IN
EVIDENZA
APPELLO PER UN’ALLEANZA FRA POLITICA E
SCIENZA PER LA SALUTE E LO SVILUPPO DEL PAESE
E’ stato firmato
da 40 scienziati e accademici un appello per un’alleanza fra politica e scienza
per la salute e lo sviluppo del paese. Primo firmatario fra questi il
presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi. Gli scienziati
alla luce del dibattito in queste settimane sentito nell’ambito della campagna
elettorale sui temi della libertà di cura, vaccini e futuro del sistema
sanitario nazionale, affermano di ritenere urgente “l’allineamento e il
rispetto reciproco fra scienza e politica, che mai dovrebbero essere fazioni
contrapposte: è dall’imprescindibile alleanza fra queste che dipendono la
salute e lo sviluppo economico e sociale del paese. I firmatari dichiarano la
totale disponibilità all’ascolto e alla circolazione dei dati scientifici a
supporto di ogni decisione politica. Infine indicano il percorso da seguire in
quello già avviato in questi anni con il ministro Beatrice Lorenzin. Fra i
firmatari compare il farmacologo Silvio Garattini, il genetista Bruno Dalla
Piccola, alcuni componenti dell’Iss e numerosi professori universitari. (Fonte:
B. Cariddi, www.meteoweb.eu
21-01-18)
SEI SEMPLICI DOMANDE PER I LEADER POLITICI
CHE SI CANDIDANO A GOVERNARE L’ITALIA NEI PROSSIMI CINQUE ANNI:
1) Come pensate
di aumentare il numero dei laureati italiani, assai esiguo rispetto alla media
europea, garantendo al contempo standard elevati di qualità didattica?
2) Come
garantirete che le Università italiane siano finanziate sulla base del merito -
premiando le più competitive a livello internazionale in fatto di ricerca,
innovazione, didattica e terza missione – a fronte di un gap crescente tra
atenei delle diverse Regioni italiane e in particolare tra Nord e Sud del
Paese?
3) Che ne
pensate della proposta di abolire i concorsi universitari, affidando alla
responsabilità degli atenei e a una rigorosa valutazione a posteriori (con
severe sanzioni per chi non seleziona sulla base del merito) il reclutamento
dei docenti e ricercatori come accade nei paesi anglosassoni?
4) Qual è la
vostra posizione sulla possibile abolizione del valore legale del titolo di
studio e sul passaggio a un regime di libera competizione tra Università?
5) Come
migliorereste l’efficienza amministrativa delle Università che oggi sono
vincolate alle regole della Pubblica amministrazione?
6) Potreste
tracciare l’identikit della figura ideale che vedreste come vostra ministra o
vostro ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca?
(Fonte: Cesare
Montecucco, Tomaso Patarnello, Telmo Pievani, Maria B. Rasotto, docenti
dell’Università degli studi di Padova, IlSole24Ore 28-01-18)
NONOSTANTE LA DENIGRAZIONE IMPERANTE
L’UNIVERSITÀ FORMA GIOVANI ADATTI AL MERCATO DEL LAVORO NEI PAESI IN ASSOLUTO
PIÙ PROGREDITI
Si mettano una
mano sulla coscienza tutti quegli italiani che – di solito dal “mondo del
lavoro” – sparano a zero sulla nostra scuola e la nostra università, dando ai
governi di ogni colore un pretesto per infierire su uno dei settori
strategicamente più essenziali per la vita e per l’economia di un paese. Si
rendano conto che la percentuale del PIL destinata a finanziare l’università è
in Germania – a seconda del modo di calcolarla – da 2 a 4 volte la nostra,
anche perché negli ultimi 10 anni è cresciuta del 23%; mentre da noi nello
stesso periodo i governi l’hanno ridotta del 22%. Col risultato che ora siamo
penultimi nell’Europa a 15 per il rapporto tra il finanziamento all’istruzione
e il PIL. In questa situazione, e nonostante i vergognosi attacchi di ogni tipo
subiti direttamente dal loro personale, scuola e università di fatto (grazie al
quotidiano sacrificio di quello stesso personale) formano giovani adatti al
mercato del lavoro nei paesi in assoluto più progrediti. Mentre il mondo delle
aziende in Italia ai giovani non è capace di darglielo, un lavoro. Insomma,
forse è il caso di ripensare chi è che non fa bene la sua parte. (Fonte: E.
Lombardi Vallauri, temi.repubblica.it/micromega-online 10-01-18)
AL CERN L’ITALIA È IL PAESE CON IL
CONTINGENTE PIÙ ELEVATO DI FISICI: 2600
Situato al confine tra
Svizzera e Francia, il CERN è il più grande laboratorio al mondo di fisica
della particelle e dalla sua fondazione, avvenuta nel 1954, è stato protagonista
di importanti scoperte premiate anche con i Nobel per la Fisica, nel 1984 a
Carlo Rubbia e da ultimo nel 2013 per la scoperta del bosone di Higgs. Oggi il
CERN conta 22 stati membri più altri paesi extraeuropei associati e al suo
interno lavorano circa 17 mila scienziati di 110 nazionalità. Fabiola Gianotti,
da due anni direttore generale del CERN, prima donna a ricoprire questo
incarico, durante la conferenza organizzata dall'Accademia dei Lincei dal
titolo "Il CERN, un laboratorio mondiale per la ricerca e molto di
più", ha detto: "L'Italia ha una presenza molto importante, è il
paese con il contingente più elevato di fisici, circa 2.600 fisici sono
italiani, non tutti dipendenti da istituti italiani, alcuni sono italiani
all'estero, il che indica il contributo importante dell'Italia al CERN ma anche
il beneficio che l'Italia trae in termini anche di formazione dei propri
ricercatori". Una ricerca di frontiera, quella che si svolge al CERN dove
si trova l'acceleratore di particelle più potente al mondo, il Large Hadron
Collider (LHC), grazie al quale è stato scoperto il bosone di Higgs la cui
importanza valica i confini della fisica, investendo la nostra vita quotidiana,
come ha sottolineato Fabiola Gianotti: "Una delle domande che spesso mi
viene fatta è se il bosone di Higgs cambierà la nostra vita. La mia risposta è:
lo ha già fatto. Innanzitutto perché per arrivare a scoprire il bosone di Higgs
abbiamo dovuto sviluppare tecnologie di punta in molti campi”. (Fonte: Il
Foglio, ascanews 12-02-18)
NELLA CLASSIFICA DEI RICERCATORI PIÙ QUOTATI AL MONDO SONO PRESENTI 46
SCIENZIATI ITALIANI TRA I QUALI 4 DA UNIBO E 3 CIASCUNO DA UNIPV, UNITO E CNR
L’Highly Cited Reserchers
2017, la lista che analizza e calcola le citazioni riportate su articoli di
stampa divulgativa specializzata, ha inserito 46 ricercatori italiani
nell’elenco dei circa 3.400 studiosi che rappresenta il meglio della comunità
scientifica internazionale. L’elenco riporta anche gli enti e atenei che
ospitano i ricercatori inseriti nella speciale classifica: l’Università di
Bologna ha registrato quattro nominativi, seguita dagli atenei di Pavia e
Torino e dal Consiglio nazionale delle ricerche, con tre ciascuno. L’area
disciplinare in cui l’Italia ottiene risultati migliori è la biomedicale.
Considerando il podio, Bologna ottiene tre riconoscimenti nella categoria
Clinical Medicine (Michele Baccarani, Michele Cavo e Nazzareno Galie) e uno
nella Space Science (Andrea Cimatti); Torino due per la Medicina (Antonio
Palumbo e Giuseppe Saglio) e uno per Plant & Animal Science (Paola
Bonfante); Pavia due in scienza medica (Mario Cazzola e Silvia Giuliana Priori)
e uno in Computer Science (Alessandro Reali). Si dichiara particolarmente orgogliosa
per le sue due citazioni l’Università di Parma, presente nella lista con
Giuseppe Mingione per Mathematics e Nicoletta Pellegrini per Scienze Agricole.
È del Cnr l’unico informatico italiano: Marco Conti, dell’Istituto di
informatica e telematica (categoria Computer Science), a cui si affiancano
Vincenzo Di Marzo, dell’Istituto di chimica biomolecolare (Pharmacology &
Toxicology), e Serena Sanna, dell’istituto di ricerca genetica e biomedica
(Molecular Biology & Genetics). Il nostro Paese appare stabile come numero
di Highly Cited Reserchers: nei precedenti tre anni gli studiosi italiani
inseriti erano stati 49, 44 e 48. (Fonte: www.startmag.it
16-02-18)
COSA C'ENTRA UN AZZERAMENTO INDISCRIMINATO
DELLE TASSE UNIVERSITARIE CON IL DETTATO COSTITUZIONALE?
Cosa c'entra un
azzeramento indiscriminato delle tasse universitarie con il dettato
costituzionale (Art. 34) che afferma "I capaci e meritevoli, anche se
privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli
studi"? Cosa c'entra con la precisa prescrizione "La Repubblica rende
effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre
provvidenze, che devono essere attribuite per concorso"? Il Parlamento ha
approvato l'esenzione totale dalle tasse universitarie agli studenti con una
posizione Isee (l'indicatore del reddito familiare) entro i 13mila euro annui.
Così, secondo dati raccolti dal Sole 24 Ore, un terzo degli studenti
universitari già ha ottenuto l'esenzione dalle tasse. Tutti quelli che nelle
stesse condizioni volessero iscriversi l'otterrebbero. E perché debbono
studiare gratis anche gli altri? E perché poi proprio nel momento in cui molte
università pubbliche cominciano a dotarsi degli strumenti per verificare e
differenziare le classi di reddito, in modo da aumentare il numero delle borse
di studio, evitando di scaricarne il costo sulle spalle di tutti i
contribuenti? Ma poi, quali effetti avrebbe questa misura, in un paese dove lo
Stato non ha affatto la capacità di ridurre la gigantesca evasione fiscale,
sulla qualità già tanto scarsa di un servizio tanto prezioso e costoso? E
questo disinteresse per la conseguenza non tradisce già un (certo
inconsapevole!) disprezzo dei più elementari valori della conoscenza, della
scienza, della ricerca, della critica, della responsabilità personale e
dell'attenzione all'impegno e al merito - insomma dell'intero pensiero
umanistico? Per non parlare dell'autonomia dell'Università dalla politica: ma
che fine farebbe? (Fonte: R. de Monticelli, FQ 11-01-18)
ABILITAZIONE
SCIENTIFICA NAZIONALE
L’ASN HA ABILITATO UN NUMERO DI CANDIDATI DI GRAN LUNGA SUPERIORE AI
POSTI A DISPOSIZIONE: 45MILA DOCENTI TRA PROFESSORI ORDINARI (14.807) E
ASSOCIATI (30.000)
Da uno studio del MIUR e del
Senato, inserito in un emendamento alla Legge di Stabilità del senatore
Fabrizio Bocchino, si evidenzia che il numero dei candidati abilitati
effettivamente messi in ruolo o promossi, ad oggi, non sarebbe superiore al 10
per cento. Inoltre è stimato (in eccesso) in 600 milioni di euro il costo per
la normalizzazione degli abilitati scientifici, anche in vista dei
pensionamenti dei prossimi anni in ambito universitario. “Mentre oggi la
promozione avviene superando un concorso locale nelle università, è auspicabile
la creazione di una graduatoria nazionale di merito da dove pescare in
automatico le nuove assunzioni. “Ciò aumenterebbe la trasparenza – affermano i
firmatari della petizione “Abilitati a insegnare ma esclusi dall’università” -.
Inoltre siano assegnati i posti per concorso nazionale ai migliori che scelgano
poi loro la sede di servizio, e non assegnati alle sedi con criteri diversi da
quelli del merito dei candidati”. (Fonte: www.corriereuniv.it
31-01-18)
CLASSIFICAZIONI
DEGLI ATENEI
CLASSIFICA 2017-18 CENSIS DEGLI ATENEI
STATALI E NON STATALI
Tra i mega atenei statali, ovvero quelli con oltre
40mila iscritti, la prima posizione del Censis va ancora all'università di
Bologna, con un punteggio complessivo di 92,0. Seguono Firenze (88,2), Padova e
Sapienza di Roma, che sono migliorate anche nella comunicazione, nei servizi
digitali e nel livello di internazionalizzazione. L'università di Perugia (94,8
punti totali) continua invece a guidare la classifica dei grandi atenei statali
(da 20mila a 40mila iscritti), grazie all'alto grado di internazionalizzazione.
Con 91,6 mantiene il secondo posto l'università di Pavia, a cui si accodano
Parma (89,6), la new entry Modena e Reggio Emilia e l'università della
Calabria. E se tra i medi atenei (da 10mila a 20mila iscritti), è l'università
di Siena a farla da padrona, dopo aver sorpassato in vetta Trento
(rispettivamente 99,4 e 99,2 punti), tra i piccoli atenei (fino a 10.000
iscritti) primeggia nuovamente l'università di Camerino (97,2) davanti a Teramo
(89,6). Stabile la classifica dei Politecnici, guidata da Milano (92,8 punti),
seguito dallo Iuav di Venezia (88,2), poi Torino e Bari.
Non riserva
sorprese nemmeno la classifica degli atenei
non statali. Tra i "grandi" (10-20mila iscritti) è in cima
l'università Bocconi (95,8 punti), seguita dalla Cattolica (89,4). Tra i medi
(5-10mila) al primo posto c'è la Luiss (91,4). Tra i piccoli (fino a 5mila
iscritti), compare la Libera università di Bolzano (108,8), e la
Liuc-Università Cattaneo (93,4).
Interessante
anche, per farsi un quadro più completo, la classifica in base ai singoli
ambiti. Rimanendo tra i mega atenei statali, Bologna primeggia per
l'internazionalizzazione e le strutture, Pisa nel campo dei servizi, Palermo
nell'ambito della comunicazione e dei servizi digitali, Roma Sapienza per la
spesa in borse di studio. (Fonte: http://www.censis.it/17?shadow_pubblicazione=120574
)
CORSI IN
INGLESE
CORSI IN INGLESE. CONSIGLIO DI STATO:
L'OBIETTIVO DELL'INTERNAZIONALIZZAZIONE NON DEVE PREGIUDICARE IL PRIMATO DELLA
LINGUA ITALIANA
Il Politecnico
di Milano con una sentenza del Consiglio di Stato ha perso la sua battaglia
linguistica. Non è possibile impartire esclusivamente in lingua inglese interi
corsi universitari. Del resto, già un anno fa la Corte Costituzionale si era
espressa in tal senso: pur riconoscendo l'autonomia degli atenei, non è lecito
sacrificare l'italiano a totale favore di una lingua straniera. I fatti sono
noti: nel 2013 il Politecnico aveva deciso di passare all'inglese come lingua
obbligatoria ed esclusiva dei corsi magistrali e di dottorato, prevedendo un
piano per la formazione dei docenti e il sostegno agli studenti. Il Tar della
Lombardia, a cui si era appellato un gruppo di docenti, aveva dato torto al
Senato accademico. A quel punto l'ateneo e il ministero avevano fatto ricorso
al Consiglio di Stato, da cui era stato sollevato un dubbio di
costituzionalità. Ora la sentenza è definitiva e, appunto, inequivocabile.
«L'obiettivo dell'internazionalizzazione» non deve pregiudicare il «primato»
della lingua italiana come «elemento di identità individuale e collettiva», la
parità nell'accesso all'istruzione e la libertà dell'insegnamento. La decisione
del Politecnico avrebbe infatti precluso le lezioni agli insegnanti e agli
studenti non anglofoni. Dunque, benissimo che si facciano singole lezioni in
inglese o in altre lingue, non interi corsi. (Fonte: P. Di Stefano 31-01-18)
ITALIAN CONSIGLIO DI STATO, ITALY’S HIGH ADMINISTRATIVE COURT, PUSHES
BACK ON THE RACE TOWARDS ENGLISH
Last Monday the Consiglio di
Stato, Italy’s high administrative court, struck down the Polytechnic plan on
constitutional grounds. While a triumph for the 98 professors who challenged it
back in 2012, it raises a number of questions on the trade-offs that
universities in Italy and beyond make as they race towards English in the name
of internationalisation and global competition. Those trade-offs have become
ever more salient in recent years in light of rising nationalism and a growing
backlash against the progressive spread of English taught courses. In striking
down the plan, the Consiglio di Stato applied principles laid down by the
Constitutional Court last year to affirm an earlier decision of the regional
administrative court. In the interim the court had asked for the university to
provide documentation on the number of programmes offered in English, Italian
or in both languages. The opinion, largely a compilation of quotes from the
Constitutional Court with little additional rationale, affirms three principles
that the goal of internationalisation cannot jeopardise: the primacy of the
Italian language, the freedom of students to learn and the freedom of
professors to teach. The Italian language, the court says, is a “fundamental
element of cultural identity”, not only essential to transmitting the country’s
heritage but a cultural asset in itself. Teaching courses solely in a foreign
language would remove Italian from “complete branches of knowledge”. Moreover,
it would deny students, without adequate language support, the freedom to
choose their own training and future and prevent them from reaching “the
highest grades in their studies”. Finally, it would affect how professors
communicate with students and would discriminate against them in the assignment
of courses based on criteria that have nothing to do with their competence in
the subject matter they have been hired to teach. The university must now find
a solution that maintains the institution’s competitiveness in both retaining
Italian students and attracting foreign students who understand the value of an
English-based degree in the global job market. The question now is whether the
controversy fades from sight or the implications push to the boiling point a
simmering debate over the proper place of English in academia.
(Fonte: R. Salomone, http://www.universityworldnews.com
03-02-18
CORSI IN INGLESE (1)
L’ Accademia della Crusca
esulta per la decisione con cui il Consiglio di Stato ha deciso che il
Politecnico di Milano non può tenere corsi esclusivamente in lingua inglese.
"Finalmente è arrivata la pronuncia definitiva che dà ragione totalmente e
integralmente alla lingua italiana. Una bellissima vittoria", ha
commentato il presidente dell'Accademia, Claudio Marazzini. Neanche fossero
corsi di letteratura italiana, con studi approfonditi sul
"Canzoniere" di Petrarca o sulle "Opere" di Lorenzo il
Magnifico. Pazienza per quegli studenti europei che magari, invogliati dai
corsi in inglese, avrebbero scelto un'eccellenza italiana per perfezionare la
propria istruzione. Niente da fare neppure per quei tanti ragazzi italiani che
finalmente avrebbero potuto entrare nella contemporaneità, usando correntemente
l'inglese - cioè la lingua universale - per potersi poi presentare a un
colloquio di lavoro internazionale quantomeno comprendendo le domande degli
intervistatori. Se vorranno impratichirsi con la lingua dovranno fare da soli,
perché qui in Italia non è possibile, nell'anno 2018, seguire un corso
universitario totalmente in inglese, utile tra le altre cose ad alzare il
rating delle università del nostro paese rispetto a quelle straniere. “La
sentenza riguarda una specifica materia – ha spiegato Paolo Collini, rettore
dell’UniTr - e specificamente il Politecnico di Milano. Mi pare che non dica
che non si possono fare corsi in inglese ma solamente che occorre garantire una
possibilità di scelta per lo studente”. (Fonte: ildolomiti.it 01-02-18)
CORSI IN INGLESE (2)
Ebbene, questo centro di
malvagi distruttori dell'idioma nazionale, risulta primo tra le università
italiane, nono in Europa e trentanovesimo nel mondo. Per usare una parola
orrida che forse un giorno, i giudici, con scrupolosamente motivata sentenza,
porranno fuori legge, il Politecnico di Milano è una "eccellenza" del
nostro Paese. Ora, non vogliamo certo dire che il Politecnico primeggia solo in
quanto vi si tengono corsi di laurea in inglese, cioè nella lingua franca e
universale dei nostri tempi, soprattutto negli ambiti scientifici e
tecnologici. Ma siamo convinti che il rettore, quando insieme al consiglio
accademico ha deciso il passaggio dall'italiano all'inglese, è stato
coraggioso, moderno, e lungimirante. (Fonte: Libero 01-02-18)
CORSI IN INGLESE (3)
La questione è presto detta:
la giustizia amministrativa entra in ballo per il ricorso di alcuni docenti avverso
l'introduzione dell'insegnamento in inglese ed esclusivamente in questa lingua
per alcuni indirizzi di laurea. Il Politecnico di Milano avrebbe provveduto ad
attivare corsi di aggiornamento nella lingua inglese per docenti e allievi,
in modo da consentire loro di seguire le lezioni e comprendere i testi. Tengo
per me le considerazioni che il rifiuto di alcuni docenti di aggiornare la
propria conoscenza dell'inglese mi suggerisce. Ma sul resto non posso tacere,
anche e proprio per la parità di accesso all'istruzione e la libertà di
insegnamento. Anche chi protesta sa bene che la letteratura scientifica delle
materie non umanistiche (e, in qualche caso, anche per queste, vedi la
filosofia) è tutta in inglese, Le riviste di ricerca e di diffusione delle
conoscenze tecnico-scientifiche sono in inglese. Tutti i ricercatori italiani,
se intendono far conoscere nel mondo i risultati dei loro studi e, magari, le
loro scoperte, debbono presentare i loro saggi, le loro monografie in lingua
inglese, unico veicolo per essere letti e ascoltati ovunque nel mondo. E
normale che conferenze scientifiche organizzate da enti italiani si svolgano
in inglese, senza che sia prevista alcuna traduzione simultanea. (Fonte: D.
Cacopardo, ItaliaOggi 02-02-18)
CORSI IN INGLESE (4)
Le università italiane, fin
dal Medioevo, sono un simbolo di autonomia dal potere. Tutelare la libertà di
insegnamento dei singoli atenei, lasciarli competere con le migliori università
mondiali per i migliori studenti, è obiettivo da non sacrificare in nome di un
insensato sciovinismo linguistico.
La bocciatura del Consiglio di
Stato rischia di ripercuotersi su tutto il sistema universitario italiano, con
richieste - a questo punto legittime - da parte di docenti di altri atenei
italiani che vorranno l’adeguamento del doppio binario linguistico dove
presenti corsi di studio solo in inglese. Una reazione a catena che può creare
non pochi problemi organizzativi, di budget e offerta formativa. L’adeguamento
imposto dalla Consulta sarà sicuramente oggetto di confronto fra i vari rettori
italiani (la CRUI) e il MIUR, come dichiarato dall’attuale rettore del PoliMi,
Ferruccio Resta, al Corriere della Sera, poiché oltre al difficile automatismo,
non c’è nessuna volontà di duplicare i corsi, con l’obiettivo di “garantire una
formazione di qualità in un contesto anche multietnico per tutti gli studenti”.
Sarà forse necessario un intervento in sede europea per aprire definitivamente
all’insegnamento in lingua inglese nei corsi universitari e post-universitari.
L’italiano si difende facendo dell’Italia un posto vivo, frequentato, ambito,
non attraverso un’insensata chiusura burocratica mascherata da diritto
costituzionale. (Fonte: P. Falasca, V. Giannico, likiesta 02-02-18)
PAESI IN EUROPA CON PIÙ CORSI DI LAUREA IN INGLESE
Negli anni l’offerta di
percorsi di studio sia di primo che di secondo livello, così come di master e
corsi post laurea, con didattica esclusivamente nella lingua di Shakespeare si è
notevolmente ampliata. Perché, com’è risaputo, in questo momento storico
l’inglese è la lingua globale. In Olanda,
per esempio, tra percorsi di primo e di secondo livello, i corsi di laurea in
inglese sono circa 1.500. Una cifra considerevole, specie se rapportata
all’esigua superficie del paese, grande più o meno quanto Veneto e Lombardia
messi insieme e con una popolazione che supera di poco i 17 milioni di
abitanti. In Germania, su una
popolazione di quasi 83 milioni, i corsi di laurea in inglese sono più di
1.200, ai quali vanno aggiunti circa 300 corsi di dottorato. Perfino in Francia, nonostante la proverbiale
ritrosia nei confronti dell’inglese, ci sono 450 percorsi di laurea la cui
didattica è esclusivamente in tale lingua. In Italia le università che propongono corsi di laurea con didattica
in inglese sono 56. Nel complesso, i corsi di laurea in inglese sono oltre 300,
con una prevalenza di percorsi magistrali. In alcuni casi si tratta di corsi di
studio esclusivamente in lingua straniera. In altri, come nel caso della Libera
Università di Bolzano, di percorsi trilingue, in italiano, tedesco e inglese. A
essere erogati in lingua straniera sono per lo più corsi di laurea dell’area
tecnico-scientifica e di quella economico-finanziaria, con una buona
percentuale anche di corsi di laurea magistrale a ciclo unico in Medicina.
PoliMi ha tutti i corsi di dottorato in
inglese e, su 45 indirizzi magistrali, 3 solo in italiano e 15 bilingui. Anche
con questa scelta PoliMi ha scalato le graduatorie d’eccellenza,
arrivando ad essere la nona università a livello europeo in ambito scientifico.
A normare la lingua dell’offerta didattica deve essere un giudice e non
l’autonomia universitaria? (Fonte: M. Russo, www.universita.it
01-02-18)
CHALLENGING THE MOVE TOWARDS ENGLISH IN EUROPEAN UNIVERSITIES
Rising nationalism and global
scepticism, combined with Brexit and Trumpism, signal that English may be
losing some of its appeal or legitimacy. The broader and perhaps more
interesting question is whether the italian court decision, to push back on the
race towards english courses, will give momentum to a backlash that slowly has
been taking shape, especially in Northern European countries where English
courses have been prominent.
This confluence of forces has
spurred France’s President Emmanuel Macron to fill the void in world
leadership, repeatedly forecasting that French will take its place as the
number one language in the world. Notwithstanding the French bravado, English
as the dominant lingua franca is not about to retreat in the near future. The
global economy is far too dependent on it.
In the Netherlands, where 20%
of bachelor programmes and 60% of masters programmes are taught in English, the
organisation Better Education Netherlands (BON) has gathered close to 6,000
signatures on a ‘manifesto’ and has threatened to sue the Dutch government for
failure to enforce a law requiring that education and examinations must be
taken in Dutch, with few exceptions. A 2015 poll of Dutch university students
found that 60% complained of lecturers whose English was incomprehensible. A
report commissioned by the Dutch ministry of education and published in 2017 by
the Royal Netherlands Academy of Arts and Sciences raised concerns about the
quality of English language programmes. It advised universities to pay closer
attention to the language skills of students and professors and to exercise
more thought in selecting courses offered in English based on subject and
learning objectives. More recently the rector of the University of Amsterdam
called for a balance to be struck between Dutch and English courses.
In Germany academics have
launched a campaign, ADAWIS, against the predominance of English in scientific
publications. The Language Council of Norway has raised concerns that many
students whose entire programme is in English may not have sufficient mastery
of the language to succeed and that the vast majority of graduates enter the
Norwegian labour market where English proficiency is not essential. A Manifesto
in Defence of Scientific Multilingualism, originating in Spain and published in
seven languages, has now gathered close to 8,000 signatures of well-known
scholars throughout Europe. Aimed at the European Union, the manifesto
challenges requirements from European scientific committees that funding
proposals be written in English.
Whether the Polytechnic
Institute of Milan’s decision to offer all graduate programmes in English will
inspire any of these movements to seek a legal resolution remains to be seen.
At the very least the several opinions that have emerged from the Italian
courts in the course of the litigation provide a well-developed rationale and
framework for moving forward the discussion on what is gained, what is lost and
how the dangers can be mitigated when using English as a vehicle for
‘internationalising’ universities. (Fonte: R. Salomone, http://www.universityworldnews.com
03-02-18)
MODELLO POSSIBILE PER I CORSI BILINGUE
Immaginando un corso
triennale, un modello possibile è quello adottato in molte università tedesche,
che accolgono al primo anno gli studenti stranieri con un 100% di lezioni in
inglese, accompagnate dall'obbligo di seguire corsi di lingua locale. Al
secondo anno l'inglese scende all'80% con un 20% in lingua locale, e al terzo
anno si termina con un 50% dell'una e dell'altra lingua. Così i locali possono
rimanere bilingui e gli stranieri possono immergersi nella cultura del paese
che li accoglie. (Fonte: M. L. Villa, La Repubblica 09-02-18)
DOCENTI
FOCUS DEL MIUR SUL PERSONALE DOCENTE E NON DOCENTE NEL SISTEMA
UNIVERSITARIO ITALIANO PER L'ANNO ACCADEMICO 2016-2017
L'università italiana ha perso
per strada in sette anni 4.650
professori e ricercatori (il 7,9%): erano 58.885 nel 2010-11, sono
54.235 nel 2016-17. In particolare, diminuiscono di quasi un quinto gli
ordinari (da 15.169 a 12.156) e i ricercatori (da 24.530 a 19.737), mentre per
effetto del piano straordinario, con le tornate di abilitazioni degli ultimi
anni, gli associati segnano un più 16,7%. Salgono i titolari di assegni di
ricerca, studiosi precari con contratti rinnovabili sino a 4 anni: sono
cresciuti da 13.109 nel 2010-11 a 13.946 nel 2016-17 (+6,4%). In generale,
tenendo conto anche di questo balzo in avanti degli assegnisti, i ricercatori
arrivano così a superare i professori ordinari e associati: i primi salgono al
28,1%, gli altri si fermano al 26,2%. È la fotografia scattata dal MIUR nel
Focus sul personale docente e non docente nel sistema universitario italiano
appena pubblicato e che riguarda l'anno accademico 2016-2017.
Rispetto al 2010-11 la
consistenza del personale universitario, pari a 125.600 dipendenti tra docenti
e amministrativi, è diminuita del 6,5%. La riduzione coinvolge i professori
(-7,9%), i collaboratori linguistici (-7,8%) e il personale tecnico amministrativo
(-7,5% a tempo indeterminato; -13,8% a tempo determinato). A questi vanno
aggiunti 25.770 docenti, non di ruolo, titolari di contratti di insegnamento
nei corsi universitari. Le differenze di genere si fanno sentire. Se le donne
costituiscono più della metà del personale tecnico-amministrativo (58,5%), tra
i docenti e ricercatori la loro presenza scende al 40%. Ed è soprattutto ai
vertici della carriera accademica che le donne sono poco rappresentate. Nulla
di nuovo sotto il sole: le dirigenti sono il 40%. Per le docenti il rapporto
parla di "segregazione verticale": la loro presenza diminuisce al
progredire della carriera. Infatti, la percentuale di donne supera seppur di
poco la metà tra i titolari di assegni di ricerca (50,7%), raggiunge quasi il
47% tra i ricercatori e, via via, si riduce al 37,2% tra i professori associati
ed al 22,3% tra gli ordinari. La percentuale di donne afferenti al Grade A,
corrispondente alla posizione di full professor (professori ordinari per
l’Italia), in Europa è pari a circa il 21%. (Fonte: I. Venturi, R.it 16-02-18)
LA CIRCOLAZIONE DEI PROFESSORI. UNA CHIMERA
La circolazione
dei professori da un ateneo all’altro – un tempo i «dotti» erano, per
eccellenza, «vagantes» – è ormai diventata una chimera. Le carriere, tranne
rare eccezioni, iniziano e finiscono nello stesso luogo dove si è vinto il primo
concorso. E ciò accade, soprattutto, per ragioni economiche: gli stipendi sono
legati alle università e per spostarsi è necessario che la sede ospitante copra
i costi del nuovo docente. I progressivi tagli al Fondo di finanziamento
ordinario (FFO) rendono ormai proibitivi questi passaggi e gli incentivi (una
tantum) per facilitarli sono insufficienti. Le disastrose conseguenze sono
sotto gli occhi di tutti. Se un professore ordinario va in pensione, sarà
sostituito (a costo zero) dal collega associato o dal ricercatore in servizio
nello stesso dipartimento. Il bisogno di rimpolpare bilanci magrissimi,
spingerà le università a investire la quota del pensionamento in progressioni
interne di carriera. E lo stesso imperativo economico, purtroppo, incoraggerà
sempre più gli atenei a tenere le porte chiuse ai nuovi abilitati esterni. Ma
il sapere, come i fiumi, ha bisogno di scorrere continuamente per mantenere
vive e limpide le sue acque. (Fonte: N. Ordine, CorSera 30-12-17)
LA PIRAMIDE ACCADEMICA. ETA' MEDIA? 52 ANNI
Il mondo accademico, formato
da 64.321 unità nelle università statali, si conferma a forma di piramide. I
professori ordinari, che sono il 18,9%, rappresentano il vertice. Chi svolge
quasi esclusivamente attività di ricerca (titolari di assegni e ricercatori)
forma la base: sono il 51,6%. La distribuzione degli accademici per settori
scientifico-disciplinari non è omogenea: in percentuale, il maggior numero di
docenti e ricercatori afferisce all’area delle Scienze mediche (16,3%) mentre
appena il 2% afferisce all’area Scienze della terra. La composizione di
ciascuna area per qualifica evidenzia, inoltre, che nelle aree di Scienze
giuridiche e di Scienze economiche e statistiche circa il 57% del personale
docente e ricercatore è costituito da professori ordinari e associati, mentre a
Scienze biologiche i ricercatori e i titolari di assegni di ricerca
rappresentano poco più del 60% del personale. L'età media? È pari a 52 anni: si
va dai 59 anni dei professori ordinari, ai 52 anni dei professori associati
fino ai quasi 47 anni dei ricercatori. Includendo anche i titolari di assegni
di ricerca l’età media complessiva scende a 48 anni. (Fonte: I. Venturi, R.it
16-02-18)
TAR
SARDEGNA: ANTISINDACALE LA RITORSIONE CONTRO GLI ADERENTI ALLO #STOPVQR
La Sentenza del
TAR Sardegna, sulla esclusione degli aderenti alla protesta “no VQR” da un
bando avente a oggetto l’assegnazione di fondi destinati a nuovi progetti di
ricerca predisposti dall’Università di Sassari, recita: «Orbene, una volta
ricollegata la condotta degli odierni ricorrenti a una “protesta sindacale” -
espressione, dunque, del diritto di sciopero - l’illegittimità dell’impugnata
clausola di Bando appare piuttosto evidente. […] l’Università ha scelto di
colpire gli scioperanti in modo indiretto e a notevole distanza di tempo,
escludendoli tout-court dall’assegnazione dei nuovi fondi per la ricerca e in
tal modo arrecando loro un vulnus di carattere professionale, oltre che
penalizzando lo stesso interesse pubblico alla promozione della ricerca scientifica,
giacché tale esclusione è intervenuta al di fuori di qualunque valutazione
sulla “meritevolezza” o meno dei loro progetti di ricerca. (Fonte: Red.ne Roars
17-01-18)
DAL MOVIMENTO PER LA DIGNITÀ DELLA DOCENZA UNIVERSITARIA PROCLAMAZIONE
DI UN NUOVO SCIOPERO E RICHIESTE DI FONDI PER IL FIS PER LE BORSE DI STUDIO E
DI NUOVI POSTI PER DOCENTI E RICERCATORI
«Nella legge di Bilancio 2018
non riscontriamo risposte soddisfacenti allo sblocco definitivo delle classi e
degli scatti sollecitato con lo sciopero dagli esami di profitto dal 28 agosto
al 31 ottobre 2017»: questo l’incipit della lettera diffusa dal “Movimento per
la Dignità della Docenza Universitaria”. Che innanzitutto chiede che gli scatti
bloccati nel quinquennio 2011-2015, siano sbloccati a partire dal 1° gennaio
2015, come è stato previsto per tutti gli altri dipendenti pubblici, e senza
chiedere arretrati. In più i professori in agitazione (proclamano un nuovo
sciopero dal 1° giugno al 31 luglio 2018), chiedono che siano stanziati 80 milioni
per incrementare il «Fondo integrativo statale per la concessione delle borse
di studio» destinate agli studenti e che poi siano messe a disposizione risorse
per procedere ai concorsi per 6000 posti da professori associati e 4000 da
ordinari, «riservate almeno per il 90% a cambiamento di fascia o ruolo,
nell'ambito della sede di appartenenza, del personale già in servizio». A cui
aggiungere i fondi per 4000 posti da ricercatori di tipo B (il primo gradino
per la docenza). (Fonte: IlSole24Ore 07-02-18)
LAUREE-DIPLOMI-FORMAZIONE
POST LAUREA-OCCUPAZIONE
CHE COSA DEVONO SAPERE I NOSTRI LAUREATI
QUANDO ESCONO DALL’UNIVERSITÀ
Secondo una
mentalità meccanica e semplicistica, l’università non preparerebbe al lavoro
perché non produce individui bell’e pronti, già impiegabili in una precisa
posizione – miracolosamente indovinata fra le migliaia possibili. Cioè,
individui che per un’altra posizione sarebbero inadeguati. In realtà non è di
questo che c’è bisogno; ma nell’attuale lungo periodo di crisi economica questa
sommaria accusa è servita molto bene a scaricare sul sistema dell’istruzione
buona parte delle responsabilità che in realtà sono del mondo aziendale. Per
ovvi motivi, la varietà dei compiti nel mondo del lavoro è tale, che chi
pretendesse una preparazione specifica per il compito che gli toccherà dovrebbe
indovinare in che stanza di che azienda lavorerà. Salvo che poi dopo un anno e
mezzo verrà spostato ad altro incarico, e dovrà dedicare qualche mese a
imparare quello. Anche per questo, ciò che l’università deve garantire non sono
ometti e donnine che sappiano già svolgere uno o l’altro singolo incarico; ma
persone che, avendo acquisito conoscenze generali nel settore che gli
interessa, abbiano anche acquisito la capacità di imparare le cose – in larga
parte imprevedibili – che gli serviranno in futuro. Questo significa che le
persone devono uscire dall’università sapendo (1) che cosa vuol dire
approfondire un problema quanto serve, senza accontentarsi di soluzioni
approssimative; e (2) come andare a cercare le informazioni quando gliene
servono di nuove che ancora non conoscono. I nostri laureati, che escono da un
sistema universitario costretto a lavorare con risorse pari alla metà o a un
terzo dei paesi concorrenti, trovano lavoro proprio in quei paesi dove le
università sono finanziate il doppio o il triplo che da noi. Se non riescono a
impiegarsi altrettanto facilmente in Italia la colpa, palesemente, non è
dell’università italiana. (Fonte: E. Lombardi Vallauri,
temi.repubblica.it/micromega-online 10-01-18)
SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA
SULLA RETRIBUZIONE DEI MEDICI SPECIALIZZANDI 1982-90
La sentenza
della Corte di Giustizia Europea, emanata il 24 gennaio, è un provvedimento che
in sostanza riconosce ai medici, specializzandi nel periodo tra il 1982 e il
1990, il diritto di essere
«adeguatamente»
retribuiti per avere seguito i corsi. Una data chiave, sorprendente per quanto
sia lontana nel tempo, è il 31 dicembre 1982, ovvero la scadenza entro la quale
gli stati membri della comunità Ue avrebbero dovuto in base a una direttiva
comunitaria stabilire, attraverso una legge nazionale, quanto pagare i giovani
medici che si impegnavano a conseguire la specializzazione. L'Italia ha mancato
quell'appuntamento e solo nel 1990 ha disciplinato la remunerazione destinata
agli specializzandi. Un ritardo contro il quale nel 2001 iniziano a fioccare i
ricorsi al tribunale di Palermo di alcuni medici che chiedono la condanna sia
dell'Università degli Studi sia dello Stato. Obiettivo della causa vedersi riconosciuta
una remunerazione adeguata per avere frequentato i corsi o, in secondo ordine,
ottenere un risarcimento per l'inadempienza italiana rispetto alla direttiva
Ue. A seguire è una lunga vicenda giudiziaria con i medici che perdono in primo
grado salvo ottenere, nel 2012, un risarcimento dallo Stato in base a una
sentenza della Corte di appello di Palermo. A intervenire è anche la Corte di
cassazione che ha sospeso il procedimento rivolgendosi, in via pregiudiziale,
alla Corte di giustizia europea. L'ultimo atto è, dunque, la sentenza dei
giudici lussemburghesi che stabilisce un'adeguata remunerazione per tutti i
corsi di formazione specialistica, a tempo pieno o a tempo ridotto, iniziati a
partire dal 1982. E ora il conto finale potrebbe essere a nove zeri. (Fonte: A.
Ducci, CorSera 28-01-18)
CARENZA DI MEDICI DI MEDICINA GENERALE
Tra 10 anni saranno
rimpiazzati solo 11.000 medici di medicina generale, con saldo negativo di
oltre 22.000. L’inadeguatezza dell’attuale sistema dei corsi regionali di formazione
in medicina generale rende necessario valorizzare questa figura medica con
l’evoluzione in disciplina universitaria e la nuova costituzione di scuole di
specializzazione (CorSera 21-02-18).
Come mai mancano all'appello
tanti medici di medicina generale? «Assistiamo da anni a una sorta di imbuto
formativo - spiega il Rettore dell'Università di Tor Vergata, già preside di
Medicina e Chirurgia - circa 9mila studenti l'anno entrano nella facoltà di
medicina, dopo 5 anni devono seguire una specializzazione o il corso per
diventare medico di medicina generale o di base. A quel punto qualcosa non va:
serve un maggior numero di fondi per la formazione post-laurea. I laureati ci
sono: il 90% degli iscritti consegue il titolo in massimo sei anni, però poi devono
specializzarsi e lì c'è il blocco. Solo il 70% ottiene un corso post-laurea e
solo un migliaio per medicina di base. Eppure in Italia formiamo ottimi medici:
ogni anno migliaia vanno a lavorare all'estero, circa 2mila solo in
Inghilterra. Vuol dire che sono preparati». I contratti di formazione e
specializzazione, nonostante siano ad oggi ancora pochi, in realtà sono
aumentati rispetto a qualche anno fa: nell'anno accademico 2012-2013 i
contratti coprivano il 55% dei laureati, negli ultimi due anni si è arrivati al
70%. Ma non basta, in vista dei pensionamenti si rischia il collasso del
sistema sanitario di base. (Fonte: Il Messaggero 10-02-18)
LAUREE CON DOPPIO TITOLO (DOUBLE DEGREE)
Le lauree che forniscono un
doppio titolo, in convenzione con un ateneo straniero partner, ormai fanno
parte integrante dell'offerta didattica di casa nostra: i corsi sono circa 600
e raccolgono 28.966 iscritti (dato aggiornato al 2016 fornito dal MIUR). I
bandi per iscriversi a questi corsi generalmente si aprono in primavera, ma
ormai la tendenza è quella di anticipare sempre di più per meglio pianificare
le risorse e sono in arrivo continuamente nuovi accordi. Quindi chi fosse
interessato a partire già a settembre deve muoversi con anticipo. Tra gli ultimi,
ad esempio, c'è quello appena presentato dall'università di Perugia, pronta a
strutturare un corso di laurea magistrale internazionale in «Chimica
sostenibile e dell'ambiente», in collaborazione con la Hebrew university di
Gerusalemme. Da agosto dovrebbero aprirsi le iscrizioni per l'anno 2018-2019.
Dal 19 febbraio, a Milano, sono aperte le iscrizioni per uno dei percorsi più
nuovi, «Hospitality and tourism management - dual degree» che lo Iulm organizza
insieme alla university of Central Florida e l'université Grenoble Alpes. I
posti a disposizione sono 100. In questo periodo, all'università di Roma Tre,
via al bando per il doppio titolo in “Economia e gestione aziendale - diplòme
Inba-École internationale de management” insieme all'università francese di
Troyes (iscrizioni dal 5 marzo, solo 3 posti a disposizione). A Trento, scade
il 26 febbraio il bando per gli studenti di Finanza interessati alla doppia
laurea presso la Erasmus university di Rotterdam. A Torino, scade invece il 9
marzo il bando per ottenere la laurea italiana e francese in Giurisprudenza,
presso l'université Paris Descartes (5 posti) e presso l'università di Nizza
Sophia Antipolis (15 posti). E sempre tra febbraio e marzo sono aperti bandi
per lauree magistrali con doppio titolo all'università di Bergamo,
dell'Insubria, di Siena, di Padova e di Verona. (Fonte: IlSole24Ore 12-02-18)
DAL PROSSIMO ANNO ACCADEMICO LE NUOVE LAUREE PROFESSIONALIZZANTI
Le «lauree
professionalizzanti» debuttano nel prossimo anno accademico: si parte con 15
corsi in altrettanti atenei come mostra un monitoraggio appena effettuato dalla
CRUI. Al momento le norme prevedono che le università non attivino più di un
nuovo corso all'anno. Lauree, queste, che guardano allo sviluppo delle nuove
frontiere di industria 4.0 e a settori tradizionali come l'edilizia o il
settore alimentare (possibili anche partenariati con le imprese). E che, grazie
alle convenzioni obbligatorie con gli Ordini, a regime saranno anche abilitanti
per svolgere una professione, come quella di geometra o perito industriale
(l'Ue ha previsto entro il 2020 l'obbligo del diploma di laurea per esercitare
una professione tecnica). (Fonte: M. Bar., IlSole24Ore 01-02-18)
FINANZIAMENTI
PRIN. NUOVO BANDO CON CIRCA 390 MILIONI
Subito dopo
Natale è stato pubblicato il nuovo Bando PRIN 2017. Per la prima volta da molti
anni i finanziamenti sono consistenti (circa 390 milioni di euro), dal doppio
al quadruplo di quelli generalmente disponibili nell’ultimo decennio (circa 105
milioni nel 2009; 95 milioni nel 2008; 170 milioni nel 2010-11, 39 milioni nel
2012, 92 milioni nel 2015). (Fonte: AGENPARL 17-01-18)
I PRIN rischiano
di presentare le stesse criticità dei FFABR, ma su scala ben maggiore. L’idea
che solo l’X% dei proponenti possa essere degno del finanziamento in base alle
domande presentate è aberrante (M. Bella, Roars).
I LUDI DIPARTIMENTALI E L’EQUILIBRATA
DISTRIBUZIONE DELLE RISORSE
Si è conclusa da
pochi giorni la competizione (i c.d. ludi) per l’attribuzione dei cospicui
fondi destinati ai cosiddetti «dipartimenti di eccellenza». L’università di
Bologna ha un numero di «premiati» che è pari a quello di tutte le regioni del
Sud e delle isole, tolta la Campania, per un totale superiore ai 113 milioni in
cinque anni. A Palermo ne andranno poco più di 8. Per molti questa è
semplicemente la logica della «meritocrazia»: all’Italia possono bastare cinque
o sei «vere» università e poco importa la loro collocazione. Si tratta di una
pericolosa semplificazione: una equilibrata distribuzione di strutture
formative e di ricerca di alto livello è fondamentale per creare concrete
opportunità di sviluppo economico e sociale su tutto il territorio nazionale,
senza pretendere per questo che si facciano ovunque le stesse cose nello stesso
modo. L’obiettivo principale di una valutazione rigorosa dovrebbe essere quello
di individuare e superare le inefficienze e far progredire l’intero sistema e
si possono riconoscere le punte di impegno e di qualità senza alimentare
l’ossessione di classifiche da scalare con ogni mezzo per sopravvivere. (Fonte:
S. Semplici, CorSera 15-01-18)
NEI C.D. LUDI DIPARTIMENTALI TANTI
DIPARTIMENTI A PUNTEGGIO PIENO NELLA PRIMA FASE DELLA GRADUATORIA VQR
SCAVALCATI NELLA FASE DI VALUTAZIONE PROGETTUALE
Pur tenendo in
considerazione che la maggior parte dei progetti era stata presentata da
Dipartimenti di Università del Nord, i Dipartimenti finanziati sono per l'87%
del Centro-Nord. Scorrendo gli elenchi pubblicati dall'ANVUR e analizzando le
statistiche, i Dipartimenti "vincitori" al Nord raggiungono il 57%,
il Centro si attesta intorno al 30% e al Sud va la quota residua del 13%. Ma la
selezione finale dei progetti sembra aver completamente rivoluzionato e
sovvertito l'originale graduatoria VQR. Tanti Dipartimenti a punteggio pieno
nella prima fase della graduatoria sono stati scavalcati nella fase di
valutazione progettuale da parte della commissione che assegnava ulteriori 30
punti, e quindi non finanziati. La domanda che allora sorge spontanea è: se il
meccanismo di valutazione VQR, per cui il MIUR impiega tante risorse economiche,
è giusto, trasparente, oggettivo e meritocratico, i migliori Dipartimenti
italiani nel giro di pochi mesi dalla prima fase di valutazione sono arretrati
in capacità e competenze o non sono stati in grado di scrivere un progetto di
sviluppo eccellente? O forse il problema sta nella fase di valutazione da parte
della commissione, o nel circuito vizioso di un sistema che per come si è
consolidato difficilmente potrà consentire di colmare il divario Nord-Sud?
(Fonte: M. Bifolco, IlSole24Ore 31-01-18)
I DATI SEGRETI DELLA GARA TRA DIPARTIMENTI
La gara tra dipartimenti è
avvenuta in due fasi. Nella prima fase sono stati selezionati 350 dipartimenti
sugli 800 italiani sulla base dell’ISPD (Indicatore standardizzato di performance
dipartimentale).
È Lucio Bertoli Barsotti che
riesce a decifrare l’enigma dell’ISPD, rendendolo comprensibile a tutti: si
tratta di una gara truccata che punisce le aree di ricerca con i migliori
risultati bibliometrici a livello mondiale e premia quelle che arrancano nel
confronto internazionale. Per esempio, un prodotto classificato “eccellente” in
Fisica nucleare e subnucleare (FIS-04), quando trattato con la formula ISPD
vale di meno di un prodotto classificato come “discreto” in economia dei mercati
finanziari (SECS-P11). Detto in altro modo: ai fini della classifica tra
dipartimenti, un prodotto eccellente in diritto tributario (IUS-12) vale come
4,4 prodotti eccellenti in fisica nucleare e sub-nucleare.
Nella seconda fase sono invece
stati scelti i vincitori, sulla base di un punteggio complessivo in cui l’ISPD
conta per il 70%, mentre il restante 30% è assegnato da una commissione di
sette componenti, che giudica i progetti presentati dai dipartimenti che hanno
superato la prima fase.
La prima fase del
combattimento nell’arena si è svolta a porte chiuse, nel senso che sono stati
pubblicati i risultati, ma nessuno ha potuto assistere e i cruenti duelli sono
rimasti segreti. Fuor di metafora: i 352 dipartimenti (invece dei 350 previsti
dalla legge – qui il rischio degli sciamani anvuriani si è rivelato giusto,
perché nessuno avrebbe impugnato un allargamento destinato evidentemente a
rimettere in carreggiata due dipartimenti che non potevano soccombere) sono
stati selezionati sulla base di dati e calcoli che non è stato e non è tutt’ora
possibile verificare e controllare, perché, semplicemente, questi dati l’ANVUR
rifiuta di renderli disponibili invocando la disciplina dei dati personali
(come se non fossero escogitabili, sol che si volesse, accorgimenti in grado di
neutralizzare questo timore legalistico che paralizza i burocrati di via
Ippolito Nievo, e come se non esistesse nella fattispecie un interesse
all’accesso ai dati capace di controbilanciare i vulnera alla protezione dei
dati personali dei partecipanti alla VQR). Roars ha fatto richiesta di accesso
agli atti utilizzando la procedura FOIA (Freedom of Information Act, che
permette l'accesso civico a tutti gli atti della Pubblica amministrazione)
separatamente nei confronti di MIUR e ANVUR. MIUR ha risposto che il
trattamento dei dati è compito di ANVUR. ANVUR ha risposto che non rende
pubblici i dati. "Abbiamo chiesto l’accesso ai dati di base per la
costruzione dell'Indicatore standardizzato di performance dipartimentale
(ISPD), spiega Roars, per replicare i calcoli di ANVUR. Il MIUR sta
distribuendo 1,35 miliardi senza che nessuno possa controllare la correttezza
dei dati su cui è basata la distribuzione". (Fonte: Redazione Roars
05-02-18; V. Della Sala, FQ 13-02-18)
FFABR. ASSEGNATI SOLO 35 MILIONI SU 45
Nelle ultime
settimane del 2017 sono stati assegnati i fondi
del finanziamento per le attività base di
ricerca (FFABR). Erano disponibili 45 milioni di euro per 15mila
ricercatori e professori associati che potevano ottenere ciascuno 3mila euro a
testa (art 1, comma 295 legge 232/2016). Molti hanno rinunciato a far domanda,
non volendo o non pensando di poter concorrere. Soprattutto, si è interpretata
l’indicazione di assegnare i fondi al 75% dei ricercatori ed al 25% degli
associati sulle domande effettuate e non sugli aventi diritto, portando a
distribuire solo 30 milioni di euro a circa 7500 ricercatori e 2500 associati.
In una fase di generalizzata penuria di fondi di ricerca, non si sono perciò
spese il 30% delle risorse a disposizione, pur di far trionfare un’inutile e
incomprensibile logica premiale. (Fonte: AGENPARL 17-01-18)
SVUOTATO IL FONDO (FFABR) PER IL BONUS DI 3
MILA EURO?
Secondo il
Foglietto Ricerca il Fondo per finanziare le attività base di ricerca (FFABR),
di 45 mln per 15.000 finanziamenti individuali pari al 37% degli aspiranti (c.a
40.000), dal 2018, dopo vari tagli, sarà di soli 5 mln, sufficienti per c.a
1.650 erogazioni, meno del 5% dei candidati potenziali. (25-01-18)
RAPPORTO 2017 DEL PUBLIC FUNDING OBSERVATORY
DELL’EUROPEAN UNIVERSITY ASSOCIATION
Italia, Lettonia
e Spagna, «sistemi con tagli continuati all’istruzione universitaria presentano
le caratteristiche di profili in via di peggioramento». Un peggioramento che
giustifica un bel bollino rosso nell’infografica che riassume l’evoluzione dei
finanziamenti pubblici. A suonare il campanello di allarme per l’Italia (e
pochi altri paesi) è il Rapporto 2017 del Public
Funding Observatory dell’European University Association: «The higher
education systems under review follow various long-term funding trajectories
over the period 2008-2016. Based on the analysis of the annual funding changes
throughout the study period, several groups of systems that follow similar
patterns can be identified. Systems such as Austria, Germany or Sweden show
sustainable investment patterns, characterised by both significant and
sustained funding growth. Other systems feature more limited, slower investment
– Denmark, France and the Netherlands are among these. Comparatively few
systems have embarked on a recovery pattern, whereby signs of investment can be
detected after a period of important cuts, as is for instance the case in
Iceland or Portugal. Finally, systems with continued cuts to higher education
present characteristics of aggravating patterns (Italy, Latvia and Spain are
some examples).» (Fonte: Red.ne Roars 16-01-18)
LA VALUTAZIONE E IL FINANZIAMENTO
“La valutazione
non è un modo per ridurre i divari – ha sostenuto Alberto Baccini, Università
di Siena – piuttosto serve a individuare università ritenute migliori di altre
ed a concentrare lì le risorse. Chi dice che non lo fa mente.” Il meccanismo di
finanziamento associato alla performance è un meccanismo non così diffuso in
altri paesi, siamo uno dei pochi paesi ad usarlo in modo così radicale. E visto
che questo modo di ridistribuire le risorse non è andato a buon fine, si è
rincarata la dose, utilizzando lo stesso strumento per i dipartimenti di
eccellenza. E a farne le spese sono stati i ricercatori, i docenti, tutti i
lavoratori che fanno università tutti i giorni, la cui condizione è cambiata in
maniera radicale. Questo sistema di valutazione non solo sta creando divari nel
nostro Paese ma ci sta allontanando dai Paesi che fanno scienza in maniera
solida”. (Fonte: Intervento di A. Baccini all’Assemblea Nazionale Università,
Cosenza 23-24-01-18)
DAL MISE 38 MLN IN PIÙ PER LA REALIZZAZIONE
DI ATTIVITÀ DI RICERCA INDUSTRIALE E SVILUPPO SPERIMENTALE IN CALABRIA,
CAMPANIA, BASILICATA, PUGLIA E SICILIA
Il ministero
dello Sviluppo economico (MISE) ha destinato nuove risorse per i progetti di
ricerca e sviluppo, negli ambiti tecnologici identificati dal programma quadro
di ricerca e innovazione Horizon 2020 nelle regioni Calabria, Campania, Puglia,
Sicilia e Basilicata. Si tratta di un ulteriore incremento della dotazione
finanziaria complessivamente pari a 38,1 mln di euro (di cui 34,8 mln a valere
sul piano di azione coesione 2007-2013 e 3,3 mln a valere sul programma
nazionale complementare imprese e competitività 2014-2020). Il tutto col
decreto 18 ottobre 2017 (in attesa di essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale)
del MISE. I 34,8 mln saranno utilizzati per la concessione di agevolazioni in
Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, mentre i restanti 3,3 mln andranno in
favore dei progetti in Basilicata. I progetti finanziabili dovranno prevedere
la realizzazione di attività di ricerca industriale e sviluppo sperimentale,
finalizzate alla realizzazione di nuovi prodotti, processi o servizi o al notevole
miglioramento di prodotti, processi o servizi esistenti, tramite lo sviluppo
delle tecnologie, riconducibili alle aree individuate dalla strategia nazionale
di specializzazione intelligente. (Fonte: ItaliaOggi 26-01-18)
IN ITALY RESEARCHERS HOLD OUT LITTLE HOPE
THAT THE NEXT GOVERNMENT WILL IMPROVE THEIR UNDERFUNDED RESEARCH SYSTEM
As
campaigning ahead of Italy’s national election enters its final weeks,
researchers in the country fear that budget cuts and declining interest in
science will only continue — whatever the outcome of the vote on 4 March. A
complex coalition government is likely to emerge. The country’s traditional
centre-left and centre-right parties have splintered, and myriad small parties
make up the ballot sheet, as well as the populist Five Star Movement. Topics
such as immigration, the refugee influx and eurozone membership have dominated
mainstream debates. But, apart from a battle over the nation’s compulsory
vaccination programme, which was introduced last year, science has featured little
in the campaigning — even as economists warn that Italy’s research system is in
a precarious state. “We are on the verge of collapse,” says Mario Pianta, an
economist at the University of Rome Tre, who helps to prepare Italy’s
statistics on research and development (R&D) for the European Commission.
Italy has hotspots of scientific excellence, such as in particle physics and
biomedicine. But, unlike many other European countries, it has failed to
modernize its science system in the past few decades. Budgets have constantly
been low. Academic hiring practices can be complicated, and bureaucracy
crippling, many scientists say. Research organizations have had little power
politically, and have been unable to stem the rising influence of those who
have demonized vaccinations and promoted charlatan cure-alls. The gap in
scientific achievement and investment between the country’s wealthy north and
poorer south is widening, helping to fuel regionalist and populist politics,
says Raffaella Rumiati, vice-president of Italy’s national research-evaluation
agency. (Fonte: I. Romano, Nature 554, 411-412, 2018)
RECLUTAMENTO
PROBLEMA PER LA STABILIZZAZIONE DI PRECARI
NEGLI EPR
Il problema
riguarda gli oltre 2mila precari che come spiegato in più di una dichiarazione
ufficiale del governo dovrebbero finalmente trovare un posto stabile al Cnr,
all’Istat e negli altri enti pubblici di ricerca (EPR). In ogni ente esiste un
fondo ad hoc che serve a finanziare gli integrativi, cioè le voci della busta
paga che non rientrano nella base rappresentata dal «tabellare». Nella prima
versione della circolare sulle stabilizzazioni, diffusa a novembre dalla
Funzione pubblica, si spiegava che i nuovi ingressi negli organici avrebbero
potuto far crescere questi fondi. Ma la Corte dei conti ha posto il veto. Nel
nuovo documento, spunta quindi una riga in cui si dice che «il trattamento
economico accessorio graverà esclusivamente sul fondo calcolato ai sensi della
normativa vigente». Tradotto, significa che l’ingresso di nuovi assunti in
pianta stabile non può far crescere la somma complessiva che ogni ente destina
agli integrativi: somma che quindi, dopo le stabilizzazioni, andrebbe divisa
fra più persone. Con la conseguenza, matematica, di abbassare le buste paga di
chi è già in organico. La soluzione più solida al problema passerebbe da una
nuova norma, ma per approvarla ci vorrebbe un Parlamento nel pieno delle sue
funzioni. (Fonte: G. Trovati, IlSole24Ore 30-01-18)
RICERCA
“ERRORS AND SECRET DATA IN THE ITALIAN
RESEARCH ASSESSMENT EXERCISE. A COMMENT TO A REPLY”
Italy adopted a
performance-based system for funding universities that is centered on the
results of a national research assessment exercise, realized by a governmental
agency (ANVUR). ANVUR evaluated papers by using “a dual system of evaluation”,
that is by informed peer review or by bibliometrics. In view of validating that
system, ANVUR performed an experiment for estimating the agreement between
informed review and bibliometrics. Ancaiani et al. (2015) presents the main
results of the experiment. Alberto Baccini and De Nicolao (2017) documented in
a letter, among other critical issues, that the statistical analysis was not
realized on a random sample of articles. A reply to the letter has been
published by Research Evaluation (Benedetto et al. 2017). This note highlights
that in the reply there are (1) errors in data, (2) problems with
“representativeness” of the sample, (3) unverifiable claims about weights used
for calculating kappas, (4) undisclosed averaging procedures; (5) a statement
about “same protocol in all areas” contradicted by official reports. Last but
not least: the data used by the authors continue to be undisclosed. A general
warning concludes: many recently published papers use data originating from
Italian research assessment exercise. These data are not accessible to the
scientific community and consequently these papers are not reproducible. They
can be hardly considered as containing sound evidence at least until authors or
ANVUR disclose the data necessary for replication. (Fonte: A. Baccini e G. De
Nicolao, RT. A Journal on
Research Policy and Evaluation, [S.l.], v. 5, n. 1, july 2017)
LA POLITICA DEL DISIMPEGNO, ANCHE DALLA
RICERCA SCIENTIFICA
La politica ha
mostrato il fiato corto, nell'incessante inseguimento di un quotidiano «mi
piace», nella personale verticalizzazione della presenza mediatica. I decisori
pubblici sono rimasti intrappolati nel brevissimo periodo. Il disimpegno dal
varo delle riforme sistemiche, dalla realizzazione delle grandi e minute infrastrutture,
dalla politica industriale, dall'agenda digitale, dalla riduzione intelligente
della spesa pubblica, dalla ricerca
scientifica, dalla tutela della reputazione internazionale del Paese, dal
dovere di una risposta alla domanda di inclusione sociale, ha prodotto una
società che ha macinato sviluppo, ma che nel suo complesso è impreparata al
futuro. (Fonte: «Considerazioni generali» del 51° Rapporto Censis sulla
situazione sociale del Paese/2017)
L’USO DELL’IMPACT FACTOR DELLE RIVISTE PER LA VALUTAZIONE RIFIUTATO DAI
RESEARCH COUNCILS DEL REGNO UNITO
I sette Research Council del
Regno Unito, che finanziano circa 3 miliardi di sterline di ricerca ogni anno,
hanno firmato la Dichiarazione di San Francisco sulla Valutazione della Ricerca
(DORA), invitando la comunità accademica a smettere di usare l’impact factor
delle riviste come proxy per la qualità della ricerca. I Research Council
britannici si uniscono ai circa 13.000 studiosi e alle 450 organizzazioni che
hanno firmato DORA che è stata promossa dall’ American Society for Cell Biology
nel 2012 per invitare ricercatori, università, riviste, editori e finanziatori
a migliorare il modo in cui valutano la ricerca.
Tra non molto l’Italia,
commenta Roars (07-02-18), grazie ai ministri che si sono succeduti al MIUR e
grazie soprattutto ad ANVUR, resterà il solo paese occidentale ad applicare
massivamente, per ogni tipo di decisione (abilitazione scientifica, selezione
dei commissari di concorso, collegi di dottorato, …), metriche basate
sull’impatto delle riviste o su surrogati di tali metriche, come le liste di
riviste per le aree non bibliometriche.
EXCELLENCE IS USED TO RANK RESEARCH AND UNIVERSITIES BUT IT IS A HARD
TERM TO DEFINE
What does research excellence
mean? How is it measured? When do we know that we have reached the required
standard? These are difficult questions, but if the excellence agenda is to be
taken seriously, they must be asked — even if they cannot be adequately
answered.
A paper in Science and Public
Policy makes the latest attempt to ask — and indeed answer — them (F. Ferretti
et al. Sci. Publ. Pol. http://doi.org/ckpg ,
2018). The authors interview a dozen experts — from policy wonks to researchers
— about excellence and quickly reach two points of consensus. First, the idea
of excellence as a measure of research quality makes many people uncomfortable.
And second, these people — despite their discomfort — cannot suggest anything
better, given that science and scientists must meet political demands of
accountability and assessment. (Fonte: www.nature.com - https://tinyurl.com/yajru5hb 21-02-18)
CRITICITÀ DELLA RIFORMA GELMINI E DELL’ATTUALE VALUTAZIONE DELLA RICERCA
In un articolo di A. Graziosi
su La Repubblica del 19-01 si parlava di una “buona” legge Gelmini, quando
invece questa legge ha accentuato il localismo nelle assunzioni dei docenti, il
cosiddetto “inbreeding”, che era e resta uno dei principali difetti del nostro
sistema universitario. La riforma Gelmini ha anche ridotto da tre a due i ruoli
(o fasce) della docenza, un’operazione che avrebbe potuto risultare priva di
effetti negativi se fosse stata adeguatamente finanziata, ma che, in presenza
di una diminuzione dei finanziamenti ha di fatto bloccato l’ingresso dei più
giovani nei ruoli della docenza: i pochi fondi disponibili sono stati spesi per
promuovere i molti (ma non tutti) meritevoli che appartenevano alla “terza
fascia” che la legge aveva soppresso. Ma il danno a lungo termine maggiore
della legislazione recente e dell’azione del Ministero e dei suoi organi (in
particolare l’ANVUR) è quello causato dall’introduzione di parametri numerici
gabellati per “oggettivi” per la valutazione della ricerca scientifica. Nessuna
attività creativa può essere valutata “oggettivamente”, tuttavia se una
autorità centrale condiziona assunzioni, promozioni e finanziamenti al
superamento di “soglie” di parametri numerici, i ricercatori, in particolare i
più giovani, saranno costretti ad inseguire i parametri, anziché seguire la
loro curiosità e la loro personale valutazione di che cosa è, o può divenire,
importante o significativo. (A. Figà Talamanca, Roars 01-02-18)
SISTEMA
UNIVERSITARIO
LA MINISTRA PARLA DI UN PIANO DI LUNGO PERIODO PER L’UNIVERSITÀ
La ministra Fedeli,
all’inaugurazione dell’anno accademico dell’UniPr, ha ribadito l’importanza di
puntare sull’eccellenza universitaria: “Un piano di lungo periodo e non solo
sotto campagna elettorale. Ci sono stati tagli importanti ma ora, dopo 10 anni
di blocco, sono incrementati a 237 milioni i fondi per gli accessi agli studi,
aumentati del 10% le borse di studio per dottorati, introdotta la tutela della
maternità per le donne ricercatrici. Nel 2015 avevamo il livello più basso di
risorse per l’università, ora vediamo una crescita del 6,4%, quasi mezzo
miliardo in più. Il Governo nella legge di bilancio ha impegnato 50 milioni di
euro per l’assunzione di nuovi ricercatori universitari di tipo B, nel nuovo
piano sono stati impegnati altri 70 milioni per 1.300 ricercatori. Entro
febbraio verranno consegnati i posti. Il 25% di queste risorse però deve essere
impegnato per patto nell’assunzione nel breve futuro di altri 1.600 ricercatori
di tipo B”. Tra gli obiettivi della ministra ci sono “importanti investimenti
anche nel Mezzogiorno perché deve raggiungere gli stessi parametri di qualità
che ci sono al Nord. Vorrei proporre inoltre, in accordo con l’ANAC per
l’anticorruzione, un atto d’indirizzo per consolidare la trasparenza nella
gestione dei luoghi della conoscenza e controllo dei bandi”. (Fonte: www.parmapress24.it 03-02-18)
LA POLARIZZAZIONE NEGLI ATENEI
La
polarizzazione è esattamente ciò che sta avvenendo negli atenei italiani. «Al
Sud, ma anche al Centro - Francesco Ferrante commenta a Linkiesta - ci sono sempre meno risorse e i ricercatori
sono incentivati a spostarsi verso i dipartimenti “migliori”, accentuando così
il processo. La domanda che bisogna porsi è: se si parte da condizioni più
difficili come si può migliorare se vengono sottratte le risorse? C’è da dire
che un meccanismo meritocratico crea meno danni se le risorse complessive sono
adeguate, per cui anche chi sta in basso nelle classiche riceve risorse
adeguate. In Italia il Fondo di finanziamento ordinario è al di sotto degli
standard internazionali e negli ultimi anni è stato ridotto di oltre il 15 per
cento». Una recente analisi su Linkiesta a cura di Gianni Balduzzi ha
sottolineato come uno dei principali problemi degli atenei del Sud sia la
sproporzione tra l’alto numero di iscritti e il basso numero di laureati, oltre
a un’eccessiva presenza di studenti fuori corso. «Sono favorevole alla
valutazione e non sono contrario a che le risorse siano date ai più bravi -
conclude Ferrante - però secondo criteri legati al principio del valore
aggiunto». Per affrontare questo problema, nel mondo anglosassone sono state
introdotte metodologie di valutazione basate sul concetto di “valore aggiunto”:
si misura la performance a parità di condizioni». (Fonte: F. Patti,
linkiesta.it 12-01-18)
RIFORMA DEL SISTEMA UNIVERSITARIO CATTOLICO
Il Papa vuole
mettere ordine nel sistema universitario cattolico mondiale. Un ginepraio di
1365 università a cui ai aggiungono
centinaia di istituzioni collegate, facoltà di teologia e istituti per un
totale di 64.500 studenti e 12.000 docenti. «Serve una coraggiosa rivoluzione
culturale» per costruire una Chiesa in uscita, missionaria e moderna,
sicuramente meno frammentaria di quanto non sia ora e più omogenea
culturalmente. Con una visione generosa e aperta al mondo, all’ambiente, al
tema migratorio. In Vaticano è stata presentata la Costituzione Apostolica
Veritatis Gaudium con la quale il Vaticano rivedrà lo spirito e l’organizzazione
del mondo accademico teologico. Il sogno del pontefice è di riuscire attraverso
un percorso fatto di regole precise e contorni elaborati a rendere compatto
l’insegnamento filosofico, teologico, canonico, pastorale. Nell’introduzione
spiega che la Chiesa sta vivendo un cambiamento d’epoca che necessita di un
«radicale cambio di paradigma». Poi fa sue le parole di Edgar Morin: «Bisogna
ripensare il pensiero». Le università
potranno essere aperte solo dopo la valutazione dell’apposita Agenzia
per la Valutazione e la Promozione della qualità, creata nel settembre 2007 da
Papa Benedetto XVI, e che ora viene inserita nelle norme costituzionali. Si
sfrutteranno le novità informatiche e telematiche per consentire una parte
dello svolgimento dei corsi anche a distanza. Arrivano negli Statuti procedure
per valutare le modalità di trattamento dei casi di rifugiati, profughi e
persone in situazioni analoghe sprovvisti della regolare documentazione
richiesta. Gli accorpamenti riguarderanno soprattutto gli atenei presenti a
Roma per evitare "doppioni e falsa concorrenza". (Fonte: F.
Giansoldati, Il Messaggero 30-01-18)
PUNTI PROGRAMMATICI PER L’UNIVERSITÀ
Considerati i problemi più
gravi dell’Università italiana di oggi, si potrebbero proporre i punti programmatici
sui quali occorrerebbe convergere: 1) Misure per il contenimento del localismo
nelle carriere e per l’incentivazione della mobilità tra atenei; 2) Ripristino
di una terza fascia della docenza a tempo indeterminato; 3) Ridimensionamento
delle attribuzioni dell’Agenzia di valutazione, e rifiuto assoluto nei
confronti dell’applicazione in automatico di parametri fintamente ‘oggettivi’
(penso alla ridicola classificazione delle riviste umanistiche in ‘fascia A’ e
simili). A questi punti dovrebbe aggiungersi, ovviamente, il ripristino di un
adeguato finanziamento del sistema. C’è una forza politica che, in vista delle
prossime elezioni, proponga nel suo programma questi punti? (Fonte: F.
Proietti, Roars 01-02-18)
STUDENTI.
TASSE UNIVERSITARIE
8° RAPPORTO
NAZIONALE FEDERCONSUMATORI SUI COSTI DEGLI ATENEI ITALIANI.
COSIDEREVOLE FLESSIONE DELLE TASSE UNIVERSITARIE RISPETTO AL 2016 GRAZIE
ALL'APPLICAZIONE DELLA LEGGE DI BILANCIO
Anche per l'anno
accademico 2017-2018 l'Osservatorio nazionale Federconsumatori (ONF) ha
analizzato i costi delle università italiane. Considerando che l'ammontare
delle tasse si determina principalmente sulla base del reddito ISEE dello
studente, sono state prese in considerazione 5
fasce di
riferimento: per un reddito familiare di fascia 1 (6mila euro di ISEE), si
rileva un costo medio annuo di 316,82 euro, mentre si arriva ad una media di
2.446,45 euro per quanto riguarda gli importi massimi. Cifre importanti ma che,
secondo Federconsumatori, fanno registrare una considerevole flessione rispetto
al 2016 grazie all'applicazione della legge di Bilancio che, per favorire
l'accesso all'istruzione, ha introdotto consistenti agevolazioni per gli
studenti a basso reddito nonché per i più meritevoli. Si tratta sicuramente di
notizie positive sia per le famiglie con figli a carico sia per i singoli
studenti, visto che si riduce il peso economico che grava sul proseguimento
della carriera scolastica in ambito universitario. Gli studenti del primo anno
con un ISEE inferiore a 13mila euro non sono tenuti al pagamento dei contributi
di ateneo, mentre gli iscritti agli anni successivi devono soddisfare, oltre al
requisito economico, anche un requisito di merito (almeno 10 crediti formativi
al secondo anno e almeno 25 negli anni seguenti). La diminuzione più corposa si
registra comunque nella fascia 2 (ISEE fino a 10mila euro), con importi che
calano del 35,65%. Per la prima, terza e quarta fascia, il taglio è
rispettivamente del 33,7, del 15,91% e dell'8,69%. Per gli importi massimi è
valida invece la tendenza opposta, ovvero un aumento dell'8%. Le differenze
maggiori invece sono state rilevate su base regionale: su redditi ISEE di prima
fascia sono infatti le università del Sud a imporre rette più alte, con costi
più alti fino al 15,04% di quelle delle università del Nord e del +7,18%
rispetto alla media nazionale. (Fonte: http://www.educational.rai.it/materiali/pdf_articoli/39256.pdf
nov. 2017)
I RAGAZZI NON RESTANO LONTANI DALLE
UNIVERSITÀ PER VIA DELLE TASSE UNIVERSITARIE
Se oggi la
popolazione universitaria italiana e il numero dei laureati sono in coda alle
classifiche europee, dipende da molte cose: la difficoltà del nostro mercato
del lavoro; i bassi (talvolta grotteschi) salari d’ingresso; il costo di
studiare e vivere in città diverse dalla propria, in assenza di adeguate
residenze universitarie; la difficoltà logistiche dell'insegnamento (e alcune
pratiche discutibili) di certe grandi università; l'inadeguatezza accademica di
alcuni piccoli atenei locali.
Non
raccontiamoci storie. Non è il livello delle tasse universitarie che tiene
lontano i ragazzi.
Le tasse
universitarie italiane sono, nel complesso, ragionevoli. Toglierle non ha
senso: è demagogia, lasciamola ai politici. Per chi non può permettersele -
stando attenti di non fare un regalo al papà che non dichiara i suoi redditi e
presenta un imponibile risibile! - le università devono prevedere borse di
studio. In una vera democrazia, nessun ragazzo dotato e volonteroso deve
rinunciare agli studi per motivi economici. (B. Severgnini, CorSera 19-01-18)
SOSTEGNI DEL DIRITTO ALLO STUDIO E NON SOLO
LE TASSE UNIVERSITARIE I PROBLEMI DEGLI STUDENTI
La questione non
riguarda solo le tasse universitarie, ma anche i costi quotidiani della vita
universitaria: dall'alloggio alla mensa, dai trasporti ai libri di testo,
insomma tutti quei servizi compresi nel Diritto allo Studio. Rispetto ai paesi
europei, l'Italia ricopre le ultime posizioni per finanziamento agli strumenti
del diritto allo studio lasciando così le famiglie a reddito medio e basso
spesso sole di fronte ai costi della vita degli studenti universitari. Basti
pensare che ad oggi gli studenti che beneficiano di un sostegno di Diritto allo
Studio sono in media il 25% in Francia, circa il 34,7% in Germania e solamente
l'8% in Italia. Un 8% che oltretutto rappresenta solamente chi gode
effettivamente di un sostegno per lo studio. In base alla normativa in vigore
gli aventi diritto sarebbero il 10%, ma, a causa della mancanza delle risorse,
migliaia di studenti restano privi della borsa di studio a cui hanno diritto.
Quindi garantire la borsa di studio almeno a tutti coloro che oggi hanno
diritto deve essere la priorità politica. Si ricorda come la responsabilità costituzionale
di sostenere il diritto allo studio spetti alle Regioni sulla base del Titolo V
della Costituzione, per competenza diretta, e allo Stato per la competenza
perequativa, tramite il Fondo Integrativo Statale (FIS). A contribuire sono
anche gli studenti stessi con il pagamento della tassa regionale che sostiene
il DSU in maniera significativa. Mentre in Francia o Germania il finanziamento
dello Stato supera il miliardo di euro, il FIS, consolidatosi intorno ai 150
milioni fra il 2004 e il 2008, è arrivato a 256 milioni nel 2009, scendendo poi
sotto i 100 nel 2010 e 2011 per poi risalire e assestarsi intorno ai 160
milioni di euro negli ultimi anni. Segnali positivi di incremento che si sono
confermati nell'ultima legge di bilancio con 20 milioni recuperati dalle borse
di merito.
Per porre
rimedio a questa distorsione è necessario dare finalmente attuazione completa e
definitiva al decreto attuativo del DLgs. 68/2012, ovvero alla definizione di
quei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) che obbligherebbe tutte le
Regioni e lo Stato a contribuire in maniera proporzionale e certa al
finanziamento del sistema del Diritto allo Studio. (Fonte: M. Carni, huffipost
21-01-18)
CON LA SOLA GRATUITÀ NON SI RISOLVONO I
GRANDI E ANNOSI NODI E DRAMMI DELLE UNIVERSITÀ
La “questione
università” è stata finalmente rimessa al centro del dibattito pubblico, con le
sue mille difficoltà e contraddizioni, tirandola fuori dalle secche degli
addetti ai lavori o delle periodiche campagne emergenziali e scandalistiche in cui
era stata confinata. Naturalmente, con la sola gratuità (proposta da LeU) non
si risolvono i grandi e annosi nodi e drammi delle università italiane.
Occorrono più risorse, per il personale, per le strutture, e soprattutto per la
ricerca. Occorre estendere e rafforzare il finanziamento per il diritto allo
studio (borse, case dello studente, mense) proprio per evitare che la mobilità
universitaria sia un privilegio per soli studenti abbienti. Mentre Germania,
Francia, Paesi scandinavi non hanno esitato ad aumentare la quota di Pil
riservata ad essa, l’Italia ha deciso di operare tagli su tagli, fino a
recidere finanziamenti per più di 11 miliardi complessivi, ovvero una riduzione
di circa lo 0,8% di Pil. Contemporaneamente ha introdotto un dannoso sistema
premiale di valutazione degli atenei basato sull’assunto “più iscritti più
soldi” (in questo consiste il sistema del cosiddetto “costo standard”), e
introducendo discutibili criteri, quando non assurdi, di valutazione della
ricerca (per imporre la logica della cosiddetta “eccellenza”) che hanno messo
le università in conflitto tra loro. Inoltre, stiamo assistendo a come un
sistema arbitrario per l’individuazione dei “dipartimenti d’eccellenza”
(sistema sarcasticamente ribattezzato “ludi dipartimentali”), abbia operato una
ulteriore discriminazione di una fonte importante di finanziamento (1 miliardo
e 300 milioni per un quinquennio) che viene prevalentemente erogata ad atenei
del Nord (58.9% dell’importo totale), mentre solo il 13.9% è stato attribuito a
dipartimenti del Sud. Naturalmente giustificando questa sperequazione con
criteri “oggettivi” di valutazione. (Fonte: F. Sinopoli, Roars 23-01-18)
DIRITTO ALLO STUDIO E DIRITTO ALLA LAUREA
Come affermato
correttamente da Monica Barni, vicepresidente della Regione Toscana, non è
sufficiente pensare all'eliminazione delle tasse universitarie, perché ogni
studente affronta spese che vanno ben oltre. Occorrerebbero, in generale,
politiche pubbliche capaci di far invertire la rotta a un certo modo di
intendere e amministrare un'istituzione che è stata danneggiata, ormai da anni,
da governi di ogni colore politico. Per come l'università viene ormai
socialmente percepita, e istituzionalmente valutata, in discussione non sono
più le virtù intellettuali, o l'impegno degli studenti, o i risultati da loro
maturati, bensì, soprattutto, la capacità dei docenti e del sistema
universitario di garantire, a chiunque s'iscriva, il conseguimento della
laurea. Il diritto allo studio, tuttavia, non è diritto alla laurea. Essa non può
trasformarsi in strumento di consolazione o gratificazione esistenziale, o
emancipazione sociale, se non sancisce realmente e seriamente il raggiungimento
di un determinato grado di conoscenza e cultura (D. Cadeddu, huffingtonpost.it 22-01-18)
VARIE
L’EREDITÀ DEL SESSANTOTTO
E’ trascorso
mezzo secolo in un sol colpo dai tempi delle grandi contestazioni studentesche
che sconvolsero il mondo universitario e tutta l'Italia. Un fiume in piena che
ha lasciato vittime, speranze fallite, sogni infranti, macerie e tanta
mediocrità. Indro Montanelli diceva che siamo abituati a ragionare con la testa
rivolta all'indietro perché continuiamo a guardare al nostro passato invece di
concentrarci sul futuro. Eppure certi «flash-back» possono essere, ancora oggi,
molto utili per non ripetere gli errori già commessi: la lezione della storia.
E proprio il grande Direttore - che, sull'onda di quei moti di piazza, lasciò
in seguito il Corriere per andare a fondare il Giornale - aveva le idee molto
chiare sulle grandi disillusioni della contestazione giovanile: «Il Sessantotto
non può pretendere di averci lasciato crescite di civiltà. Io vidi nascere una
bella torma di analfabeti che poi invasero la vita pubblica italiana e anche
quella privata portando in ogni luogo i segni della propria ignoranza». Da
parte sua, Norberto Bobbio definì il movimento del '68 «un'esaltazione
collettiva», una specie di raptus che colpì migliaia e migliaia di ragazzi
manovrati da leader improvvisati e pronti a contestare chiunque rappresentasse una
qualsiasi autorità politica, professionale, morale. L'ultimo segretario del Pci
definì la contestazione come parte integrante di un grande processo
rivoluzionario: «I giovani si sono messi in cammino perché siamo entrati in una
fase di movimento della lotta per abbattere il capitalismo». Cosa ha davvero
lasciato in eredità il Sessantotto? È sufficiente riesaminare a freddo i
risultati di quella che tanti hanno considerato una travolgente ondata
libertaria per rendersi, invece, conto di una realtà molto amara: c'è stato
solo un fiume carsico di mediocrità che ha minato le basi stesse della società
finendo per intaccare certi principi fondanti come lo studio, la preparazione e
il merito. (Fonte: G. Mazzuca, Il Giornale 14-01-18)
COPERTURA E ATTUABILITÀ DELLE PROPOSTE PER
L’UNIVERSITÀ DEI PARTITI IN VISTA DELLE ELEZIONI
Il Sole24Ore ha
analizzato il grado di copertura e di attuabilità delle proposte di quattro
partiti o coalizioni: il Partito Democratico, centrodestra (Forza Italia, Lega
e Fratelli d’Italia), Movimento Cinque stelle, Liberi e Uguali. Secondo quanto
riporta il quotidiano economico, le proposte del Partito Democratico sarebbero
realizzabili per il 50%. Quelle del centrodestra, invece, sarebbero attuabili
per il 70%, ma sarebbero anche più generiche. Il 50% di copertura e attuabilità
avrebbero le proposte del M5S. La
proposta è più selettiva e passa dall’aumento delle borse di studio al
rafforzamento della quota premiale del fondo di Finanziamento degli atenei al
tagliando per l’abilitazione scientifica nazionale. Il problema sarebbe trovare
gli oltre 35 miliardi per portare la spesa per l’istruzione da 7,9 a 10,2 del
Prodotto interno lordo. Solo il 40% di copertura e attuabilità per Liberi e
Uguali. Sull’università Liberi e Uguali ha lanciato la proposta forte di
rendere gratuita l’università abolendo le tasse universitarie. In pista anche
abolizione o ridefinizione dei compiti dell’ANVUR. L’ipotesi di eliminare le
tasse universitarie a tutti costa come minimo 1,6 miliardi, ma il costo
potrebbe salire se aumentassero le iscrizioni. (Fonte: A. Carlino, www.tecnicadellascuola.it
21-01-18)
DOPO IL CROLLO DELLA POSIZIONE ACCADEMICA DELL’AMBITO
UMANISTICO SI STA AFFERMANDO UNA CONCEZIONE DEL SAPERE UMANISTICO “APPLICATA” O
“APPLICATIVA”
L’effetto della
grande crisi dell’università conferma che si sta dissolvendo l’idea della
preminenza delle humanitates come chiave di lettura per interpretare la realtà,
che sta perdendo di significato l’idea che la Storia sia utile per interpretare
il presente, che la Filosofia faccia crescere e mantenga alto il senso critico,
che la Letteratura penetri lo spirito dell’uomo e che la Classicità trasmetta
quei riferimenti del pensiero che permettono a un individuo di rapportarsi a
qualsiasi esperienza e problema. La diminuzione del corpo docente tra il 2007 e
il 2017 è stata del 13 % circa, ma con effetti profondamente diversi tra i vari
settori: mentre ad esempio gli organici dei dipartimenti di Ingegneria
industriale e dell’informazione (Area 9 CUN) sono cresciuti del 3% e quelli di
Economia (Area 12) dello 0,3%, altri settori scientifici non sono stati messi
nelle condizioni di sostituire il (numeroso) personale posto in quiescenza.
L’ambito umanistico (Aree 10 e 11) si è ridotto del 20%, perdendo oltre 2 mila
degli 11 mila docenti in servizio nel 2007. Al suo interno, tuttavia, le
differenze sono state notevoli e indicano alcune linee di tendenza culturali e
scientifiche. I settori scientifico-disciplinari che hanno visto ridurre
maggiormente i propri organici sono stati la Letteratura francese (-48%) e la
Lingua e letteratura latina (-41%). Due fra i capisaldi della cultura europea
occidentale otto-novecentesca stanno cioè crollando nella loro posizione
accademica. Storia perde in dieci anni 1/3 della sua presenza universitaria. Un
quarto e oltre dei docenti di Geografia, Filosofia e Storia delle letterature
non sono stati sostituiti. Tuttavia, secondo i dati AlmaLaurea, a cinque anni
dalla laurea l’occupazione dei laureati in scienze umani e sociali è dell’85%
contro il 91% delle lauree scientifiche. Si sta affermando una concezione del
sapere umanistico “applicata” o “applicativa”: ridimensionata la valenza
formativa generale, si cercano le materie che oltre a insegnare consentano una
specializzazione, anche professionale. Una lingua straniera è sempre più vista
come un veicolo di comunicazione, e gli aspetti culturali sono diventati
secondari. La diminuzione meno contenuta della media della Storia dell’arte
sta, ad esempio, ad indicare che nello studio e nella tutela del patrimonio
culturale va individuata una delle chiavi per salvaguardare e promuovere gli
studi umanistici nel nostro Paese. Altri settori, quelli che studiano i nuovi
media e la comunicazione visiva, resistono invece grazie al cambiamento che sta
investendo il mondo della comunicazione e della rappresentazione iconica.
Legato in qualche modo al “saper fare”, o meglio all’“insegnare come fare”, è
anche l’incremento degli organici dei pedagogisti e degli psicologi, tra i
quali si annidano tuttavia veri e propri infiltrati scientifici: gli
Psicobiologi e psicologi della fisiologia aumentano addirittura di 1/3 il
proprio numero. Questa tendenza può certamente essere letta anche in positivo,
come una maggiore ricerca di concretezza e di investimento positivo del sapere
acquisito nelle aule universitarie. (Fonte: A. Zannini, Il Mulino 19-01-18)
La tabella mostra percentualmente qual è
stata la diminuzione del corpo docente (professori e ricercatori, comprese le nuove
figure “a tempo determinato”) nel decennio della grande crisi dell’università
2007-201
UN CLIMA DI PLEBEISMO CULTURALE DI CLASSI DIRIGENTI SEMPRE PIÙ PLEBEISTICAMENTE
ATTIVE CONTRO LA CULTURA E LA RICERCA CHE NON POSSONO CONTROLLARE
Se negli Stati Uniti
presidenti conservatori ed antintellettuali – come Bush prima e ora Trump –
hanno di fatto contrapposto al sapere critico delle università, quello di fondazioni
ben finanziate da istituzioni private e corporation, in grado di sfornare
report ed esperti di cui ci si è serviti per contrastare le scomode verità
provenienti dal mondo scientifico radicato nei college più prestigiosi, così
anche in Italia al definanziamento dell’università pubblica si contrappone il
finanziamento di istituzioni di diritto privato, i cui vertici e docenti, di
fatto controllati politicamente, risultano molto più docili di un mondo
universitario i cui docenti possono muovere critiche al potere costituito. Si
viene a creare in tal modo una doppia tenaglia: mentre l’università pubblica
viene stritolata dalle maglie burocratiche e normative dell’ANVUR, le
fondazioni di diritto privato finanziate con denaro pubblico sono sempre più
libere di esplicare le proprie potenzialità e di dimostrare la propria
“eccellenza”. L’opera di delegittimazione della conoscenza – che passa innanzi
tutto attraverso un sistematico cammino di denigrazione dell’università
pubblica e dei docenti che vi lavorano, al di là dei loro reali demeriti (che
nessuno vuole nascondere) – ha finito per istallare anche nel nostro paese quel
plebeismo cognitivo di cui Trump negli Stati Uniti sembra incarnare l’icona più
esemplare. (Fonte: F. Coniglione, Roars 22-02-18)
DOVE LA PAROLA “INTERNAZIONALIZZAZIONE” È SCANDITA COL TIMBRO
IMPLACABILE DELLA “DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA DELL’ATTO DI NOTORIETÀ” E I TONI
IMPERATIVI DEL “MODELLO CONFORME”
Il nostro Ministero
dell’Istruzione, sempre così attento ai problemi dell’internazionalizzazione
dei nostri atenei, prevede una procedura da imporre a tutte le università del
mondo, finalizzata alla stipula di rapporti di collaborazione internazionale,
senza tenere in alcuna considerazione né le normative dei paesi con cui si
stipulano questi accordi, né le esigenze
palesate dai rappresentanti legali a tutela di quelle istituzioni. Vi
pare normale? Che speranze abbiamo – con questi metodi – di mettere in piedi un
sistema universitario internazionale? (Fonte: N. Perotti, Roars 26-02-18)
LA RETORICA DELLE “ECCELLENZE”
L’appello all’eccellenza
(parola che ha acquisito un’aura particolare, salvifica, quasi escatologica)
non è rimasto questione semantica, ma si è tradotto in norme e indirizzi, con
particolare riferimento a scuola e università, ma estendendosi all’intera sfera
del made in Italy (per definizione, naturalmente, un’eccellenza). Il
riferimento ideale all’eccellenza si è così tradotto nell’idea che ogni
attività lavorativa debba essere concepita un po’ come un campionato sportivo,
dove è giusto che nutrano aspirazioni di dignità solo quelli che insidiano la
vetta. Di contro, tutti i ‘non eccellenti’ devono solo prendersela con sé
stessi se non ottengono riconoscimento. Le varie introduzioni di ‘bonus
premiali’ ai docenti della scuola, di aumenti premiali ai docenti universitari,
di finanziamenti premiali ai dipartimenti e alle università, o similmente le
risorse premiali previste nella ‘riforma della pubblica amministrazione’, ecc.
vanno tutte in questa direzione, dove normalità è assimilata a mediocrità,
mentre dignità e onorabilità sono riservate alle ‘eccellenze’. Il problema di
questo modello non è che sia ‘meritocratico’ – e che dunque sia avversato da
impaludati e retrogradi ‘antimeritocratici’. No. Il problema è che si tratta di
un modello di società, e di azione collettiva, fallimentare. Nessuna società
funziona sulla base di un pugno di eccellenze, e per definizione le eccellenze
non possono se non essere una minoranza. La nozione di eccellenza è infatti una
nozione differenziale: si è ‘eccellenti’ in quanto si è virtuosamente fuori
dall’ordinario. L’idea che, per veder riconosciuta la dignità di ciò che si fa,
si debba appartenere al novero degli eccellenti è la ricetta per un sicuro
naufragio, e lo è proprio sul piano dell’incentivazione. Lodare e premiare
l’eccellenza può avere un’utile funzione sociale, fornendo modelli motivanti
per la gioventù in formazione, ma non può mai essere sostitutivo del più
fondamentale e importante dei modelli, quello dove si coltiva semplicemente la
capacità di fare bene il proprio dovere. (Fonte: A. Zhok, L’Espresso 07-01-18)
SI AVVIA LA RIFORMA DEI SETTORI SCIENTIFICO-DISCIPLINARI
La ministra Fedeli ha inviato
una lettera ufficiale al Consiglio universitario nazionale chiedendogli «di
avviare una verifica delle criticità relative all’offerta formativa per Classi
di Laurea e di Laurea Magistrale nonché all’articolazione dell’attuale
classificazione dei saperi in settori scientifico-disciplinari […], ai fini di
una migliore interpretazione e capacità di governo da parte dell’offerta
formativa erogata nei confronti dei cambiamenti costanti che caratterizzano le
società contemporanee ... «i tempi sono ormai maturi per un intervento
complessivo di semplificazione. E di questa semplificazione ce n’è obiettivamente
bisogno: abbiamo quasi 380 settori scientifico-disciplinari (..), 150 classi di
laurea o laurea magistrale alle quali afferiscono i 4454 corsi di studio
attivati per l'anno accademico in corso 2017-2018». «Dobbiamo muoverci sulla
direttrice delle flessibilità e dell’ammodernamento dell’offerta formativa
affinché la riforma dialoghi con la riforma», ha aggiunto poi Carla Barbati,
presidente del CUN. Il punto «è che i settori scientifico-disciplinari sono
diventati un riferimento per la formazione, la ricerca, ma anche per il
reclutamento. Per cui ora l’appartenenza a un settore è anche un criterio di
valutazione. Dobbiamo lavorare affinché le cose cambino, quindi al loro
riordino, a una ricognizione della classi di studio, pensando che si tratti
dell'inizio di un percorso, non della coda». «L’obiettivo - ha precisato Marco
Abate, Coordinatore Commissione Politiche per la formazione universitaria CUN -
non è quello di attuare una riduzione, ma una razionalizzazione di un sistema
ormai vecchio, per renderlo più efficiente e adeguato al contesto. I settori
scientifico disciplinari hanno 20 anni, quelli concorsuali risalgono al 2011 ma
riflettono una realtà superata. Speriamo di riuscire ad effettuare questo
restyling entro aprile 2018, certamente ne imposteremo l'architrave, partendo
come stiamo facendo dall'analisi di ciò che non funziona». (Fonte: B. Pacelli,
IlSole24Ore 02-02-18)
DIRIGENTI DELLE PA. ORMAI SIAMO DIVENTATI UN ADEMPIMENTIFICIO DI
FORMALITÀ
Si sono tenuti a Roma (25-26
gennaio) gli Stati generali della Pa, un evento organizzato dall'Associazione
dei dirigenti delle pubbliche amministrazioni (AGDP) che vanta circa 500
aderenti tra I più alti burocrati dello Stato e degli enti territoriali. “La
macchina pubblica rischia la paralisi, ormai siamo diventati un
adempimentificio: contano solo le procedure e si perdono di vista i servizi, i
risultati - spiega P. Savarino, presidente dell'AGDP -. Non servono altre
riforme, altre leggi. La nostra proposta è quella di rendere vincolanti alcune
pronunce della Corte dei Conti o del Consiglio di Stato”.
UNIVERSITÀ
IN ITALIA
LA NUOVA FEDERAZIONE TRA SCUOLA SUPERIORE
SANT'ANNA DI PISA, NORMALE DI PISA E IUSS DI PAVIA
A Pavia nasce
ufficialmente la federazione tra Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, Normale di
Pisa e Iuss di Pavia, iniziativa di cui si parla da tempo e che ha già
incassato il via libera del MIUR. Per la città di Pisa, in particolare, si
tratta di un passaggio storico, per quanto atteso, che vede concretizzarsi -
dopo una fase recente di stretta collaborazione - l'alleanza tra due delle
proprie realtà di eccellenza a livello nazionale e internazionale. Un dopo per
rafforzare entrambe, ciascuna con le proprie specificità, nel contesto
accademico non solo italiano e che offre sempre maggiori sfide alle istituzioni
scientifiche e culturali del territorio. L'atto, sottolinea una nota congiunta
dei tre atenei, «sarà il via ufficiale a una nuova realtà a tre pensata e
voluta con tre precisi obiettivi: ottimizzare l'offerta formativa per i giovani
capaci e meritevoli, rendere più visibile e competitivo il sistema nazionale
della formazione avanzata; aumentare la competitività internazionale delle
scuole». Ognuna delle tre scuole, come previsto, mantiene la propria autonomia
ma la federazione prevede un unico consiglio di amministrazione, un unico
collegio dei revisori e un unico nucleo di valutazione. (Fonte: Il Tirreno
23-01-18)
NECESSARIO IL MIGLIORAMENTO DELLE UNIVERSITÀ
DEL SUD
Sul suo blog sul
New York Times, il premio Nobel per l'Economia Paul Krugman si interrogava sui
fattori che determinano il successo, nel tempo lungo, delle città e delle
regioni. A suo giudizio, tra gli elementi sempre presenti nelle vicende di
città e regioni che sono riuscite a conquistare e a mantenere nel tempo una
buona posizione competitiva e un buon livello di reddito per i propri cittadini,
c’è la presenza di un’istituzione universitaria. Nel tempo, il contributo che
una università dà allo sviluppo economico della città e della regione in cui è
insediata è fondamentale: attraverso l'insegnamento (e quindi una cittadinanza
più colta e una forza lavoro più qualificata), la ricerca, sia di base che
applicata a questioni specifiche, l'interazione con il territorio e le imprese.
Questa riflessione vale moltissimo per le città e le regioni dell'Europa a un
livello intermedio di sviluppo, e quindi per il Mezzogiorno: solo investendo in
formazione, in conoscenza e in ricerca possono essere in grado di sviluppare
un'economia diversificata e sana, in grado di tenere testa alla concorrenza dei
paesi emergenti e di offrire lavoro ai propri giovani. Le università del Sud
hanno, ancor più di quelle del resto del paese, e come tante istituzioni
pubbliche, necessità di miglioramento. Ma la politica attuale tende a far
somigliare il sistema universitario più al modello inglese (con poche sedi
ottime, spesso per gli studenti più abbienti, e altre più modeste) che a quello
tedesco, che mira ad una elevata qualità in tutte le città e tutte le regioni.
Allora che fare delle università del Sud, chiuderle o metterle, soprattutto
grazie a nuove risorse umane, in condizioni di rafforzarsi? Come e quando,
visto che i meccanismi messi in atto producono effetti a cascata? Le domande,
in fondo, sono semplici. Le conseguenze delle risposte sono decisive per il
Mezzogiorno. Che, non dimentichiamolo mai, è l'area europea con la più bassa
percentuale di laureati sulla popolazione giovane e in cui si investe
sull'università meno di un terzo, procapite, di quanto si faccia nell'ex
Germania Est. E che per questo ha un bisogno fortissimo di investimenti di
qualità sulla formazione dei cittadini, sulla ricerca, sul trasferimento
tecnologico. «È un lavoro lungo da fare e su cui ci vuole un piano integrato
con un impegno forte da parte del governo e degli enti locali, per fare in modo
che le università del Mezzogiorno possano essere un riferimento solido per i
propri ragazzi». Senza un «piano integrato», insomma, non si riusciranno a
«vincere - ha concluso il presidente della CRUI - anche una serie di
diseconomie di contesto, legate alle minori opportunità di inserimento
lavorativo che esistono nel Mezzogiorno e che spesso allontanano i nostri
giovani». (Fonte: G. Viesti, M. Esposito, Il Mattino 23-01-18)
UE.
ESTERO
EUROPA. FINANZIAMENTI ALLE UNIVERSITÀ
Sui 34 sistemi
universitari presi in considerazione nella pubblicazione Public Funding Observatory Report 2017, solo 14 hanno ottenuto
finanziamenti più consistenti nel 2016 rispetto al 2008, contando che più della
metà di questi ultimi non sono però riusciti ad adeguare l’investimento
all’aumento troppo consistente del numero di studenti. E, per dirla tutta, non
siamo soli: ben 19 nazioni registrano oggi un contributo pubblico ancora più
basso di quello d’inizio crisi. I sistemi universitari austriaci, tedeschi e
svedesi mostrano un andamento finanziario sostenibile e consistente. Altri
sistemi mostrano comportamenti ugualmente virtuosi ma meno efficaci, come
quelli di Danimarca, Francia e Olanda, dove è tangibile un contesto di
“austerità”. Si leggono invece chiari segni di ripresa in Islanda e Portogallo,
stati in cui i tagli ai finanziamenti avevano assunto in passato un peso
notevole. E poi ci siamo noi e chi, come noi, ha continuato a disinvestire,
come la Spagna e la Lettonia. La vera sorpresa, però, viene dalla Turchia: la
percentuale d’incremento degli universitari turchi: un +185,25% totalmente
fuori scala rispetto agli elementi rappresentanti gli altri stati. E altissima
è anche la colonna turca dell’istogramma che rappresenta l’incremento dei
finanziamenti in percentuale, senza dubbio il più importante in Europa, ma che
non riesce ad eguagliare l’enorme esplosione nel numero degli studenti. (Fonte:
C. Mezzalira, IlBo 22-01-18)
UE. BORSE DI STUDIO PER IL FINANZIAMENTO DELLA RICERCA POSTDOTTORATO
A seguito dei bandi 2017 per
il finanziamento della ricerca postdottorato dalle azioni Marie
Skłodowska-Curie, la Commissione europea assegnerà borse di studio del valore
complessivo di 248,7 milioni di euro a 1.348 ricercatori il cui lavoro potrebbe
avere un impatto rivoluzionario sulla società e l’economia. Il Commissario per
l’Istruzione, la cultura, i giovani e lo sport, Tibor Navracsics ha dichiarato:
“Oggi riconosciamo il potenziale di 1.348 ricercatori eccellenti e dinamici su
scala internazionale, che hanno affrontato una dura concorrenza internazionale
per ottenere una borsa di studio. I progetti a cui lavoreranno affronteranno
alcune delle maggiori sfide delle nostre società e contribuiranno a costruire
un’Europa resiliente, equa e competitiva. L’Unione europea sta anche investendo
in programmi di formazione alla ricerca altamente innovativi per dottorandi e
ricercatori esperti, consentendo loro di sfruttare appieno il loro talento e
alle organizzazioni che li sostengono di diventare più competitive su scala
globale.” (Fonte: www.lavalledeitempli.net 01-02-18)
AUSTRALIA. METODO HELP PER GLI STUDENTI CHE
DEVONO RIMBORSARE IL DEBITO
In Australia è
stata promossa la versione degli student
loan, che consente agli universitari di risarcire il proprio dipartimento
solo ed esclusivamente se riusciranno a raggiungere un valore minimo di
reddito, abolendo il tasso di interesse e con un adeguamento periodico al costo
della vita. Se in America si contano quasi 1,5 trilioni di debiti per i laureati,
in Australia si è trovato il metodo Help (higher education loan program), ovvero
un prestito tramite il quale «il rimborso del debito sia obbligatorio solo per
le persone con un reddito che supera la soglia minima». Un portavoce del
governo australiano spiega che i debiti Help sono “prestiti accordati in
funzione del reddito, per supportare l’accesso e la partecipazione
all’educazione terziaria rimuovendo in anticipo le barriere per gli studenti”.
Ovvero, lo studente che ha conseguito la laurea inizierà a pagare quando avrà
un’occupazione tale da potergli permettere di risarcire gli studi. La soglia
stabilita è di 55.874 dollari australiani per il 2017/2018, anche se dal giorno
1 gennaio la soglia scenderà a 45mila dollari e sarà ammesso un tasso di
interesse pari all’1% per salire al 2% quando il reddito supererà i 51.975
dollari e al 10% oltre i 131.989 dollari. (20-01-18)
CHINA. CHINA HAS OVERTAKEN THE USA IN TERMS
OF THE TOTAL NUMBER OF SCIENCE PUBLICATIONS BUT USA RANKED THIRD AND CHINA
FIFTH FOR THE MOST HIGHLY CITED PUBLICATIONS
For the first
time, China has overtaken the United States in terms of the total number of
science publications, according to statistics compiled by the US National
Science Foundation (NSF). The agency’s report, released on 18 January,
documents the United States’ increasing competition from China and other
developing countries that are stepping up their investments in science and
technology. Nonetheless, the report suggests that the United States remains a
scientific powerhouse, pumping out high-profile research, attracting
international students and translating science into valuable intellectual
property.
The shifting
landscape is already evident in terms of the sheer volume of publications:
China published more than 426,000 studies in 2016, or 18.6% of the total
documented in Elsevier’s Scopus database. That compares with nearly 409,000 by
the United States. India surpassed Japan, and the rest of the developing world
continued its upward trend. But the picture was very different when researchers
examined where the most highly cited publications came from. The United States
ranked third, below Sweden and Switzerland; the European Union came in fourth
and China fifth. The United States still produces the most doctoral graduates in
science and technology, and remains the primary destination for international
students seeking advanced degrees — although its share of such students fell
from 25% in 2000 to 19% in 2014, the report says. The United States spent the
most on research and development (R&D) — around US$500 billion in 2015, or
26% of the global total. China came in second, at roughly $400 billion. But US
spending remained flat as a share of the country’s economy, whereas China has
increased its R&D spending, proportionally, in recent years. (Fonte: www.nature.com 09-01-18)
USA. LA MAGGIORANZA DEI 4.724 ISTITUTI CHE DANNO UN TITOLO DI STUDIO
SUPERIORE HANNO L'INTERA LEADERSHIP DEDITA AL MARKETING STUDENTESCO
L'immenso giro d'affari degli
sport universitari e le capacità di reclutamento che offrono hanno portato le
università prive di blasone e credenziali accademiche a investimenti di
proporzioni surreali per attività senza alcuna rilevanza educativa. Si è
sviluppato un modello di business universitario basato sull'aumento delle
palestre pro capite, sulla moltiplicazione dei servizi ricreativi, sullo svago,
sullo stadio più grande, sul marketing a sfondo climatico, sul ranking delle
migliori feste, delle migliori confraternite, sulle borse di studio d'oro per
atleti che non vedono una lezione nemmeno per sbaglio. L'allenatore della
squadra di football della University of Alabama guadagna 11 milioni di dollari
l'anno, cento volte di più del più pagato fra i suoi colleghi che stanno dietro
la cattedra (M. Ferraresi, Il Foglio 16-02-18)
LIBRI.
RAPPORTI. SAGGI
UNIVERSITALY. LA CULTURA IN SCATOLA
Autore: Federico
Bertoni. Ed. Laterza Collana: i Robinson
/ Letture, 2016, 150 pg.
Perché un luogo
di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario
concentrato di stupidità, in cui l’automazione frenetica delle pratiche svuota
di significato le azioni quotidiane? Questa è la domanda fondamentale da porre
all’università italiana del XXI secolo.
Mutazioni
antropologiche, narrazioni egemoni, logiche del potere e disegni politici più o
meno occulti. Drogata da un falso miraggio efficientista, l’università sta
svendendo l’idea di cultura e la ragione stessa su cui si fonda, ostaggio
passivo e consenziente di indicatori astrusi, procedure formali, parole vuote
che non rimandano a nulla e che si possono manipolare in base a interessi
variabili – eccellenza, merito, valutazione, qualità, efficienza,
internazionalizzazione. Serve una diagnosi lucida per denunciare le imposture e
cercare gli ultimi punti di resistenza. Il libro parte da casi concreti e da
un’esperienza maturata sul campo. Senza alcun rimpianto nostalgico per la
‘vecchia’ università ma con uno sguardo disincantato, si rivolge a chi ha una
percezione vaga del presente, spesso distorta da stereotipi e pregiudizi. Quel
che ne emerge è al tempo stesso un racconto, un saggio di critica culturale e
un testardo gesto d’amore per il sapere, l’insegnamento e un’istituzione che ha
accompagnato il progetto della modernità occidentale. (Fonte: presentazione
dell’editore). Un commento di R. Simone: “L’ossessione per la valutazione e il
ricorso a categorie manageriali nell’istruzione superiore finisce per tradursi
soltanto in un continuo aumento del carico burocratico sui professori. La denuncia
nel libro di Federico Bertoni”.
LA CONOSCENZA E I SUOI NEMICI
Autore: Thomas M. Nichols. Ed.
Luiss University Press, 2018, 246 pg.
È il manifesto della
rivoluzione dei competenti, vale a dire di quel recente moto di ribellione che
vorrebbe rimettere le cose al suo posto: gli esperti parlano, gli americani con
una bassa conoscenza di base ascoltano. Uno studio recente dice che gli
abitanti degli Stati Uniti non sono più ignoranti di cento anni fa, ma per
Nichols questo non è un dato consolante nemmeno un po': vuol dire che sono
rimasti fermi allo stesso livello mentre tutto attorno a loro il mondo
diventava sempre più sofisticato e sempre più difficile da capire, soprattutto
se tutto quello che hai a disposizione sono un paio di pregiudizi rozzi orecchiati
su Internet. La realtà è che c'è poco da fare: chiunque con un po' di buon
senso e di intelligenza ammette che gli specialisti sono necessari e che anche
un gesto naturale come fare colazione al mattino è in realtà il frutto di
competenze incrociate che per la maggior parte sono al di là della nostra
portata, perché non possiamo fisicamente occuparci di tutto e sapere tutto. La
vecchia boutade "la specializzazione è per gli insetti", dello
scrittore di fantascienza Robert Heinlein, è appunto soltanto una boutade e se
abbiamo bisogno degli esperti per fare colazione, figurarsi quanto abbiamo
bisogno di loro in altri campi. Eppure non vogliamo ammetterlo, anzi, la
conoscenza altrui ci fa scattare la voglia di contestazione. Il fenomeno non è
nuovo - avverte Nichols - "lo farei risalire alla fine degli anni
Sessanta, come parte della cultura giovanile che è rimasta e che è cresciuta
poi negli anni Settanta". Gli americani disprezzano il sapere, disprezzano
gli esperti e in generale disprezzano chi ne sa più di loro. Ma adesso è un
fenomeno in accelerazione e ce ne accorgiamo di più in tutti i campi, dalla
politica alla medicina. Nel giro di pochi anni siamo saltati giù da un livello
che era già basso e preoccupante - quindi: mancanza di informazioni e antipatia
generica verso i competenti - e siamo atterrati al livello
"disinformazione", superando di slancio il livello intermedio della "cattiva informazione".
E non ci siamo fermati lì, perché poi siamo scesi al livello ancora sotto,
quello dell'"errore aggressivo": la gente adesso non soltanto crede
alle sciocchezze, ma si oppone a imparare di più pur di non abbandonare le sue
convinzioni. È "la morte della competenza". Che infatti è il titolo
originale del libro e suona molto più cupo di quello scelto per la versione in
italiano. (Fonte: D. Ranieri, Il Foglio 16-02-18)
THE CASE AGAINST EDUCATION: WHY THE EDUCATION SYSTEM IS A WASTE OF TIME
AND MONEY
Autore: Bryan Caplan. Ed.
Princeton University Press 2018, 381 pg.
Per Caplan, il reale motivo
per cui gli americani vanno al college è quello che gli economisti chiamano signaling, cioè l'acquisizione di
credenziali che segnalano ai potenziali datori di lavoro un'abilità
preesistente. Questa abilità, spiega Caplan, non ha nulla a che vedere con
quello che gli studenti hanno imparato in classe, con i contenuti, ma è legata
al fatto che i ragazzi sono passati attraverso un processo di selezione, hanno
in qualche modo passato le loro ore in classe (non importa come), hanno
consegnato i paper in tempo (non importa la qualità) e sono stati abbastanza
disciplinati da arrivare alla laurea senza farsi cacciare. Sono segnali
sufficienti per chi cerca professionalità medie per la classe media. Che i
laureati abbiano nel frattempo cancellato qualunque informazione acquisita, se
mai l'hanno acquisita, poco importa, non disturba il segnale. Il valore del
college consiste nell'aver fatto il college, ed è questo paradosso circolare
che apre spazi sterminati per strategie di investimento legate al packaging
universitario più che al contenuto. (Fonte: M. Ferraresi, Il Foglio 16-02-18)
LA CLASSIFICAZIONE DELLE RIVISTE E LE ALTRE SEDI EDITORIALI IN RELAZIONE
ALLE PROCEDURE DI ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE
Autore: Emilio Balletti.
Rivista “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni“, Fasc. 3-4, 2016.
Si fotografano tecnicamente le
determinanti giuridiche che fanno sì che – in un numero di casi che in assenza
di correttivi non cesserà di crescere – il sistema finisca per lasciare al
massimo consesso della magistratura amministrativa l’ultima parola sugli esiti
del reclutamento universitario.
Di seguito la sinossi dei temi
trattati:
1. Razionalità ed efficienza
del sistema di reclutamento universitario per le aree non bibliometriche sulla
base della classificazione delle sedi editoriali delle pubblicazioni.
2. La rilevanza della
classificazione delle riviste e le altre sedi editoriali in relazione alle procedure
di Abilitazione Scientifica Nazionale 2016. — 2.1. La selezione degli aspiranti
commissari. — 2.2. Valori-soglia e valutazione di merito della qualificazione
scientifica dei candidati.
3. La classificazione delle
riviste delle aree non bibliometriche nel Regolamento Anvur 21 luglio 2016. —
3.1. La prima fase di cd. valutazione preliminare — 3.2. Il giudizio sulla
qualità scientifica delle riviste alla luce dei cd. requisiti di processo e di
prodotto.
4. Ambiguità e limiti della
classificazione delle riviste e delle altre sedi editoriali sulla base dei
risultati delle procedure di Valutazione della qualità della ricerca.
5. L’inadeguatezza della
classificazione delle riviste e delle altre sedi editoriali a valere quale
fattore di razionalizzazione e di miglioramento dell’efficienza del sistema di
reclutamento universitario.
6. La selezione dei docenti
universitari da parte delle comunità scientifiche e il rischio della sua
devoluzione al potere giudiziario.
MEASURING RESEARCH: WHAT EVERYONE NEEDS TO KNOW
Authors: Cassidy R. Sugimoto
and Vincent Larivière. Oxford University Press, 2018. 143 pg.
Information scientists Cassidy
Sugimoto and Vincent Larivière crunch data to explore the changing nature of
research, from uncovering science’s gender disparities to charting the impact
of migration on citations. Now, they have written a guidebook, Measuring
Research. They talk here about the misuse of citation metrics to judge
individual researchers, the Wild West of indicators and the cultural bias of
databases. Why did you write this book? “Seeing the gross misuse of
bibliometrics, we both felt a need for an accessible manual to help people use
them more responsibly. For scientists, it’s an overview of the way their output
and impact is measured. For those who manage science, this book provides the
tools necessary for interpreting bibliometric data and guidelines for responsible
use of indicators”. (Fonte: R. Van Noorden,
www.nature.com 22-02-18)
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