato di aver emanato
politiche relative all’accesso aperto. La produzione di articoli ad accesso
aperto in riviste con Impact Factor era pari al 19.4%, nel 2014 (solo 15
istituzioni hanno risposto a questa parte del questionario). In più, solo 7
istituzioni hanno dichiarato di aver pubblicato articoli in riviste
tradizionali (ibride) pagando per garantire l’accesso aperto (circa il 7.6%
degli articoli con Impact Factor prodotti dalle stesse istituzioni). Sommando
le percentuali fornite dal campione con un piccolo arrotondamento,
presumibilmente circa il 30% della produzione nazionale di articoli potrebbe
essere aggregata in un deposito digitale per renderla meglio fruibile.
Purtroppo non c’è alcuna direttiva a livello nazionale per il deposito e
l’accesso di tali articoli, come invece avviene in USA e in Europa dove
rispettivamente PubMed Central e Europe PMC sono alcune delle infrastrutture
deputate a ricevere e rendere accessibile la documentazione prodotta in ambito
biomedico, frutto della ricerca finanziata con fondi pubblici. (Fonte: G.
Cognetti, https://tinyurl.com/ybxntxnp
25-08-17)
VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ DELLA RICERCA (VQR). DUBBI SULLE SPESE
La principale attività condotta
dall'Anvur è la Valutazione della Qualità della Ricerca (Vqr) di cui si è da
poco conclusa la seconda edizione riferita al periodo 2011-2014. La Vqr consiste
nel valutare l'intero staff di ricerca del Paese con dati quantitativi o
chiedendo il parere a esperti. Siamo, con la Gran Bretagna, l'unico Paese a
realizzare uno sforzo del genere, e a utilizzarlo per distribuire risorse.
Quanto costa la Vqr? Secondo alcune stime il primo esercizio è costato tra 150
e 300 milioni di euro, circa quanto l'analogo esercizio britannico. Molti hanno
dato per scontato che si tratti di soldi ben spesi perché servono a distribuire
in modo "meritocratico" il "finanziamento premiale" alle
università. Se si guarda alla realtà dietro i complessi algoritmi di Anvur e
Miur, si scopre che in realtà nel 2016
solo il 7,4% dei 783 milioni premiali è stato distribuito sulla base della
qualità della ricerca. Questo significa che su base annua sono stati spesi
30 milioni di euro per distribuire 58 milioni di euro. Un po' come se un
pasticcere vendesse a un cliente una torta a 58€ e chiedesse poi di essere
pagato 30€ per affettarla in modo preciso. Quei 30€ sarebbero soldi spesi bene?
Sia permesso di dubitarne.
Alcuni argomentano che i soldi
della valutazione sono comunque spesi bene perché permettono di scovare i
professori fannulloni, quelli che nel periodo considerato hanno pubblicato poco
o nulla. Nel primo esercizio di valutazione furono individuati 1.287 professori
che non avevano pubblicato nulla e altri 2.207 che avevano pubblicato poco, su
un totale di 44.153 professori. Questo significa che scovare un fannullone totale o parziale è costato tra gli 82mila e i
136mila euro. È opportuno ricordare ai lettori che questa informazione
sarebbe stata disponibile per ciascun rettore di ciascuna università italiana
ben prima della valutazione e a costo zero: bastava interrogare le banche dati
di ateneo. Soldi ben spesi? (Fonte: A. Baccini, IlSole24Ore 23-08-17)
STATISTICHE DEGLI STARTING GRANTS 2017 DEL CONSIGLIO
EUROPEO DELLA RICERCA
Gli starting grants sono fondi elargiti
dall'agenzia dedicata al sostegno della ricerca scientifica di frontiera, che
servono ai vincitori per aiutarli a costruire propri team. Tra le novità di
quest'anno, la quota piuttosto alta di donne (40%) tra gli assegnatari dei
finanziamenti e la varietà dei luoghi di provenienza. Contando anche i paesi non Ue si
arriva a 48 nazionalità diverse, il valore più alto dal 2007, cioè da quando
esiste il Consiglio europeo della ricerca. Gli investigators di nazionalità
tedesca, francese e italiana sono quelli che hanno ottenuto il maggior numero
di sovvenzioni, rispettivamente 65, 48 e 43. Più staccato il Regno Unito, con
37. Ma quando si parla di fondi per paese ospitante, la graduatoria si ribalta,
con Londra che primeggia (79), seguita da Germania (67) e Francia (53), mentre
l'Italia (19) naviga a metà classifica, superata da Paesi Bassi, Israele,
Spagna e Svizzera. Il nostro paese è anche quello con il maggior numero di
ricercatori all'estero tra i vincitori e tra quelli che sono meno capaci di
attrarre talenti da fuori. L'obiettivo degli starting grants 2017 è di
coinvolgere nei team, di ricerca più di 1.500 postdoc e dottorandi, per
sostenere non solo i migliori ma una nuova generazione di ricercatori in
Europa. (Fonte: ItaliaOggi 07-09-17)
RESPONSABILI ENTRAMBE LE PARTI QUANDO
LA CINGHIA DI TRASMISSIONE TRA IL SISTEMA DELLA RICERCA E QUELLO DELL’INDUSTRIA
NON FUNZIONA
“Pur con
mezzi non paragonabili a quelli degli altri Paesi, l’Italia ha comunque una
buona produzione scientifica”, commenta Emilio Paolucci, vicerettore per il
trasferimento tecnologico del Politecnico di Torino. “Come il resto d’Europa,
con la Germania che fa parziale eccezione, siamo però meno bravi degli Usa a
trasformare i risultati in applicazioni con un impatto economico e sociale”.
Non solo per colpa delle università, spiega Andrea Piccaluga, professore di
Management dell’innovazione alla Scuola Superiore Sant’Anna e presidente di
Netval, la rete degli uffici di trasferimento tecnologico delle università
italiane, di cui fanno parte anche Cnr ed Enea: “Gli atenei fanno il loro
lavoro”. Che non è, nello specifico, quello di fare ricerca applicata. Tanto è
vero che “i docenti vengono valutati solo in base a pubblicazioni scientifiche
e insegnamento: per far carriera non conta nulla, invece, la capacità di
trasferire nuove tecnologie alle aziende”.
…e alle
piccole imprese mancano le competenze per rapportarsi con gli atenei – Che, a
loro volta, “spesso non hanno le competenze minime necessarie per
interfacciarsi con il mondo della ricerca. Se in organico non c’è nemmeno un
ingegnere o un dottore di ricerca è difficile anche capire di che cosa si ha
bisogno”. Morale: se la cinghia di trasmissione tra il sistema della ricerca e
quello dell’industria non funziona, le colpe stanno da entrambe le parti. Per
questo, secondo il docente della Sant’Anna, gli interventi necessari sono due:
“Bisogna incentivare i docenti a impegnarsi nel trasferimento tecnologico,
introducendo anche questo parametro tra quelli considerati per le valutazioni.
E occorre che le piccole imprese investano per assumere almeno un dottore di
ricerca. (Fonte: C. Brusini, FQ Economia 18-09-17)
ARE PUBLICATION-RELATED
ECONOMIC INCENTIVES THE BEST OPTION?
In their interesting article, Dr Abritis and
coworkers (http://science.sciencemag.org/content/357/6351/541)
highlight the role played by economic incentives as a powerful driver of the
growth and qualitative enhancement of the Scientific Community as well as of
its research output. A similar approach, which is being followed by China and
other Countries like Czech Republic - as far as I am aware -, is not applied in
Italy, where no more than 1.3% of the "inner national product" is
devoted to public research funding on an yearly basis. Still in Italy, as in
other European Union (EU) and extra-EU Countries, the limited money resources
that are made available for public research funding frequently represent a
serious hurdle also for coping with the publication costs of scientific
articles in peer-reviewed Journals. This generally insufficient funding of the
Italian Scientific Community throughout many consecutive years is, undoubtedly,
one of the main reasons underlying the "brain drain" chronically
experienced by Italian investigators during the last 25-30 years.
Notwithstanding the above, however, it should be also emphasized that the
results obtained by my Country in terms of scientific research quality and
performance place Italy among the 8 top-ranking Countries worldwide. Therefore,
at least in the "Italian experience", economic incentives for
publishing in high-profile Journals do not appear to be the "key of
success". (Fonte: Letter to the editor di G. Di Guardo, UniTe, pubblicata su Science il 16 Agosto 2017)
ISTITUTO ITALIANO DI TECNOLOGIA (IIT) E CONSIGLIO
NAZIONALE DELLE RICERCHE (CNR). I NUMERI DA PARAGONARE
Nella nota su
La Stampa del 16 settembre, l’ente IIT paragona due enti, IIT e CNR, con ruoli
e funzioni totalmente diversi, essendo il secondo un ente pubblico dello Stato
e il primo una fondazione di diritto privato. In questo paragone viene messa a
confronto la dotazione ordinaria statale per pagare il personale e le strutture
al CNR e quanto IIT riceve dallo Stato. Per IIT vengono messi in computo 1560
unità di personale (inclusi studenti e personale precario) e circa 100 milioni
ricevuti dallo Stato ogni anno. Per il CNR vengono conteggiati 8372 dipendenti
tutti a tempo indeterminato, senza includere studenti, precari ed ospiti.
Secondo tali numeri, esposti da IIT, ogni unità di personale IIT riceverebbe
dallo Stato Italiano 64102 euro, contro i 67247 euro che invece riceve ogni
unità CNR solo per ogni dipendente assunto a tempo indeterminato. Questo
calcolo è sbagliato. Esso infatti considera come unità di personale al pari dei
ricercatori, oltre 800 unità (borsisti, studenti) per IIT, mentre nel computo
del CNR che opera in circa 500 sedi in Italia e che ha ruoli istituzionali
(analisi dei terremoti, della meteorologia o di esplorazioni in aree remote) le
unità di personale citate si riferiscono ai soli dipendenti. E’ fuorviante
dividere il denaro che IIT riceve dallo Stato per le unità di personale
includendo studenti e post-doc, e non farlo per il CNR (sono forse 20mila i
borsisti CNR). Questo meccanismo a fisarmonica di conteggio del proprio
personale si contraddice quando IIT si fa valutare da ANVUR (l’agenzia che
valuta la qualità della ricerca) dove dichiara che la ricerca viene svolta da
soli 156 ricercatori. Ma allora quali sono i numeri da paragonare? Se si
vogliono paragonare solo i ricercatori dei due enti, ogni ricercatore IIT ha
come dotazione ordinaria 615 mila euro (96 milioni diviso 156 ricercatori IIT)
ed il CNR 109 mila euro (563 milioni diviso 5128 ricercatori CNR). Si aiuta
meglio il lettore consentendogli di fare paragoni omogenei. (Fonte: R. Defez,
La Stampa 16-09-17)
LE REGIONI CHE FANNO PIÙ RICERCA
Come
vanno le cose Regione per Regione negli investimenti in ricerca? Partendo dai
dati Eurostat, la situazione dal 2007 al 2014 è questa. Le Regioni sono
ordinate per media complessiva – da chi investe di più a chi evidentemente ha
di meglio da fare. (Fonte
09-08-17)
RICERCATORI A TEMPO DETERMINATO A E B. NECESSTÀ DI UNA TUTELA CONTRATTUALE UNIFORME
Si è già accennato (vedi articolo) a come probabilmente nei fatti
già esista un problema di conformità del regime della docenza a quelle esigenze
di indipendenza e di “non ricattabilità” che in quell’articolo si ricordavano.
Problema che si estende e si aggrava sulla base della considerazione del dato
per cui una crescente percentuale del corpo docente svolge la propria attività
in un regime ancora diverso e più fragile, che potremmo definire quasi un
tertium genus, quello dei ricercatori a tempo determinato. Siano di tipo A o B,
essi appaiono collocati in un limbo che li vede privi di pressoché ogni
garanzia, come ... “color che son sospesi”. Tale generazione di studiosi
sarebbe peraltro la prima e unica potenziale destinataria (nel caso di accesso
al ruolo docente) di una eventuale misura che introducesse la
contrattualizzazione, giacché ogni tentativo di estenderla retroattivamente al
personale già in servizio, o di applicarla a chi via via accede alle fasce
superiori della docenza, si dovrebbe scontrare con inevitabili censure di
illegittimità. Allora sembra di poter rilevare che a meritare una riflessione
urgente e tutta l’attenzione del sindacato non dovrebbe essere tanto il
problema de iure condendo e futuribile oggi posto (quello della
contrattualizzazione dei docenti) quanto quello delle tutele oggi mancanti per
tutta l’ultima generazione di studiosi. In proposito ci si può chiedere se una
diversa e più morbida accoglienza avrebbe potuto trovare la proposta di
introdurre una tutela contrattuale uniforme su scala nazionale delle figure RTD
rispetto a quella ora avanzata invece circa i professori e i ricercatori a
tempo indeterminato. (Fonte: R. Calvano, Roars 31-08-17)
LISTE DI PROSCRIZIONE PER LE RIVISTE SCIENTIFICHE.
PUBBLICATE E POI SCOMPARSE: LE COSIDETTE “RIVISTE A CUCÙ” COME LE CHIAMA ROARS
Il
21 luglio 2017 ANVUR ha pubblicato un comunicato dal titolo “Proposte di
esclusione dall’elenco delle riviste classificate come scientifiche” ai fini
dell’Abilitazione Scientifica Nazionale. A quattro giorni dalla pubblicazione,
le liste sono scomparse dal sito dell’Agenzia: seguendo il link che fino a ieri
portava ai file, oggi si trova un messaggio di errore. Le liste per i settori
non bibliometrici servono per individuare le riviste che entrano nei conteggi
delle soglie necessarie per presentarsi come candidati o come commissari
dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ma anche per valutare i collegi di
dottorato). Forse, anche in questo caso, il direttore dell’agenzia Sandro
Momigliano potrà sostenere che questo elenco delle riviste “non sia da considerarsi
un atto ufficiale“, come ha dichiarato dopo che Il Fatto Quotidiano ha scoperto
che ANVUR ha modificato più di 100 file della VQR. Se i fondi premiali alle
università e i dipartimenti di eccellenza sono decisi sulla base di atti “non
ufficiali”, nessuno dovrebbe meravigliarsi di essere escluso dalla lista dei
commissari o dei candidati all’abilitazione sulla base di altri documenti “non
ufficiali”. (Fonte: Red.ne Roars 25-07-17)
I PRECARI DELLA RICERCA PUBBLICA RIVENDICANO DIRITTI E
TUTELE
Un
esercito di lavoratori – all’incirca 10.000 per un comparto che sfiora le
30.000 unità – è pronto a dare battaglia. Tecnici e tecnologi, ricercatori e
assegnisti rivendicano diritti e tutele, conquistati, voluti e pretesi dopo
anni di precariato, di contratti a tempo determinato e collaborazioni saltuarie
negli uffici e nei laboratori degli Enti pubblici di Ricerca (Epr). La
dismissione di un patrimonio di competenze e professionalità: la spesa pubblica
italiana per la ricerca e lo sviluppo è immobile all’1,33% del Pil – la media
europea è del 2,03% (fonte Eurostat) – e nel 2015 la percentuale dei
ricercatori ogni mille occupati in Italia era pari al 4,73% contro una media
europea del 7,40% (Fonte Oecd). (M. Franco, http://sociale.corriere.it 27-09-17)
SISTEMA UNIVERSITARIO
UN PASSO SULLA VISIONE D'INSIEME CHE
IL PIANO NAZIONALE ANTICORRUZIONE 2017 IN PUBBLICA CONSULTAZIONE RISERVA
ALL'AUTONOMIA DELL'UNIVERSITÀ. Dalla
prevenzione della corruzione alla politica della ricerca (in
corsivo i commenti di Roars)
A
legislazione invariata potrebbe essere utile e opportuno ipotizzare una
soluzione organizzativa che presieda alla formazione di un indirizzo strategico
organico, coordinato centralmente, eventualmente posta all’interno della
Presidenza del Consiglio [Qualsiasi
centralizzazione, soprattutto a livello governativo, sarebbe deleteria per il
settore. La pluralità delle fonti di finanziamento è la migliore garanzia di
trasparenza, libera competizione e piena accessibilità. L’unica forma di
coordinamento possibile potrebbe essere un soggetto terzo e indipendente, non
certo governativo]. Siffatta cabina di regia politica dovrebbe comunque
rispettare i capitoli destinati ai singoli Ministeri e le rispettive
competenze, ma potrebbe avere compiti di indirizzo strategico sull’attività di
ricerca del sistema Paese definendo, ad esempio, le principali destinazioni
delle risorse pubbliche di finanziamento della ricerca in parte alla ricerca
finalizzata e in parte alla ricerca curiosity driven. Si potrebbe valutare
anche l’ipotesi che tale cabina di regia sia assistita, sul piano scientifico,
da un board di elevato livello professionale che si avvalga di competenze
internazionali. [Una cabina di regia
siffatta non esiste in alcuna democrazia occidentale. Esistevano cose simili
nei Paesi dell’ex-Unione Sovietica. Oggi permangono forse in Corea del Nord. In
ogni caso questa proposta esula completamente dalle finalità del documento,
trattandosi di politica della Ricerca e non di prevenzione della corruzione.]
[Non sequitur additivo: chi e cosa
legittima questo documento a fornire orientamenti di sistema? Il punto si
segnala con grande preoccupazione, poiché appare evidente da questa indicazione
contenuta nel documento in esame, che ANAC, facendo sue queste indicazioni in
un atto ufficiale, sta qui travalicando le funzioni che le sono proprie in base
alla legge istitutiva. Si tratta, a ben vedere, del tentativo di riproporre
nella sua essenza la scelta che la riforma costituzionale bocciata dai
cittadini italiani, nel definire le competenze Stato-Regioni in materia di
istruzione, tentava di immettere di soppiatto in quello che avrebbe potuto
diventare il nuovo articolo 117 Cost., con un’addizione che avrebbe permesso di
dare una base costituzionale al tentativo di svuotare di significato il valore
dell'autonomia universitaria riconosciuta nell'art. 33 Cost. in capo ai singoli
atenei, quale corpo intermedio necessario fra il ricercatore o lo studioso e lo
Stato, per fungere da stanza di compensazione istituzionale autonoma e a
composizione strutturalmente multidisciplinare rispetto ai desiderata della
politica. Ricordiamo che la norma bocciata dal Referendum così recitava:
“Lo Stato ha legislazione esclusiva
nelle seguenti materie: disposizioni generali e comuni sull’istruzione;
ordinamento scolastico; ISTRUZIONE UNIVERSITARIA E PROGRAMMAZIONE STRATEGICA
DELLA RICERCA SCIENTIFICA E TECNOLOGICA”.
Insomma, la Presidenza del Consiglio
dei Ministri come soggetto che, secondo i suggerimenti privi di legittimazione
funzionale resi da ANAC, deciderebbe come e dove allocare i fondi per la
ricerca, bypassando gli atenei e i meccanismi di finanziamento che fanno sì che
lo Stato decida come allocare i fondi di ricerca, ma avendo sempre come
destinatari elettivi del finanziamento - ed è questo il punto - i singoli
atenei. Del resto, che si sia già imboccata nei fatti questa strada per il
tramite della legislazione ordinaria (ancorché "passata", nel modo
che è ben noto, attraverso una legge di stabilità su cui il Parlamento ha
potuto dire ben poco) lo dimostrano i Ludi dipartimentali e le Mancette
premiali ai ricercatori e ai PA, meccanismi al cospetto dei quali i singoli
atenei sono essenzialmente relegati al ruolo di passacarte, per attuare una
premialità che fa leva su ANVUR e su scelte rimesse all'esecutivo (per esempio,
la nomina della Commissione che è incaricata di individuare i 180 dipartimenti
di eccellenza che saranno proclamati vincitori dei Ludi).
(Fonte:
Red.ne Roars, Nicola Casagli e Giovanni Pascuzzi 12-09-17)
PROPOSTE DELL’ASSOCIAZIONE TREELLLE
PER IL MIGLIORAMENTO DEL SISTEMA TERZIARIO
Nel marzo
scorso è uscito un voluminoso “Quaderno n. 13” della Associazione TreeLLLe, dal
titolo “Dopo la riforma: università italiana, università europea. Proposte per
il miglioramento del sistema terziario”. Il Quaderno contiene ben 100 proposte
per migliorare il sistema di istruzione “terziaria” in Italia. Alessandro Figà
Talamanca in un articolo riporta quelle che ritiene più convisibili e attuabili
(di seguito).
Potenziare il
finanziamento del diritto allo studio ed eliminare in tempi rapidi la figura
dell’idoneo non borsista, offrendo una borsa di studio all’intera popolazione
degli idonei (specialmente nel Sud). […] Prevedere che le esenzioni [dalle
tasse] siano a carico dei fondi nazionali per il diritto allo studio e che la
minore capacità contributiva sia compensata da opportuni correttivi.
Riequilibrare
le disparità tra territori ridefinendo la normativa sul diritto allo studio al
fine di offrire analoghe opportunità a tutti i capaci e meritevoli,
indipendentemente dalla loro residenza […].
Adottare lo
strumento del Testo Unico per razionalizzare e semplificare la normativa
esistente.
Semplificare
e anticipare l’entrata nei ruoli universitari dei giovani limitando al solo
dottorato il titolo di accesso a un percorso non superiore ai cinque anni per
l’accesso alle posizioni “tenure-track”.
A protezione
degli studenti (pubblicità ingannevole) selezionare le iniziative che
garantiscono una soglia quali-quantitativa adeguata. […] Non è giustificata, ad
esempio, la proliferazione delle università telematiche […]. Stabilire regole
chiare che definiscano la figura dello studente a tempo pieno e quella dello
studente a tempo definito, così da regolarizzare la durata dei corsi di studio,
ridurre il numero dei “fuori corso” e al contempo definire politiche di
tassazione differenziata.
Definire i
requisiti di accesso ai singoli corsi di laurea sulla base della preparazione
scolastica acquisita e istituire un “semestre o anno base” integrativo (e
aggiuntivo) finalizzato all’acquisizione delle competenze necessarie per
l’ottimale fruizione del corso di laurea prescelto […]. Definire la capacità
assunzionale di ciascun Ateneo come previsto dal D.leg. 49 del 2012, esclusivamente
sulla base della sua condizione finanziaria, senza limiti esterni e soprattutto
senza redistribuzione su base nazionale, una misura che non trova fondamento
alcuno nella necessità di contenere la spesa e ha esasperato i problemi
soprattutto a scapito delle università del Meridione. Eliminare i prerequisiti
previsti per concorrere a un posto di ricercatore RTD B (tre anni di assegni o
altra attività di ricerca post PhD) come avviene per RTD A e professori,
lasciando alle commissioni il compito di valutare la maturità dei candidati
caso per caso.
(Fonte: A.
Figà Talamanca, Roars 13-09-17)
AUTONOMIA E PRIVATIZZAZIONE DELLE
UNIVERSITÀ
A
Gianni Toniolo (IlSole24Ore 27-07-17) l’ Università di oggi pare, per molti
aspetti, migliore di quella che ha frequentato negli anni Sessanta ... Ma
questo miglioramento non ha tenuto il passo con quello realizzato dai sistemi
di educazione superiore che sino a pochi anni fa consideravamo, con buone
ragioni, inferiori al nostro ma i cui Paesi hanno investito importanti risorse
nella ricerca e nell'istruzione superiore e hanno creato l'humus istituzionale
per renderle fruttuose. Le migliori università competono globalmente, come mai
prima d'ora, per garantirsi le più promettenti intelligenze, a cominciare dai
candidati alle scuole di dottorato, e per ottenere finanziamenti pubblici e
privati. Governi ed elettori si sono accorti che l'Università è costosa ma che
le risorse impiegate hanno rendimenti elevati. La qualità del cosiddetto
capitale umano, la ricerca di base anche al servizio della produzione, la
terziarizzazione virtuosa che trasforma le città, sono fattori decisivi non
solo della crescita economica, ma anche di quella umana, sociale, culturale.
Questa è stata, sin dal tardo Medioevo, la missione insostituibile dell'universitas
studiorum.
Benché
migliorato, il sistema universitario italiano arranca, stenta a tenere il passo
con la dinamica internazionale. Per rendersene conto basta confrontare la
proporzione di professori e ricercatori stranieri che lavorano nelle nostre
migliori università con quella delle migliori di altri Paesi. Quanti dei nostri
studenti di dottorato hanno passaporto non italiano? Quanti dei dottori di
ricerca formatisi da noi lavorano in buone Università straniere? La questione
del "posto" di cui parla Dario Braga (Il Sole 24 Ore del 20 luglio) è
indubbiamente centrale. Nessuna Università può stare alla frontiera della
ricerca e dell'alta formazione senza un sistema efficace di reclutamento e
promozione. E senza la possibilità di trattenere i più validi ricercatori che
abbiano avuto offerte di lavoro altrove. Il rimedio alla condizione
d’inferiorità del nostro sistema universitario sarebbe, secondo l’articolista,
una vera autonomia con la “trasformazione dei singoli atenei in fondazioni di
diritto privato e la distribuzione tra essi delle risorse pubbliche sulla base
dei risultati ottenuti”. (Fonte: G. Toniolo, IlSole24Ore 27-07-17)
UN PATTO E LE SUE CONSEGUENZE SU SCUOLA E UNIVERSITÀ
Un patto,
dagli anni settanta del secolo scorso, fu tacitamente siglato fra la Democrazia
Cristiana, allora al potere, e i sindacati della scuola, e coinvolse anche il
Partito comunista. L'Università, grazie a certe sue guarentigie è stata
parzialmente al riparo dalle conseguenze peggiori di quel patto. Ma ne è stata
colpita anch'essa. La nefasta «liberalizzazione degli accessi» della fine degli
anni Sessanta diede l'avvio a una lunga catena di guai. Le scuole, primarie e
secondarie, senza difese, subirono i colpi più duri.
Il patto
venne sottoscritto con il consenso tacito dell'opinione pubblica
(disinteressata e spesso complice quasi tutta la classe colta, gli
intellettuali). I termini del patto erano i seguenti: la scuola ha un unico
vero scopo, assorbire occupazione. Non importa se gli insegnanti reclutati
siano capaci o no, preparati o no. Importa solo che siano tanti (il che
significa, inevitabilmente, mal pagati). E neppure importa che siano condannati
a una lunga e umiliante esperienza di precariato. Gli effetti di tutto ciò
sulla qualità dell'insegnamento erano, per i contraenti del patto, irrilevanti.
Anche perché l'assenso degli utenti, famiglie e studenti, poteva essere
ottenuto grazie al valore legale del titolo di studio. Ciò che conta è il
diploma, il pezzo di carta. Non ha importanza che dietro quel pezzo di carta ci
sia o no una solida formazione. Per giunta, contribuiva al mantenimento del
patto un clima culturale nel quale il diritto costituzionale allo studio era da
molti interpretato come diritto al diploma. Nell'età post-democristiana le cose
non sono cambiate. Non ci sono più quegli attori politici ma l'eredità che
hanno lasciato è sempre viva. Tutto ciò che ha a che fare con i processi
educativi continua ad essere trattato nello stesso modo. Si pensi all'ultima
imbarcata di precari: l'importante era assumere docenti. Il fatto che fossero
competenti o no era irrilevante. E tanto peggio per il congiuntivo. Sappiamo,
ad esempio, da molti anni, che uno dei gravi problemi della scuola riguarda
l'insegnamento della matematica. Le carenze in questo campo sbarrano di fatto,
a tanti futuri studenti universitari, l'ingresso nei corsi di laurea
scientifici. La ragione per cui tanti giovani si orientano verso le umanistiche
(nonostante le minori probabilità di occupazione post-laurea) anziché verso le
scientifiche, ha a che fare con questo problema. Ma qualcuno forse, in tutti
questi anni, se ne è mai preoccupato? La ministra Fedeli ha ribadito, anche in
questa occasione, ripetendo un antico ritornello, che occorrono più «laureati».
Mi dispiace, ma detto così non è vero. Occorrono più laureati (anzi, tanti di
più) in materie scientifiche. Ne occorrono di meno in materie umanistiche e
quei «meno» dovrebbero essere tutti di qualità elevata. (Fonte: A.
Panebianco, CorSera 04-09-17)
L'UNIVERSITÀ FA BENE CON POCO MA NON GODE DI BUONA STAMPA
L’Università italiana non gode
di buona stampa. L'opinione pubblica non le è favorevole. Le élites politiche e
culturali le sono spesso avverse. La legislazione in materia è solitamente
punitiva nei suoi confronti. Il finanziamento pubblico scarso. La
considerazione sociale in cui è tenuta dai più mediocre. I nostri giovani più
brillanti non vedono l'ora di scappare all'estero (sempre più spesso cominciano
addirittura dal liceo). Ora, tutto ciò può dipendere o dall'effettivo livello
scadente dell'Università italiana oppure da una campagna sistematica di
disinformazione nei suoi confronti. La mia impressione è che la seconda ipotesi
sia la più verosimile. Questo non vuol dire - ovviamente, starei per aggiungere
- che l'Università italiana sia immune da difetti. Ma solo che il discredito
dovuto alla disinformazione copre di una densa coltre di nebbia la possibilità
stessa di capire quali sono i punti forti e quali sono quelli deboli del
sistema accademico nazionale. Con conseguenze spesso disastrose per i
(talvolta) pur generosi tentativi di riforma del sistema stesso.
Da che cosa dipende una tesi
come questa? Come spesso capita, da un misto di esperienza personale, di
statistiche e di visione teorica. L'esperienza personale dice che gli studenti
italiani sono bravi e primeggiano all'estero. Bene, se l'esperienza non è un
gran che di argomento, i dati dovrebbero fornire un'evidenza migliore. Per
cominciare, l'Italia è uno dei primi Paesi industrializzati del mondo e ha una
spesa per l'Università da Paese in via di sviluppo (32esima su 37 Stati, dato
Oecd 2012). I soldi, si dirà, non sono tutto. Vero. Ma guarda caso, gli atenei
che primeggiano nelle classifiche mondiali godono di budget assai diversi.
Harvard ha ben 42 miliardi di dollari in assets, e una spesa operativa annua di
circa 4 miliardi di euro (2016) a fronte di un fondo di finanziamento ordinario
per tutte le università italiane messe assieme che ammonta, nel 2017, a poco
meno di 7 miliardi di euro. Inoltre, se guardiamo al numero di pubblicazioni
per studioso siamo su uno standard del tutto rispettabile nel panorama
internazionale, e se invece si guarda alle citazioni di questi lavori l'Italia
risulta settima al mondo fra il 1996 e il 2011 (Scopus). Se infine compariamo
la spesa pubblica per l'Università allo standard scientifico siamo un record di
efficienza misurata in termini di risorse spese per articolo e per citazioni
(Oecd 2010). L'Università italiana, a quel che pare, fa bene con poco. (Fonte:
S. Maffettone, Il Messaggero 29-08-17)
NON GRIDARE SOLO «ARRIDATECE LI SORDI», BENSÌ, ANZITUTTO,
«SBUROCRATIZZIAMO LA CULTURA»
Il
tam tam è partito in primavera, dal Politecnico di Torino: a settembre, l’anno
accademico si aprirà con un inaudito sciopero degli esami. Le motivazioni
possono sembrare nebulose, persino corporative, a chi lavorerebbe anche nelle
miniere di sale, se fossero banditi appositi concorsi: recuperare anni di
contributi perduti, dopo un blocco degli stipendi che dura da una vita. Ma è
chiaro che si tratta solo del casus belli che potrebbe far scoppiare i Vespri
siciliani, il Tumulto dei Ciompi, la Congiura dei Pazzi. L’accademia in
rivolta, decimata dai tagli ai finanziamenti, dai pensionamenti e dal palese
disprezzo dei politici, reclama che si torni a finanziare la ricerca, che si
assumano i giovani, che si riveda tutto il carrozzone della valutazione. La
valutazione, già. Ricordo un’intervista a Edoardo Sanguineti, antidiluviana
visto che non la ritrovo sul web, in cui il grande poeta e accademico comunista
proponeva di burocratizzare la cultura. Non l’avesse mai detto. Fabio Mussi,
ministro dell’Università nell’ultimo governo Prodi, lo prese in parola e
s’inventò l’Anvur, Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della
ricerca. «Un moloch che costa una fortuna allo Stato» e che «controlla tutto,
interviene su tutto, ha potere di vita e di morte su corsi di studio,
dipartimenti, dottorati»: scrive Walter Lapini, ordinario di Letteratura greca,
sul «Secolo XIX» di mercoledì scorso. È così: dimentica solo lo ius primae
noctis.
Constatato
che ogni riforma dell’università pubblica ne ha smontato un pezzo, il collega
conclude che, invece di pensare all’ennesima riforma della riforma, si dovrebbe
avere il coraggio di «un’onesta marcia indietro». M poi confesso che mi è
difficile persino immaginarla l’università di prima da cui ricominciare.
Ricordo a malapena Consigli di facoltà che finivano all’alba, concorsi che
duravano decenni. Lapini trascura che abolire le riforme, e anche l’Anvur,
sarebbe solo l’ennesima riforma. Oggi possiamo solo cambiare questa università
pubblica, prima che muoia. Lotta dura senza paura, dunque. Ma che il grido di
battaglia non sia solo «arridatece li sordi», bensì, anzitutto,
«sburocratizziamo la cultura». (Fonte:
M. Barberis, Il Mulino 31-07-17)
STUDENTI. DIRITTO ALLO
STUDIO
CARTA DEI DIRITTI E DEI DOVERI DEGLI
STUDENTI IN ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO
Consiglio di
Stato, sez. consultiva atti normativi – parere 5 settembre 2017 - Oggetto:
Schema di decreto ministeriale recante “regolamento ai sensi dell’articolo 1,
comma 37, della legge 13 luglio 2015, n. 107, per la definizione della Carta
dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza scuola-lavoro”. http://www.disal.it/Resource/Numero01941.pdf
FACOLTÀ UMANISTICHE DELLA STATALE DI MILANO. IL TAR LAZIO SOSPENDE
IL NUMERO CHIUSO. UN COMMENTO
Un’ordinanza del TAR Lazio ha
sospeso l’efficacia dei provvedimenti che limitavano l’accesso al primo anno
dei corsi di laurea in Filosofia, Lettere, Scienze dei beni Culturali, Scienze
umane, dell’ambiente, del territorio e del paesaggio e Storia, Lingue e
letterature straniere, e comunque di tutte le facoltà umanistiche
dell’Università degli Studi di Milano. Ecco un estratto dell’ordinanza:
«Rilevato che i provvedimenti gravati intendono, nella sostanza, programmare
l’accesso a corsi che (ad un primo sommario esame proprio della fase cautelare)
non paiono collimare con quelli richiamati dalle norme primarie di riferimento
[…]; – che, in particolare, la relazione dell’Università di Milano in atti
conferma che gli atti gravati non sono stati ispirati da necessità legate
“all’utilizzazione di laboratori ad alta specializzazione, di sistemi
informatici e tecnologici o comunque di posti-studio personalizzati”, bensì a
carenza di un numero complessivo di docenti tale che “mantenendo numeri non
sostenibili nei corsi dell’area umanistica, l’Ateneo risultasse non in linea
con i requisiti di docenza previsti dal sistema di accreditamento vigente,
esponendosi di conseguenza alla sanzione che comporta sia l’attivazione
condizionata (per un solo anno) dei corsi di studio che non si trovino a
rispettare i requisiti di docenza in attesa delle misure necessarie per
superare tali carenze, sia l’impossibilità di attivare “nuovi corsi di
studio”, se non a seguito della disattivazione di un pari numero di corsi”; Il
Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio […] sospende l’efficacia dei
provvedimenti impugnati. […] Fissa la pubblica udienza di trattazione del
ricorso alla data del 9 maggio 2018».
Un commento: È’ una sentenza
che lascia sconcertati sia per la motivazione sia per l’ingerenza estremamente
discutibile nelle scelte di un Ateneo e nei suoi livelli di autonomia. Sono un
docente della Statale e ho condiviso le scelte del Senato e del Rettore
riguardo il controllo del numero degli studenti inscrivibili alle facoltà
umanistiche. Al di là delle oggettive problematiche Anvur, sarà problematico
individuare aule dove tenere, nel rispetto delle normative sulla sicurezza,
centinaia di giovani più del previsto; altrettanto discutibile poi avere in
classe un rapporto numeri docente studente che ostacola un adeguato percorso
formativo. La sentenza credo sia prevista per maggio 2018 il che significa che
per i prossimi anni non sarà possibile alcuna programmazione (tonymig su Roars
01-09-17)
IL TAR DEL LAZIO E IL NUMERO CHIUSO
Il Tar del
Lazio, in fondo, si è uniformato a un antico andazzo. L'Università di Milano
vuole il numero chiuso per garantire la qualità dell'insegnamento? E perché mai
dovremmo preoccuparci di una cosa simile? Poi c'è, naturalmente, il paravento
della legge. Che però deve essere interpretata. I sistemi giuridici
sufficientemente flessibili da essere al servizio degli umani (a differenza di
quelli che mettono gli umani al proprio servizio) tengono conto degli stati di
necessità. Per rispettare quel rapporto studenti/docenti che è necessario per
garantire la qualità dell'insegnamento, l'Università di Milano ha optato per il
numero chiuso. Ma poiché la qualità dell'insegnamento non ha alcun valore agli
occhi di tanti, lo stato di necessità non è stato riconosciuto e accettato. Resta
però la curiosità di sapere qualcosa su questi giudici del Tar del Lazio, da
molti anni impegnati, come ricordava ieri Aldo Grasso sul CorSera, a dire «no»
a tanti provvedimenti positivi. A differenza di ciò che capita nel caso di
altre istituzioni, dal Parlamento alla Corte costituzionale, abbiamo idee vaghe
sui criteri di reclutamento e sulla composizione. Tenuto conto dell'importanza
assunta dalle loro decisioni, ciò meriterebbe più attenzione. (Fonte: A.
Panebianco, CorSera 04-09-17)
ARGOMENTAZIONI A FAVORE DEL NUMERO CHIUSO
«... Da una parte non abbiamo
un numero di docenti adeguati. E attenzione: se non li hai devi chiudere i
corsi. Dall'altra, nelle facoltà umanistiche abbiamo i livelli più alti al
mondo di abbandoni. Livelli che a volte superano il 40% degli iscritti. Il che
è uno spreco pazzesco. E, devo dire, questo all'estero non succede. Tra
l'altro, non si fa che ripetere che i corsi di laurea debbano essere più legati
al mondo del lavoro. Ma forse, il numero di umanisti necessari al mondo del
lavoro non è così alto. Per questo sarebbe il caso di discutere dei principi.
In modo da evitare che poi arrivino responsi d'occasione su un caso o
sull'altro». Per esempio? «Per esempio, il ministero non ci accredita i corsi
se non ci sono abbastanza studenti. Però, ti dicono anche che non dovresti fare
accessi programmati. E così, ti ritrovi in una condizione paradossale: in
realtà puoi chiudere gli accessi soltanto se hai problemi fisici. Ma anche
un'aula piena di centinaia e centinaia di studenti è possibile? A quel punto
devi suddividere il corso, ma comunque devi avere un maggior numero di docenti.
Non è che ci siano molte alternative. Insomma, un'università telematica
potrebbe avere un numero infinito di iscritti. Va bene, se vogliamo intendere
l'università come un... ». Un laureificio?
«Ecco, appunto... Ma ripeto,
dobbiamo decidere quello che vogliamo. Perché ci sono parecchie altre
possibilità in campo». La decimazione degli studenti? «Anche. C'è anche chi
pensa un sistema in cui non esiste il fuori corso. Se dopo un anno sei in
ritardo, sei fuori. Se a un esame sei bocciato due volte, sei fuori. Vogliamo
questo? Io non credo. Ma è però evidente che l'università non può essere un
parcheggio». C'è infatti chi propone una selezione durissima il primo anno.
«Certo,
a medicina questo tema è ricorrente. Ma la verità è che comunque non abbiamo
gli spazi né i docenti. Anche perché non si deve credere che la selezione non
richieda un impegno importante. Non è che puoi pensare di fare i corsi via
internet e poi fare una strage agli esami». (Fonte: Cristina Messa, rettore
della Bicocca, Corsera Milano 03-09-17)
DIRITTO ALLO STUDIO. NUOVE MISURE ADOTTATE DAL MIUR
Incremento dei fondi destinati
a sostenere chi vuole proseguire negli studi universitari, con nuove modalità
di distribuzione a livello territoriale basate non sulla spesa storica, ma sul
fabbisogno reale. Attenzione specifica alle aree del terremoto. Una campagna
informativa, con un sito (http://www.dsu.miur.gov.it/ ), un video e
materiali dedicati, per far conoscere alle studentesse e agli studenti tutte le
opportunità e gli strumenti in campo per il diritto allo studio. Il rilancio
dell’Osservatorio nazionale sul tema. Questo il pacchetto messo in campo dal MIUR
in vista delle prossime immatricolazioni. Con lo slogan 'Continua gli studi,
accedi al futuro' all’inizio di agosto è partita una campagna informativa per
le ragazze e i ragazzi degli ultimi anni della scuola secondaria di secondo
grado per far capire cos’è il diritto allo studio, chi può accedere ai
benefici, come funziona la no tax area e come si ottengono le borse di studio.
D’ora in poi, il Fondo sarà erogato entro il 30 settembre di ogni anno e lo
sarà non più sulla base della spesa storica delle Regioni - meccanismo che
penalizzava le studentesse e gli studenti delle aree in cui gli investimenti
erano minori - ma sulla base del fabbisogno che emerge dai territori, per una
piena attuazione dei diritti riconosciuti dalla Costituzione e per contrastare
la proliferazione della figura dell’idoneo senza borsa, che si vuole superare.
Il nuovo meccanismo prevede un incentivo per le Regioni virtuose che investono
maggiormente sul diritto allo studio, attraverso una quota premiale variabile
in base all’investimento della Regione stessa. Sono novità che puntano a
migliorare la distribuzione delle risorse e a incentivare la partecipazione al
finanziamento da parte delle Regioni. Nell’erogazione dei fondi del prossimo
triennio, si terrà conto della situazione particolare delle aree colpite dal
terremoto. Sarà infine ricostituito, rendono noto dal MIUR, l’Osservatorio sul
diritto allo studio, che servirà a far ripartire uno spazio importante di
monitoraggio, di confronto tra gli attori che si occupano di diritto allo
studio a vari livelli, e di proposta. (Fonte: www.pisatoday.it 23-08-17)
RIFORMA DEL RIPARTO ALLE REGIONI DEL FONDO INTEGRATIVO
STATALE PER IL FINANZIAMENTO DELLE BORSE DI STUDIO
Il 27
luglio è stata approvata in Conferenza Stato-Regioni la riforma del riparto
alle Regioni del Fondo Integrativo Statale per il finanziamento delle borse di
studio, che entrerà in vigore a partire dal 2017 e per cui attendiamo adesso
solo l’uscita del decreto. Con l’approvazione della nuova modalità di riparto
del fondo per le borse di studio si andrà a determinare il fabbisogno
finanziario attraverso la somma di “valori standard” che faranno riferimento al
numero di studenti idonei e il relativo importo di borsa di studio, al numero di
posti alloggio destinati a studenti idonei alla borsa, al contributo per la
mobilità internazionale e al contributo di studenti con disabilità. Inoltre nel
calcolo del fabbisogno si dovrà fare riferimento alla media degli ultimi due
anni a partire da quello precedente al riparto con l’esclusione dell’anno
2015/16 (escluso perché anomalo a causa del nuovo ISEE). Riteniamo che
l’approvazione della riforma del Fondo Integrativo Statale costituisca il passo
avanti necessario, che da anni chiedevamo al governo, regioni e ministero per
abbandonare la modalità di riparto dei fondi quasi esclusivamente premiale nei
confronti di quelle Regioni “virtuose”, che andava a inasprire le
disuguaglianze tra le diverse Regioni per la copertura di borse e a creare un
sistema sperequativo e iniquo di diritto allo studio. Il nuovo riparto
sicuramente renderà più omogeneo il sistema di diritto allo studio fra Regioni.
(Fonte: comunicato
Link Coordinamento universitario 31-07-17)
AUMENTO O DIMINUZIONE DEGLI ISCRITTI ALL’UNIVERSITÀ?
Secondo
IlSole24Ore la lunga fase dell’austerity anticrisi ha ridotto del 16% i docenti
mentre gli iscritti agli atenei sono aumentati dell’8,6%. Sono tempi duri per tutti,
ma se, ciò nonostante, l’Università è più accessibile vuol dire che non è successo
nulla di drammatico. Semplicemente, “buona parte degli atenei italiani ha
ridotto alcuni squilibri e il sistema universitario è stato ricondotto su un
sentiero di sostenibilità economica” (IlSole24Ore 26.08.2014).
Secondo
Roars la realtà è diversa: in concomitanza con i tagli al sistema universitario
e l’aumento delle tasse di iscrizione si è registrato un saldo negativo degli
iscritti pari al -9,4% nel periodo 2006-2015. Una contrazione in controtendenza
rispetto al panorama internazionale, tanto che nel 2015 l’Italia, dopo essere
stata superata da Cile e Turchia, è scivolata all’ultimo posto nell’OCSE come
percentuale di laureati nella fascia di età 25-34 anni. (Roars 07-08-17)
COSTO STANDARD PER STUDENTE. ATENEI MERIDIONALI, LA
RIVINCITA DEI FONDI
Il
più importante parametro nel costo standard per studente: contano solo gli
«studenti regolarmente iscritti» e non quelli fuori corso, neanche di poco; per
questi ultimi il finanziamento è zero. Ciò penalizza nettamente le università
del Centro-Sud, nelle quali le carriere degli studenti sono più lente, in base
ad un principio assai discutibile: che solo gli studenti «veloci» meritano
attenzione.
Già
nel giugno 2016 la Camera, approvando all'unanimità una mozione, aveva invitato
il Ministero a cambiare i criteri. Grazie alle ultime modifiche approvate dal
Senato le piccole università avranno vita meno grama, e si tutelerà
l'articolazione territoriale del sistema universitario italiano (per chi avesse
dubbi: l'Italia è il Paese europeo con meno università rispetto alla
popolazione); verranno inclusi nel calcolo anche gli studenti fuoricorso al
primo anno: difendendo il principio che anch'essi sono studenti a pieno titolo,
e riequilibrando un po' l'enorme travaso di risorse operato a danno degli
atenei del Centro-Sud nell'ultimo decennio.
Insomma:
dietro tante disposizioni tecniche si nascondono scelte politiche anche nette;
qualche esperto decide per tutti, e disegna la configurazione territoriale dei
grandi servizi pubblici, con effetti di grandissimo rilievo. Per fortuna un
Rettore ha coraggio e dignità per impugnare queste scelte (in un mondo, quello
universitario, nel quale tantissimi cercano di non «disturbare il manovratore»,
e imperversa una struttura formalmente tecnica, l'Anvur, che invece fa politica).
La Corte Costituzionale gli dà ragione. Alcuni senatori comprendono la posta in
gioco, pretendono di definire principi e diritti. Si sana così parzialmente una
delle tante decisioni «tecniche» che stanno portando il sistema universitario
del Centro-Sud a deperire; i diritti dei giovani del Sud ad essere ridotti. Un
piccolo passo controcorrente. Aspettiamo fiduciosi che ora il Parlamento si
riappropri dell'intera materia, oggetto di decisioni «tecniche» davvero
scandalose. (Fonte: G. Viesti, Il Mattino 10-08-17)
TASSE UNIVERSITARIE. ATENEI CHE HANNO SFORATO LA SOGLIA
DI LEGGE
I
dati raccolti dalle associazioni studentesche e pubblicati dal MIUR nel corso
degli anni mostrano numerose Università italiane "fuorilegge", che
avrebbero tassato gli studenti sforando la soglia del 20%. In particolare,
questi sono gli atenei che mostrano le percentuali di sforamento maggiormente
elevate ed eccedenti di misura i limiti di legge:
-
Università degli Studi Insubria Varese-Como;
-
Università degli Studi di Bologna;
-
Università degli Studi di Bergamo;
-
Università degli Studi di Milano,;
-
Università degli Studi di Milano Bicocca;
-
Politecnico di Milano;
-
Università "Ca Foscari" di Venezia;
-
Università IUAV di Venezia ;
-
Università degli Studi di Padova;
-
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia;
-
Università degli Studi di Torino;
-
Università degli Studi di Verona;
-
Università degli Studi di Ferrara;
-
Università degli Studi di Pavia;
(Fonte:
L. Izzo, Studio
Cataldi 11-08-17)
UNIVERSITÀ GRATIS O SCONTATA: CHI NE HA DIRITTO
Secondo
le stime dell'esecutivo, la "no tax area" dovrebbe interessare una
platea di più di 650mila studenti. Ma per accedervi bisognerà rispettare alcuni
requisiti, anche di merito.
L'esenzione
totale dalle tasse universitarie (rimane, comunque, la tassa per il diritto
allo studio che vale 140 euro) dovrebbe riguardare, stando ai dati, circa
310mila studenti che in passato pagavano in media tasse tra i 100 e i 500 euro.
Per chi si immatricola la prima volta, occorre dimostrare di avere un Isee fino
a 13mila euro, per chi invece è già iscritto, l'esenzione scatterà solo se ha
acquisito un certo numero di crediti (almeno 10 per il primo anno e 25 dal
secondo in poi) e non sia fuori corso (o lo sia al massimo di un solo anno).
Ancora,
per chi ha un Isee superiore a 13mila euro ma inferiore ai 30mila, l'importo
massimo da pagare è pari al 7% della quota di Isee eccedente i 13mila euro. L'importo
sale per i fuori corso da più di un anno, e può arrivare fino al 50%. (Fonte: www.studiocataldi.it 15-08-17)
CRITICHE ALLE SOVRATASSE PER I FUORICORSO
Nell’immaginario
collettivo, il fuoricorso (che secondo una bufala ricorrente sarebbe una figura
esistente solo in Italia) è uno studente mantenuto agli studi da mamma e papà,
il quale sostiene un paio di esami l’anno e passa il proprio tempo tra
okkupazioni e feste di universitari. Indubbiamente, le figure di cui sopra
esistono davvero, ma la “guerra ai fuoricorso” nasce per motivazioni economiche
e ideologiche. Secondo i criteri di ripartizione del Fondo di finanziamento
ordinario (Ffo) gli atenei ricevono i soldi anche in base al numero di iscritti
in corso. I fuoricorso non portano finanziamenti aggiuntivi ma pesano in misura
minore degli altri studenti sui bilanci universitari, recandosi in facoltà
prevalentemente solo per sostenere gli esami mancanti. L’importo totale delle
tasse universitarie per ciascun ateneo non può eccedere il 20% di quanto
ricevuto dallo Stato. Con la riduzione dei finanziamenti pubblici in atto dal
2008, in alcune università le tasse chieste agli studenti sono diventate
fuorilegge, in quanto troppo alte in rapporto alla quota di Ffo. Gli studenti
hanno addirittura presentato un ricorso (successivamente vinto) presso l’ateneo
di Pavia.
Il
governo Monti è quindi intervenuto nel 2012 con una norma ad hoc nella spending
review, togliendo il tetto del 20% per le tasse dei fuoricorso. Il risultato è
stato che queste sono schizzate verso l’alto in diverse università, senza che
ciò portasse a un aumento di servizi. Le risposte degli atenei per gli studenti
in difficoltà dovrebbero essere ben diverse rispetto a un semplice aumento
delle tasse. Questo tipo di interventi non serve a “far sbrigare” gli studenti,
ma molto più probabilmente ad aumentare gli abbandoni. Si potrebbero piuttosto
incrementare le borse di studio e introdurre dei tutoraggi. Le studentesse e
gli studenti rappresentano un investimento notevole di risorse pubbliche ma
soprattutto oculato perché anche se sostengono solo una parte del costo
effettivo degli studi, i vantaggi personali e per la società ripagano
ampiamente quanto speso dallo Stato e dalle famiglie. Non a caso, nei paesi
socialmente più evoluti (Nord Europa) gli atenei non perdono tempo a chiedere
neppure quel 20% di contributo agli studenti e si prodigano per fornire un
sostegno finanziario. In un paese come l’Italia, agli ultimi posti tra le
nazioni Ocse per numero di laureati, una politica lungimirante dovrebbe essere
quella di proteggere l’investimento già in corso, ovvero cercare di aiutare gli
studenti ai quali manca ancora qualcosa per raggiungere l’obiettivo laurea,
ovviamente senza regalargli nulla agli esami. (Fonte: M. Bella, FQ 16-08-17)
IN AUMENTO I TRASFERIMENTI ALL’ESTERO PER LO STUDIO
Nel 2006 era il 6% degli
universitari italiani a partire con l'Erasmus o con altri progetti europei per
concedersi un periodo di studio all'estero. A dieci anni di distanza, il dato è
salito all'8%. E per l'anno accademico 2017/2018 è previsto un aumento di oltre
il 40% dei giovani in partenza per università in altri Paesi. Perlopiù, per
ovvi motivi, a sfruttare l'opportunità sono quanti seguono corsi di ambito
linguistico, che rappresentano il 22.2% del totale. Ma in seconda posizione,
con il 16,3% , sono futuri medici e odontoiatri. E a questo numero va aggiunto
un ulteriore 1,9% di chi studia per professioni sanitarie. Non una sorpresa. Ai
primi posti tra le figure più richieste all'estero compaiono proprio infermieri
e medici. Sul podio degli studenti in viaggio pure aspiranti architetti, con il
12,5%, e avvocati, con il 10,1%. D'altronde, a spingere molti ad abbandonare il
Paese è proprio la prospettiva del lavoro. Una recente indagine dell'istituto
Giuseppe Toniolo sulla mobilità per studio e lavoro, condotta in collaborazione
con l'Università Cattolica e con il sostegno di Fondazione Cariplo e Intesa
Sanpaolo su un campione di mille giovani tra 18 e 32 anni, ha rivelato che il
70% degli intervistati ritiene che l'Italia offra decisamente meno opportunità
lavorative degli altri Paesi e il 61,1% si è detto pronto a trasferirsi
all'estero. Chi può dunque si mette in viaggio il prima possibile, per
garantirsi una formazione ad hoc per il mercato di destinazione ma spendibile
ovunque, Italia inclusa. Secondo gli ultimi dati Unesco, sono quasi 57 mila -
precisamente 56.712 - gli studenti italiani iscritti in atenei stranieri. Nel
2012, erano "solo" 47.998. Un importante balzo in avanti. E tra
quanti decidono di lasciare l'Italia per studiare, la destinazione prediletta è
proprio il Regno Unito, nelle cui università sono iscritti quasi diecimila
connazionali. Al secondo posto, l'Austria, con poco più di ottomila casi. Poi la
Francia, con quasi settemila. (Fonte: Il Messaggero 28-08-17)
TEST DI AMMISSIONE A MEDICINA. IDONEO
L’87% DEI CANDIDATI. LO SCORSO ANNO ERA IL 94%
I ragazzi che
hanno superato il test per l'accesso a numero programmato ai corsi di laurea in
medicina, e possono quindi concorrere alla graduatoria nazionale e alla
distribuzione dei posti disponibili, sono 52.389, rispetto ai 66.907 iscritti
al test e ai 60.038 partecipanti effettivi. Anche la media dei punteggi è
inferiore rispetto al passato: il punteggio medio tra gli idonei è di 44.68, lo
scorso anno era 48.36. L'ateneo con la media migliore è quello di Pavia con
49,81 mentre l'università con il maggior numero di idonei, contro l'87%
nazionale (lo scorso anno era il 94%), è quella di Padova con il 93,61% dei
candidati idonei. I primi 100 classificati provengono da 26 atenei:
l'università di Bologna ne ha 19, l'università di Padova 17 e Milano 15. I
punteggi nominali saranno pubblicati il 29 settembre prossimo, la graduatoria
nazionale di merito nominativa il 3 ottobre: solo allora i candidati sapranno
se possono entrare nell'ateneo prescelto o devono aspettare in lista d'attesa
in un'altra sede. (Fonte: L. Loiacono, Il Messaggero 20-09-17)
VARIE
IL PIANO DI EDUCAZIONE ALLA SOSTENIBILITÀ PRESENTATO
DALLA MINISTRA FEDELI
Sono
20 le azioni iniziali delineate nel Piano di Educazione alla Sostenibilità,
riguardanti tutto lo spettro di attività del MIUR. Sono raggruppate in quattro
macro-aree: strutture ed edilizia; didattica e formazione delle e dei docenti;
università e ricerca; informazione e comunicazione. Saranno inseriti requisiti
di sostenibilità degli edifici tra i criteri per la realizzazione degli
interventi nella programmazione dei fondi PON, dei poli innovativi per
l’infanzia, del piano triennale nazionale, nel bando per gli Arredi innovativi
e nel bando per i Fondi per Edilizia AFAM (Alta formazione artistica, musicale
e coreutica). Saranno destinati 5 milioni di euro per finanziare interventi di
efficientamento energetico delle scuole progettati dalle ragazze e dai ragazzi
durante percorsi di Alternanza o percorsi di educazione ambientale. Saranno
destinate alle studentesse e agli studenti, in base alla condizione economica
delle famiglie di appartenenza, borse di mobilità internazionale, finanziate dal
Fondo Giovani, per permettere questa esperienza a chi, altrimenti, non potrebbe
accedervi. Verranno stanziate 65 borse di dottorato su ambiti di ricerca
coerenti con l’Agenda 2030 e con la Strategia Nazionale, costruiti insieme da università
e territori. (Fonte: A. Carlini, Tec Scuola 27-07-17) Per saperne di più vedi
le slide:
CHE COSA SIGNIFICA FIDUCIA NELL’UNIVERSITÀ
Vi
è da chiedersi se non sia davvero giunto il momento di "invertire la
rotta", compiendo passi in una direzione diversa, ossia in quella della
"fiducia nell'Università" quale realtà storicamente determinata che
preesiste a tutti i legislatori e ad essi chiede solo di essere riconosciuta
per ciò che è. Passi coraggiosi, che devono essere compiuti, in primo luogo,
dai decisori politici, al momento distanti dal farsi interpreti di questo
diverso modo di guardare all'Università, per essere semmai catturati dalla
retorica sull'Università e dalla sua attrattività presso l'opinione pubblica
nonché presso taluni esponenti delle stesse comunità accademiche che in ciò
trovano occasione per affermare una loro supposta, premiante diversità. Fiducia
nell'Università significa, certamente, anche adottare singole misure, delle
tante da più parti sollecitate, ma in termini di politiche generali significa
innanzi tutto cessare dal dedicare ad essa regole che cercano di determinarne i
comportamenti e le scelte, rivelandosi spesso inidonee alla stessa realtà cui
pretendono di applicarsi e che perciò ad esse si sottrae. Fiducia
nell'Università significa capacità di superare una concezione e una
configurazione della sua pur indispensabile valutazione come strumento del suo
governo, dunque come regolazione, per farne semmai lo strumento per il suo
governo, fonte di elementi conoscitivi e valutativi per politiche di sua
promozione, valorizzazione e di riequilibrio del sistema. Fiducia
nell'Università significa superare la costruzione di un diritto dell'Università
per giungere a un diverso diritto per l'Università, ossia fit for purpose, come
deve essere peraltro ogni "buona" regolazione. Fiducia
nell'Università significa anche attenzione non solo al reclutamento del
personale docente e ricercatore, ma anche di un personale
tecnico-amministrativo qualificato e attrezzato, tramite idonee azioni di
education & training, ai compiti che le Istituzioni Universitarie sono
chiamate ad assolvere, specie quando intendano collocarsi in uno scenario
internazionale.
Soprattutto,
fiducia nell'Università significa attrarla nell'ambito delle politiche
pubbliche generali, per superarne la considerazione di "settore" meritevole
di politiche "di settore", destinataria delle risorse "che
restano", quali sono quelle proprie dei settori. E perciò, significa
probabilmente anche ritornare ad assegnarla alla responsabilità di un vertice
politico/amministrativo ad essa dedicato e capace di porla, già nell'ambito
delle azioni di governo, in rapporto con le politiche pubbliche generali e non
con quelle di comparti, com'è l'istruzione, obbedienti ad esigenze e a logiche
differenti. (Fonte:
C. Barbati, IlSole24Ore 27-07-17)
INTERI EDITORIAL BOARD SI DIMETTONO DA IMPORTANTI RIVISTE
E NE FONDANO NUOVE AD ACCESSO APERTO
Paola
Galimberti su Roars riferisce: Nel 2015 l’intero board della rivista di
Elsevier LINGUA rassegna le dimissioni e fonda una nuova rivista ad accesso
aperto Glossa. Nel 2017 l’intero board della rivista di Springer Journal of
Algebraic Combinatorics rassegna le dimissioni e fonda una rivista analoga
Algebraic combinatorics. A differenza della rivista di Springer che chiedeva
3.000 Euro per la pubblicazione degli articoli ad accesso aperto, la nuova
rivista non avrà costi per gli autori. La Open Access Directory riporta una
ventina di casi analoghi a partire dal 1989 con le motivazioni per le
dimissioni dei board. Cosa ha spinto questi ricercatori a dimettersi dal ruolo
di prestigio in una rivista prestigiosa per fondarne un’altra uguale dal punto
di vista dei filtri e della qualità del board, senza alcun tipo di indicatore
bibliometrico per ora, ma finalmente libera dai vincoli (contrattuali e sui
diritti d’autore) imposti dagli editori? Certamente il costo esagerato degli
abbonamenti e il non meno esagerato costo delle Article Processing Charges ha
indotto nei membri del board una vera e propria ribellione e la volontà di
riprendere il controllo sugli esiti della attività di ricerca della propria comunità
scientifica. (Fonte: P. Galimberti, Roars 12-08-17)
DECRETO 24 CFU
La
Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Valeria Fedeli, ha
siglato il decreto con le modalità di acquisizione dei crediti formativi
universitari o accademici (Cfu/Cfa) necessari alle laureate e ai laureati non
abilitati all’insegnamento per poter partecipare al prossimo concorso per
l’ingresso nella scuola secondaria che sarà bandito nel 2018 in base alle nuove
regole previste da uno dei decreti attuativi della Buona Scuola. (Fonte
11-08-17)
INNOVAZIONE E CREATIVITA’. L’INTRECCIARSI DEI LINGUAGGI
In
genere si pensa che l’innovazione scientifica e tecnologica sia in rapporto
lineare con la specializzazione e l’eccellenza in campi sempre più dedicati e
ristretti; così si trascura il fatto che essa è invece il frutto di un ambiente
che stimoli la creatività e il pensiero divergente; il che può avvenire solo
come un effetto della capacità di diversi linguaggi ed esperienze culturali a
fecondarsi tra loro, sviluppando l’attitudine a pensare da altri punti di
vista, apparentemente lontani, ma spesso forieri di idee che solo successivamente
possono e devono essere operativamente efficaci mediante le competenze
specialistiche. La politica delle ricerca portata avanti negli ultimi anni è
stata invece sempre più orientata verso una chiusura ad esperienze culturali
non ritenute immediatamente collegate ai campi specialistici che si vorrebbero
sviluppare. (Fonte:
F. Coniglione, Roars 24-07-17)
IMMAGINAZIONE E CONTESTO PER LA CONOSCENZA
TECNICA-SCIENTIFICA
In
questi ultimi anni si è radicata – non solo in Italia – la convinzione che l’unica conoscenza utile dal punto di vista
economico sia la conoscenza tecnico-scientifica, soprattutto quella
immediatamente applicabile al mondo produttivo. Si tratta, però, di una visione
estremamente riduttiva dell’ “utilità” della conoscenza, anche dal punto di
vista prettamente economico. La conoscenza tecnica-scientifica, infatti, per
poter incidere con efficacia sulla realtà ha assoluto bisogno di almeno altre
due fattori, ovvero, immaginazione e contesto. Immaginazione per coltivare il
senso del possibile, ovvero, la creatività. Contesto per dare forma
all’intervento tecnico tenendo conto del fatto che verrà inserito in un
determinato contesto sociale, non in un vuoto, così aumentandone l’efficacia. (Fonte: J. C. de Martin,
Roars 24-07-17)
UNIVERSITÀ IN ITALIA
UNIVERSITÀ MILANESI. BOOM DI ISCRITTI STRANIERI
“La
spinta in avanti è legata all’attività di una città unica come questa” spiega
il prorettore della Bocconi Stefano Caselli. L’ateneo di via Sarfatti ad oggi
vanta il 13,5% degli studenti stranieri, e il numero nel prossimo anno è
destinato a salire. “I nostri alunni arrivano soprattutto da Francia e
Germania, poi seguono Cina e Turchia”, aggiunge Caselli.
Il
Politecnico nei corsi di laurea magistrali, ormai quasi tutti in inglese,
supera il 26% di iscritti. “Nelle discipline ingegneristiche sono ancora poco
numerosi” sostiene Luisa Collina. “L’Ateneo intende migliorare sempre più il
processo di reclutamento, selezionando gli studenti più dotati e più motivati e
aumentare l’eterogeneità dei paesi di provenienza, poiché la diversità
culturale è un elemento di grande ricchezza”.
L’Università
Bicocca ha il 18,6% del totale degli studenti stranieri. Tutto merito dei
cinque corsi internazionali in lingua inglese attivati da poco. “Insieme con i
master internazionali, le Summer school e le doppie lauree double degree, ci
aspettiamo un ulteriore incremento delle iscrizioni”.
L’Università
Cattolica del Sacro Cuore, ha quasi raddoppiato l’offerta dei corsi in inglese.
Il prossimo anno ci saranno tre triennali e nove magistrali. “Nove stranieri su
dieci s’iscrivono soltanto a corsi in inglese”. (Fonte: F. R. Veriani,
#FacceCaso 06-08-17)
SCUOLA SANT'ANNA DI PISA. IL RETTORE PARLA DEL RECLUTAMENTO E DEI
FINANZIAMENTI
Il sistema dei concorsi è del
tutto inadatto al mondo universitario e della ricerca e dovrebbe essere rivisto
alla radice. Alla Scuola Sant'Anna di Pisa, dice il rettore Pierdomenico
Perata, abbiamo reclutato eccellenti professori attraverso percorsi di
selezione rigorosi ed alcuni professori ordinari hanno poco più di trent'anni: «occorre
premiare con un carriera veloce chi si dimostra straordinariamente preparato ed
eccellente». In tema di infrastrutture: «L'Università non è esente dalla
burocrazia che affligge la Pubblica amministrazione - spiega Perata -. Ma è
comunque possibile attenuarne le conseguenze con una amministrazione
efficiente, che lavori per minimizzare le conseguenze delle normative, non per
esaltarle con una applicazione che è spesso errata per eccesso di rigore. La
qualità delle infrastrutture, infine, deve seguire, non anticipare un
reclutamento di qualità. Altrimenti si costruiscono cattedrali nel deserto,
luoghi non pensati da chi li vivrà». Tra i problemi maggiori i finanziamenti
pubblici: «Servono e sono insufficienti - dice Perata -. La Scuola Sant'Anna
riceve dallo Stato circa lo 0,4% di quanto (poco) lo Stato investe nelle sue
Università. Potremmo chiederci quali risultati potrebbero essere raggiunti con
un investimento maggiore: per tutto il sistema universitario ma anche e
soprattutto per quelle realtà, e ce ne sono, che in Italia dimostrano di saper
ben spendere i soldi pubblici». (Fonte: www.toscana24.ilsole24ore.com
23-08-17)
UE. ESTERO
EU. CREARE LA SPAZIO UNICO DELLA RICERCA
La prima e forse più importante
riforma europea riguarda la ricerca scientifica. L'innovazione vera, quella che
produce nuove tecnologie, incluse quelle sul governo della società, non può
venire da un contesto universitario molto locale e spesso subalterno come
quello costituito da 27 sistemi statali fra loro isolati. Se poi si considera
che lo stesso sistema industriale europeo, con alcune limitate eccezioni, è
molto debole rispetto ai colossi americani (specie della sponda Ovest) e del Far
East sembra indispensabile dare luogo ad un un vero e proprio mercato unico
dell'alta formazione e della ricerca che, nel promuovere efficienza e
concorrenza, sia in grado di sostenere una politica industriale competitiva.
Vorrà dire qualcosa se il monopolio della ricerca scientifica e dell'alta
formazione è detenuto dagli Stati Uniti: e fra le prime venti università al
mondo le uniche non americane tre sono britanniche e due svizzere, e cioè di
Paesi che non sono membri della Ue. Anche solo una visione comunitaria
dell'Unione, in base alla quale è messa cioè in comune la sola sovranità in
materia economica, induce a "comunitarizzare" l'area della ricerca e
dell'alta formazione. La ricerca scientifica deve costituire una politica
comune coessenziale alla applicazione del diritto comunitario primario (tanto
più in presenza della inadeguatezza delle scelte degli Stati membri). Lo spazio unico della ricerca dovrà
anzitutto promuovere, con adeguate direttive, la libera circolazione di
studenti e docenti/ricercatori (inclusa l'uniformità delle regole di accesso
alla docenza), l'elaborazione di contenuti comuni minimi pur in un contesto di
autonomia didattica e scientifica ed il riconoscimento completo dei titoli
accademici e dei connessi titoli professionali. Parallelamente, in secondo
luogo, occorre dare luogo ad una sola Agenzia
europea dell'alta formazione e della ricerca che eserciti la vigilanza e,
per quanto occorra, autorizzi gli istituti di ricerca e di alta formazione a
stare sul mercato sulla base delle regole comuni. (Fonte: M. Maresca,
IlSole24Ore 24-08-17)
EU. TEACHING IN ENGLISH IN HE
Over the past 25 years,
increasing numbers of higher education institutions in continental Europe have
started teaching classes, courses and complete programmes in English. Surveys
show that, at the masters level in particular, English has become the main
language of instruction. The Netherlands is leading other countries with 70% of
all masters courses and 20% of bachelor courses at its research universities
offered in English. (Although at Dutch universities of applied sciences, which
are larger than the research universities in both number of institutions and
students, the percentages are smaller, with 20% of masters and 6% of bachelor
courses offered in English.) Other countries where English is an important
language of instruction in higher education include Denmark, Finland, France,
Germany, Italy, Spain, Sweden and Switzerland. We see an increasing use of
English in teaching and learning outside of Europe too; for instance, in South
Korea.
Teaching in English has always
been contested. First from a political point of view, with the argument that
shifting from teaching in the local language to teaching in English may
endanger the survival of the local language and culture. This argument still
prevails, for instance, in Italy and in the current anti-global and anti-Europe
climate it will continue to be a factor. But in recent debates in Norway,
Germany and the Netherlands, it is less dominant – at least outside the media
and social media. The main argument has become that teaching in another
language impairs the quality of teaching and limits local students’ ability to
participate and compete against the growing number of international students.
(Fonte: Hans de Wit, www.universityworldnews.com 01-09-17)
FRANCIA. L'ÉCOLE NORMALE SUPÉRIEURE
L'École
Normale Supérieure (Ens), voluta e autorizzata dagli esponenti più
rivoluzionari, in sensi diversi, della storia di Francia. In poche parole, il miglior
prodotto della cultura di stato francese. Pensata dai giacobini per esportare la cultura
rivoluzionaria in tutta la Francia, spesso ignara e ostile alle novità
parigine, e poi - finiti gli eccessi giacobini - rimasta lì come luogo di
formazione eccellente per professori e ricercatori, a prescindere da quale
fosse l'orientamento e la forma dello stato di cui l'École è sempre stata
servitrice d'eccellenza. Qui la Francia ha creato la sua cultura degli ultimi
due secoli: solo per dare qualche numero ci sono stati 13 premi Nobel, 10
medaglie Fields - il Nobel della matematica - una sfilza innumerevole di nomi
celebri in ogni campo, da Pasteur a Sartre, da Galois a Derrida, da Durkheim a
Bergson. Il solo elenco dei normaliens fa impallidire quasi tutti gli istituti
di eccellenza del mondo. Dove
sta il segreto dell'École? Si è detto dell'appoggio di stato. All'École si
entra da sempre con un concorso difficilissimo: servono due anni di
preparazione dopo le superiori, per premiare alla fine 220 studenti (di cui
solo 20 stranieri, purtroppo) su quasi duemila candidati, almeno così è stato
negli ultimi anni. Una volta entrati, però, si gode dell'incredibile sostegno
di uno Stato che crede nella ricerca. Gli élèves dell'École sono da subito ufficiali
pubblici e, come tali, vengono pagati durante i loro anni di permanenza,
altrettanto gratuita, nei locali della storica Rue d'Ulm, a due passi dal
Panthéon, sulla cima del Quartier Latin, cuore dell'insegnamento universitario
fin dal 1200. Certo, il budget dell'Ens, anch'esso pubblico, è enorme: un po'
più di 100 milioni all'anno per circa 2.000 studenti. (Fonte: G. Maddalena, Il
Foglio 01-08-17)
GERMANIA. THE SECRET TO SCIENTIFIC
EXCELLENCE
During a
decade of global financial turbulence, her government has increased annual
science budgets in a stable, predictable, quintessentially German way. It has
spurred competition among universities and improved collaboration with the
country’s unique publicly funded research institutions. Under Merkel’s watch,
Germany has maintained its position as a world leader in areas such as
renewable energy and climate; and with the guarantee of strong support for
basic research, its impact in other sectors has grown. Foreign researchers are
increasingly choosing to make their careers in Germany rather than opting for
traditional brain magnets such as the United States or the United Kingdom. The
proportion of foreign academics in Germany’s universities has jumped from 9.3%
in 2005 to 12.9% in 2015. Germany now ranks above the United States for the
percentage of papers it publishes among the top 10% most highly cited.
The structure
of modern German science rests on concepts developed two centuries ago by
Wilhelm von Humboldt, a Prussian educator who pioneered ideas that continue to
hold sway around the world. It was he, for example, who suggested that
university professors should do front-line research as well as teaching. His
philosophy that education should be both broad and deep, and that academic life
should be free from politics and religion, remains engraved in the German
psyche. “The Humboldtian system is in our DNA,” says Thorsten Wilhelmy, general
secretary of the Berlin Institute for Advanced Study. “That’s why politicians
are not so tempted to cut basic research when times get tough.” (See ‘Build,
link and trust’.) (Fonte: A. Abbott, Nature 06-09-17)
POLONIA. ACCORDO FRA MINISTERI DIFESA E ISTRUZIONE PER LA
FORMAZIONE MILITARE AGLI STUDENTI UNIVERSITARI
In Polonia prenderà il via a
ottobre la formazione militare per gli studenti universitari. È quanto emerge
dall’accordo siglato fra ministeri della Difesa e dell'Istruzione superiore che
rientra nelle attività di Varsavia di aumentare la sua capacità militare nel
timore di una possibile aggressione russa. Nel quadro dell’accordo, gli
studenti e le università possono volontariamente partecipare a un programma
pilota di 30 ore di lezioni da ottobre a giugno e a degli esercizi di
addestramento durante le vacanze. Il viceministro della Difesa Michal Dworczyk
ha dichiarato che per il prossimo anno sono stati preparati 10 mila posti,
aggiungendo che le forze di difesa della Polonia devono formare dei riservisti.
Secondo Dworczyk quest’unità specifica è calata a causa dell’abolizione del
servizio di leva obbligatorio avvenuta una decina di anni fa e che non ci
sarebbero i riservisti necessari a sostenere le forze regolari se la Polonia
dovesse essere costretta a mobilitarsi nei prossimi anni. (Fonte: www.agenzianova.com
22-08-17)
RUSSIA. GOVERNMENT STEPS UP FUNDING FOR ELITE UNIVERSITIES
The Russian government is
stepping up its funding of the 5-100 programme aimed at getting five
universities into the global top 100 in international rankings, conceding that
it has faced significant challenges due to underfunding and budget cuts. As a
result, funding of the promotion of Russian universities in the global arena
will grow from RUB34.8 billion (US$599 million) to RUB43.5 billion (US$749
million) during the period 2018-20, according to a recent draft decree,
prepared by the Ministry of Education and Science. The aim is to increase the
competitiveness of Russian universities in the global market and amounts to
recognition of the substantial challenges they face. Currently, the 5-100 programme
involves the participation of 21 universities. Its main goal is entering five
national universities into the world’s top 100 universities as ranked by QS,
Times Higher Education and the Academic Ranking of World Universities or ARWU.
(Fonte: E. Vorotnikov, www.universityworldnews.com 01-09-17)
SVIZZERA. 5 ATENEI NELLA TOP 100
Cinque
università svizzere figurano nella Top 100 di quest'anno dei migliori atenei
del mondo stilata dall'Università Jiaotong di Shanghai. Il politecnico di
Zurigo mantiene il 19esimo posto e si conferma la migliore Alta Scuola
dell'Europa continentale. L'Università di Basilea è entrata per la prima volta
nello "Shanghai-Ranking" lo scorso anno e figura in 95esima posizione.
Il Politecnico di Losanna è salito nel 2017 in classifica passando dal 92esimo
al 76esimo posto, mentre perdono leggermente quota l'Università di Zurigo (da
53 a 58) e quella di Ginevra (da 54 a 60). Fonte: www.swissinfo.ch 16-08-17)
UK. L’ATTRAZIONE DEL SISTEMA UNIVERSITARIO
Nelle
Università del Regno Unito ci sono oltre 5.000 ricercatori italiani. Le
università del Regno Unito sono universalmente riconosciute come la seconda
potenza accademica e di ricerca del mondo, dopo gli Stati Uniti. Una tale
numerosità di accademici e ricercatori italiani in un sistema accademico di
eccellenza fa fare un paio di importanti considerazioni. La prima è che che le
nostre scuole e università riescono a produrre studenti bravi, dando loro
solide basi per affrontare studi e ricerche scientifiche avanzate e sfide
professionali impegnative. La seconda riguarda il sistema accademico britannico
e internazionale (e non è altrettanto positiva per noi). Va osservato che gli
italiani non sono la popolazione accademica non-britannica più numerosa; anche
se di poco, i tedeschi ci superano. Quello che spesso viene descritto o
immaginato come un fenomeno ristretto al nostro Paese è in realtà un fenomeno
diffuso: i ricercatori si spostano da un Paese all’altro. Per altro, non mi
risulta questo venga visto come un problema in Germania. Nella concorrenza
internazionale, il Regno Unito è visto come una meta ambita per studiosi e
ricercatori di tante discipline e di tante nazionalità. Il sistema britannico è
attrattivo perché offre certezze ai ricercatori sulla possibilità di competere
e perché la competizione tra università parte dalla selezione degli studenti,
passa per il reclutamento autonomo dei docenti e si chiude con un sistema
combinato di valutazioni ex-ante ed ex-post. Non posso non far notare che
questo sistema porta a far concentrare il 50% del finanziamento pubblico in 10
atenei, per tutti e due i canali di finanziamento descritti. Non so se il
nostro Paese sia pronto ad accettare una tale disparità tra atenei. Ma
l’eccellenza diffusa è insostenibile. Forse una rete di eccellenza aggiunta a
un solido sistema educativo diffuso, che già abbiamo, è quello che manca al
nostro Paese? (Fonte: R. Di Lauro IlSole24Ore 09-08-17)
AUSTRALIA. OECD: HIGHER EDUCATION
SPENDING AMONG WORLD’S LOWEST
Australia
spends a smaller share of its national income on public investment in tertiary
education than countries such as Estonia, Turkey and Latvia, according to the
OECD’s latest Education at a Glance report. The report ranks Australia’s public
investment in tertiary education among the bottom four of the world’s advanced
economies – 30th out of 34 nations at 0.7% of gross domestic product or GDP, or
about 40% below the OECD average of 1.1%. “The only OECD countries with lower
recorded levels of public investment than Australia are Japan, Luxembourg and
the UK,” said National Tertiary Education Union President Jeannie Rea. “Even
the USA has a higher level of public investment in tertiary education, which at
0.9% of GDP is almost 25% higher than Australia.”
Rea said that
in contrast to the low levels of public investment, Australia’s level of
private investment in tertiary education was 1.1% of GDP – more than twice the
OECD average of 0.5%.
“The high
private contribution Australian students make to the cost of their tertiary
education is reflected in the high level of tuition fees our students are
required to pay, which again the report shows to be among the highest in the
OECD,” she said. “Australia’s private investment in tertiary education now sits
at 1.1% of GDP – more than twice the OECD average,” Robinson said. “The data
comes as legislation to impose a further AU$2.8 billion [US$2.2 billion] in
cuts to universities and their students – on top of another nearly AU$4 billion
in cuts since 2011 – is being debated in parliament.” (Fonte: G. Maslen, www.universityworldnews.com
17-09-17)
USA. LA STABILIZZAZIONE DEI PROFESSORI
Negli
USA e in tutti i sistemi di higher education che ne mimano il modello, si parla
di tenured o non tenured positions. Sul punto, ovvero sul fondamento
economico/istituzionale dell’opportunità di garantire a vita la stabilità del
posto di lavoro di un professore universitario, esiste una letteratura
sterminata. Ne parlava colui che aveva reso grande Harvard nel 1907: “In una
società democratica la libertà del docente va difesa dalla tirannia della
maggioranza, o di quel pensiero dominante che in un dato momento storico può
manifestarsi con riferimento ad uno qualsiasi dei nodi centrali della
conoscenza e del mutevole sistema di credenze accolte in una società sul piano
religioso, politico ed economico. A questo rischio, secondo Elliot, si deve
ovviare prevedendo la tenure of office, ovvero concependo ruoli di insegnamento
non sottoposti a termine o rinnovo, l’accesso ai quali è subordinato ad un
processo di valutazione rigoroso, preceduto da severi periodi di prova, ma
sempre retto in modo esclusivo dalla comunità accademica. Un privilegio di casta?
No. Un meccanismo che all’occorrenza permette al docente, non diversamente dal
giudice della Corte suprema degli Stati Uniti che giura sulla Costituzione di
fronte al Presidente che lo ha nominato, di votare contro gli interessi
dell’istituzione artefice della sua designazione”. Sul tema furono gettate le
basi che permisero al sistema universitario statunitense di trionfare a livello
mondiale nella seconda metà del Novecento. E il sistema regge anche oggi,
esibendo una intrinseca giustificazione economica. Nelle parole di Raghavendra Rau,
professore di sistemi finanziari a Cambridge che scrive sul Financial Times:
“The binary nature of tenure in the US is therefore a rational economic
solution to the twin problems, adverse selection and moral hazard, universities
face. It is also why despite frequent calls to abolish tenure, the tenure
system has survived – without it, universities would cease to be centres of
research. It is also likely to be a reason why by far the greatest amount of
academic research originates in the US.” Per non dire delle ulteriori giustificazioni interne alla
vita universitaria che rendono necessario prevedere che a un certo momento
della carriera il professore universitario consegua la stabilizzazione. (Fonte:
U. Izzo, Roars 02-08-17)
LIBRI. RAPPORTI. SAGGI
BREXIT E UNIVERSITÀ
Autore:
Carla Barbati. Federalismi n. 16/2017.
Sommario:
1. Università e UE: ovvero “delle differenze” più che “delle vicinanze”-2.
Brexit, vista “dalla parte” del Regno Unito - 3. Brexit, vista “dalla parte”
dell’Italia - 4. Un’occasione per
la dimensione europea
dell’Università?
Brexit
lascia aperte molte più domande di quante risposte autorizzi in merito a quali
possano esserne gli effetti sull’Università e ben potrebbe aggiungersi sulla
Ricerca. Tuttavia, si annuncia anche come un processo capace di evidenziare
quanto le distanze che separano i sistemi
universitari europei rendano tuttora molto più ottativa che effettiva la
costruzione dello Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore. In questo senso,
dunque, lascia aperta anche un’altra domanda, circa la capacità di Brexit di
farsi occasione perché gli Stati membri si avviino a favorire quegli
avvicinamenti e quelle armonizzazioni al momento più nominali che sostanziali e
perché i sistemi universitari si interroghino
sul significato da assegnare ai percorsi di internazionalizzazione che
dichiarano di voler intraprendere, ma che ognuno di essi declina in termini
propri e perciò deboli come è per ogni
internazionalizzazione vissuta unilateralmente, al di fuori di quella
dimensione relazionale che di essa è e
dovrebbe essere tratto costitutivo. (https://tinyurl.com/yc2z2skt ).
IL FUCILE DI MARC BLOCH
Autore:
Davide Canfora. Ed. Castelvecchio, Roma, 2017, pp. 72.
Questo
elegante pamphlet
ha come obiettivo la difesa degli studi umanistici e degli studi in genere. Beninteso il Canfora non è
l’unico a trattare questi temi, ma è il più schietto e coraggioso. Non a caso le
pagine più incisive sono quelle che riguardano la valutazione dei professori
universitari, questione delicata e pericolosa. L’ex ministro Fabio Mussi si
inventò l’Anvur, l’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della
Ricerca, un moloch che costa una fortuna allo stato e a cui lo stato ha dato
mano libera sull’università. L’Anvur
controlla tutto, interviene su tutto, ha potere di vita e di morte su corsi di
studio, dipartimenti, dottorati. Fissa parametri irraggiungibili, impone
procedure tortuose che cambiano all’improvviso non appena uno ne ha imparato il
funzionamento. Prende decisioni in solitudine, non discutibili e non
trattabili. Invia i suoi missi dominici nelle università per vedere chi
obbedisce e chi no, e a chi non obbedisce taglia i fondi e quindi l’ossigeno. Verrebbe da dire
che è un organo messo lì apposta per ostacolare sia la didattica che la ricerca
con il pretesto di favorirle. La follia docimologica, l’ossessiva ricerca di
un’oggettività introvabile – e per ciò stesso fatalmente virata su criteri
quantitativi e cioè fasulli – hanno dato un colpo mortale alla ricerca
scientifica. Far dipendere il valore di un saggio dalla reputazione della
rivista che lo ospita è esattamente come dire che l’uomo vale per l’abito che
indossa. La lettura non serve e infatti non è più prevista. Non si scrive per
essere letti, ma per essere citati. E non sempre si scrive quello che si vuole,
bensì quello che si pensa che piacerà ai referee. E così la valutazione ottiene
l’effetto di non valutare, di mal valutare o di valutare alla rovescia,
rivelandosi a occhi non prevenuti per quello che è: un costoso e stolido
sistema fatto apposta per promuovere piattezza, conformismo e furberia.
Nell’era del publish or perish, l’importante è scrivere: il cosa e il come sono
secondari, un lusso che non ci si può permettere. (Fonte: W. Lapini, Il Secolo XIX 01-08-17)
THE TOXIC UNIVERSITY: ZOMBIE
LEADERSHIP, ACADEMIC ROCK STARS, AND NEOLIBERAL IDEOLOGY
By John
Smyth. Palgrave Macmillan. Published 6 July 2017. 235pp.
The central
thesis of this well-constructed and well-referenced book is that in recent
decades higher education policy – in common with much else that matters in
human existence – has come to be shaped by neoliberalism’s blind and evidence-free
prescriptions. As many commentators now assert, the real economy – which
depends on cohesive social relations, humanism and respect for ecological
integrity – has been usurped by a form of speculative, consumer-driven
financial capitalism that may be divorced from reality but that nevertheless
continues to dominate political discourse and, by extension, the governance of
our institutions, including universities.
Apparently
even the International Monetary Fund now believes that the virtues of
neo-liberalism have been oversold because of the manifest social and economic
failings of austerity. And yet such is the hold that even effete economic
theories have on our collective mind-share, we seem unable to shake off their
assumptions, attendant coercive rules and required behaviours, however negative
and obviously damaging their effects.
Smyth
describes the pernicious effect of fears peddled by politicians, policy elites
and of course the eponymous “zombie leaders” of our universities, whom he
accuses of slavishly adopting consumerist systems of rankings, metrics and
reporting systems in order to demonstrate global competitiveness and thereby
achieve reputational gain. (Fonte: D. Wheeler, THE agosto)
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