IN EVIDENZA
PERCHÉ LE
UNIVERSITÀ? UN DISCORSO DI UMBERTO ECO
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rettori di università di tutto il mondo il 18 settembre 1988 si incontrarono a
Bologna per firmare la Magna Charta delle Università, uno dei pilastri su cui
si fonda l’idea di mobilità e scambio internazionale per studenti, ricercatori
e docenti. Ad oggi, le università sono diventate oltre 750, e sono in procinto
di aggiungersi altri 24 firmatari. In occasione delle celebrazioni organizzate
dall’Università di Bologna per festeggiare il 25° anniversario del documento,
il 20 settembre 2013 Umberto Eco, di recente scomparso, ha pronunciato
nell’Aula Magna Santa Lucia un discorso di cui riportiamo di seguito il testo
integrale: http://tinyurl.com/zhfujwa.
(Fonte: UNIVERSITAS
anno XXXV, n° 131, febbraio 2014)
ASN, RICERCATORI TIPO B, ASSEGNI DI RICERCA NEL
DECRETO MILLEPROROGHE
L’articolo
1 commi 10.6-10.8 del provvedimento milleproroghe (decreto legge 30 dicembre
2015, n. 210) recita quanto segue:
10-sexies. Ai fini della procedura di chiamata di cui
all’articolo 24, comma 5, della legge 30 dicembre 2010, n. 240, il termine per
l’emanazione dei decreti previsti dall’articolo 16, comma 2 e comma 3, lettera
a), della medesima legge, come modificato dall’articolo 14 del decreto-legge 24
giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014,
n. 114, è prorogato al 31 dicembre 2016.
10-septies. All’articolo 24, comma 3, lettera b), della legge
30 dicembre 2010, n. 240, le parole: “non rinnovabili” sono sostituite dalle
seguenti: “rinnovabili non oltre il 31 dicembre 2016”.
10-octies. Le università sono autorizzate a prorogare fino
al 31 dicembre 2016, con risorse a carico del proprio bilancio e previo parere
favorevole del dipartimento di afferenza, i contratti di ricercatori a tempo
determinato, della tipologia di cui all’articolo 24, comma 3, lettera b), della
legge 30 dicembre 2010, n. 240, in scadenza prima della medesima data, i cui
titolari non hanno partecipato all’abilitazione scientifica nazionale delle
tornate 2012 o 2013. Ai fini dell’ammissione alle procedure di selezione dei
titolari dei contratti della medesima tipologia, gli assegni di ricerca, di cui
all’articolo 22 della citata legge n. 240 del 2010, sono equipollenti a quelli
erogati ai sensi della previgente disciplina di cui all’articolo 51, comma 6,
della legge 27 dicembre 1997, n. 449.
Ciò
significa che:
- il termine per l’emanazione dei decreti che
regoleranno la nuova ASN è spostato al 31.12.2016. Si ricordi che la terza
tornata di abilitazioni avrebbe dovuto essere indetta entro la fine del mese di
febbraio 2015;
- i
contratti di ricercatore a tempo determinato di tipo B sottoscritti da soggetti
che non hanno sostenuto le scorse tornate abilitative e che scadono prima della
fine del 2016 sono prorogabili fino a fine anno;
- gli
assegni post legge 240/2010 sono equiparati a quelli ante legge 240/2010 al
fine del conseguimento di posizioni di ricercatore a tempo determinato di tipo
B.
(Fonte:
Redazione Roars 15-02-16)
SCIENCE-HUB, IL ROBIN HOOD
DELLA SCIENZA
Rendere disponibile la ricerca scientifica di ogni tipo e ad ogni
latitudine, per favorire lo sviluppo della conoscenza e dell’attività
accademica a livello globale. Questo in estrema sintesi l’obiettivo del
movimento per l’Open Access, filosofia e pratica di attivisti, ricercatori e
bibliotecari di tutto il mondo. Negli ultimi vent’anni progetti di condivisione
della conoscenza scientifica quali la Public Library of Science, la Directory
of Open Access Journals, o il leggendario database di “pre-print” arXiv, hanno
trasformato il panorama scientifico e la vita quotidiana di milioni di
ricercatori. Un quadro che ha ricevuto forte spinta, non va dimenticato,
dall’impegno in prima persona di Aaron Swartz, l’attivista-programmatore
statunitense scomparso poco più di tre anni fa, e co-autore nel 2008 del
Manifesto della guerriglia open access. Ma nonostante i passi in avanti
compiuti finora, resistono ancora, molti, troppi lucchetti imposti alla
conoscenza accademica da grandi gruppi editoriali come Reed Elsevier che ha un
fatturato annuale superiore al miliardo di dollari, e un margine di profitti
intorno al 37%. Motivo per cui va montando l’opposizione a queste pratiche e
aumentano le iniziative tese a ribadire che di fatto “siamo tutti custodi della
conoscenza”. È in questo contesto che nasce Sci-Hub, fondato nel 2011 dalla ricercatrice kazaka
Alexandra Elbakyan, recentemente finita nell’occhio delle autorità Usa con
l’esplicita accusa di “pirateria”. Sci-Hub non è altro che una biblioteca
virtuale di circa 48.000.000 di saggi e articoli scientifici accessibili
attraverso un unico sito in maniera facile e veloce. Come spiega un lungo
articolo su Big Think, appropriatamente intitolato “Ecco il Robin Hood della scienza”,
in realtà Sci-Hub ricorre a vari algoritmi per aggirare i tipici paywall delle
riviste scientifiche e rendere in tal modo disponibile la conoscenza
scientifica a ricercatori, studiosi, esperti ma anche semplici curiosi e
cittadini al fuori del giro delle grandi università o centri specializzati
nord-americani che possono permettersi le cospicui tariffe e condizioni imposte
dagli editori. (Fonte: A. Zanni, www.chefuturo.it
29-02-16)
I CORSI DI LAUREA IN INGLESE
NEGLI ATENEI ITALIANI SONO ORMAI 245, IL DOPPIO DI DUE ANNI FA.
Il numero di studenti internazionali nel mondo è raddoppiato dal 2000
al 2013, e si moltiplicherà ancora per due entro la fine del decennio,
arrivando a un totale di 7 milioni di persone (vedi grafico). I più fortunati, ovviamente, sono i Paesi
anglofoni. Stati Uníti, Regno Unito e Australia da soli occupano un quarto del
mercato. Ma ci sono quasi 8.000 corsi universitari impartiti in inglese da
università che hanno sede in Paesi non anglofoni. Olanda e Scandinavia guidano
la classifica delle destinazioni con la percentuale più alta di lauree
interamente in inglese rispetto al totale. Si arriva al 38 per cento della
Danimarca ma, d'altronde, nel Nord Europa l'idioma britannico è una seconda lingua.
Ciò che colpisce, però, è il tasso di crescita dei Paesi mediterranei,
soprattutto l'Italia. Negli ultimi sei anni nelle nostre università il fenomeno
è esploso. Nella classifica Unesco sulla mobilità internazionale dei laureandi
(vedi grafico), l'Italia
è al decimo posto. Secondo il MIUR i corsi in inglese erano 143 nell'anno
accademico 2013-2014, oggi sono 245, quasi il doppio. Di pari passo è cresciuta
la quota dei laureati internazionali: sono oltre 10.000, concentrati negli
atenei del Centro-Nord e nelle discipline linguistiche, chimiche,
farmaceutiche, economiche, statistiche e mediche. Provengono in maggioranza da
Albania, Cina e Romania, ma anche da altri Stati occidentali, in particolare
Francia e Germania.
In Italia tra gli atenei pubblici, a spingere
sull'internazionalizzazione è soprattutto l'Università di Bologna, seguita da
Politecnico di Milano, Sapienza di Roma, Università e Politecnico di Torino,
Università di Padova. Qualcosa si muove anche nel Mezzogiorno: a Bari, Catania,
Napoli, Palermo e Salerno sono stati inaugurati i primi corsi in inglese. A un
anno dal conseguimento del titolo, dicono le statistiche di AlmaLaurea, chi
conosce le lingue e ha aderito ai programmi di mobilità internazionale ha il 20
per cento di probabilità in più di trovare un impiego. Per i bilanci delle
università gli stranieri sono un toccasana: gli atenei più
"internazionali" possono accedere a un premio, che ammonta al 7 per
cento del fondo di finanziamento ordinario erogato dal MIUR. In cima alla
classifica anche qui c'è l'Università di Bologna, che l'anno scorso ha
incassato oltre 9 milioni di euro. Merito, soprattutto, dei 5.800 studenti
internazionali sugli oltre 84.000 iscritti, e dei 33 corsi in lingua inglese
sui 209 totali. Il fiore all'occhiello dell'ateneo emiliano è il progetto Marco
Polo per studenti cinesi, ai quali ha riservato 754 posti per il prossimo anno
accademico. (Fonte: L’Espresso 17-03-16)


UN QUADRO DELL'UNIVERSITÀ IN POWERPOINT
Oltre a linkiesta.it (vedi alla voce VARIE)
anche Redazione Roars (17 marzo 2016) propone sette slide powerpoint per riassumere efficacemente la situazione
di finanziamenti, ruolo e situazione dei docenti dell’università italiana. Sette
motivi cardine che spiegano sommariamente quali sono i reali problemi del
sistema universitario nostrano e soprattutto mostrano un trend al peggioramento
che ha condizionato tutte le ultime amministrazioni, senza distinzione di
provenienza politica: si va dalla bassissima percentuale di laureati
all’eccellenza, poco gratificata, dei nostri ricercatori; dai tagli al Fondo di
Finanziamento Ordinario ai finanziamenti necessari per la Vqr, la Valutazione
della qualità della ricerca scientifica portata avanti dall’Anvur, che da sola
costa più del doppio di quanto concesso al settore ricerca per il quadriennio
2011 – 2014. Roars ci invita a mostrare liberamente le slide agli studenti. La
redazione di Informazioni universitarie ritiene prima di tutto di diffonderle
tramite il suo webmagazine. Le slide si possono scaricare da: Presentazione Inverno Università (Fonte: http://tinyurl.com/zbmzgow
18-03-16)
L’UNIVERSITÀ ITALIANA NON
PREPARA ADEGUATAMENTE PER IL LAVORO?
Le aziende, per non prendersi la colpa del fatto che non riescono più a
produrre ricchezza, hanno inaugurato il sistema ben noto dello scaricabarile:
la colpa non è nostra, dicono, ma – fra gli altri cattivi – della scuola e
dell’università, che non preparano i giovani per il lavoro. Allora, cosa vuol
dire che l’università non prepara per il lavoro? Vuol dire, nella mentalità
miope e meccanica di persone ignoranti, che non sforna individui già pronti per
essere impiegati in una precisa posizione miracolosamente indovinata fra le
migliaia possibili. Individui che, se la posizione disponibile dovesse essere
un’altra (o se dopo un po’ di tempo dovesse cambiare), sarebbero inadeguati.
No, non è di questo che c’è bisogno. Questo discorso è – almeno in gran parte –
un trucchetto rivolto da ignoranti a cui conviene (gli aziendali) a ignoranti
distratti (il pubblico) per spostare le responsabilità su chi non può
difendersi dalle accuse (gli insegnanti), perché le accuse sono formulate in
modo troppo vago e di fatto impossibile da verificare. Tutti sappiamo, ormai,
per l’esperienza di amici e conoscenti, oltre che per le statistiche serissime
dell’Unione europea, che i laureati italiani, se hanno la forza di abbandonare
questo Paese, e vanno – poniamo – in Inghilterra o ancor meglio in Germania,
trovano immediatamente lavoro; e si rivelano adeguati a produrre la molta
ricchezza che lì si produce. Vengono assunti perché sono preparati. E spesso
ottengono anche i cosiddetti benefit, come nel mondo del lavoro “vero”. La cosa
più emozionante per loro (a anche per me, a cui lo raccontano) non è nemmeno
trovare lavoro e quindi risolvere i loro problemi economici; è scoprire che
sono bravi. Se i nostri laureati non trovano lavoro in Italia ma lo trovano
facilmente all’estero, significa che i nostri laureati non sono ben preparati,
oppure invece che il nostro sistema economico non è capace di offrire lavoro?
Insomma, come si può dare la colpa all’università se i nostri laureati non
possono lavorare qui, ma possono presso aziende straniere? Come si può dire che
l’università italiana non prepara adeguatamente per il lavoro, se prepara
adeguatamente per lavorare proprio nei Paesi dove il lavoro è organizzato in
modo da produrre più ricchezza. La colpa, palesemente, non è dell’università
italiana, ma delle aziende italiane. O al massimo, se proprio vogliamo aiutarle
a scaricare il barile, della famosa legislazione italiana che tarpa le ali a
qualsiasi iniziativa. (Fonte: E. Lombardi Vallauri, www.rivistailmulino.it 04-03-16)
ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE
ASN. VARATE LE NUOVE REGOLE.
PARERE POSITIVO DEL CONSIGLIO DI STATO
Le nuove regole per l’abilitazione scientifica nazionale (“Regolamento
recante criteri e parametri per la valutazione dei candidati ai fini
dell’attribuzione dell’abilitazione scientifica nazionale e per l’accesso alla
prima e alla seconda
fascia dei professori
universitari, nonché le
modalità di accertamento
della qualificazione dei Commissari ... ”) hanno ottenuto il via del
Consiglio dei Ministri. La riforma era appena slittata dal 28 febbraio scorso,
data entro la quale era stata fissata la nuova abilitazione. Il nuovo sistema,
i cui parametri dettagliati saranno indicati in due decreti ministeriali in
arrivo nelle prossime settimane, prevede la procedura «a sportello», cioè la
possibilità di presentare la domanda di abilitazione durante tutto l’anno e non
più, come accadeva in precedenza, solo in determinati periodi fissati dal Miur.
Il sistema di accertamento della qualificazione scientifica è necessario per
accedere alla prima e alla seconda fascia della docenza universitaria. La
durata dell’abilitazione passa da 4 a 6 anni. La valutazione della candidatura
scende da 5 a 4 mesi, di cui 3 per i lavori della commissione e 1 per la
verifica di atti e pubblicazione dei risultati (e comunque, non deve superare i
5 mesi). Novità anche per quanto riguarda le commissioni. Sul testo è
pervenuto, seppure con qualche osservazione (http://tinyurl.com/jlp48r5), il parere
positivo del Consiglio di Stato (Sezione consultiva per gli atti normativi) in
merito ai criteri e ai parametri per la valutazione dei candidati nonché in
ordine alle modalità di accertamento della qualificazione dei commissari. Tutti
all’insegna dell’opportunità di una maggiore semplificazione dell’ordito
normativo, tre sono i rilievi fondamentali avanzati dai giudici di Palazzo
Spada. Innanzitutto, si osserva che se il meccanismo dei valori-soglia appare
garantire adeguatamente la valutazione qualitativa dei candidati,
l’oggettività, la certezza e la trasparenza, esso risulta però delineato nel
decreto con una serie di rimandi da disposizione a disposizione tali da
pregiudicare la chiarezza del disposto normativo, e da ingenerare difficoltà
applicativa e contenzioso. In secondo luogo, si sottolinea che, essendo
l’attività di docenza, per definizione, un elemento qualificante del
curriculum, essa deve essere adeguatamente valorizzata, così da evitare che il
suo svilimento possa comportare, a parità di valore scientifico e di ricerca, l’esclusione
di un candidato che, a differenza di un altro ammesso, ha esercitato preclara
attività di insegnamento. Da ultimo, si stigmatizza la scelta, mantenuta ferma
dal MIUR, di demandare a un successivo decreto la fissazione dei valori-soglia.
(Fonte: Redazione Roars 07-03-16; R. Tomei, Il Foglietto 10-03-16)
CLASSIFICAZIONI DEGLI ATENEI
NUOVO RANKING DELLE 200
UNIVERSITÀ TOP IN UE PUBBLICATO DALLA RIVISTA INGLESE TIMES HIGHER EDUCATION
Tra le migliori dieci università d’Europa (v. tabella), estrapolate dal
World University Ranking stilato da Times Higher Education, ben 7 si trovano
nel Regno Unito, che conquista il podio intero con gli istituti di Oxford,
Cambridge e l’Imperial College of London. Nella top ten c’è spazio anche per
Svizzera (Istituto di Tecnologia di Zurigo), Svezia (Karolinska Institute) e
Germania (LMU Munich). Tutte le migliori istituzioni britanniche si trovano ai
vertici (7 tra le prime 10) con Oxford, Cambridge, Imperial College London e
London School of Economics and Political Science a dettare legge. La prima
presenza non britannica in classifica è l’ETH di Zurigo, un istituto federale
di tecnologia, al quarto posto. Svetta anche l’inserimento al 10° posto del LMU
di Monaco.
L’Italia riesce a piazzare la Scuola Normale Superiore di Pisa al 50°
posto (v. tabella), seguita dalla concittadina Scuola Superiore Sant’Anna
distanziata di 40 posizioni. Le uniche due università italiane presenti nel top
100 sono dunque toscane. Le altre italiane quotate nel nuovo ranking – frutto
di un aggiornamento della classifica mondiale già diffusa nel 2015 – sono
l'università di Trento (tra la posizione 100 e la 110), il Politecnico di Milano
e l’Università di Bologna (tra la 110 e la 120), la Sapienza di Roma (tra la
120 e la 130), l'università di Padova e di Trieste (tra la 141 e la 150),
l'università di Milano e di Torino (tra la 150 e la 160), la Federico II di
Napoli e l'università di Pavia (tra la 160 e la 170), l'università di Firenze,
di Milano Bicocca, di Verona (tra la 170 e la 180), il Politecnico di Torino
(tra la 180 e la 190) e gli atenei di Modena e Reggio Emilia, Roma Tor Vergata,
Roma 3 (tra la posizione 190 e la 200). Qui la
classifica completa (Fonte: A. Tripodi, IlSole24Ore 10-03-16; www.uninews24.it 10-03-16; www.termometropolitico.it 16-03-16 )


DOCENTI
LE ORE DI DIDATTICA DEI
DOCENTI UNIVERSITARI
Sono stati diffusi dall’ANVUR (Agenzia nazionale di valutazione del
sistema universitario e della ricerca) i dati relativi alla didattica 2014-2015
nelle università italiane, elaborati sulla base della Scheda unica annuale dei
corsi di studio (SUA-CDS). I docenti universitari italiani insegnano,
mediamente, 120 ore l'anno, svolgendo 162.218 attività didattiche della durata
media di 38 ore ciascuna. Inoltre, la media ore più alta riguarda gli
insegnanti dell'Area Ingegneria industriale e dell'informazione (130,6 ore),
quella più bassa Scienze politiche e sociali (107,3 ore). In media, infine,
nelle università del Nord s'insegna 6-7 ore in meno rispetto al Centro-Sud.
(Fonte: P. Ferrario, Avvenire 19-03-16)
RISPOSTE
SU LOCALISMO E NEPOTISMO ACCADEMICO
I referee italiani sono
anonimi e il meccanismo delle amicizie scientifiche vale né più né meno in
tutto il mondo. Vogliamo analizzare qualche progetto europeo? Ne vedremmo delle
belle. Non è vero che il calo delle risorse corrisponde al calo del personale.
Sai benissimo cosa sono i costi standard e sai benissimo che il FFO non copre
nemmeno i costi standard. Ma perché fai finta di niente? L'ultimo piano di
reclutamento è stato fatto così, perché così ha voluto il ministero, che ha
destinato la maggior parte delle risorse al ”piano associati", una specie
di sanatoria per i ricercatori "vecchio ordinamento" di cui la
Gelmini si era dimenticata, persone senza le quali l'Università, come didattica
e ricerca, avrebbe chiuso. Il localismo dei professori non c'entra una beata
mazza. E lo sai. Il nepotismo accademico, cioè il desiderio di vedere premiati
i propri collaboratori bravi e che se lo meritano, vige in tutto il mondo, con
meccanismi diversi, non ci trovo nulla di strano. Il problema è che in Italia
le regole cambiano continuamente e le conseguenze per i bilanci dell’università
che fanno reclutamento sono incerte. Intanto, dovresti sapere che, per legge,
il 20% del reclutamento deve essere di esterni, e questo è a regime dal tempo
della Gelmini. (Fonte: A. Rotondi, risposte a permalink, noisefromamerika
19-02-16)
CI SONO ALTRI PANEBIANCO IN
ITALIA. IL FOGLIO È ANDATO A CERCARLI E A PARLARE CON LORO
All'Università di Bologna, alcuni giorni fa, sono tornati e hanno
tentato nuovamente di impedire di tenere lezione ad Angelo Panebianco,
professore ordinario che insegna Sistemi internazionali comparati e Teorie
della pace e della guerra alla Scuola di Scienze Politiche. Ma stavolta i
contestatori sono stati respinti da un cordone di carabinieri. Il politologo
aveva già interrotto le lezioni due volte il mese scorso, affrontato e accusato
di essere un "guerrafondaio" per i suoi articoli sul Corriere della
Sera. Manifesti contro la "casta guerrafondaia", come recita il
tazebao dei collettivi, sono stati appesi negli studi dei docenti che hanno
espresso solidarietà a Panebianco, la cui libertà di espressione e di
insegnamento (e forse non solo) viene oggi garantita da agenti in borghese
posti a sua protezione. D. Meghnagi su Il Foglio del 19 c.m. ritiene che la
"colpa" imperdonabile di Panebianco sia la sua posizione fuori dal
coro di quelli che in modo esplicito, o nascosto, non hanno mai in realtà
accettato l'esistenza di Israele. Panebianco sarebbe "colpevole" per
avere denunciato in modo inequivocabile il boicottaggio contro le università
israeliane come una forma di antisemitismo. E aggiunge: “L'idea che, in uno dei luoghi simbolo della cultura
occidentale, un docente debba fare lezione protetto della polizia, ha qualcosa
d'inquietante e sinistro”.
Ma il caso Panebianco non è isolato nelle università italiane. Per
motivi diversi, ma sempre in nome di un odio ideologico, ci sono numerosi docenti
minacciati e aggrediti nella logica dei cento contro uno e del proporre come
soluzione per chi dissente il silenzio, le accuse astiose, i fanatismi
aggressivi. Siamo andati a cercarli e a parlare con loro, si legge nell’articolo
di G. Meotti su Il Foglio del 17 c.m., da cui riprendiamo alcuni passi. E siamo
partiti, scrive Meotti, da quegli intellettuali, giuristi, economisti che hanno
fatto del "lavoro" il tema della loro vita, frequentando aule
universitarie, convegni, uffici studi di Confindustria, fondazioni, governi.
"Se hanno dato una tutela a Panebianco dopo le aggressioni all'università,
immaginiamoci cosa significhi per chi si occupa dei diritti del lavoro dopo
Ezio Tarantelli, Gino Giugni, Massimo D'Antona e Marco Biagi".
A parlare così al Foglio è Michele Tiraboschi, erede scientifico di
Biagi, allievo, amico e collega del professore di diritto del Lavoro
assassinato dalle Brigate Rosse il 19 marzo di quattordici anni fa a Bologna.
Ed è proprio da Bologna che Tiraboschi, autore di "Morte di un
riformista", è stato costretto ad andarsene dopo l'assassinio di Biagi.
Ancora oggi, dopo quattordici lunghi anni, Tiraboschi è sotto scorta da parte
del ministero dell'Interno. Un professore universitario costretto a fare
lezione protetto dalla polizia dal 2002. "Scrivere editoriali sui giornali
di un certo tipo, fare consulenza per il governo, redigere progetti sul lavoro,
è possibile oggi soltanto grazie alla tutela delle forze dell'ordine".
E non c'è soltanto Tiraboschi. Succede, come al professor Carlo
Dell'Aringa dell'Università di Milano, che arrivino minacce di morte in facoltà
per la sua partecipazione al Libro bianco del mercato del lavoro.
Numerosi esperti del lavoro arrivati alla politica dal mondo
accademico, come Filippo Taddei, devono oggi muoversi con la scorta (Pietro
Ichino è un altro).
L'editorialista del Corriere della Sera Angelo Panebianco non è stato
il primo docente minacciato all'Università di Bologna. Era già successo al
pedagogista Andrea Canevaro, studioso mite e stimato, ma "colpevole"
di aver tenuto corsi per le forze dell'ordine.
Al professor Giacomo Cao, docente di Ingegneria all'Università di
Cagliari, hanno riempito i muri della sua facoltà di slogan tipo: "Fuori i
militari dalle università" e "non lasciare in pace chi vive di
guerra". La "colpa" del professor Cao è di essere il presidente
del Dass, il Distretto aerospaziale sardo. "Ma hanno individuato un
bersaglio assolutamente sbagliato, perché il Distretto aerospaziale sardo non
ha attività progettuali legate al mondo militare”.
Il professor Paolo Macry, docente di Storia contemporanea dell’Università
Federico II di Napoli, non avrebbe mai pensato che i collettivi avrebbero fatto
un blitz per contestargli, come a Panebianco, un articolo sul Corriere della
Sera. "A cosa si oppongono gli episodi di conflittualità esplosi
ultimamente a Napoli?" - aveva scritto Macry nel Corriere del Mezzogiorno
- "A una soluzione del problema dei rifiuti. Alla messa a profitto
dell'area di Bagnoli. Allo sviluppo del turismo di massa. Alla costruzione di
centrali elettriche. Alle trivellazioni in Campania. Ovvero a ogni ipotesi di
accrescimento della ricchezza locale".
Al professor Franco Battaglia, docente di Ingegneria all'Università di
Modena, è bastato partecipare una volta alla trasmissione "Anno Zero"
di Michele Santoro per ricevere la denigrazione pubblica di Beppe Grillo e
diventare un appestato. “La cosa peggiore del linciaggio di Grillo è stato dire
che io stavo mentendo perché pagato dalle multinazionali”, dice il docente e
prosegue: ”La mia automobile è stata presa a sassate. Viviamo in un clima in
cui non puoi esprimere liberamente, davvero, il tuo pensiero". Fra le
lettere ricevute dal professor Battaglia, alcune recitano: "Sei una
persona indegna di respirare". "Lei è una vergogna per il mondo
accademico italiano e per la sua famiglia".
C'è una professoressa che ha pagato caro le proprie idee su Israele. Si
tratta di Daniela Santus, che ben prima di Angelo Panebianco ha dovuto tenere
lezione protetta dai blindati della polizia in quella grande città laica, fiera
del suo stampo democratico e antifascista, che è Torino. La bacheca centrale
dell'Università è stata decorata da proteste contro la "Santus
sionista", così come lo studio di Panebianco è stato imbrattato con la scritta
"Free Palestine" dagli antagonisti. "Sono semplicemente una
professoressa di Geografia" racconta Santus al Foglio e aggiunge: “Persino
alla presenza del preside stesso Santus fu minacciata di subire
"contestazioni" durante le lezioni future se avesse osato continuare
a parlare d'Israele. "Alcuni colleghi - pochi per la verità - mi offrirono
solidarietà, altri no. Un collega si chiese addirittura come io - docente
razzista - potessi insegnare e firmò l'appello per togliere la possibilità di
parola agli israeliani presso l'Università di Torino".
Conclude l’articolo di Meotti: “Basterebbe rientrare nei ranghi, non
parlare di flessibilità nel mondo del lavoro, scrivere editoriali
ideologicamente corretti sul Corriere della Sera, elogiare l'eolico anziché
l'atomo, praticare l'equidistanza sul Medio Oriente. Allora, forse, il gregge
accademico ritornerebbe mansueto, i colleghi di facoltà nuovamente loquaci e
non ci sarebbe più alcun timore quando si scende di bicicletta, sotto casa,
mentre si cercano le chiavi. L'ultima cosa che fece Marco Biagi”, prima di
essere “giustiziato” a Bologna. (Fonte: G. Meotti, Il Foglio 17-03-16; D. Meghnagi, Il Foglio 19-03-16).
DOTTORATO
DOTTORI DI RICERCA. PERCHÈ
PREFERISCONO EMIGRARE
Alla base della mancata valorizzazione delle risorse umane più
qualificate prodotte dal nostro sistema formativo ci sono alcuni tratti che
caratterizzano il nostro Paese, rilevati in più occasioni dalle Indagini AlmaLaurea: tra
questi, una forte prevalenza di piccole e micro imprese a gestione familiare, specializzate
in settori a medio basso contenuto tecnologico, e il forte ritardo nei tassi di
scolarizzazione della popolazione adulta, che si riscontra anche tra i manager.
Tratti ai quali si associa una ridotta propensione delle imprese ad investire
sia in capitale umano sia in R&S: nel 2012, in Italia, le risorse destinate
a quest’ultima erano pari all’1,25% del prodotto interno lordo nazionale,
contro il 3,80% della Finlandia, il 2,89% della Germania. Non stupisce perciò
che in Italia la percentuale di dottori di ricerca sia nettamente più bassa che
nel resto d’Europa: su mille abitanti, la Finlandia ha 3,7 dottori di ricerca,
la Germania 2,6, l’Italia solo 0,6. Considerando i soli cittadini italiani, i
dottori di ricerca che scelgono di cercare lavoro all’estero sono pari al 10%,
contro il 5% registrato tra i laureati magistrali del 2014. Il 74% dei dottori
di ricerca, fin dal conseguimento del titolo, dichiara di ritenere di avere
maggiori opportunità professionali all’estero, percentuale che sale all’81% tra
i dottori dell’area delle scienze di base, al 78% tra gli ingegneri e al 76%
tra i colleghi delle scienze della vita; sotto la media si posizionano i
dottori degli indirizzi delle scienze umane (73%) e delle scienze economiche,
giuridiche e sociali (58%). Ma perché i dottori di ricerca scelgono l’estero?
Hanno guadagni più elevati dei loro colleghi che sono rimasti in Italia: 1.420
euro netti mensili contro i 2.124 percepiti da chi emigra oltreconfine. Certo
su questo interviene anche il diverso costo della vita, ma la differenza appare
comunque elevata. Utilizzano in maggior misura le competenze acquisite durante
gli anni di studio: il 72% dei dottori trasferitisi all’estero ritiene che il
titolo sia efficace per il lavoro svolto, contro il 55% dei colleghi occupati
in Italia; Hanno maggiori possibilità di svolgere attività di ricerca: il 52%,
contro il 21% che resta entro i confini nazionali, lavora come ricercatore, o
docente universitario. (Fonte: www.almalaurea.it 15-02-16)
FINANZIAMENTI
ANDAMENTO
ANNUO DEL FINANZIAMENTO DEI PROGETTI D’INTERESSE NAZIONALE (PRIN) NELL’ULTIMO
DECENNIO
Nella figura è mostrato
l’andamento annuo del finanziamento dei progetti d’interesse nazionale (PRIN)
nell’ultimo decennio. Poiché in alcuni anni i bandi PRIN non sono stati emanati
e poiché la loro copertura temporale è variata da due a tre anni, abbiamo
calcolato per ogni anno il finanziamento effettivo facendo la somma dei
contributi dei vari bandi (chiaramente per il 2017 e 2018 si tratta di dati
provvisori). Inoltre i valori del finanziamento sono stati anche adeguati
all’inflazione (in blu mentre in rosso sono i valori originali). Si vede subito che ci
sono due regimi: prima e dopo il ministero Gelmini. Prima i finanziamenti erano
biennali e consistevano mediamente in più di 100 milioni l’anno; dopo c’è stato
un calo drastico di più della metà. I ministeri Profumo, Carrozza e Giannini
non hanno eliminato il taglio effettuato dal ministro Gelmini, ma anzi hanno
ulteriormente diminuito il finanziamento. (Fonte: F. Sylos Labini, Roars
19-02-16)

NON SI RIESCE A FARE LA
SPENDING REVIEW? IL CASO DELL’UNIVERSITÀ RAPPRESENTA UNA PARZIALE SMENTITA
Si dice che in Italia non si riesca a realizzare la spending review. Il
caso dell’università rappresenta una parziale smentita. Parziale, perché
certamente c’è stata minor spesa: un taglio fortissimo; ma è assai dubbio che
ci sia stata e ci sia, miglior spesa. Le vicende degli ultimi anni
dell’università italiana non sono facili da ricostruire: sono leggibili solo
mettendo insieme tanti numeri, tanti decreti, tante decisioni tecniche
estremamente complesse. Ma se si traduce tutto questo materiale in una
fotografia d’insieme (come si è provato a fare nel volume «Università in
declino. Un’indagine sugli atenei italiani da Nord a Sud», Donzelli Editore),
emergono con chiarezza grandi scelte che sono state compiute e grandi
interrogativi che ne scaturiscono; sia sul futuro delle università sia, più in
generale, sulle prospettive della ricerca scientifica e della formazione
superiore nel nostro paese. Almeno due sono le scelte di fondo che sono state
compiute, che è possibile documentare, e che aprono grandi questioni. In primo
luogo, tutti i dati mostrano che l’Italia ha compiuto a partire dal 2008 un
forte disinvestimento sull’università. L’istruzione superiore italiana è
diventata, in pochi anni, più piccola di un quinto: di tanto si sono ridotti
gli studenti, i docenti, il personale tecnico-amministrativo, i corsi di
laurea, i finanziamenti. Un taglio molto maggiore rispetto a qualsiasi altro
ambito dell’intervento pubblico. Una dinamica che non ha riscontri negli altri
paesi, avanzati e emergenti: che, a partire dalla Germania hanno aumentato in
misura rilevante il proprio investimento nell’università. (Fonte: G. Viesti,
corriere.it 09-03-16)
I
FINANZIAMENTI ALLA RICERCA DELL’EUROPEAN RESEARCH COUNCIL (ERC)
Uno sguardo ai primi 7 anni di
attività dell’ERC aiuta a farsi un'idea della situazione. L'ERC ha finanziato
complessivamente circa 4.300 progetti, 407 dei quali vinti da ricercatori con
passaporto italiano. Di questi solo 229 sono stati portati in Italia. Significa
che i rimanenti 178 vincitori "italiani" o si trovavano all'estero o
hanno scelto di trasferirvisi per sviluppare il proprio progetto. Infine, in
questo periodo l'Italia ha accolto solamente 24 ricercatori da altri paesi. Un
confronto con la Francia, paese a noi simile per demografia e reddito, mostra
che dei 498 finanziamenti ottenuti da studiosi "francesi", ben 417 sono
rimasti nel paese. La Francia ospita inoltre 154 progetti di studiosi
non-nazionali. Tra i paesi grandi, con cui dovremmo ambire a confrontarci,
svetta il Regno Unito che ha un totale di 969 progetti, di cui 433 fanno capo a
ricercatori non-nazionali. Riassumendo: l'Italia trattiene appena il 56 per
cento dei fondi vinti dai suoi ricercatori nazionali, contro il 64 per cento
della Germania, l'84 della Francia, l'88 del Regno Unito. Il quadro peggiora se
si considera che, a fronte del deflusso, il paese attrae pochissimi cervelli: i
progetti gestiti da non-nazionali sono il 10 per cento in Italia, contro il 30
per cento di Francia e Germania, il 45 del Regno Unito.
Fino al 2015, secondo un
decreto del 2011 i vincitori degli Starting Grant dell’ERC potevano entrare nelle
università italiane con una chiamata diretta come ricercatori a tempo
determinato o come professori associati. Con un decreto firmato il 28 dicembre,
però, il MIUR ha stabilito che i vincitori di uno Starting Grant potranno
essere chiamati nelle università italiane solo come ricercatori a tempo
determinato, cioè con contratti triennali non rinnovabili, riservati a chi ha
usufruito di assegni di ricerca o di borse post-dottorato. Tre anni, senza
possibilità di rinnovo, ma con un meccanismo di tenure track, un successivo (ma
non obbligatorio) inserimento come professore associato se ottengono
l'abilitazione e l'ateneo delibera a favore. (Fonte: F. Lippi, Il Foglio
23-02-16; V. Della Sala, FQ 23-02-16)
FINANZIAMENTI ERC. IL 45%
DEGLI ITALIANI LI HA VINTI IN TRASFERTA
Al contrario di quanto spesso si legge, le misure ad hoc per premiare i
vincitori ERC e per attrarre docenti dall’estero sembrano funzionare, anche
perché sono nel complesso le più generose in Europa. Dal 2013 al 2015, per
esempio, 85 vincitori di progetti dello European Research Council (ERC) e altri 144 titolari in università straniere
hanno usufruito della possibilità di essere chiamati direttamente. A questi si
aggiungono i 72 vincitori del programma Rita Levi Montalcini, giovani studiosi in
gamba che in tre anni possono guadagnarsi un posto di ruolo come professori
associati. Qual è il problema, allora? È che dal 2007 al 2015 i vincitori di
progetti ERC di nazionalità italiana sono stati 555, ma di questi il 45% già
lavorava all’estero quando ha presentato domanda e all’estero in linea di
massima è rimasto. Qui si misura la differenza (in negativo) con altri paesi: i
britannici che vincono in trasferta sono appena il 13%, i francesi il 16%. Di
più i tedeschi (35%), ma molti stranieri optano per la Germania e quindi il
saldo finale è vicino al pareggio. Prevedibilmente, quindi, la gran parte delle
chiamate dirette e dei posti Montalcini riguarda studiosi italiani, non
stranieri, e così il lessico e la retorica del “rientro” rimpiazzano quelli
dell’attrazione e del libero scambio. (Fonte: A. Schiesaro, www.ilsole24ore.com 10-03-16)
ENTI DI RICERCA. STANZIAMENTI
IN CALO
La legge di stabilità ha assegnato agli enti pubblici di ricerca
vigilati dal MIUR, peraltro riproducendo una separazione incomprensibile quanto
odiosa con il resto degli enti di ricerca, 8 milioni di euro per il 2016 e 9
milioni di euro per il 2017 corrispondenti all’assunzione di 215 ricercatori.
Sarebbe opportuno che si spiegasse una volta per tutte, quale discrimine sia
rispetto all’esigenza di finanziamento della rete della ricerca pubblica di
questo Paese, essere vigilati dal MIUR piuttosto che da altri ministeri. Sempre
più appare evidente l'urgenza di aprire una discussione politica sulla
necessità di una governance unitaria della Ricerca. Vale la pena chiarire
subito che si tratta in ogni caso del recupero di una goccia nel mare di tagli
commisurati alla Ricerca sia alla capacità assunzionale – al 25% per i tecnici
e al 60% per i ricercatori – sia al fondo di finanziamento ordinario - 6
milioni sottratti solo quest'anno -. All’indomani dell’approvazione della legge
di stabilità avevamo già commentato questo stanziamento come poco meno di un’elemosina
se paragonato non solo alle esigenze del sistema ma all’enorme messe di
incentivi alle imprese che rappresentano la vera ossatura degli “investimenti”
delle leggi di stabilità 2015 e 2016. Solo gli sgravi per le assunzioni nei
settori privati associati alla riduzione dell’IRAP ammontano a 15 miliardi di
euro che diventeranno 25 miliardi nel 2017 erogati a pioggia in settori per lo
più difficilmente valutabili come strategici per il futuro del Paese. E’ bene
avere in mente questi numeri perché deve essere chiaro che le risorse erano e sono
disponibili. Ma l’elemosina per gli enti di ricerca è tale non solo se
paragonata alle risorse distribuite al referente principale dell’idea di
sviluppo del governo in carica, ma anche a quelle assegnate per lo Human
Tecnopole di Milano all’IIT, fondazione di diritto privato finanziata
direttamente dal ministero del tesoro. Di fatto, con questo stanziamento, si
investono le risorse sottratte negli ultimi anni agli Enti di Ricerca in un
polo su cui la comunità scientifica già nutre molti dubbi, in diretta
concorrenza con le infrastrutture esistenti. (Flc Cgil, 03-03-2016)
LAUREE – DIPLOMI - FORMAZIONE POST LAUREA – OCCUPAZIONE
I CORSI DI LAUREA PIÙ
REDDITIZI
AlmaLaurea ha elencato quelli che si reputano i corsi di studio più
redditizi. Si elencano di seguito tutte quelle facoltà e gruppi disciplinari
che prevedono, a un anno dalla conclusione degli studi, un’occupazione uguale o
superiore al 50% degli studenti (il valore, in percentuale, viene calcolato
sulla base del numero di matricole iscritte a quel determinato corso di studi):
1 - Medicina (84,1%)
2 - Scienze Motorie (73,5%)
3 - Insegnamento (71,7%)
4 - Ingegneria (67,5%)
5 - Lingue (57,8%)
6 - Scienze Politiche (57,7%)
7 - Economia/statistica (55,7%)
8 - Agraria/Veterinaria (54,2%)
9 - Architettura (54,1%)
10 - Facoltà Scientifiche (52%)
(Fonte: www.thegraduateschronicle.it 09-03-16)
NUOVI PERCORSI TRIENNALI
PROFESSIONALIZZANTI
Secondo le recenti stime pubblicate dal Cedefop (Centro europeo per lo sviluppo
della formazione professionale), da qui al 2025 nasceranno nuove opportunità
occupazionali per oltre 2 milioni di profili tecnici intermedi, tra cui la
quota più significativa nel campo dell'ingegneria. Stando all'indagine sulle
previsioni di assunzione delle imprese italiane realizzata da
Unioncamere-Exclesior, tra 2011 e 2015, la quota di laureati richiesti per
profili tecnici è passata dal 42% al 50%, molti dei quali saranno difficili da
trovare. La risposta a questa esigenza espressa dal mondo delle imprese è
quella delle lauree triennali professionalizzanti. La riforma è ormai in rampa
di lancio e potrebbe vedere la luce già dal prossimo anno accademico. La
promessa è arrivata da Gaetano Manfredi, presidente della CRUI, per il quale
non ci sono dubbi: «Il sistema universitario è pronto per costruire un percorso
triennale professionalizzante strutturato per un terzo come formazione formale,
per un terzo come formazione tecnica e per un terzo on the job. Questo non
significa creare una brutta copia dell'esistente, ma costruire un triennio che
sia davvero formativo, con una governance composta non solo dai professori
universitari, ma in maniera paritetica dai rappresentanti del mondo del lavoro
e delle professioni». Una disponibilità in questo senso è arrivata anche dalla
politica. Secondo Mila Spicola, consulente tecnica del MIUR, «la convergenza
verso questo modello è ormai completa e per cercare di non perdere altro tempo
si potrebbe iniziare da un progetto pilota a partire da alcuni profili professionali».
In questo quadro si colloca il progetto del Consiglio nazionale dei periti
industriali, che punta a creare un percorso accademico triennale a misura di
professione tecnica anche rendendo più professionalizzanti e coerenti con la
nuova domanda di competenze i percorsi formativi universitari. (Fonte: M.
Longoni, ItaliaOggi 18-03-16)
L’OVEREDUCATION FRA LE CAUSE DELLA “FUGA DEI
CERVELLI”
“La fuga
dei cervelli c'è ed è dovuta all'overeducation e alla scarsa attenzione delle
istituzioni verso la ricerca". Carolina Brandi, ricercatrice Irpps-Cnr,
l'Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali, una delle
maggiori esperte italiane sull'emigrazione dei cervelli, ha le idee chiare
sulle cause e che spingono in suoi colleghi a fare le valigie verso i paesi di
tutto il mondo e l'impatto sull'economia del nostro Paese di queste scelte. Che
idea si è fatta in 20 anni di ricerche sul tema dell'emigrazione dei
ricercatori italiani all'estero? "Può certamente accadere che un
ricercatore, in alcuni momenti del suo percorso professionale, ritenga
opportuno lasciare il proprio paese per lavorare in un’istituzione straniera
nella quale abbia maggiori possibilità di ottenere risultati migliori. Questo
fenomeno è presente in tutto il mondo. Invece, se l'emigrazione è dovuta al
fatto che nel proprio paese i ricercatori non riescono a trovare un lavoro
adatto alla propria qualificazione, che non hanno risorse adeguate per i propri
progetti né possibilità di carriera, allora questi flussi migratori non sono più
equilibrati ed il flusso in uscita supera, a volte anche di molto, quello in
entrata. Questo fenomeno è stato riconosciuto nei primi anni '60 dalla Royal
Society inglese e definito "brain drain" ("fuga dei cervelli”).
I nostri studi mostrano chiaramente che questo fenomeno è proprio quanto si
verifica nel caso dell'Italia: anche se il numero dei ricercatori che lasciano
il nostro Paese non è facile da determinare con esattezza. Inoltre, mentre i
non molti ricercatori stranieri che vengono a lavorare in Italia tornano quasi
sempre in patria dopo qualche tempo, gli scienziati italiani che vanno
all'estero in grande maggioranza non tornano più. Ci spiega il significato di
overeducation da lei citato? "Il concetto di overeducation (o
"sottoccupazione" o “brain waste”) è stato introdotto da Freedman nel
1976 per indicare l'impiego in un’attività che non richiede le competenze
acquisite con il titolo di studio che si possiede. Dall'indagine condotta nel
2012 dall'ISFOL tra coloro che nel 2006 hanno conseguito un dottorato di
ricerca in Italia e lavorano nel nostro Paese, è risultato che quasi la metà
dei dottori intervistati non svolgeva attività di ricerca. Il fenomeno dell’emigrazione
permanente dei dottori di ricerca italiani è collegato a quello dell'alta percentuale
di overeducation tra quanti tra loro restano in Italia Nel caso italiano, è
indispensabile ridurre l'incidenza dell'overeducation". In che modo?
"Le opzioni possibili sono solo due: o si interviene sul sistema
produttivo per riconvertirlo verso produzioni a maggiore tasso di innovazione,
o si riduce l'offerta formativa disponibile”. (Fonte: C. Brandi intervistata da
F. Intravaia, La Repubblica 25-02-16)
IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE DI CHI HA CONSEGUITO UNA
LAUREA TRIENNALE È PARI AL 26,5%
Nonostante
la laurea triennale sia comunque un traguardo che merita rispetto, non basta
per poter entrare con successo nel mercato del lavoro: le aziende, spinte anche
dalla crisi, ricercano sempre più spesso personale specializzato e dotato di
qualifiche migliori. Questo spinge chi è in possesso di una laurea breve ai
margini del mercato occupazionale, non consentendogli di trovare un posto di
lavoro. Questo è quanto emerso dalla ricerca annuale condotta da AlmaLaurea,
secondo la quale il tasso di disoccupazione degli studenti che hanno preso una
laurea triennale è pari al 26,5%: un crollo verticale che preoccupa molto,
soprattutto perché l'aumento rispetto alle rilevazioni dello scorso anno è
stato di 3,5 punti percentuali. Lo stesso discorso può essere fatto per i
fortunati possessori di una laurea triennale che hanno trovato lavoro: in
questo caso, ad essere in calo sono purtroppo gli stipendi. (Fonte: http://www.sardegnalive.net/it 25-02-16)
L'«EXPORT»
ITALIANO DELLE BUSINESS SCHOOL
Medio Oriente, Africa, India,
Cina, Sudamerica: le business school italiane hanno nuovi orizzonti. Si veda al link della fonte. (Fonte: G. A. Fiertler, http://tinyurl.com/j2hb3dc
23-02-16)
DUE TRA
I PRIMI 100 ECONOMISTI AL MONDO RESTANO IN ITALIA MA CON STIPENDI DI 1.300-1.400 EURO AL MESE
Da sette anni si barcamenano tra i rinnovi
degli assegni di ricerca e sono due tra i cento migliori giovani economisti al
mondo. Per stipendi che vanno da 1.300 a 1.400 euro al mese. E presto saranno
costretti a lasciare l’Italia se vorranno continuare a fare ricerca, visto che
gli assegni non sono più rinnovabili. A meno che qualche università non
proponga loro un contratto regolare. Federico Belotti e Andrea Piano Mortari,
39 anni tutti e due, sono ricercatori al Centre for Economic and International
Studies (Ceis) dell’Università di Roma Tor Vergata, guidato da Vincenzo Atella.
Entrambi hanno sviluppato software innovativi per l’analisi dei dati economici,
scaricati migliaia di volte in tutto il mondo. Federico è entrato nel top 100
del sito Ideas Repec da qualche mese, piazzandosi al 48° posto. Andrea da poche
settimane è all’80° posto tra i migliori cento economisti la cui prima
pubblicazione risale a non più di cinque anni fa. Gli italiani presenti nelle
due classifiche sono in tutto 13 (sei nella prima, sette nella seconda). Ma
oltre ai ricercatori di Tor Vergata, solo altri due sono rimasti in Italia (uno
alla Banca d’Italia, l’altro alla Statale di Milano). I restanti all’estero,
espatriati tra Inghilterra e Stati Uniti. Diverse istituzioni e università
all’estero hanno proposto ai due economisti Andrea e Federico contratti e
stipendi che farebbero gola a chiunque, ma loro per il momento hanno preferito
restare in Italia. (Fonte: L. Baratta, www.linkiesta.it
25-02-16)
ISTRUZIONE. CONTINUA A RESTARE
BLOCCATO L’ASCENSORE SOCIALE
Da tempo non sembra più funzionare il meccanismo che fino a qualche
decennio fa permetteva, grazie all'istruzione, di migliorare il proprio status
sociale d'origine. L'ennesima dimostrazione arriva dal Rapporto AlmaDiploma:
ancora una volta, dati alla mano, a condizionare il percorso dei giovani dopo
il conseguimento del diploma di scuola superiore sono la condizione
socio-economica della famiglia e il grado di istruzione dei genitori. A dire il
vero questo condizionamento appare già nella scelta della stessa scuola
superiore: la gran parte di chi si iscrive al tecnico o al professionale, al termine
degli studi sceglie di entrare subito nel mondo del lavoro. E a farlo sono
figli di genitori con minor scolarità e redditi bassi. Infatti in base al
Rapporto 2016 di AlmaDiploma, che ha indagato un campione di 15mila ragazzi su
una popolazione di oltre 100mila studenti di 300 scuole superiori, il 75% degli
studenti liceali prosegue negli studi universitari, mentre si scende al 37% per
quelli dei tecnici e addirittura solo al 15% tra i diplomati degli istituti
professionali. Il commento del presidente di AlmaDiploma Mauro Borsarini
sottolinea come «i dati Ocse parlano di un'Italia fanalino di coda nell’Ue per
numero di diplomati e laureati, a cui si aggiunge il fenomeno di coloro che tra
i 15 e i 29 anni non sono né occupati, né impegnati in percorsi formativi: il
26%, dieci punti in più della media europea». (Fonte: E. Lenzi, Avvenire
26-02-16)
PROFESSIONISTI CHE POSSONO
PARTECIPARE ALLE ASSOCIAZIONI TRA AVVOCATI
Ministero della Giustizia - Decreto 4
febbraio 2016, n. 23 (in G.U. n. 50 del 1° marzo 2016; in vigore dal 16 marzo
2016) - Regolamento recante norme di attuazione dell'articolo 4, comma 2, della
legge 31 dicembre 2012, n. 247, per l'individuazione delle categorie di liberi
professionisti che possono partecipare alle associazioni tra avvocati. (Fonte:
LexItalia.it 01-03-16)
IN MENO DI DIECI ANNI LA
FORMAZIONE UNIVERSITARIA NEGLI STUDI GIURIDICI SI È RIDOTTA DI PIÙ DI UN TERZO
Gli immatricolati nei corsi di studio delle lauree magistrali in
Giurisprudenza (LMG/01) – lauree che costituiscono titolo necessario per
l’avvocatura, il notariato e la magistratura – erano 28.837 nell’anno
accademico 2006/2007, 19.257 nell’a. a. 2014/2015. Complessivamente, sommando
il numero di immatricolati ai corsi per le lauree triennali di scienze
giuridiche e di scienze dei servizi giuridici nonché per le lauree magistrali,
nel 2006/2007 si iscrivevano a corsi giuridici 34.817 studenti. Nel 2014/2015
sommando magistrali e triennale in scienze dei servizi giuridici si arriva a
22.150. In meno di dieci anni la formazione universitaria negli studi giuridici
ha perso 12.667 immatricolati, cioè si è ridotta di più di un terzo.
Gli studi giuridici sono in calo per una “bolla formativa”: essa
consiste nell’eccesso di formazione giuridica a cui si è assistito nei decenni
passati, che ha causato un eccesso di risposta alla domanda del mercato con un
conseguente abbassamento dei costi che infine ha reso le professioni giuridiche
meno appetibili. Un’altra possibile causa sarebbe la contrazione della pubblica
amministrazione italiana. Gli studi giuridici vedrebbero, infatti, tra i più
naturali approdi lavorativi quelli all’interno delle amministrazioni dello Stato.
Esiste una terza possibile spiegazione. E’ plausibile pensare che i giuristi
siano oggi, nella società contemporanea e in particolare in Italia, figure meno
prestigiose e autorevoli del passato? In una società che pare magnificare altri
saperi, il diritto e la giustizia hanno ancora un ruolo di primo piano? Se il
diritto ha perso prestigio, quale responsabilità hanno i giuristi che sono oggi
all’opera? Infine un’ultima ipotesi è rintracciata nell’inadeguatezza della
formazione giuridica. La proposta è quella di riconfigurare gli insegnamenti
sulla scorta delle esigenze pratiche dei futuri giuristi sacrificando
l’acquisizione di alcuni contenuti al fine di aumentare l’acquisizione di abilità.
Una buona mediazione tra queste esigenze si avrà dal prossimo anno accademico
nell’Università degli studi di Palermo ove si prevede che i corsi di laurea
magistrale in Giurisprudenza si avviino verso una formula 4+1 in cui i primi
quattro anni insistono in un corso tradizionale e l’ultimo anno in corsi
formanti in determinate aree del sapere giuridico. (Fonte: R. Caso, Roars
14-02-16; A. Cannizzaro, http://www.iostudionews.it/sulla-crisi-degli-studi-giuridici/
27-02-16)
IL PRESTIGIO DELLE PROFESSIONI
È stato presentato il «Rapporto annuale sull’avvocatura» realizzato dal
Censis per Cassa Forense. In sintesi, i risultati del rapporto. Ai primi posti
nella classifica delle professioni d’eccellenza secondo gli italiani si
collocano i medici (il 37% ha attribuito il punteggio massimo su una scala da 1
a 10), seguiti dai magistrati (25%), i professori universitari (19,5%), i notai
(17%), gli ingegneri (15%), gli imprenditori (15%) e i dirigenti d’azienda
(13%). Politici (9%), avvocati (9%) e dirigenti di banca (8%) occupano la metà
della classifica, mentre in coda figurano commercialisti (5%) e geometri (4%).
Per il 16% degli italiani il prestigio della professione forense è aumentato
nel corso degli ultimi anni, per il 47% è rimasto invariato, per il restante
37% è invece diminuito. Dal Rapporto CENSIS emerge con sorpresa che
secondo i ¾ degli italiani il nostro sistema giudiziario non garantisce
pienamente la tutela dei diritti dei cittadini; per quasi il 60% la situazione
negli ultimi anni è anche peggiorata rispetto al passato; oltre il 50% degli
italiani ha addirittura dichiarato di aver rinunciato alla tutela di un proprio
diritto per la scarsa fiducia che ripone nel sistema giudiziario. (Fonte: http://www.ilquotidianodellapa.it
09-03-16)
LICEI MUSICALI E COREUTICI A
RISCHIO
Nate a partire dal settembre 2010, queste scuole, i licei musicali e
coreutici, vera novità della riforma Gelmini, oggi sono quasi 200, distribuite
su tutto il territorio nazionale. Sino ad ora, soprattutto nei licei musicali,
hanno insegnato o docenti provenienti dalle scuole medie (in termine tecnico
gli «utilizzati») o docenti precari e non abilitati assunti come supplenti
annuali, spesso grazie a bandi basati soprattutto sul merito artistico. Ebbene,
in questi giorni sono uscite due norme che rischiano, con il loro combinato
disposto, di lasciare a casa tutti questi insegnanti, costringendo i licei
musicali e coreutici a ripartire da capo azzerando quello stesso personale che
li ha costruiti. Le norme in questione sono il DPR n. 19/2016 sulle Classi di
concorso e l’indizione del concorso a cattedre. Peccato che al concorso a
cattedre possano partecipare solo i docenti che sono in possesso di
abilitazione all’insegnamento. Ma non coloro che sono già di ruolo. Ma essere
abilitati è impossibile, perché le classi di concorso appena pubblicate (cioè
gli insegnamenti per cui si può fare domanda) sono nuove e nessuno può averle
(per i musicali: teoria, analisi e composizione, tecnologia musicale, strumento
musicale negli istituti di istruzione secondaria di secondo grado, storia della
musica; per i coreutici: tecnica della danza moderna e contemporanea; pianista
accompagnatore). E i docenti che sono già di ruolo e hanno insegnato in questi
anni al musicale hanno, sì, la possibilità di acquisire automaticamente
l’abilitazione nelle nuove classi di concorso e chiedere il trasferimento alle
superiori; peccato, però, che nelle procedure di mobilità in vigore (la nuova
ordinanza ministeriale è attesa a giorni), la precedenza sia data ai vincitori
dei concorsi. Insomma, un paradosso. Per i coreutici poi il DPR sulle classi di
concorso fa registrare assurdità altrettanto significative: non esiste una
classe di concorso specifica per storia della danza; sono state eliminate le
ore di accompagnamento alle lezioni di tecnica della danza per i pianisti
accompagnatori (previste solo per i laboratori coreutici e coreografici), è
stata introdotta la possibilità di insegnare le tecniche e il repertorio
(laboratorio coreografico) anche ai diplomati del corso di composizione
coreografica, per i quali non è previsto un piano di studi in cui sono presenti
le discipline specifiche per le docenze nei licei. Ma questo disastro era
evitabile? La risposta è sì. Ma non lo si è voluto evitare. (Fonte: A.
Tosolini, www.rivistailmulino.it 08-03-16)
RECLUTAMENTO
LE RADICI DEL “LOCALISMO” NEI
CONCORSI
È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un
“foresto” vincere fuori sede: basta scorrere qualche regolamento autonomo sulle
procedure di concorso per rabbrividire. «Non è dei nostri», e «noi», per
definizione, ne abbiamo così tanti di bravi, perché cercare altrove? Invece nei
paesi di cui si decanta (giustamente) la capacità di reclutare giovani
brillanti da tutto il mondo, molti italiani inclusi, ai concorsi partecipano
decine quando non centinaia di concorrenti. Il numero, forse, sta crescendo un
poco anche in Italia, e per legge almeno il 20% dei professori neoassunti deve
ora provenire da fuori sede. I vecchi vizi, però, sono duri a morire. Fino al
2010 esisteva il famigerato “medaglione”, una descrizione così dettagliata del
profilo richiesto che, come la scarpina di Cenerentola, poteva calzare solo al
vincitore in pectore. La riforma ha imposto che come profilo sia indicato
“esclusivamente” il settore scientifico-disciplinare del concorso. Risultato?
Nella casella “diritti e doveri” molte università hanno fatto rientrare dalla
finestra ogni sorta di dettaglio necessario per restringere il campo dei
concorrenti, a spregio della legge e talora anche del ridicolo. Contendibilità
e mobilità, in poche parole, non vanno ancora di moda. Il problema non sono gli
incentivi e le misure speciali: sono l’ostinazione a ragionare in termini di
“scuole” granitiche, la bramosia di vedere al proprio posto non un successore,
ma un erede. Perfino la soluzione è parte del problema: è triste dover imporre
per legge, o sostenere con gli incentivi, la mobilità degli studiosi e delle
idee, cui le università dovrebbero aspirare con entusiasmo senza farselo dire.
Una volta, quando i concorsi erano pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale
cartacea, andava di moda mandarli in stampa sotto Natale o verso Ferragosto,
per scoraggiare i ficcanaso. Oggi basterebbe mettere i bandi anche su
jobs.ac.uk per moltiplicare le domande, e alcuni atenei italiani già lo fanno.
(Fonte: A. Schiesaro, www.ilsole24ore.com 10-03-16)
LE POSSIBILITÀ DI ASSUMERE
RICERCATORI NEGLI ATENEI
I primi provvedimenti che hanno inciso sulle possibilità di assumere
delle università, le hanno bloccate per le sedi con un rapporto superiore al
90% fra spese di personale e Fondo di Finanziamento Ordinario, e consentite per
le altre. Poi sono stati introdotti blocchi e limitazioni complessive del
turnover del personale. Nel 2012, tuttavia, il ministro Profumo ha reso tali
limitazioni diverse fra sede e sede, legandole ad indicatori di natura
finanziaria nei quali – per la prima volta – era anche considerato il gettito
della tassazione studentesca. Nel 2013 il ministro Carrozza ha poi eliminato il
tetto massimo, che era vigente, di recupero del turnover: consentendo così ad
alcune sedi di superare il 100% (nuove assunzioni maggiori dei pensionamenti),
mentre per altre il valore era inferiore al 20%. L’insieme delle disposizioni
ha prodotto così politiche assunzionali assai sperequate; dato il rilevante
ruolo giocato dalla tassazione studentesca (strettamente legata al reddito
procapite dei territori di insediamento), tale sperequazione ha assunto anche
carattere territoriale. Ad esempio nel 2012-14 il turnover medio è stato del
38,7% negli atenei del Nord, del 24,2% al Centro, del 19,9% al Sud e del 15,4%
nelle Isole; oltre il 100% per Catanzaro e Sant’Anna di Pisa; inferiore al 20%
per 18 atenei del Centro-Sud e per Udine.
Il comma 248 della legge di Stabilità, così come proposto dal Governo e
non emendato dal Parlamento, innova ancora una volta questi criteri, e
stabilisce che in questo caso “l’assegnazione alle singole università è
effettuata (…) tenendo conto dei risultati della valutazione della qualità della
ricerca (VQR)”. Vediamo ora come il ministro Giannini ha applicato questa
norma. Il decreto stabilisce in primo luogo che a ciascun ateneo spettano
risorse pari a due ricercatori, allocandone così 132. Il Ministro “tiene conto”
poi della VQR assegnando tutti gli altri ricercatori (729) in base ad essa (in
particolare per il 75% in base all’indicatore Irfs1 e per il 25% in base
all’indicatore Iras3).
Tali criteri allocativi determinano una ulteriore sperequazione fra
sedi, come è possibile verificare grazie ad una precisa elaborazione realizzata
dall’Unione degli Universitari (http://www.unionedegliuniversitari.it/piano-ricercatori-poche-assunzioni-e-aumento-divario-nord-sud/
), che rapporta i nuovi ricercatori per ciascuna sede sia al totale del
personale docente in servizio nel 2015, sia alla riduzione avvenuta fra il 2010
e il 2015. La distorsione è duplice. In primo luogo il primo criterio (2 per
sede) premia oltremisura gli atenei di dimensione più piccola. Ad esempio si ha
un incremento di personale pari al 7,9% per l’Università per Stranieri di
Perugia e del 6,2% per la Sant’Anna di Pisa, a fronte di un incremento medio
pari all’1,8%. La seconda allocazione, come tutte quelle effettuate sulla base
dei dati che si riferiscono alla VQR 2004-10, ha un forte effetto fra
circoscrizioni e fra sedi. Tali dati penalizzano particolarmente le università
del Centro-Sud. Gli atenei del Nord, infatti, ottengono un numero di nuovi
ricercatori pari al 14,8% della riduzione di personale registrata fra il 2010 e
il 2015; percentuale che scende intorno al 9,5% al Centro-Sud (e intorno al 6%
per i grandi atenei di quell’area). Bologna, la sede cui sono allocati più
ricercatori, recupera il 13,5% della riduzione 2010-15 (50 su 371);
Roma-Sapienza, seconda nell’assegnazione, recupera solo il 6,1% (47 su 766).
(Fonte: G. Viesti, in base a Elaborazione UDU, tratta da: http://tinyurl.com/glr8gyk
01-03-16)
IL
RIPARTO DEI NUOVI POSTI PER RICERCATORI (RTDB)
Il modello di riparto delle
nuove risorse (861 RTDb) è basato - così prevede il decreto firmato dal
ministro Giannini - su due specifici indicatori: la valutazione della qualità
della ricerca (pesa per il 75%) e le politiche di reclutamento (25%) così come
valutate dalle pagelle dell'ANVUR. Gli effetti? 409 ricercatori di «tipo b»
andranno alle università del Nord, 206 alle università del Centro, mentre solo
245 verranno assunti nelle università del Sud. L'impatto medio di questo piano
ricercatori sarà dell'1,80% rispetto all'attuale organico di ordinari,
associati e ricercatori, con percentuali che variano dall’1,18% dell'università
di Messina al 3,14% dell'Orientale di Napoli (equivalente in realtà a 5 Rtd-b).
Dal 2010 a oggi - calcola l'Udu - sono stati persi nelle università ben 7503
tra ricercatori, professori associati e ordinari, che non sono stati sostituiti
a causa dei tagli, della critica ripartizione dei punti organico, e del blocco
del turnover. Se si guarda meglio all'impatto del piano sul numero di docenti
persi dagli atenei si nota - avverte ancora lo studio dell'Udu - come al Nord
si “ammortizzerà” il calo dei docenti degli ultimi 5 anni per il 14,76%. Questo
rapporto è del 9,62% nelle università del Centro e del 9,49% nelle università
del Sud. Questa percentuale arriva addirittura a percentuali drammatiche nelle
Isole: 7,6% a Cagliari, 6,35% a Palermo, 5,4% a Catania, 4,98% a Messina.
(Fonte: M. Bartoloni, www.ilsole24ore.com 24-02-16)
DECRETO MINISTERIALE SUI
PROGRAMMI DI RICERCA DI ALTA QUALIFICAZIONE PER LE CHIAMATE DIRETTE
Il Decreto Ministeriale 28
dicembre 2015 n. 963 sui programmi di ricerca di alta qualificazione
per le chiamate dirette è stato trasmesso alla Corte dei conti per il controllo
preventivo di legittimità e al competente Ufficio Centrale di Bilancio per il
controllo preventivo di regolarità contabile. Il decreto identifica i programmi
di ricerca di alta qualificazione, finanziati dall’Unione europea (UE) o dal
Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR), i cui
vincitori possono essere destinatari di chiamata diretta per la copertura di
posti di professore di ruolo di I e di II fascia e di ricercatore a tempo
determinato da parte delle università ai sensi dell’articolo 1, comma 9, della
legge 4 novembre 2005, n. 230, e successive modificazioni.
Tra i suddetti programmi ad alta qualificazione sono compresi i
programmi di ricerca finanziati dall’UE (ERC grants). In proposito si segnala
un commento di “abcd” su Roars (13 marzo 2016): “Un vincitore di grant può
usarlo per pagarsi lo stipendio secondo standard europei, dove usualmente si
riconosce anche che sta facendo un maggior lavoro. A meno che uno non abbia
motivi familiari, non ha senso usare un grant per entrare in un inquadramento
italiano. Il ministero avrebbe dovuto, a costo zero, lasciare libertà per il
tempo della durata del grant. Invece, imponendo inquadramenti non
concorrenziali, l’Italia continuerà ad essere l’unica anomalia da cui fuggono
il 50% dei vincitori di grant, e che non attrae nessuno dall’estero”.
LE UNIVERSITÀ TELEMATICHE NON
POSSONO SVOLGERE CONCORSI IN DEROGA ALLE DISPOSIZIONI PER GLI ATENEI PUBBLICI
Con la sentenza n. 1575 del 2015 il Tar Lombardia, sez. Milano, ha
annullato una procedura di valutazione comparativa bandita dall’Ecampus per un
1 posto di ricercatore universitario a tempo determinato (ai sensi dell’art.
24, co. 3, lett. a, l. n. 240/2010), poiché l’art. 4 del contestato bando di
concorso prevedeva una Commissione giudicatrice composta da un solo docente
universitario e da altri due soggetti non appartenenti alla comunità
accademica. Analoga decisione è stata adottata in un ulteriore caso, avente
ancora una volta ad oggetto un bando di concorso dell’Università Ecampus
dichiarato illegittimo (cfr. Tar Lombardia, Milano, sez. III, 20.7.2015, n.
1749).
I Giudici amministrativi lombardi hanno ricordato che le “università
telematiche rilasciano titoli di studio legalmente riconosciuti, e non
sussistono disposizioni speciali e derogatorie per tali istituzioni quanto al
reclutamento dei professori e dei ricercatori” (Tar Lombardia, Milano, n.
1749/2015 cit.). In altri termini, le richiamate pronunce hanno riconosciuto
che la regola fondamentale che presiede alla formazione di una qualsiasi
Commissione giudicatrice di un concorso è quella che i suoi membri debbano
essere idonei a valutare i candidati in relazione alle funzioni che aspirano a
svolgere; necessario e – sin troppo – ovvio corollario è che il futuro
personale docente e ricercatore delle università “debba essere selezionato da
commissioni formate dagli stessi componenti la comunità universitaria” (Tar
Lombardia, Milano, n. 1575/2015 cit.). (Fonte: Lettera a Redazione Roars
11-03-16)
RICERCA. RICERCATORI
861 POSTI DI RICERCATORE
Il
decreto del 18 febbraio scorso (decreto
ministeriale n. 78/2016) dà il disco verde per
l’attivazione di 861 posti di ricercatore a tempo determinato tipo b, che
diventeranno perciò nel complesso oltre 1500, dato che presso le nostre
università ce ne sono in servizio già 700. Del totale di 861 posti, 132 posti
sono stati suddivisi equamente fra le 66 università statali (2 posti per
ciascuna università) e gli altri 729 posti sono stati ripartiti “in base al
valore degli indicatori relativi alla VQR – valutazione della qualità della
ricerca complessiva (peso = 75%) e della VQR relativa alle politiche di
reclutamento (peso = 25%), che sono stati utilizzati ai fini della ripartizione
della quota premiale del FFO 2015”. Gli Atenei maggiormente premiati sono
Bologna (48+2 posti) e “Sapienza” di Roma (45+2 posti). Forte il distacco di
queste università rispetto a tutti gli altri atenei: Padova, Milano, “Federico
II” di Napoli e Torino, che seguono in classifica, hanno avuto ciascuno un
numero complessivo di nuovi ricercatori compreso tra 31 e 39 (Padova 39, Milano
34 e Napoli Federico II 32). Le università localizzate nel Sud e nelle isole a
parità di dimensione hanno quasi sempre un numero di posti molto basso. Gli
effetti della valutazione sull’allocazione delle risorse cominciano dunque a
farsi sentire in maniera pesante. Degna di nota è l’ultima prescrizione del
decreto, in base alla quale, nel caso in cui i predetti ricercatori, avendo
conseguito l’abilitazione scientifica nazionale e avendo ricevuto la valutazione
positiva dei loro atenei, accedano alla posizione di professore di seconda
fascia, lo stanziamento previsto dal decreto copre anche il cofinanziamento del
costo per il passaggio di fascia. Secondo l’Udu, a conti fatti, l’impatto medio
di questo piano ricercatori sarà dell’1,80% rispetto all’attuale organico di
ordinari, associati e ricercatori, con percentuali di recupero dei posti persi
che variano tra gli atenei, con la costante, però, di svantaggiare quelli del
Mezzogiorno. (Fonte: R. Tomei, ilfoglietto.it 25-02-16)
PROGETTO “HUMAN TECHNOPOLE ITALIA 2040”
L’area
che ha ospitato l’Expo di Milano 2015 sarà nuovamente un cantiere, stavolta per
divenire un centro di ricerca e cura di altissimo profilo a livello nazionale e
internazionale: il progetto “Human Technopole Italia 2040”. “E’ una sfida
complicata e difficile, ma ciò che sta accadendo è che dopo anni di ambizioni
al ribasso la possibilità di avere il meglio viene finalmente messa in
cantiere”, ha commentato il premier Matteo Renzi durante la presentazione del
progetto messo a punto negli ultimi 3 mesi da un team d’esperti coordinati
dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova (IIT) insieme alle tre
università milanesi (Statale, Politecnico e Bicocca). Sette centri di ricerca,
specializzati in tre macro aree (medical genomic, neurogenomica, agri – food e
nutrition genomic), un polo che impiegherà 1.500 risorse tra ricercatori,
scienziati, studenti, tecnici e amministrativi, per una spesa annua stimata in
150 milioni di euro. Un progetto ambizioso, ma che ha bisogno di un progetto a
lungo termine per concretizzarsi in tutte le sue potenzialità: “Ci serve una
legge di finanziamento stabile, nessuno verrà sapendo che ci sono le risorse
solo per un anno – ha commentato il presidente dell’Istituto italiano di
tecnologia, Roberto Cingolani –. Servono poi tempi certi per la logistica e un
masterplan per l’intera aera Expo, affinché questo diventi un attrattore
internazionale, serve il campus della Statale, impianti che attirino le
aziende”. Dubbi cui Matteo Renzi ha provato a rispondere immediatamente:
“Cingolani vuole una data zero; tre mesi fa questo era un sogno, oggi è un
progetto e tra tre mesi sarà un cantiere – ha spiegato il premier – primi 150
milioni sono già entrati in un decreto legge, la stabilità decennale dei
finanziamenti c’è e siamo pronti a renderla legge”. (Fonte: www.corriereuniv.it
25-02-16)
1500 NUOVI RICERCATORI AL PROGETTO DI HUMAN
TECHNOPOLE, 861 ALLE UNIVERSITÀ
Al
progetto di HUMAN Technopole andranno 1,5 miliardi di euro e 1500 nuovi
ricercatori. Gestiti da una fondazione IIT diretta da un direttore, Roberto
Cingolani, che potrà operare fuori dalle regole che università e organismi di
ricerca pubblici devono invece seguire: bilanci non pubblicati, bandi per la
selezione di personale non pubblicati, contratti e consulenze non note. Un
centro di ricerca IIT che, come scrive la senatrice a vita Elena Cattaneo in un
durissimo articolo (vedi nota successiva), in questi anni ha ricevuto preziose
risorse pubbliche che vengono stanziate dal governo di turno “senza accorgersi”
che in buona parte sono accantonate in un tesoretto (legale ma illogico) che
oggi ammonterebbe a 430 milioni. Risorse pubbliche per la ricerca “dormienti”
depositate presso un fondo privato.
Nel
frattempo i rettori delle università italiane, in cambio di 30 milioni l’anno
per tre anni e 861 RTDB, proclamano la giornata dell’università e si impegnano
a rintuzzare con tutte le armi possibili la variegata protesta #stopvqr.
Ovviamente tutti o quasi hanno rassicurato il ministro e l’ANVUR riaffermando
la loro volontà di essere sottomessi (sì sì, proprio questo è il verbo da
usare; come gli addetti sottomettono i loro prodotti alla VQR) a valutazione. E
hanno tacitamente rassicurato che non solleveranno certo la questione che la
valutazione sia svolta con metodi che non hanno uguali nel mondo, viziata da
errori che stanno sui libri di testo undergraduate da oltre trent’anni. (Fonte:
Redazione Roars 25-02-16)
LA SCIENZA ALL’EXPO. UNA NOTA
DI ELENA CATTANEO, PROFESSORE ORDINARIO E SENATORE A VITA
“E mentre la
ricerca agonizza, spunta lo Human Technopole. Il presidente del Consiglio lo ha
tirato fuori dal cilindro mesi fa definendolo “centro di ricerca mondiale su
sicurezza alimentare, qualità della vita, ambiente” e affidandone (alla cieca)
la gestione all’Istituto italiano di Tecnologia (Iit) di Genova, fondazione di
diritto privato. Per cui, mentre i ricercatori pubblici nemmeno sanno se
esisterà un bando Prin 2016, un ente di diritto privato avrà garantiti 150
milioni di euro all’anno per dieci anni (ma allora le risorse ci sono!). Lo
stesso a cui sono erogati da anni (sono già oltre 10) 100 milioni all’anno.
Preziose risorse pubbliche che vengono stanziate dal governo di turno “senza
accorgersi” che in buona parte sono accantonate in un tesoretto (legale ma
illogico) che oggi ammonterebbe a 430 milioni. Risorse pubbliche per la ricerca
“dormienti” depositati presso un fondo privato. Il progetto sul post-Expo è
l’esempio più emblematico, tra i tanti possibili, delle distorsioni per fini
politici, dell’improvvisazione e di come non si dovrebbero gestire i fondi
pubblici per la ricerca. Un finanziamento top-down che crea una nuova corte dei
miracoli (a prescindere che si chiami Iit) presso la quale c’è già chi si è
messo a tavola”. (Fonte: Elena Cattaneo, “Human Technopole, la
scienza all’Expo e la favola del pifferaio”, La Repubblica 25.02.2016)
LA
RICERCA NON È UN HOBBY
Nei mesi scorsi, al fine di
negare l'estensione della DIS-COLL (ammortizzatore sociale per i precari) agli
assegnisti e borsisti di ricerca, il ministro del Lavoro Poletti e persino il sottosegretario
all'Istruzione Faraone avevano fatto delle dichiarazioni shock: a loro avviso,
quello degli assegnisti e delle altre categorie di precari della ricerca non
andrebbe considerato un vero e proprio lavoro, quanto piuttosto un contratto di
formazione (anche se Faraone aveva subito fatto marcia indietro).
Per contrastare quest'idea,
l'Associazione Internazionale dei Ricercatori Italiani (AIRI), ha raccolto le
testimonianze di molti ricercatori e inviato una lettera al Ministro Poletti, al fine di
rimarcare un messaggio chiaro: la ricerca è un lavoro, #dihobbynehoaltri.
(Fonte: uninews24.it 23-02-16)
I PRECARI DELLA RICERCA: 66.097
Secondo i dati MIUR del 2014 il numero di borsisti, assegnisti,
ricercatori a contratto e consulenti, tutti con contratti in scadenza, ammonta
a ben 66.097 a fronte dei 51.839 ricercatori di ruolo, professori associati e
ordinari. Il Coordinamento nazionale ricercatrici e ricercatori non strutturati
ha raccolto dati su un campione di 1.200 non strutturati in tutti i
macrosettori della ricerca. La ricerca stima che i soli assegnisti,
espressamente pagati per fare ricerca, abbiano fornito nella loro carriera un
contributo gratuito pari al lavoro di tutti i dipendenti della regione Piemonte
per 2 anni. I precari sono essenziali per lo svolgimento degli esami, seguono i
tesisti, si occupano di mansioni amministrative e di incarichi all’esterno per
l’università (perizie, formazione, consulenze). Ma, soprattutto, insegnano. Il
coordinamento stima che gli attuali assegnisti italiani hanno tenuto lezione in
corsi di cui non sono titolari per una quantità di ore che è pari a 10,6 volte
tutta l’offerta formativa dell’università di Milano Statale. I non strutturati
censiti dal sondaggio hanno concluso mediamente da 5 anni il dottorato di
ricerca e da allora hanno già lavorato 10 mesi gratuitamente, senza alcuna
certezza per il loro futuro. Hanno scritto progetti (mediamente 7 nella propria
carriera), eseguito consulenze per l’università (14 in media), partecipato a
gruppi di ricerca stranieri (6 in media), pubblicato (mediamente 25 tra
articoli, libri, curatele, atti di convegni) e realizzato brevetti (2 in
media). Hanno lavorato mediamente 55 ore a settimana, spesso costretti a
trascurare proprio ciò per cui sono realmente pagati, ossia la ricerca: l’80% dichiara
di fare fatica a fare ricerca proprio perché spesso impegnato in attività
didattiche e amministrative. Peraltro la situazione italiana viola apertamente
quanto sancito dalla Carta Europea dei Ricercatori. La Commissione europea, che
eroga i fondi per la ricerca, pretende che gli assegnisti siano inquadrati come
lavoratori. L’Unione europea pretende che gli assegnisti abbiano un contratto
di lavoro, altrimenti non è disposta a finanziare neppure i bandi già vinti. Su
questo punto c’è un contenzioso tra il MIUR e l’Unione europea. (Fonte: E.
Ciccarello, FQ Scuola 29-02-16)
PIANO
NAZIONALE PER LA RICERCA (PNR)
Oltre ai 60 milioni promessi
all’INFN, Giannini ha rilanciato il «piano nazionale per la ricerca» (PNR): 2,5
miliardi di fondi nazionali e dieci fino al 2020. Si direbbe tutto bene. In
realtà le cose non sono messe benissimo. Annunciato un anno fa, il PNR è una
scommessa che punta a prendere 8,8 miliardi dal programma Ue Horizon, 2,2 dai POR
regionali, il resto va conquistato con i progetti sui quali l’Italia ha dato
pessima prova di sé. Questi soldi andranno alle aree Agrifood, Aerospazio,
Design Creatività, Made in Italy, Chimica Verde o «Smart Communities», energia,
mobilità e trasporti. Settori con immediata ricaduta industriale, non ricerca di
base, e tanto meno umanistica. (Fonte: R. Ciccarelli, ilmanifesto.info
23-02-16)
PROGRAMMA NAZIONALE DELLA
RICERCA (PNR) 2015-2020
Il piano dovrebbe valere - come evidenziato dal premier - 2,5 miliardi
subito. A tanto ammontano, infatti, i fondi contabilizzati da qui al 2017 tra
stanziamenti già presenti nel bilancio del Miur (1,9 miliardi) e i 500 milioni
della quota nazionale del Fondo sviluppo coesione che sono rimasti in forse
fino all’ultimo. Per la verità, il valore complessivo sarà ancora più elevato. E
superare, tra risorse nazionali e comunitarie, i 13,5 miliardi. Ma se le prime
sono pressoché certe, perché riguardano la dotazione dei vari fondi che
finanziano la ricerca (il FOE degli enti, il FFO delle università e poi FIRST e
FISR) e in genere vengono rinnovate dalle varie stabilità, le seconde sono
tutte da intercettare. In ballo tra programmi operativi regionali e Horizon
2020 ci sono 9,4 miliardi da qui al 2020. Per ottenerli tutti l’Italia dovrà
assestarsi su un tasso di aggiudicazione dei progetti comunitari del 10 per
cento. Un risultato tutt’altro che scontato considerando che l’ultimo
aggiornamento risalente al 30 ottobre 2015 ci dava al 7,8%: su quasi 12
miliardi finanziati, quelli coordinati da un team italiano hanno incassato poco
meno di 1 miliardo (940 milioni e 484mila euro). Come dire che tra il dare e
l’avere fino allora abbiamo versato alla ricerca europea 400 milioni in più di
quelli incassati. (Fonte: IlSole24Ore 03-03-16)
L’ITALIA
HA IL BILANCIO IN ASSOLUTO PIÙ SFAVOREVOLE TRA I “CERVELLI IN FUGA” (BRAIN DRAIN) E QUELLI PROVENIENTI
DALL’ESTERO (BRAIN GAIN)
Su 407 connazionali vincitori
di finanziamenti tra il 2007 e il 2013, solo 229 erano collegati a
un’istituzione con sede in Italia. E il quadro peggiora se si tiene anche conto
dell’incapacità del nostro sistema di attrarre scienziati stranieri: nei sette
anni considerati sono venuti a fare ricerca da noi appena 24 studiosi
dall’estero. Con un saldo negativo di oltre 200 studiosi, l’Italia risulta
quindi lo stato con il bilancio in assoluto più sfavorevole tra i “cervelli in
fuga” (brain drain) e quelli provenienti
dall’estero (brain gain): non solo
menti brillanti che scelgono di lasciare il nostro paese, ma anche fondi
importanti sottratti alla nostra ricerca per arricchire quella di altri paesi.
Anche per uno studioso contano lo stipendio, le prospettive di carriera e le
facilities: da noi ad esempio non c’è ancora il concetto di uno start-up
package, un pacchetto di misure e di condizioni da offrire al ricercatore per
invogliarlo a lavorare in Italia. Alla fine, quindi, in Italia viene solo chi
ha motivi personali per farlo. E non perché da noi la nostra ricerca non sia
buona. (Fonte: D. Mont D’Arpizio, IlBo 18-02-16)
EXPORT DI RICERCATORI
Ogni
anno, circa 3000 ricercatori italiani - dottori di ricerca che hanno conseguito
il titolo accademico - prendono la via dell'estero. L'Italia, tra i paesi
europei più industrializzati, esporta più ricercatori di quanti non ne importi
dagli altri paesi. Per il nostro Paese il saldo è negativo: meno 13,2 per
cento. In altre parole, perdiamo il 16,2 per cento di ricercatori fatti in casa
che si vanno a confrontare con i colleghi stranieri e riusciamo ad attrarre il
3 per cento di scienziati di altri paesi. Dal 2010 al 2020 perderemo 30.000
giovani talenti: con il dottorato di ricerca alle spalle lasceranno il nostro
paese per trovare soddisfazioni e lavoro all’estero, un esodo che ci costerà 5
miliardi. La conferma della gravità del problema viene dal “Forum della
meritocrazia”, che ha analizzato i risultati prodotti dalla legge
“controesodo”, la legge 238/2010 destinata a cittadini Ue laureati, nati dopo
il 1969, residenti nel nostro paese per almeno due anni e, in seguito,
residenti e con un’esperienza di lavoro all’estero per almeno altri due anni.
Nata nel 2010 da un’iniziativa bipartisan con l’obiettivo di far rientrare in
Italia i cervelli trasferitisi all’estero, si stima che abbia generato per il
periodo 2012 -2015 circa 500 milioni di euro di pil. La legge è stata
modificata nel 2015, con l’estensione ai nati prima del 1969, e ha visto
l’abbassamento dell’imponibile fiscale al solo 30%, riducendo fortemente
l’incentivo economico al rientro. “Il Forum propone che vengano ripristinati i
benefici fiscali originari o, in
alternativa, di realizzare nuove politiche per aumentare l’attrattività del
nostro paese”. (Fonte: W. Passerini, La Stampa Opinioni 26-02-16; grafica a
cura di Paola Cipriani – Visual, R.it)
Tab. 1 - Dal 2010 al 2020 l’Italia perderà circa
30.000 ricercatori costati agli italiani qualcosa come 5 miliardi, che
all’estero contribuiranno allo sviluppo economico di quei paesi.


Tab. 2 - ll confronto con
le nazioni europee. "Per molte altre nazioni europee le percentuali sono
invece in pareggio, come per la Germania, o positive come nel caso della
Svizzera e della Svezia (oltre il +20%), del Regno Unito (+7,8%) e Francia
(+4,1%). Perfino la Spagna, la cui economia non brilla certamente, ci tiene a
debita distanza con una perdita contenuta all'1%.

‘L’ITALIA STA PERDENDO GENERAZIONI DI RICERCATORI’
L’Italia
sta perdendo generazioni di ricercatori. La dura denuncia non arriva da una
persona qualsiasi, ma dal direttore del CERN Fabiola Gianotti. “In Italia – ha
detto la Gianotti in un messaggio video registrato dal Giappone – la formazione
universitaria è ottima e i nostri giovani sono fra i più dotati e non secondi a
nessuno a livello internazionale quando escono dalle università”. Tra gli
esempi virtuosi Fabiola Gianotti ha citato l’Istituto Nazionale di Fisica
Nucleare (INFN). “Il lato negativo – ha rilevato la scienziata italiana – è
però nel fatto che i nostri giovani non hanno speranze a lungo termine nel
nostro Paese e sono costretti a migrare”. Questo, ha detto ancora, “è un
peccato perché quando si perdono generazioni di scienziati è molto difficile
rimettere in piedi tradizioni di decenni.” (Fonte: www.piemontelife.it
25-02-16)
RICERCA. SITUAZIONE INVOLUTIVA
Nel 2010 erano circa 125.000 gli studenti che conseguivano il dottorato
in Europa. Ma quanto guadagna, di norma, un ricercatore in Europa? Prendiamo
come riferimento due università europee, una olandese e una italiana. Un
dottorando all’Università di Utrecht riceve una retribuzione lorda di 32.928
euro annui. Un dottorando alla Luiss di Roma percepisce un compenso lordo pari a
13.638 euro annui. L’Università di Utrecht è pubblica, la Luiss privata. Viene
da pensare che il settore pubblico olandese sia migliore persino
dell’eccellenza del nostro privato. A chi stia già pensando che il costo della
vita in Olanda è abbondantemente più alto di quello italiano, risponde
l’Eurostat posizionando l’Italia poco dopo l’Olanda, con 0,8 punti percentuali
in meno. Secondo quanto riporta l’OSCE (Organization for Security and
Cooperation in Europe), organizzazione regionale con circa 57 stati
partecipanti, tra cui Canada, Stati Uniti e Russia, l’Italia è all’ultimo posto
in Europa per quanto riguarda la spesa per l’istruzione pubblica. Allargando il
raggio, nemmeno l’Indonesia si posiziona tanto male. La percentuale della
nostrana ultima della lista conta un valore di 0,6 dottorandi ogni 1000
abitanti, contro i 3,8 della Finlandia. A questi dati scoraggianti, si
aggiungono quelli dei ricercatori precari. Più della metà. Un dato che ammonta
a 66.097 ricercatori precari, 15.000 in più rispetto ai ricercatori
regolarmente assunti e tutto questo in aperta violazione delle norme sancite
dalla The European Charter for Researchers, ovvero la Bibbia Europea dei
ricercatori. La Commissione Europea che eroga i fondi destinati alla ricerca
impone il ricercatore nello stesso inquadramento del lavoratore, con un
regolare contratto. Il contenzioso tra MIUR (Ministero dell’Istruzione) e l’UE
è aperto e incandescente. Gli scienziati hanno invitato l’UE a fare pressione
sul governo italiano affinché finanzi adeguatamente la ricerca. Lo scorso 4
febbraio, 69 scienziati italiani hanno scritto una lettera apparsa
sulla rivista scientifica Nature in cui si legge: “Oramai da decenni il CNR non
riesce a finanziare la ricerca di base,
operando in un regime di perenne carenza di risorse. I fondi per la
ricerca sono stati ridotti al lumicino. I PRIN (Progetti di ricerca di
interesse nazionale) sono rimasti inattivi dal 2012, fatta eccezione per alcune
piccole iniziative.”
In sostanza, l’Italia non solo tarda a rinnovarsi e ad investire sul
tema “ricerca”, ma addirittura subisce un’involuzione, auto-proclamandosi
membro onorario di un progressivo processo di atrofizzazione culturale.
Sul sito charge.org una petizione tenta di salvare la ricerca italiana,
per aderire vi basterà cliccare qui: http://tinyurl.com/h4zhxz3
.
(Fonte: M. Di Chiro, http://www.archeomolise.it/eventi/1011224-alla-ricerca-di-meno.html
03-03-16)
LA “CRISI DELLA RIPRODUCIBILITÀ” DELLA RICERCA
SCIENTIFICA
Alla base del metodo
scientifico c’è il concetto di riproducibilità. Perché il risultato di un
esperimento sia considerato scientificamente valido, è necessario che sia
descritto accuratamente, in modo tale che altri scienziati possano replicarlo e
verificarne il risultato. È in questo meccanismo di verifica continua che
risiede la forza della scienza come metodo di conoscenza del mondo.
In tempi recenti però il
sistema si trova ad affrontare quella che è stata battezzata una “crisi della
riproducibilità”: una parte sempre maggiore degli esperimenti riportati nelle
pubblicazioni scientifiche risulta, alla prova dei fatti, non replicabile.
Parliamo di percentuali elevatissime: uno studio di Brian Nosek pubblicato nel
2015, per esempio, ha preso in considerazione 98 articoli di psicologia,
riuscendo a riprodurne i risultati solo nel 39% dei casi. Nel 2011 Bayer ha
fatto sapere che i tentativi dei suoi laboratori di riprodurre esperimenti
farmaceutici falliscono nel 65% dei casi. E nel 2010 la rivista Lancet aveva
già calcolato che ben l’85% dei fondi destinati alla ricerca medica va sprecato
in esperimenti non riproducibili, e quindi del tutto inutili al progresso della
scienza. Le ragioni di questa crisi sono molteplici, ma dipendono in buona
parte dalla modalità massificata, parcellizzata e burocratizzata con cui si fa
ricerca oggi. Per combattere questo fenomeno è appena stata fondata una nuova
rivista scientifica – Preclinical Reproducibility and Robustness
– pubblicata, solo online e con libero accesso, dall’editore F1000Research. La
pubblicazione si pone l’obiettivo di dare pubblicità ai casi di mancata
riproducibilità degli esperimenti, ed è stata fondata dall’azienda
biotecnologica statunitense Amgen e dall’illustre biochimico Bruce Alberts.
L’idea della rivista è nata quattro anni fa, quando un ricercatore ha
pubblicato un articolo su Nature, in cui svelava che mentre lavorava per Amgen
aveva tentato di riprodurre i risultati di vari importanti studi sul cancro,
riuscendoci però soltanto in sei casi su 53. Alberts ha spiegato alla rivista
Science (di cui è stato editor-in-chief) che le normali pubblicazioni
scientifiche spesso non sono interessate a pubblicare i dati relativi a mancate
replicazioni, ritenuti poco interessanti rispetto a risultati innovativi. Ma
conoscere tempestivamente dati di questo tipo eviterebbe a molti ricercatori di
evitare sforzi in direzioni improduttive. (Fonte: M. Passarello, http://nova.ilsole24ore.com
21-02-16)
NEL
CAMPO DELLA PSICOLOGIA NON È VERO CHE QUASI IL 40 PER CENTO DEGLI STUDI NON
SONO RIPRODUCIBILI
Su una tra le più autorevoli
riviste scientifiche al mondo, Science, è stato pubblicato il 4 marzo un
articolo nel quale un gruppo di ricercatori ha contestato un altro articolo
uscito su Science la scorsa estate, che sosteneva che quasi il 40 per cento
degli studi che presentano nuove scoperte nel campo della psicologia non sono
riproducibili e di conseguenza non sono scientificamente attendibili.
L’articolo uscito la scorsa settimana è il frutto di una ricerca condotta da
tre docenti dell’università di Harvard e uno della University of Virginia, che
hanno analizzato le modalità con le quali era stato realizzato il primo studio,
scoprendo che in diversi casi i metodi utilizzati non erano scientificamente
validi. La tesi del nuovo articolo è che, al contrario di quanto sostenuto nel
primo, la maggior parte degli studi contemporanei di psicologia sono
riproducibili. (Fonte: http://www.ilpost.it 15-03-16)
L'UNIONE
DEGLI UNIVERSITARI REPLICA A MATTEO RENZI SULLA RICERCA
In occasione della sua visita
ai Laboratori dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare del Gran Sasso, Il
premier ha dichiarato che "se i ricercatori pensano sia meglio andare
all'estero lo facessero pure, ma noi faremo dei nostri istituti i luoghi al top
del livello mondiale, faremo dell'Italia un centro capace di attrarre
ricercatori italiani e di tutto il mondo". "I ricercatori italiani
fuggono, e quelli stranieri non entrano, perché nel nostro Paese non ci sono i
finanziamenti con cui poter portare avanti le ricerche, con cui poter essere
integrati all’interno dell’organico delle nostre università - spiega Jacopo
Dionisio, coordinatore nazionale UDU -. Ci chiediamo come Renzi possa
dichiarare che voglia fare degli istituti di ricerca italiani dei ‘luoghi al
top a livello mondiale’ quando, come abbiamo dimostrato con la nostra analisi,
la legge di stabilità piazza, in modo disuguale sul territorio italiano,
solamente 861 ricercatori: poco più di un decimo dei docenti persi in soli 5
anni". (Fonte: uninews24.it 23-02-16)
UNO
STUDIO DELL'UNIVERSITÀ DI PADOVA SULLE AZIENDE CRIMINALI
Ricercatori dell’università di
Padova hanno svolto una ricerca sulle aziende criminali nel Centro-Nord Italia.
Come operano e come intercettarle: http://tinyurl.com/gwgefxo .
A fronte di 120 operazioni
condotte contro organizzazioni mafiose dal 2005 al 2014, sarebbero 1.567 i
soggetti condannati per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso
in primo grado di giudizio o successivo. Il 25% dei condannati sono azionisti o
amministratori di società di capitali, e sono 1.390 le società di capitali
criminali individuate che presentano una media dei ricavi pari a 13,1 milioni
di euro. Al primo posto per concentrazione di aziende criminali al Nord,
troviamo la Lombardia, con 425 (il 37,38% del campione esaminato), seguita dal
Triveneto, con 187 (il 16,45% del campione), e dalla Liguria con 74 (6,51%
delle esaminate). "Le aziende criminali – spiega il professor Antonio
Parbonetti che ha diretto la ricerca – hanno tre caratteristiche prevalenti:
offrono servizi alla criminalità, sono dedite al riciclaggio (c.d. cartiere) e
sono di successo. Dalla ricerca emerge anche una variabilità del settore in cui
le aziende criminali operano". Nello studio si sono evidenziate le
principali operatività delle aziende criminali: l’ingresso del contante, il
mascheramento dello stesso e il suo reimpiego. A queste si devono inoltre
aggiungere il dirottamento dei fondi pubblici, lo sfruttamento dei fondi
strutturali, l’acquisizione del potere sul territorio e la mimetizzazione.
(Fonte: www.padovaoggi.it
23-02-16)
RICERCA. VALUTAZIONE DELLA RICERCA
ANTI-RESEARCH ASSESSMENT PROTEST IN ITALIAN
UNIVERSITIES
Over the last few
months, a campaign inviting Italian academics to abstain from participating in
the latest nationwide research assessment exercise (VQR 2011-2014) has been
gaining momentum.
It all started with
a petition signed by around 14,000 academics calling for the government to back
off on its decision to write off the years 2011-2014 when calculating seniority
in service and corresponding pay levels for academics. The austerity-driven
four-year salary freeze affected almost all public sector workers in Italy
(with the exception of judges and magistrates), but academics not only were the
last category to see their rise in pay restored, but the only ones for whom
2011-2014 were basically written off altogether. This was perceived as an act
of discrimination by academic staff who felt uniquely singled out among public
sector workers as deserving of financial punishment. Being assessed for
research activities carried out in years, which have not been counted
financially also contributed to the sense of disrespect. It has been only
recently, however, that the campaign has shifted towards using an instrument
which had already been deployed by our French colleagues in 2009 and which led
eventually to the suppression of the French Evaluation Agency (ANEER) in 2013:
to abstain from participating in the second national research assessment
exercise (VQR), either by refusing to submit one’s publications for evaluation
or to participate as an expert in the committee work, thereby scuppering the
whole (expensive) exercise on grounds of statistical inaccuracy. (Fonte: T. Terranova, www.opendemocracy.net 18-02-16)
SU LE MONDE LA PROTESTA DEI
PROFESSORI UNIVERSITARI ITALIANI
Su Le Monde del 20 febbraio il prof. Raffaele Simone è stato
intervistato sul boicottaggio della VQR. Roars (13-03-16) ha riportato alcuni
stralci dell’intervista, tra i quali si riproducono i seguenti:
“Si parla poco”, scrive il linguista e filosofo Raffaele Simone a Il
Fatto Quotidiano del 4 febbraio, “ma in Italia, molti di coloro che lavorano
con i loro cervelli sono in rivolta”. “In un paese che preferisce giornalisti,
politici e artisti del varietà agli intellettuali, la loro rivolta non fa
notizia …” La collera dei professori
trova la sua origine, economica e psicologica, nell’ingiustizia di cui essi
stessi si considerano vittime. I primi a
vedere i loro salari congelati nel 2010 da Giulio Tremonti, ministro delle
Finanze del governo Berlusconi, sono gli ultimi a vedere l’aumento con il
ritorno della crescita di cui il governo di Matteo Renzi si compiace. C’è
sempre qualcuno da soddisfare prima di loro … Sapendo che la loro battaglia non
è una priorità né per il governo né per i media, e ancor meno per gli italiani
in generale, i professori universitari sono entrati nella resistenza … hanno
scelto l’arma del boicottaggio. Ora almeno il 30% di loro si rifiutano di
presentare i loro articoli all’Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema
Universitario e della Ricerca (ANVUR). Petizioni hanno raccolto migliaia di
firme da nord a sud dello stivale. La gran parte dei finanziamenti
dell’università e dei centri di ricerca dipende proprio dall’ANVUR … Per
evitare che il rubinetto del finanziamento si esaurisca del tutto, l’amministrazione
delle università minaccia di scegliere essa stessa i lavori scientifici dei
professori sostenendo che la loro la protesta è “strana ed eccentrica”.
A questo
proposito, Giuseppe De Nicolao (commento all’articolo di Roars) afferma: Credo
che il commento più acuto rimanga quello di M. C. Pievatolo: “Ho sentito
ripetere da più parti, contro chi si astiene dalla VQR, l’argomento per il
quale uno sciopero per essere “onesto” deve essere o masochistico, cioè
danneggiare chi sciopera, o sadico, cioè far soffrire dei terzi incolpevoli,
quali gli studenti. Gli scioperi, però, non si fanno per soddisfare le proprie
parafilie, ma per far prendere sul serio una propria rivendicazione. Hanno
quindi speranza di essere efficaci se riescono a creare un problema all’interlocutore
da cui si vuole essere ascoltati, cioè, in questo caso, non sono certo gli
studenti. Se lo scopo è farsi sentire dai rettori, l’astensione dalla VQR è un
atto efficace, che ha il pregio supplementare di puntare su un procedimento
inviso a molti per motivi non salariali, ma scientifici, politici e morali”.
ANVUR, ROARS E COMMENTI SU ESITO STOPVQR
Una parte dei professori universitari ha esercitato una protesta
“silenziosa” nei confronti del Governo astenendosi dalla VQR (c.d. StopVqr).
Dopo il primo blocco degli scatti stipendiali dei dipendenti pubblici nel
triennio 2011-2013, il blocco è stato reiterato per il 2014 e dal governo
attuale per il 2015 solo per la
categoria dei docenti universitari. Interrotto da gennaio 2016
parzialmente (non per tutte le categorie insieme) si è ricominciato come se
niente fosse successo e in termini economici c’è stato un aumento di circa 100
euro invece dei 350 che sarebbero spettati. Un altro punto del contendere è che
tutte le altre categorie di statali hanno avuto il ripristino dello stipendio
da gennaio 2015 esclusi i docenti universitari che l’hanno avuto, appunto, dal
2016. La legittima richiesta attuale dei docenti universitari voleva che gli
anni 2011-2015 fossero riconosciuti almeno giuridicamente.
«Fallisce
la protesta contro la valutazione» titola La Repubblica. «Sono molto felice
oggi, anche se non ero preoccupato ieri» dichiara il Presidente dell’ANVUR a La
Repubblica, commentando le percentuali di conferimento dei prodotti della VQR.
Globalmente, secondo i dati forniti da ANVUR i prodotti conferiti sarebbero il
92% di quelli attesi. Secondo ANVUR ci sono «(pochi) casi particolari di atenei
nettamente al di sotto della media, atenei nei quali si è concentrata
evidentemente l’astensione dal presentare prodotti alla VQR». Tra i 32 atenei
al di sotto della media abbiamo: Salento (70,7%), Napoli Parthenope (73,7%),
Pisa (77%), Reggio Calabria (82,7%), Catania (85,8%), L’Aquila (86,3%), Urbino
(86,4%), Roma Sapienza (86,4%), Brescia (87,1%), Basilicata (87,8%), Pavia
(87,9%), Roma Tre (88%), Sannio (89,1%), Genova (89,1%), Siena (89,4%),
Cagliari (89,9%), Salerno (90,3%), Messina (90,5%), Milano Bocconi (91%). Duole
dire che non avremo «una fotografia dettagliatissima e, soprattutto,
certificata della qualità della ricerca italiana». Il MIUR, se utilizzerà
questa VQR, si troverà a distribuire la quota premiale in funzione della non
adesione alla protesta, in larga misura correlata alla capacità di coercizione
messa localmente in atto dai rettori. Alla luce di questi dati è possibile dire
che la VQR è morta. (Fonte: Redazione Roars 15-03-16).
Il 5
marzo l’ANVUR ha diffuso il seguente comunicato stampa a cui sono allegati i
dati disaggregati sul conferimento dei prodotti della VQR 2011-2014:
Viste le
statistiche relative al conferimento dei prodotti alla VQR 2011-2014, l’ANVUR
si complimenta con la comunità accademica italiana. L’adesione delle università
all’esercizio di valutazione permetterà all’Agenzia di procedere con
l’esercizio di valutazione e di generare nei tempi dovuti la seconda istantanea
dello stato della ricerca italiana. L’università italiana ha così dimostrato di
aver compreso pienamente il valore di un esercizio di valutazione che sta
coinvolgendo oltre 400 illustri colleghi italiani e stranieri nelle attività
degli esperti GEV e quasi 11.000 (a oggi) ricercatori italiani e stranieri che
hanno già accettato di svolgere l’attività di revisori peer. (Fonte: comunicato
stampa, Roma, 15 marzo 2016)
Commento
di Antonio Violante (16 marzo 2016):
Grottesco il comunicato ANVUR, che richiama alla mente i trionfalismi
del regime quando nel 1931 la stragrande maggioranza dei professori
universitari aveva giurato fedeltà al fascismo. Ma resta comunque l’amaro in
bocca dopo avere constatato che (se i dati comunicati sono corretti) per il 92%
dei docenti il loro trattamento retributivo (insieme a quello pensionistico
futuro) va bene così com’è; oppure, sempre per loro, quand’anche esso sia stato
giudicato iniquo, non vale la pena comunque fare alcunché per cercare di
migliorarlo. Ma quello che ferisce di più è la mancanza di dignità della
docenza universitaria italiana, pronta a sottomettersi a qualsiasi arbitrio del
potere. Per fortuna esiste un 8% di docenti che ancora sta provando a salvare
l’onore della nostra Accademia, cercando di riportarla ai livelli dei paesi
civili. Altri commenti qui.
LA COSIDDETTA AUDIT CULTURE È L’ASSASSINO
SILENZIOSO DELL’ISTRUZIONE UNIVERSITARIA NELLE PIÙ DIVERSE FORME DI
CONTABILIZZAZIONE E DI VALUTAZIONE BASATE SU METRICHE
Secondo
il professore canadese Marc Spooner, l’assassino silenzioso dell’istruzione
universitaria (Higher Education’s Silent
Killer è il titolo dell’articolo da lui pubblicato sul Briarpatch Magazine)
è la cosiddetta audit culture che si
materializza nelle più diverse forme di contabilizzazione e di valutazione
basate su metriche. Una tirata ideologica come tante altre, quella di Spooner?
Non proprio, dato che nel suo articolo Spooner illustra con esempi concreti gli
effetti distorsivi e anche i danni che possono derivare alla società nel suo
complesso. Non senza richiamare alle proprie responsabilità chi occupa i
gradini più alti del ceto accademico, che potrebbe e dovrebbe porsi il problema
della direzione imboccata dall’istituzione universitaria, più centrale e
indispensabile alla società di quanto sia comunemente creduto e compreso.
L’articolo offre diversi spunti interessanti. Si può cominciare dal paradossale
parallelismo tra gli schemi di incentivazione ispirati al “mercato” così cari
ai riformatori degli ultimi anni e la farraginosa pianificazione economica
della defunta Unione Sovietica: A complex
incentive scheme was introduced, with the collaboration of the universities, to
simulate market competition but in reality it looked more like Soviet planning.
Just as the Soviet planners had to decide
how to measure the output of their factories, how to develop measures of plan
fulfilment, so now universities have
to develop elaborate indices of output, KPIs (key performance indicators),
reducing research to publications, and publications to refereed journals, and
refereed journals to their impact factors. Just as Soviet planning produced
absurd distortions, heating that could not be switched off, shoes that were
supposed to suit everyone, tractors that were too heavy because targets were in
tons, or glass that was too thick because targets were in volume, so now the
monitoring of higher education is replete with parallel distortions that
obstruct production (research), dissemination (publication) and transmission
(teaching) of knowledge.
Un
paragone che sorprenderà solo chi non ha seguito il dibattito recente, in cui,
persino su un magazine mainstream come Times Higher Education l’uso sempre più
pervasivo di metriche è stato associato al Grande Fratello orwelliano (Big Brother in the Academy) e al regime
stalinista (A very Stalinist management
model). (Fonte: http://www.makemefeed.com 27-02-16)
VQR. I “PRODOTTI” DA CONFERIRE
ATTRAVERSO IL PROCEDIMENTO VQR NON SONO NELLA DISPONIBILITÀ ESCLUSIVA
DELL’ATENEO, MA APPARTENGONO ALLA PROPRIETÀ INTELLETTUALE DEL
DOCENTE/RICERCATORE
Il coordinatore del “Movimento per la Dignità della Docenza
Universitaria”, prof. Carlo Ferraro, ha ricevuto dal collega Michele Carducci,
professore ordinario di Diritto Costituzionale Comparato dell’Università del
Salento, un autorevole commento sugli aspetti legali dell’astensione dalla VQR.
Ne riproduco alcuni passi salienti: “Nessuna di queste fonti (leggi, i
regolamenti di autonomia degli Atenei, il “Codice etico”) definisce, neppure
indirettamente, l’attività di conferimento dei prodotti per la VQR come carico
orario rientrante nelle suddette attività o come fattispecie “eticamente”
rilevante. L’astensione dalla VQR non ha
ostacolato e non ostacola né la didattica, né la ricerca, né le attività
gestionali di ciascuno di noi (come senatore accademico, direttore di dipartimento,
presidente di corso, semplice componente di organo o commissione ecc …), né ha
legittimato condotte “non etiche”; l’astensione dalla VQR ostacola solo ed
esclusivamente la VQR dell’Ateneo, non il lavoro proprio di lavoratore
dell’Ateneo. Questo rende evidente che il conferimento dei prodotti si
configura non come una prestazione lavorativa ”propria” del docente, in ragione
della quale si percepisce il corrispettivo dello stipendio, bensì come
un’attività ausiliaria di un determinato procedimento amministrativo imputabile
all’Università come ente, nei confronti dell’ANVUR. I ‘prodotti’ da conferire
attraverso il procedimento VQR non sono nella disponibilità esclusiva
dell’Ateneo, ma appartengono alla proprietà intellettuale del
docente/ricercatore e dunque rientrano non nella funzione del docente come
lavoratore (che tiene lezioni o fa ricerca o gestisce organi), ma nella sua
libertà creativa di ricercatore; libertà coperta da tutela costituzionale
assoluta in ragione dell’art. 33, primo comma, della Costituzione italiana”.
(Fonte: C. Ferraro, e-mail del 13-03-16)
SISTEMA UNIVERSITARIO
UNA
RIFLESSIONE ORGANICA SUL SISTEMA UNIVERSITARIO INVOCATA DAL SOTTOSEGRETARIO DEL
MIUR DAVIDE FARAONE
“Servono riflessioni comuni
organiche sul sistema universitario, con orizzonti ampi, in cui il faro sia
l’Italia non i corporativismi, il futuro dei giovani, non il potere dei vecchi,
quando non è sano. Perché vadano uniti, e non contrapposti. È su queste
premesse granitiche e sull'onestà intellettuale di tutti quanti che possiamo
allocare maggiori risorse al mondo universitario. Che, assicuro, sono tema
all'ordine del giorno, perché il sistema universitario può e deve essere perno
di crescita e di sviluppo e per divenire tale ha bisogno di soldi, ma anche di
testa e di adeguamento ai bisogni del Paese. Un'inversione di tendenza già
l'abbiamo data nella finanziaria, sebbene non rilevante quanto ci sarebbe
piaciuto: mille ricercatori in più, 500 ordinari in più e aumento delle risorse
per le borse di studio agli studenti previste nella finanziaria da 5 milioni a
55 milioni. Non da 5 a 10, ma da 5 a 55 milioni, in totale sono 217 milioni. E
stiamo lavorando alla questione dell’innalzamento della soglia ISEE (innalzata
a 23.000 euro con decreto annunciato dal ministro il 17 marzo, nota di PSM),
proprio ieri si è riunito il tavolo sui Lep, i livelli essenziali per il
diritto allo studio proprio per stabilire criteri chiari e il più possibile
equi. Non bastano, certo, lo so. Ma, ripeto, insieme alle risorse, è necessaria
una riflessione organica sul sistema universitario – sui mezzi e sui fini, non
solo sulle risorse – con la premessa di un'azione di verità e senza ipocrisie,
da nessuna parte. Ciascuno si prenda le sue responsabilità”. (Fonte: D.
Faraone, Il Foglio 17-02-16)
COME
SE NON BASTASSE IL DEFINANZIAMENTO E LA RIDUZIONE DEI DOCENTI IN ATTO DA ANNI,
C’È CHI INVOCA PER L’UNIVERSITÀ ANCHE UNA RIFORMA ‘DISRUPTIVE’ CHE
MANAGERIALIZZI L’UNIVERSITÀ PUBBLICA
Sulle cause delle fughe, dei
successi e dei mancati ritorni c’è poco da girarci intorno: la riforma profonda
e la modernizzazione del sistema universitario, l’internazionalizzazione, la
liberalizzazione delle rette universitarie, i rapporti con il mondo
dell’impresa, i finanziamenti dei privati e un sistema di borse di studio e
prestiti non sono mai stati una priorità di nessun governo. E nemmeno del
governo Renzi, che ha preferito concentrarsi sulla stabilizzazione dei precari
nella scuola primaria e secondaria, ritoccare la governance scolastica e
trascurare quasi interamente l’ambito universitario e della ricerca. Eppure, su
quest’ultimo fronte ci sarebbe molto da fare: i nostri atenei, salvo pochi
istituti privati, non rientrano mai nelle prime posizioni nelle classifiche
sulla qualità dell’istruzione accademica, il tasso d’internazionalizzazione dei
docenti universitari è ridicolo, gli investimenti in percentuale al pil sono
tra i più bassi d’Europa. Aumentare di qualche miliardo la spesa per
l’istruzione universitaria e la ricerca avrebbe senso se questa fosse scambiata
con una riforma complessiva che introduca maggior concorrenza tra atenei, apra
le porte alle partnership con i privati, incentivi gli istituti di credito a
finanziare i prestiti d’onore, chiuda sedi, corsi e atenei con performance di
scarso livello e sovrapposizione geografica, introduca standard e valutazioni
della ricerca accademica e del servizio d’istruzione fornito dai docenti.
Certo, si può sempre obiettare che non esistono criteri universali per valutare
ricerche e atenei sia dal punto di vista qualitativo sia da quello
quantitativo, ed è qui che s’inserisce la decisione politica: va scelto un
metodo di valutazione e a questo l’accademia deve adeguarsi come in ogni altro
paese sviluppato. I criteri si possono discutere, sentire tutti gli utenti, ma
poi vanno fissati standard sulla base delle migliori università del paese al
quale gli altri atenei siano costretti ad adeguarsi, pena la riduzione dei
fondi e l’accorpamento con altre realtà.
Senza una riforma ‘disruptive’
che managerializzi l’università pubblica italiana non solo la fuga dei
ricercatori sarà inevitabile, ma anche il semplice master all’estero restano
un’ordinaria necessità e opportunità. (Fonte: L. Castellani, Il Foglio
17-02-16)
TESLA
(ADAPTIVE TRUST-BASED E-ASSESSMENT SYSTEM FOR LEARNING) PER L’UNIVERSITÀ DEL
FUTURO
Nell’università del futuro
sarà possibile seguire corsi, lezioni, approfondimenti, e – soprattutto – fare
esami direttamente da casa, dalla propria stanzetta, stando comodamente seduti
sulla propria poltrona. Il sistema si chiama TESLA (Adaptive Trust-based E-assessment System for Learning) ed è stato
finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del programma Horizon 2020
(stanziati 7 milioni di euro, ndr). Vi partecipano allo sviluppo un consorzio
di ben 8 università europee. Il progetto è coordinato da un’équipe
internazionale di esperti, coordinata dai ricercatori di Barcellona, la UOC,
Universitat Oberta de Catalunya e dalla dottoressa Ana Elena Guerrero.
Per gli studenti utilizzare il
sistema è un gioco da ragazzi, basta un normalissimo computer e una webcam.
Perché il metodo possa funzionare, lo studente che si sottopone a un esame deve
avere in precedenza frequentato assiduamente il corso online. “Il progetto
TESLA si articola in 5 pilastri principali, con esperti europei dedicati
specificamente ad ognuno di essi – spiega a CorriereUniv Xavier Baro’, uno dei
ricercatori tra i principali protagonisti –. Si va dalla formazione al problema
della privacy e della conservazione dei dati, passando per la qualità della
valutazione e della formazione e, infine, l’uso efficace delle nuove
tecnologie”. All’interno del consorzio TESLA ci sono 9 università europee di 8
Paesi diversi. “La sfida è quella di riuscire a creare un sistema che sia il
più trasparente possibile per gli utenti (studenti e docenti) al fine di creare
un ecosistema di apprendimento basato sulla fiducia. Incorporeremo tecnologie
per l’autenticazione degli utenti (dalle dinamiche di battitura al
riconoscimento del volto e della voce) e per l’analisi della paternità delle
opere (rilevamento di un possibile plagio e dello stile linguistico utilizzato
dallo studente)”.
(Fonte: www.corriereuniv.it
19-02-16)
A FAVORE DEL SISTEMA
UNIVERSITARIO IL “CONSISTENTE IMPEGNO” DI GOVERNO E PARLAMENTO
All’interrogazione sulla protesta #stopVQR presentata da un gruppo di
parlamentari del Partito Democratico, il Governo ha risposto semplicemente
ignorando le domande poste nell’interrogazione. Per il Governo non esiste il
taglio brutale e suicida delle risorse, il vero e drammatico vettore di
impoverimento del sistema. Al tempo stesso, il Governo ritiene chiusa anche la
questione degli scatti: il recupero degli anni perduti sembra essere un
problema inesistente e non si fa cenno alle iniziative e ai “tavoli” che altre
fonti annunciano invece “aperti” su questo punto. E la conclusione è coerente:
«Si ritiene pertanto che, a fronte, del consistente impegno che il Governo e il
Parlamento hanno messo in campo a favore del sistema universitario e, in
particolare, della categoria dei docenti universitari, le cui problematiche si
stanno avviando a soluzione, la prospettata “astensione collettiva” dal
caricamento dei prodotti della VQR possa essere ridimensionata». In realtà, ad
essere “consistente” è il disimpegno di Governo e Parlamento: il contrasto fra
le briciole concesse all’università e i finanziamenti arrivati all’IIT di
Genova, addirittura per decreto legge, è sotto gli occhi di tutti, anche se
continua a smuovere solo pochi. (Fonte: S. Semplici, http://www.makemefeed.com 29-02-16)
UNIVERSITIES: INCREASINGLY GLOBAL
PLAYERS
Universities have become institutions of a global world, in addition to
assuming their traditional local and national roles. The answers to global
challenges (energy, water and food security, urbanization, climate change,
etc.) are increasingly dependent on technological innovation and the sound
scientific advice brokered to decision-makers. The findings contributed by
research institutes and universities to the reports of the Intergovernmental
Panel on Climate Change
and the Consensus for Action statement illustrate the decisive role
these institutions are playing in world affairs. Research universities also
attract innovative industries. The Googles and Tatas of this world only thrive
in proximity to great research institutions and it is this winning combination
that fosters the emergence of dynamic entrepreneurial ecosystems such
as Silicon Valley in the USA and Bangalore in India which are at the root of
innovation and prosperity. Universities themselves have become global players.
Increasingly, they are competing with one another to attract funds, professors
and talented students. The reputation of a university is made at the global
level. This trend will accelerate with the digital revolution, which is giving
world-class universities an even greater global presence through their online
courses. (Fonte: P. Aebische, President, Ecole polytechnique
fédérale de Lausanne, Switzerland, Unesco science report: towards 2030, pg. 27,
2016 - http://unesdoc.unesco.org/images/0023/002354/235406e.pdf)
STUDENTI
NUOVE SOGLIE ISEE E ISPE PER L'ANNO
ACCADEMICO 2016/2017. LE PROVVIDENZE ECONOMICHE PREVISTE PER LA
DISABILITÀ NON DEVONO ESSERE CONTEGGIATE COME REDDITO.
Per beneficiare di aiuti allo studio sono stati rivisti i tetti di
reddito. Il decreto che fissa le nuove soglie ISEE (Indicatore di Situazione
Economica Equivalente) e ISPE (Indicatore di Situazione Patrimoniale
Equivalente) per l’accesso alle borse di studio è stato firmato. La conferma viene
dalla ministra Giannini, che al termine dell’assemblea generale della CRUI di
giovedì mattina (17-03) ha dichiarato: «Sono state rivisitate le soglie ISEE e
ISPE nel decreto firmato ieri sera. Le nuove soglie sono rispettivamente 23mila
e 50mila euro» per il prossimo anno accademico 2016-17 (quest'anno sono a 20mila
e 35mila le soglie massime ISEE e ISPE). Secondo il ministro con le nuove
soglie si recupererà «quasi tutto il calo di borse di studio, che si attestava
al 21%». «Secondo le nostre previsioni - ha detto - si arriverà a un recupero
del 20%, quindi quasi tutto».
Le associazioni dei disabili hanno fatto ricorso contro il nuovo ISEE
che somma le pensioni di invalidità al reddito familiare, comportando un
innalzamento dell’indicatore e quindi inficiando il diritto ad ottenere altri
importanti benefici. I ricorsi sono stati accolti dal Consiglio di Stato.
Infatti, il CdS (Sez. IV – sentenza 29 febbraio 2016), confermando la sentenza
del T.A.R. Lazio in precedenza pubblicata, ha dichiarato illegittimo il
D.P.C.M. 5 dicembre 2013 n. 159, recante il Regolamento concernente la
revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione
dell’Indicatore della situazione economica equivalente – ISEE, nella parte in
cui prevede una nozione di “reddito disponibile” eccessivamente allargata. L'ANMIL, l’associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro,
plaude alla decisione del Consiglio di Stato sull'esclusione di indennità,
prestazioni di invalidità e trattamenti risarcitori dal reddito per l'ISEE. Le
borse di studio, come le indennità di accompagnamento per le famiglie con
disabili, rappresentano forme di sostegno, e non di reddito, finalizzate ad
eliminare forme di discriminazione e a garantire l’irrinunciabile principio di
uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione.
(Fonte: CorSera/Università 18-03-16; FQ 29-02-16)
IMMATRICOLAZIONI IN LIEVE
AUMENTO
Il MIUR ha certificato l'aumento delle matricole iscritte agli atenei
italiani: seimila in più rispetto all'anno accademico 2014/2015. Che in termini
percentuali significa +2%, che diventa +3% se si guarda solo ai nuovi iscritti
nel sistema di età non superiore ai 19 anni. Di tutti i numeri contenuti nel
report pubblicato sul sito dell'Istruzione il più interessante riguarda il
trend degli immatricolati. Che sono tornati a crescere dopo due anni, passati
dai 265.562 del 2014/2015 ai 271.119 attuali. Un aumento che ha interessato
quasi l'intero Stivale: dal +5,2% del Nord-Est (valore massimo) al +3,7% del
Nord-Ovest fino al +1,8% del Centro e al +2% delle Isole. Fa eccezione solo il
Mezzogiorno che perde il 12,1% di matricole. Rilevante è anche la crescita del
numero di diciannovenni (74,7%) tra i neoiscritti, a conferma del fatto che la
scelta di proseguire gli studi avviene soprattutto nei primi anni dopo il
diploma. Degna di nota è inoltre la maggiore attrattività fatta registrare
dalla macroarea scientifica e da quella sociale, scelte rispettivamente dal
36,3% e dal 33,8% delle matricole. Con il corollario che in tutte le aree si
evidenzia una maggior presenza delle donne, a eccezione di quella scientifica
dove il 62,4% degli immatricolati rimane di sesso maschile. Donne che
continuano a rappresentare la maggioranza degli immatricolati (55,2%). Gli
immatricolati sono per il 5% di nazionalità non italiana e, in linea con la
presenza della popolazione straniera sul territorio nazionale, sono
maggiormente rappresentati i rumeni (14,7%), gli albanesi (12,6%) e i cinesi
(9,2%). (Fonte: E. Bruno, IlSole24Ore 10-03-16)
LA MOBILITÀ GEOGRAFICA DEGLI
STUDENTI UNIVERSITARI. PIÙ DI UN QUINTO SI È SPOSTATO IN REGIONE DIVERSA
L’Italia è caratterizzata da una significativa mobilità geografica
interna degli studenti universitari. Nell’anno accademico 2014-15 oltre 55mila
immatricolati, più di un quinto del totale, hanno scelto un ateneo localizzato
in una regione diversa da quella di residenza. Un aspetto centrale del fenomeno
è che segue la direzione Sud-Nord, ma non quella contraria. Il 23 per cento
degli studenti meridionali si immatricola in università del Centro-Nord. Sono
invece pochissimi quelli che fanno il percorso inverso: gli studenti del Nord e
del Centro rimangono più vicini a casa (solo il 7 e il 10 per cento
rispettivamente cambiano circoscrizione). Così, nel 2014-15 la Puglia e la
Sicilia hanno “perso” oltre 5mila studenti; Lazio, Emilia e Lombardia ne hanno
“guadagnati” altrettanti. L’asimmetria crea effetti rilevanti. Indebolisce il
processo di accumulazione di capitale umano nelle regioni del Mezzogiorno.
Determina un trasferimento di reddito a favore del Centro-Nord – per i soli
costi del periodo di studi – che può essere stimato tra un miliardo e un
miliardo e mezzo di euro l’anno. Le ragioni alla base dei flussi di mobilità
studentesca sono molteplici. Certamente l’ampiezza e la qualità dell’offerta
formativa al Centro-Nord (comparata a quella al Sud) hanno una parte importante.
Ma si tratta esclusivamente di una scelta, da parte di studenti perfettamente
mobili, basata su questo? Come documentato anche nel Rapporto della Fondazione
Res, si sommano altri importanti fattori. In primo luogo, le condizioni del
mercato del lavoro profondamente diverse, con conseguenti maggiori opportunità
di inserimento lavorativo e più elevati livelli salariali per i neo-laureati
nelle regioni settentrionali, influenzano marcatamente la direzione della
migrazione delle matricole. Ed è interessante notare che, con tutta
probabilità, l’effetto “mercato del lavoro” è diventato più rilevante con la
crisi economica: negli ultimi anni gli immatricolati meridionali si sono
diretti sempre più verso Piemonte e Lombardia e relativamente meno verso Lazio
e Toscana. Giocano fattori, esterni alle università, ma relativi al contesto in
cui sono insediate. A parità di altre condizioni, la possibilità di ricevere
una borsa di studio per gli studenti idonei è oggi maggiore al Nord rispetto al
Sud, dove rimane molto alto il numero di “idonei non beneficiari”: nell’anno
accademico 2013-14, nel Centro-Nord circa il 90 per cento degli studenti idonei
ha effettivamente ricevuto la borsa di studio, contro il 61 per cento nel
Mezzogiorno e il 38,5 per cento nelle Isole. Inoltre, la qualità della vita
nelle città, con annessi servizi pubblici essenziali, offerte ricreative e
culturali, è assai differente nelle due aree del paese. (Fonte: D. Cersosimo,
A. R. Ferrara, R. Nisticò e G. Viesti, lavoce.info 01-03-16)
LE
COMPETENZE DIGITALI DEGLI UNIVERSITARI. RISULTATI DI UNA RICERCA DELLA SOCIETÀ
UNIVERSITY2BUSINESS
Lo studio, supportato da BIP,
Bravo Solution, CheBanca!, Cisco, Engineering, HPE, IBM, Italtel, KPMG, Nestlé,
QiBit e UniversityBox, ha preso in considerazione un numero elevato tra la
popolazione studentesca: i dati del MIUR parlano di 1.630.300 universitari.
Se parliamo di sviluppo
software, l’interesse in materia è talmente elevato da spingere gli studenti ad
acquisire le competenze necessarie di propria iniziativa: in pole position gli
informatici, ma non mancano giovani universitari capaci di sviluppare (10%) e
coloro che stanno imparando a farlo (oltre il 20%), chi soltanto per
divertimento (43%) e chi per creare una propria idea di business. Tuttavia,
sono pochi quelli che hanno già realizzato siti web (28%), seguiti dagli
sviluppatori di videogame (16%) e app (13%). In quest’ultimo caso, le
piattaforme più usate sono Android (45% e iOS (34%). Java è il linguaggio più
conosciuto (58%), mentre HTML e SQL sono utilizzati dal 42% e dal 21%. L’ultimo
tassello oggetto dello studio è stato l’approccio imprenditoriale, i giovani
italiani mostrano un particolare desiderio di “fare impresa” e spendono sé
stessi al meglio per conoscere le strategie migliori, dedicandosi anche ad
appositi corsi al di fuori del programma universitario prescelto. Infatti,
anche le “interrogazioni” in materia hanno avuto esiti migliori: oltre il 60 è
in grado di fornire la definizione corretta di startup e quasi il 90% ha
tentato di elencare gli elementi principali necessari per il successo della neo
impresa. (Fonte: http://catania.liveuniversity.it 23-02-16)
IL
VOTO DEGLI STUDENTI AI PROFESSORI
Nata per scherzo in più di un
ateneo, l'abitudine di dare voti ai professori si è rivelata utile per
perfezionare l'insegnamento, specie se i risultati sono resi pubblici. Lo ha
verificato l'Università Bicocca di Milano, che da tre anni mette on line i
giudizi sui docenti inviati dagli studenti, invitando questi ultimi a
esprimersi su efficacia della didattica, aspetti organizzativi del corso,
soddisfazione complessiva. «Nel tempo, abbiamo osservato un miglioramento
significativo della qualità dell'insegnamento, forse dovuto alla
responsabilizzazione, tipica delle organizzazioni fondate sulla trasparenza»
dice Paolo Cherubini, prorettore vicario. È cresciuto anche il numero delle
schede valutative (da circa 69 mila della prima rilevazione a oltre 138 mila) e
il coinvolgimento di chi è sottoposto al voto. «Se all'inizio c'era qualche
perplessità da parte dei colleghi, intimoriti dalla possibilità che le
valutazioni fossero interpretate come una "gogna", oggi sono loro
stessi a far pressioni perché i dati siano pubblicati il più velocemente
possibile». (Fonte: M. Fronte, Io Donna 20-02-16)
LE
COMPETENZE DIGITALI DEGLI STUDENTI IN AMBITO LAVORATIVO
La società del Gruppo Digital
360 ha condotto un’indagine dal titolo “Il futuro è oggi: sei pronto?” dalla
quale emerge che quando si tratta di usarli in ambito lavorativo, Twitter,
Facebook e Instagram diventano degli sconosciuti per gli studenti universitari
italiani. Sembrerà strano, perché navigare in Internet e usare i social network
sono attività che fanno ormai parte integrante della quotidianità soprattutto
delle fasce più giovani della popolazione. Eppure stando ai dati raccolti da
U2B solo un universitario su cinque è capace di gestire (e magari già lo fa)
una pagina Facebook che non sia quella personale oppure un canale YouTube o
ancora di occuparsi di vendita online.
Le competenze digitali degli
studenti nostrani sono ancora più scarse a proposito di concetti specifici come
“mobile advertising”, “cloud”, “fatturazione elettronica” e “big data”,
concetti dei quali solo uno su quattro è in grado di dare la giusta
definizione. La situazione si risolleva, però, se si entra nel campo dello
sviluppo di software. Più del 20 per cento degli universitari,
indipendentemente dal corso di studi frequentato, sta imparando a programmare e
il 10 per cento ne è già capace. A proposito dei risultati dell’indagine che ha
misurato le competenze digitali dei giovani, Andrea Rangone, CEO di Digital
360, ha sottolineato come “la maggioranza degli studenti universitari italiani
oggi si affacci al mondo del lavoro con una scarsa conoscenza della
trasformazione digitale in atto nell’economia, con un approccio passivo al
mondo digitale”. (Fonte: www.universita.it 20-02-16)
LA
SELEZIONE DEGLI ACCESSI A MEDICINA DURANTE IL PRIMO ANNO. IN FRANCIA NON NE
SONO SODDISFATTI MA IN ITALIA SI INSISTE ANCORA
“Le aule dei tribunali si
stanno sostituendo a legislatore e amministrazione. Nelle scorse settimane il
Tar Lazio ha regolarizzato la posizione di ben 6 mila matricole che non avevano
passato i test d'accesso a Medicina nel 2014. Il fatto è che i test, se ben
formulati, possono essere (relativamente) utili per verificare il livello di
preparazione alla fine di un ciclo di studi. Ben diverso quando pretendono di
mettere a fuoco quanto sei portato a intraprendere un nuovo percorso,
soprattutto in un settore particolare come quello medico". "Per
questo motivo riteniamo si debba lavorare a un sistema che lasci una
possibilità a tutti - prosegue l’on.le Pittoni - scremandoli dopo un certo periodo (un anno?)
in base a un adeguato numero di esami da superare. I migliori devono poter
scegliere il corso di laurea d’interesse, fino all’esaurimento dei posti in
quel corso e in quell’ateneo. In altre nazioni come la Francia – conclude
Pittoni - è già così: la selezione per Medicina avviene dopo il primo anno di
università e un breve tirocinio in ospedale". (Fonte: M. Pittoni, www.uninews24.it
23-02-16)
Commento di PSM: Si consiglia
all’on.le Pittoni, prima di perorare il sistema francese, di leggere gli
articoli «Première année de médecine: des
alternatives pour limiter la «boucherie» (Le monde de l'education
27.01.2016 http://www.lemonde.fr/campus/article/2016/01/27/en-medecine-de-nouveaux-dispositifs-pour-limiter-les-echecs_4854248_4401467.html#5qIkTFG8B7AqjwPE.9
) e «L’ordre propose de présélectionner
les étudiants en médecine» http://www.lemonde.fr/dossier-apb/ .
LE
SCELTE DEGLI STUDENTI PER LE SCUOLE SUPERIORI
Il 53,1% degli studenti che si
sono iscritti a una classe prima di scuola superiore per l’anno scolastico
2016/2017 ha scelto un indirizzo liceale. Uno su tre, il 30,4%, ha optato per
l’istruzione tecnica. Il 16,5% degli iscritti ha scelto un percorso
professionale. (Fonte: www.corriereuniv.it 23-02-16)
ANCHE SE FUORI TERMINE OK AL
TRASFERIMENTO PER LO STUDENTE EUROPEO NELLA FACOLTÀ ITALIANA A NUMERO CHIUSO
Con la sentenza in forma semplificata n. 70 del 02/03/2016, il TAR
Parma ha accolto il ricorso proposto da uno studente di Odontoiatria
proveniente da un ateneo spagnolo, il quale aveva richiesto l'iscrizione
all'Università degli Studi di Parma oltre il termine previsto dal bando per i
trasferimenti, in presenza di posti vacanti. Il diniego opposto dall'Università
parmense si fondava, esclusivamente, sulla mancata presentazione della domanda
di trasferimento entro il termine previsto da un avviso pubblico. Nonostante la
previsione di un simile termine, il Tribunale Amministrativo emiliano ha
riconosciuto l'illegittimità del diniego espresso dall'Ateneo, annullando tutti
i provvedimenti impugnati. Infine è stato affermato l'ormai unanime
orientamento giurisprudenziale alla stregua del quale il trasferimento di
studenti da Facoltà straniere ai corsi di laurea in Medicina e Chirurgia ed in Odontoiatria
e Protesi Dentaria delle Università italiane, non subisce altre limitazioni se
non quelle legate all’effettiva ricettività delle strutture ed alla concreta
valutazione della carriera universitaria pregressa. (Fonte: G. F. Fidone, www.StudioCataldi.it 10-03-16)
VARIE
IN
SETTE GRAFICI LA SITUAZIONE DELL’UNIVERSITÀ ITALIANA
Il mondo universitario e della ricerca è
sembrato piuttosto lontano dalle preoccupazioni – e dalla retorica – di
governo. Eppure, ci sono pochi altri settori in cui un paese avanzato come
l’Italia avrebbe bisogno di interventi profondi e urgenti.
Lo dicono i numeri. Nei grafici che seguono linkiesta prova a metterne qualcuno
in campo > http://www.linkiesta.it/it/article/2016/02/06/il-disastro-delluniversita-italiana-in-7-grafici/29167/
(06-02-16)
LA CONTRAZIONE
DELL’UNIVERSITÀ ITALIANA
Variazioni rispetto ai valori massimi del 2004-2008: immatricolati -20%; docenti -17%; personale tecnico-amministrativo
-18%; corsi di studio -18%; FF0 (valori reali) -22%. (Fonte rapporto RES e Roars 2016)
UN
“GRUPPO DI LAVORO SUI BIG DATA” AL MIUR
Secondo la definizione di WikipediA
si parla di Big Data quando si
ha un dataset talmente grande da richiedere strumenti non convenzionali per
estrapolare, gestire e processare informazioni entro un tempo ragionevole. Il 28 gennaio scorso, sul sito del MIUR è stata
data notizia dell’istituzione di un “Gruppo di lavoro sui Big Data”, «per
avviare una riflessione condivisa e strategica sui Big Data finalizzata a
mettere a punto nuovi approcci per utilizzare quelli di competenza del MIUR
nella formulazione di decisioni di grande impatto scientifico, amministrativo e
politico». Anche il settore scolastico, universitario, della ricerca e
dell’alta formazione artistica e musicale, infatti, contribuisce alla creazione
dei Big Data per i quali, dunque, il MIUR intende avviare un’analisi
finalizzata alla valorizzazione degli stessi a sostegno delle decisioni di
sistema, all’individuazione delle traiettorie di sviluppo e a come l’Italia
potrebbe intercettarle. (Fonte:
Redazione Roars 21-02-16)
IL
PARTENARIATO TRA UNIVERSITÀ ED ENTI LOCALI
Il crescente ricorso a forme
di cooperazione fra soggetti pubblici mediante modelli convenzionali impone di
tratteggiare la linea di demarcazione tra il partenariato e la disciplina dei
contratti ad evidenza pubblica. L’analisi è legata all’ampia previsione
dell’art. 15 della l. n. 241 del 1990, che consente alle amministrazioni
pubbliche di concludere fra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in
collaborazione di attività di interesse comune, nonché alle disposizioni
settoriali riferite agli enti locali e alle università. Le nuove direttive
sull’aggiudicazione dei contratti pubblici, in corso di recepimento, si
mostrano sensibili alla questione e pongono alcune indicazioni di sistema.
Leggi di più > http://tinyurl.com/ztb3lfc (Fonte: S. Foà e M. R. Calderaro, federalismi.it 24-02-16)
SCIENZIATI IN AUMENTO NEL
MONDO
Non ci sono mai stati così tanti scienziati nel mondo e il trend è in
continua crescita: a rivelarlo è l’Unesco che ogni cinque anni pubblica il
World Science Report. Un incremento del 21% tra il 2007 e il 2013, ultimo anno
di rilevamento per il World Science Report
dell’Unesco. A far crescere il numero degli scienziati ci pensano
soprattutto Cina e Stati Uniti, che, nell’ordine, sfornano il 19,1% e il 16,7%
di tutti i ricercatori scientifici al mondo. Ad Israele, invece, va la maggiore
densità di scienziati rispetto alla popolazione: 8.337 ogni milione di
abitanti. Per intenderci, una percentuale doppia rispetto a quella di Stati
Uniti e Gran Bretagna. Menzione d’onore per la Bolivia, il paese con maggiori
quote rosa nel mondo scientifico: nel paese sudamericano il 63% degli
scienziati sono donne, mentre nel vecchio continente la media è ferma a circa
la metà (il 33%).
Chiaramente sono i paesi più industrializzati ad essere leader sia per
numero di ricercatori che per investimenti di settore: l’87% degli scienziati è
nato in uno dei paesi del G20 e firmano il 84% delle pubblicazioni
scientifiche. Il 92% degli investimenti in ricerca e innovazione, poi, proviene
sempre dalla parte più ricca e industrializzata del mondo. Una spesa che
continua a crescere: rispetto al 2007, l’investimento in ricerca e innovazione
è cresciuto del 30,5%, sia grazie a programmi di istituzioni pubbliche sia con
le sovvenzioni di privati e industrie. Ultimo dato, la percentuale di giovani
che riescono a completare i propri studi in un paese diverso da quello
d’origine: se nel 2005 erano “solo” 2,8 milioni, nel 2013 la quota è salita a
4,1 milioni di giovani scienziati, merito soprattutto dello sviluppo delle
collaborazioni internazionali e dei sistemi open source. (Fonte: https://it-it.facebook.com/CorriereUniv/posts/1050021188361761
27-11-15)
AUMENTANO LE FRODI SCIENTIFICHE
“Nell’intera
produzione scientifica mondiale almeno il 10% è viziato da plagi, dati
‘aggiustati’, immagini corrette al computer o addirittura fabbricate ad arte.
Si tratta di milioni di truffe accademiche in tutto il mondo. E il dato è certamente
sottostimato”. Ad affermarlo è Enrico Bucci, biologo ed ex ricercatore del CNR,
nel suo recente libro “Cattivi scienziati”. La frode nella ricerca scientifica
non è certo una novità, ma oggi viene praticata a livelli mai visti prima
perché, come scrive Bucci, “la pubblicazione è la moneta sonante dell’accademia
italiana, lo strumento per fare carriera e ottenere finanziamenti”. Specie da
quando, aggiungiamo noi, la valutazione dei ricercatori è sempre più basata su
indici bibliometrici (Impact factor, h-index, numero di citazioni …) e sempre
meno affidata alla peer review. Nel 2010, in occasione della Seconda Conferenza
Mondiale sull’Integrità della Ricerca, la comunità internazionale ha sentito la
necessità di elaborare un “codice deontologico” della professione di
scienziato: la “Dichiarazione di Singapore sull’Integrità della Ricerca”. In
Italia, sul fronte delle frodi scientifiche e dell’integrità della ricerca, è
particolarmente attivo il CNR che ha istituito una Commissione per l’Etica
della Ricerca e la Bioetica, un organismo indipendente con funzioni di
consulenza che, come pubblicato nella Newsletter 1/2016, ha recentemente
elaborato delle “Linee guida per l’integrità nella ricerca” e un “Codice di
etica e deontologia per i ricercatori che operano nel campo dei beni e delle
attività culturali“ che punta ad essere di riferimento per l’intera comunità
scientifica nazionale.
Il
fenomeno delle frodi scientifiche è così esteso e così preoccupante che cinque
anni fa è nato Retraction Watch, un blog che si occupa di censire tutte le
retraction di articoli scientifici frutto di frodi scientifiche: plagio,
risultati manipolati, dati creati ad hoc ... . Nel solo 2013 Retraction Watch
ha censito ben 511 articoli ritirati perché frutto di frode scientifica.
(Fonte: www.anpri.it
25-02-16)
ATENEI. IT
UNIBO. GLI STUDENTI MONITORANO I PROFESSORI
Scrivere
che i professori universitari sono degli impuniti assenteisti sta diventando un
luogo comune (Marilena Dossena, “Università: quei docenti al lavoro tre volte l’anno”
– http://bit.ly/1Uhxabe).
Lavoro come ricercatore della Scuola di Scienze dell’Università di Bologna, e
nella mia università (e in tanti altri atenei) il rispetto dell’orario da parte
dei docenti è monitorato sin dall’anno accademico 2004/2005. Alla fine di ogni
lezione gli studenti devono compilare un modulo con domande riguardanti la loro
opinione su docente, qualità dell’insegnamento e delle infrastrutture e altro
ancora. La domanda n. 10 chiede, ad esempio, se “Il docente è reperibile per
chiarimenti e spiegazioni”. È tutto visibile, per ogni scuola, a questo
indirizzo http://opinionistudenti.unibo.it/opinionistudenti/
. A Bologna l’opinione degli studenti è una cosa seria, tanto che questi dati
contribuiscono a definire la qualità di un dipartimento con conseguenze sulla
distribuzione delle risorse locali. Quello che mi colpisce è la
generalizzazione in cui, “salvo le debite eccezioni”, tutti i professori
universitari sono assenteisti. È vero il contrario: la maggior parte del corpo
docente è fatta da ricercatori e professori responsabili che, anche se non
timbrano il cartellino, si dedicano con passione alla ricerca e agli studenti,
molto spesso ben oltre le canoniche 8 ore al giorno. (Fonte: R. Braga, lettera
a Bsev, Corsera 23-02-16)
UNIMI. ESPERIMENTO PER
L’ACCESSO IN BASE ALLA MEDIA DEI VOTI AL LICEO
Al dipartimento di Psicologia dell'università Bicocca dal 2012 è in
corso una sperimentazione: i circa 190 studenti (su 1000) che si sono iscritti
ai corsi di psicologia grazie alla loro media dei voti più alta al liceo, e per
questo senza fare il test d'ingresso, sono andati meglio degli altri che sono entrati
sostenendo una prova. Bassissimo il tasso di abbandoni (sotto l'uno per cento).
Questi studenti prendono in media due voti in più agli esami e rimangono in
pari con il corso rispetto ai colleghi. Studenti che sono arrivati come
matricole nei corsi di laurea in Scienze e tecniche psicologiche e Scienze
psicosociali della comunicazione con una media del 7,5 o più al terzo e al
quarto anno delle scuole superiori. Per loro la selezione avviene tramite un
colloquio, che non è un'interrogazione ma piuttosto un'indagine sulle
motivazioni reali delle future matricole. (Fonte: La Repubblica 03-03-16)
IL SISTEMA DELLA RICERCA IN
TOSCANA
Il sistema della ricerca è ben articolato sul territorio: tre
Università (Firenze, Pisa e Siena), con due realtà di rilievo internazionale
nel campo della ricerca come la Scuola Normale e il Sant'Anna (entrambe fanno
parte dell'Ateneo di Pisa); laboratori ai vertici mondiali nei rispettivi
settori, come Lens (spettroscopia) e Cern (fisica delle particelle) nel polo
scientifico di Sesto Fiorentino, e Virgo, l'interferometro per rilevare le onde
gravitazionali di Cascina (Pisa), al centro delle cronache dopo che i
ricercatori americani hanno per primi confermato la teoria di Albert Einstein
sull'esistenza delle “onde”; una presenza del Cnr nel capoluogo regionale e
all'ombra della Torre pendente, che per numero di ricercatori vede la Toscana
al terzo posto in Italia (dopo Lazio e Lombardia); l'Istituto nazionale di
Fisica nucleare (Infc), con sedi a Firenze e Pisa, l'Istituto nazionale di
Astrofisica (Inaf), a Firenze, e l'Istituto nazionale di geofisica e
vulcanologia (Ingv), a Pisa. E nei giorni scorsi è stato inaugurato in
provincia di Grosseto, a Borgo Santa Rita, Certema, Laboratorio tecnologico
multidisciplinare della Toscana. In tutto, i centri di ricerca nella regione
sono oltre 240 e occupano 2.700 ricercatori (più di 7mila gli addetti
complessivamente). (Fonte: C. Peruzzi, www.ilsole24ore.com
08-03-16)
UE. ESTERO
EU. RELAZIONE EURYDICE SULLE SPESE PER L'ISTRUZIONE
SUPERIORE E SUL SOSTEGNO FINANZIARIO NEI PAESI EUROPEI. QUATTRO TIPI DI SISTEMA
Dal 2011,
Eurydice pubblica una relazione annuale sulle spese per l'istruzione superiore
e sul sostegno finanziario in ogni paese europeo: la cosa più evidente sono
proprio i differenti approcci nazionali in materia. Ne derivano quattro tipi di
sistema: in primo luogo, ci sono paesi dove le tasse sono relativamente alte
per la maggior parte degli studenti, mentre una piccola parte di essi riceve un
sostegno finanziario in base al reddito o al rendimento. Possiamo dire che
questi paesi (tra cui Italia, Spagna, Lettonia, Lituania e Svizzera) offrono un
"sostegno mirato".
Un
secondo tipo di sistema è quello dove le tasse sono alte, ma il sostegno finanziario
è molto diffuso (Regno Unito, esclusa la Scozia). Qui, sebbene tutti gli
studenti debbano pagare circa 12.000 euro l'anno, in realtà pagano dopo il
conseguimento della laurea, e anche allora i laureati pagano solo una
percentuale di guadagno al di sopra di una determinata soglia salariale. Circa
il 60% degli studenti del primo ciclo può beneficiare di sovvenzioni e tutti
possono avere dei prestiti. Pertanto, anche se gli studenti arrivano alla fine
degli studi con un debito molto alto, hanno dei soldi in tasca durante gli anni
universitari. Potremmo definire questo modello come "studio ora, pago
poi".
Il terzo
modello prevede tasse basse, se non inesistenti, e un sostegno molto diffuso. È
il modello in vigore nei sistemi nordici, come anche a Malta, Cipro e Scozia.
L'obiettivo è quello di offrire a tutti uguale sostegno, e potremmo chiamarlo
"sostegno per tutti". L'ultimo modello combina bassi livelli di tasse
con bassi livelli di aiuti. Questo sistema - che potremmo definire " finanziamento
zero" - è presente in alcuni paesi dei Balcani occidentali.
Quale,
tra questi modelli, aiuta maggiormente gli studenti meno abbienti? Molti
potrebbero pensare istintivamente che il modello "sostegno per tutti"
favorisca la partecipazione allargata. Eppure le statistiche dimostrano che i
paesi che attuano queste politiche hanno dei problemi nell'attrarre studenti
svantaggiati. Ad esempio, se confrontiamo i tassi di partecipazione di studenti
meno abbienti in Scozia ("sostegno per tutti") e in Inghilterra
("studio ora, pago poi") non si rilevano differenze significative, e
nessuno dei due sistemi può vantare particolari successi.
Forse la
conclusione più importante che se ne trae è che, qualunque sia il modello di
tassazione e di sostegno, solo una piccola parte dei nostri sistemi di
istruzione superiore è riuscita ad aprirsi in modo significativo ai gruppi
svantaggiati. (Fonte: Traduzione a cura di Isabella Ceccarini dell'articolo di
David Crosier ed Elisa Simeoni, “Focus on: Is money the solution to widening
participation in higher education?”, 15-02-16, © European Union, 1995-2016.
Rivistauniversitas 24-02-16)
FINLANDIA. TAGLI RILEVANTI
ALL’ISTRUZIONE TERZIARIA
Entro il 2017 l’Università di Helsinki dovrà ridurre di un migliaio di
persone il suo staff per far fronte ai robusti tagli alla spesa pubblica che,
in una Finlandia ormai obbligata a intraprendere la strada dell’austerity,
coinvolgono anche il settore istruzione, fiore all’occhiello del Paese. Tagli
che colpiranno sia il personale tecnico che docente. Gli alfieri
dell’austerity, davanti alle difficoltà economiche del Paese hanno deciso di
procedere con le forbici e le Università si trovano di conseguenza a
fronteggiare un ridimensionamento di dimensioni straordinarie. (Fonte:
IlSole24ore 16-03-16)
POLONIA.
COME LA RADA VALUTA GLI ISTITUTI SCIENTIFICI
La Rada Konsultorów del PAN,
ovvero del Consiglio Scientifico del Dipartimento delle scienze umane e sociali
della Accademia Polacca delle Scienze (in tutto cinque dipartimenti o sezioni),
è il massimo organo che vigila su tutti gli istituti scientifici in questo
ambito disciplinare (in tutto 14, con tre unità di supporto, come archivi e
biblioteche). Esso, tra le altre cose, ha il compito di valutare ogni quattro
anni le performance degli istituti; dopo due anni se quella della cadenza
regolare è stata negativa. Il modo di procedere di Rada va nello specifico
delle situazioni, mira ad una loro conoscenza diretta, a una presa d’atto di
persone e cose e non si basa su formulari o giudizi su due sole opere effettuati
da persone sempre destinate a rimanere sconosciute, come nella VQR. Il suo
scopo non è punire e tagliare, ma piuttosto far crescere la struttura,
accompagnarla nella sua capacità di miglioramento, dandole i mezzi per poter
effettivamente procedere in questa direzione, giudicando le situazioni nella
loro specificità. Non si vuole ridimensionare il sistema della ricerca nel suo
complesso – come, di fatto, sta avvenendo in Italia – ma migliorarne il
rendimento, cercando di individuare e affrontare i problemi complessivi che
concernono la struttura. In secondo luogo, di fronte alla minaccia di uno
scioglimento dell’Istituto, nessuno sarà disposto a rischiare la propria pelle
per proteggere il figlio di Tizio o l’amante di Sempronio; nessuno ha
l’interesse di salvaguardare il posto di chi non fa nulla, perché “tanto non
leva di bocca il pane a nessuno”.
Certo, in questo sistema vi
sono punti che potrebbero e dovrebbero essere migliorati o approfonditi e
inoltre ha aspetti che possono anche risultare ostici a chi è abituato a una
gestione democratica dell’università. Infatti, i direttori non sono eletti dal
personale scientifico (e/o impiegatizio) degli istituti, ma sono il risultato
di un concorso pubblico, specifico per ciascuna struttura, gestito da una
commissione nominata sempre dalla Rada. E chi è abituato al posto garantito a
vita, può storcere il naso di fronte a una soluzione così drastica come quella
dello scioglimento e del licenziamento. Bisogna però dire che questa è una
ipotesi abbastanza rara ed è inoltre facile per i ricercatori migliori trovare
una nuova collocazione, ad es. all’università o magari in un altro istituto
affine che può essere creato dal PAN in sostituzione di quello liquidato.
Sicché a correre dei veri rischi sono i ricercatori più inefficienti e
improduttivi. (Fonte: F. Coniglione, Roars 21-02-16)
UK
UNIVERSITY FAIR, L’EVENTO (GRATUITO) CHE AIUTA A SCEGLIERE L’UNIVERSITÀ
Ogni anno sono oltre 430.000
gli studenti che arrivano dall’estero per frequentare un’università britannica.
Ciascuno di loro vi arriva dopo avere scelto uno tra i circa 100 atenei del
Regno Unito. Un compito non facile, pensando a tutti gli elementi che possono
influire sulla scelta (dalla ubicazione del campus al prestigio
dell’università) e considerando anche la grande varietà in termini di corsi di
laurea offerti. I siti web delle università, insieme a quello di UCAS,
l’organismo che coordina il processo di application, offrono una grande varietà
di informazioni, ma il processo di raccolta e analisi di queste informazioni
può rivelarsi estremamente complesso. Un modo più rapido ed efficace per
orientarsi nella scelta è quello di frequentare una fiera specializzata nel
mettere in contatto gli studenti europei e internazionali con le università
britanniche. Organizzata da SI-UK Education Council, la UK University Fair è un
evento gratuito pensato ad hoc per gli studenti internazionali, che nell’arco
di un pomeriggio avranno la possibilità di incontrare un gran numero di
università del Regno Unito. L’evento ha avuto luogo Sabato 5 marzo 2016 al
Lancaster London Hotel. (Fonte: www.londraitalia.com 22-02-16)
UK. DALL’INIZIO DEL PROSSIMO
ANNO ACCADEMICO NESSUNA BORSA DI STUDIO STATALE MA SOLO PRESTITI
I giovani inglesi che decideranno di iscriversi alle università del
proprio Paese non potranno beneficiare di alcun tipo di borsa di studio statale
a partire dal prossimo anno accademico. È quanto ha deciso il governo
britannico, a metà gennaio, che non dà segni di tornare indietro su questa
scelta definitiva, nemmeno di fronte alle numerose proteste studentesche e agli
appelli dell’opposizione. Dunque, non ci sarà più alcun tipo di sussidio che
contribuisca alle spese che le famiglie dovranno affrontare per far fronte ai
costi della vita universitaria dei ragazzi. I nuovi immatricolati potranno
usufruire soltanto dei prestiti che andranno a sostituire completamente tutte
le altre forme di benefici previste fino a quest’anno. L’Inghilterra è già la
nazione con le tasse universitarie più alte d’Europa e dove non è possibile
ambire a esenzioni meritocratiche nemmeno parziali. Le tasse, però, non vengono
pagate immediatamente ma solo dopo la laurea, quando lo stipendio dei laureati
supera la soglia delle 21.000 sterline l’anno. E questo è un modello
assolutamente unico in Europa. La manovra di questo nuovo sistema potrà forse
dare un iniziale sollievo alle casse statali, ma poi rischia di rivelarsi un
boomerang. Infatti, l’Institute for Fiscal Studies ha stimato che solo un
quarto dei prestiti elargiti nei prossimi anni ai ragazzi che decideranno di
intraprendere il percorso degli studi universitari potrà essere restituito.
(Fonte: M. Silvestre, www.iostudionews.it
marzo 2016)
CILE. APPROVATA LA LEGGE SULLA
GRATUITÀ DEGLI STUDI DELL’ISTRUZIONE SUPERIORE
Il 23 dicembre 2015 il Parlamento cileno ha approvato una legge che
garantisce l'istruzione superiore gratuita agli studenti meno abbienti.
L'approvazione costituisce l'ultima fase di un lungo percorso che da anni vede
i movimenti studenteschi cileni chiedere a gran voce la revisione del sistema
universitario istituito nel 1981 dalla dittatura militare di Pinochet, che ha
obbligato le università pubbliche ad autofinanziarsi e gli studenti a pagare migliaia
di dollari l'anno di tasse.
Nel 2011 Michelle Bachelet, all'epoca candidata alla presidenza del
Cile, ascoltò le richieste degli studenti (gli slogan erano "istruzione
pubblica come diritto" e "istruzione libera e di qualità per
tutti"). Una volta diventata presidente nel 2014, si impegnò ad esaudirle,
concentrandosi soprattutto sull'istruzione superiore gratuita. La promessa è
stata mantenuta: a partire da marzo 2016, 178.000 studenti fra i più indigenti
frequenteranno l'università gratuitamente, anche se l'intenzione di Bachelet è
di estendere il provvedimento a tutti entro il 2020. (Fonte: E. Cersosimo,
rivistauniversitas 03-03-16)
USA. LA RICCA UNIVERSITÀ DI STANFORD
L'università
americana di Stanford lancia un fondo da 750 milioni di dollari destinato tra
l'altro a erogare borse di studio per creare la prossima generazione di leader
mondiali. Philip Knight, fondatore di Nike, ha versato 400 milioni di dollari
alla Stanford University, una delle donazioni più alte di sempre mai fatte da
singoli individui. Come riporta il Financial Times, le donazioni sono usate per
un fondo da 750 milioni di dollari destinato tra l'altro a erogare borse di
studio in grado di competere con programmi di università rivali, come la Rhodes
Scholarships della Oxford University, assegnata tra gli altri anche all'ex
presidente americano Bill Clinton. Knight non è l'unico ad avere fatto
donazioni del genere: Bill Gates, fondatore di Microsoft, ha dato 210 milioni
di dollari per un programma di borse di studio biennali della Cambridge
University e l'amministratore delegato di Blackstone Stephen Schwarzman ha
versato 100 milioni di dollari a sostegno di un programma della cinese Tsinghua
University. (Fonte: www.affaritaliani.it 25-02-16)
LIBRI. RAPPORTI. SAGGI
CATTIVI SCIENZIATI
Autore:
Enrico Bucci. Prefazione di Elena Cattaneo. Add Editore,
Torino. 160 pagine.
Quando ho
iniziato a lavorare nel settore dell’analisi dei dati biomedici ero convinto
che la Scienza si autocorreggesse e che i ricercatori fossero motivati nel dire
sempre la verità. Nelle discipline scientifiche ogni ricercatore ha fiducia e
si appoggia ai risultati ottenuti da altri per le proprie particolari indagini,
il che era ciò che intendevo fare, incrociando dati provenienti da fonti
diverse e individuando possibili risposte a problemi scientifici molto
differenti. Immaginate lo shock che ho provato quando, armato della giusta
tecnologia informatica, con il mio gruppo di collaboratori, ho trovato che
nella letteratura scientifica corrente i tre peccati capitali della frode
scientifica – fabbricazione di dati ed esperimenti, loro falsificazione e
plagio – sono talmente diffusi da destare seria preoccupazione riguardo
all’affidabilità di ciò che crediamo di sapere. Ho cominciato a scrivere alle
riviste di settore per investigare su potenziali casi di frode, e ho finito con
il coinvolgere la polizia in qualche caso davvero preoccupante. La frode nella
ricerca scientifica non è una novità, ma oggi viene praticata a livelli mai
visti prima. Il risultato? La Scienza è minacciata da un numero crescente di
ricercatori disonesti che, perseguendo i loro scopi personali, danneggiano la
collettività. In questo libro si racconta chi fa frode scientifica e quali
interessi persegue, si indagano le conseguenze della sottrazione di fondi alla
buona ricerca e si evidenzia il danno provocato allo sviluppo economico del
nostro Paese. (Fonte: Presentazione dell’autore)
HERITAGE UNIVERSITY. COMUNICAZIONE E MEMORIA DEGLI
ATENEI
Autore:
Raffaele Lombardi. Aracne ed., Roma,
2015, 244 pagine.
Le
strategie di storicizzazione che impegnano oggi la cultura e la comunicazione
delle organizzazioni individuano nella memoria una rinnovata risorsa per la
reputazione istituzionale degli atenei. A partire da un'analisi di scenario
volta a ripercorrere le tendenze in atto nella comunicazione universitaria, il
volume offre una ricognizione delle esperienze di storicizzazione e di
trasmissione dell'heritage (archivi storici, collezioni e musei, identità
visiva, web, ecc.) promosse dagli atenei italiani ed esteri. Restituendo uno
spaccato delle opportunità espressive e relazionali che un simile investimento
offre, le indagini presentate incoraggiano un ripensamento dei linguaggi e
delle forme di comunicazione storica delle università, fino a ridisegnare le
strategie di relazione
con i
pubblici per rilanciare, nel presente e nel futuro, l'identità degli atenei
italiani. (Fonte: presentazione dell’editore)
EU. RAPPORTI DELLA CE SU ERASMUS
Tre
Rapporti pubblicati dalla Commissione Europea offrono il resoconto del primo
anno operativo di Erasmus+, dell'ultimo anno del "vecchio" programma
Erasmus (a.a. 2013/14) e delle tendenze regionali relative agli effetti della
mobilità studentesca in campo occupazionale e di inclusione sociale. I dati
evidenziano una maggiore partecipazione al primo anno di Erasmus+, con alcune
migliorie rispetto al passato: sono state attribuite 650.000 borse di mobilità
per studenti, tirocinanti, insegnanti e volontari; è stato facilitato l'iter
per i primi prestiti agli studenti che desiderano seguire un corso di laurea
magistrale all'estero; è stato garantito un maggior sostegno al riconoscimento
in Patria degli studi svolti all'estero; è stato attivato un nuovo sostegno
linguistico per migliorare le competenze degli studenti; sono stati appoggiati
progetti di cooperazione tra istituzioni di istruzione superiore e imprese
(knowledge alliances). Molto positivi anche i risultati per i dati riferiti
all'ultimo anno di Erasmus, che hanno evidenziato cifre record di
coinvolgimento universitario, con 272.000 borse di mobilità studentesca e dello
staff amministrativo (+2% rispetto
all'anno precedente). Spagna (39.277 studenti), Germania (30.964) e Francia
(29.621) si sono confermati i Paesi più attrattivi degli studenti in mobilità;
gli stessi Paesi hanno inviato studenti in altri Paesi partner (Spagna 37.235,
Francia 36.759 e Germania 36.257). L'Italia mantiene saldamente Il 4° posto,
facendo registrare una crescita del 4,4% nelle partenze (26.331 unità), che
hanno beneficiato del co-finanziamento nazionale. La Spagna (5.701 unità),
seguita da Germania (5.101) e Italia (4.860), guida anche l'ideale classifica
dei Paesi maggiormente prescelti dallo staff e il Belgio è risultato il Paese
con il maggior numero dei progetti di cooperazione tendenti a modernizzare
l'istruzione superiore (15 progetti pari al 19% di quelli complessivamente
finanziati). (Fonte: M. L. Marino, rivistauniversitas 08-02-16)
ORGANI DEL DIPARTIMENTO E MODALITÀ DELLA LORO
COMPOSIZIONE: GLI AMBITI DELL’AUTONOMIA UNIVERSITARIA
Autore: Cristiana
Benettazzo. Federalismi.it, n. 4/2016, 42 pagine.
Il problema si pone
soprattutto per gli organi del Dipartimento, in ordine ai quali la l. n. 240
del 2010 nulla dispone quanto alle modalità della loro composizione. Ci si
domanda se gli statuti universitari, che hanno disciplinato la materia,
inserendo nei propri atti organizzativi specifiche norme al riguardo, relative,
ad es., alle cause di ineleggibilità o alla durata delle cariche, siano
illegittime, trattandosi di materia coperta da riserva di legge ex art. 51
Cost. ovvero se si tratti di previsioni del tutto in linea con la l. n. 240 del
2010, che, tra l’altro, pone precisi limiti alla reiterabilità dei mandati
degli organi di governo dell’Ateneo. Il problema non è di poco conto, laddove
si consideri la portata stessa di pronunce giurisdizionali che incidano su
norme statutarie dell’Università, a fronte della generale diffusione di
analoghe disposizioni in moltissime Università italiane e del loro rilievo
centrale per l’organizzazione degli Atenei. I temi coinvolti, come detto,
attengono non solo all’ampiezza dell’autonomia statutaria, ma anche ai
possibili nessi tra il moderno e sempre più preponderante concetto di
“delegificazione” e il concetto (più tradizionale ma non meno criptico) di
autonomia universitaria, fino ad estendersi al
problematico rapporto tra fonti statali e fonti di autonomia. Si tratta,
in realtà di questioni risalenti, che si sono poste in passato per le Facoltà
(già prima della l. 9 maggio 1989, n. 168) e che si ripropongono, in termini
più stringenti, nei confronti dei nuovi Dipartimenti, cui la legge di riforma
ha attribuito il contestuale esercizio delle funzioni finalizzate allo
svolgimento delle attività didattiche, formative e di ricerca scientifica.
Scopo di questo studio è allora quello di rappresentare con sufficiente
chiarezza gli spazi dell’autonomia universitaria in rapporto alla nuova
disciplina degli organi del Dipartimento ex lege n. 240 del 2010. (Fonte: http://tinyurl.com/jxva9dr)
HIGHER EDUCATION IN THE BRICS COUNTRIES:
INVESTIGATING THE PACT BETWEEN HIGHER EDUCATION AND SOCIETY
Curatori:
Simon Schwartzman, Rómulo Pinheiro, Pundy Pillay. Springer ed., 2015, pagine
XVI-493.
In questo
primo studio comparativo sistematico vengono analizzati passato, presente e
futuro dell’istruzione superiore nei Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina
e, dal 2009, Sudafrica), e in particolare il contributo dei sistemi
universitari nazionali alla loro crescita. Nei cinque Paesi convivono
similarità e divergenze in un certo numero di ambiti: tranne che in Brasile, il
finanziamento del sistema è a carico dello Stato e si tende a concentrare le
risorse verso la ricerca, seguendo il paradigma delle world class universities.
Differiscono tra loro nel rapporto tra potere governativo e mondo accademico:
dalla tendenza al decentramento di autorità in Cina, all’ampliata
centralizzazione in Russia e alla scarsa regolazione del settore privato in
Brasile e parzialmente in India. Brasile, Cina, India e Sudafrica hanno
iniziato un vertiginoso ed inarrestabile aumento dei nuovi iscritti solo a
partire dagli ultimi anni del XX secolo mentre la Russia ha ereditato un
complesso sistema universitario dalla preesistente Unione Sovietica. Tutti
hanno dovuto fronteggiare la questione costi/benefici per la società,
determinata dall’aumentata domanda di istruzione superiore (pari status
giuridico assicurato in Brasile alle Università non statali, maggiore
enfatizzazione in Cina del contributo universitario al mondo produttivo). (Fonte: M. L. Marino, rivistauniversitas,
febbraio 2016)
RAPPORTO. DOCUMENTO DI LAVORO DEI SERVIZI DELLA COMMISSIONE. Relazione per
paese relativa all'Italia 2015 comprensiva dell'esame approfondito sulla
prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici
Il rapporto della Commissione Ue sugli squilibri
macroeconomici, nel capitolo dedicato al mercato del lavoro sostiene
che la fuga di cervelli può causare una perdita netta permanente di capitale
umano altamente qualificato, a danno della competitività dell'Italia. A medio e
lungo termine può compromettere le prospettive di crescita economica
dell'Italia e anche le sue finanze pubbliche. Secondo lo studio il numero di giovani
altamente qualificati che emigrano all'estero è cresciuto rapidamente a partire
dal 2010 e non è stato compensato da flussi di italiani, con pari qualifiche,
che hanno fatto rientro in patria. E tantomeno - sottolinea il Rapporto Ue - si
può parlare di uno scambio di cervelli: molti lavoratori italiani altamente
qualificati italiani lasciano il Paese, ma solo pochi cittadini di altri Paesi,
dello stesso livello, scelgono l'Italia come destinazione. L'aumento di
emigrazione - sottolinea il rapporto - riflette le migliori opportunità e
condizioni di lavoro all'estero. I sondaggi indicano che, rispetto ai loro
omologhi che lavorano in Italia, i giovani laureati italiani che lavorano
all'estero non solo guadagnano di più ma sono più spesso assunti con contratti
a tempo indeterminato e ritengono che la loro qualifica ufficiale sia più
idonea per il lavoro che svolgono. In particolare, tra gli italiani in possesso
di un dottorato, quelli che lavorano all'estero affermano di avere migliori
opportunità di lavoro e retribuzioni molto più elevate. Ciò spiega la loro
bassissima propensione a voler tornare in Italia. Di conseguenza questo
fenomeno non rientra nella definizione di “circolazione di cervelli”, cioè
quando persone si recano temporaneamente all'estero per studiare o lavorare, ma
poi tornano nel Paese d'origine. Quanto ai danni sociali, il rapporto osserva
che la “fuga dei cervelli” comporta un duplice costo finanziario: in primo
luogo la spesa pubblica sostenuta per l'istruzione di studenti che poi lasciano
definitivamente il Paese, e, in secondo luogo, in termini di futura perdita di
gettito da imposte e contributi sociali che i migranti altamente qualificati
avrebbero pagato lavorando in Italia. (Fonte: ANSA 26-02-16).
MATHEMATICS EDUCATION IN THE EARLY YEARS
Results from the
POEM2 Conference, 2014.
Curatori: Meaney,
T., Helenius, O., Johansson, M.L., Lange, T., Wernberg, A. Springer ed. 2016,
98 pagine.
Builds on topics
discussed in Early Mathematics Learning - Selected Papers of the POEM 2012
Conference. This book presents chapters based on papers presented at the second
POEM conference on early mathematics learning. These chapters broaden the
discussion about mathematics education in early childhood, by exploring the
debate about construction versus instruction. Specific sections investigate the
teaching and learning of mathematical processes and mathematical content, early
childhood teacher development, transitions for young children between home and
preschool, between home and school and between preschool and school. The
chapters use a range of innovative theoretical and methodological approaches
which will form an interesting basis for future research in this area. (Fonte: http://www.springer.com/us/book/9783319239330
2016)
UNESCO SCIENCE REPORT. Towards 2030
Published in 2015 by the United Nations Educational, Scientific and
Cultural Organization,
Paris 07 SP, France. Revised edition 2016. 794 pagine.
In 2015, the United Nations General Assembly took a historic and
visionary step with the adoption
of the 2030 Agenda for Sustainable Development. For the first time at
this level, the role of science, technology, and innovation has been explicitly
recognized as a vital driver of sustainability.
Sustainability depends on the capacity of states to put science at the
heart of their national strategies for development, strengthening their
capacities and investment to tackle challenges, some of which are still
unknown. This commitment resonates at the heart of UNESCO’s mandate and I see
this as a call for action, as we celebrate the 70th anniversary of the
Organization.
I see this edition of the UNESCO Science Report as a springboard to
take the 2030 Agenda for
Sustainable Development forward,
providing precious insights into the concerns and priorities
of member states and sharing critical information to harness the power
of science for sustainability.
The UNESCO Science Report draws a comprehensive picture of the many
facets of science in an
increasingly complex world – including trends in innovation and
mobility, issues relating to big data and the contribution of indigenous and
local knowledge to addressing global challenges. This report is unique in
providing such a clear vision of the global scientific landscape, reflecting
the contributions of more than 50 experts from across the world. I am convinced
that the analysis here will help clear the path towards more sustainable
development, laying the foundations for more inclusive knowledge societies
across the world. Segue il link per l'intero report http://unesdoc.unesco.org/images/0023/002354/235406e.pdf .
(Fonte: prefazione di Irina Bokova, Director-General of UNESCO, 2016)
LE FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE IN ITALIA
Autori:
Roberto Scarciglia, Franca Alacevich, Francesco Guida. Il Mulino ed., Bologna
2015, 216 pagine.
La legge
30 dicembre 2010 – meglio nota come Legge Gelmini – ha riorganizzato le
università italiane secondo nuovi criteri, lasciando ai singoli atenei
l’autonomia delle scelte. Per questo motivo, in molti atenei le facoltà di
Scienze politiche sono state incorporate in altri dipartimenti. Gli autori del
presente volume illustrano proprio l’iter seguito dalle facoltà di diverse sedi
universitarie: Bari, Bologna, Firenze, Genova, Macerata, Milano Cattolica,
Milano Statale, Napoli Orientale, Padova, Perugia, Roma Sapienza, Roma Tre,
Salerno, Siena, Teramo, Trieste, Calabria, Urbino, Valle d’Aosta. Di ogni sede
viene illustrata l’origine storica della facoltà, descrivendone il progetto
culturale iniziale e come esso sia cambiato nel tempo per adeguarsi ai
mutamenti storico-sociali in atto; soprattutto viene spiegato come tali
cambiamenti abbiano inteso rispondere alle crescenti esigenze di
internazionalizzazione della società italiana. La riforma Gelmini ha
ristrutturato il sistema di governance universitaria e le facoltà
“tradizionali” sono scomparse, trasformandosi in altre realtà. Anche le facoltà
di Scienze politiche hanno subito questa evoluzione, creando a volte qualche
crisi di identità. Tuttavia il cambiamento non deve essere vissuto solo in
senso critico, ma come l’occasione per cogliere nuove opportunità: ogni scelta
richiede coraggio ed entusiasmo, ma offre anche l’opportunità di soddisfare le
nuove richieste della società. (Fonte: www.rivistauniversitas.it
febbraio 2016)
RAPPORTO SULL’AVVOCATURA
Come sta cambiando la professione forense? Quali sono le maggiori
difficoltà che i legali stanno vivendo dopo la crisi economica? Qual è la
percezione che gli italiani hanno degli avvocati e del sistema giustizia nel
suo complesso? Sono alcune delle domande a cui risponde il Rapporto annuale sull'avvocatura
realizzato dal Censis per Cassa Forense . Il rapporto consente di
comprendere i temi affrontati attraverso l'indagine campionaria in una doppia
chiave interpretativa: autopercezione da parte degli avvocati e percezione
esterna da parte dell'opinione pubblica. Nel rapporto si legge che per il 60%
degli intervistati, l'immagine dell'avvocato è danneggiata dal cattivo
funzionamento della giustizia. Per gli altri, invece, ad incidere sono vari
fattori, come: la bassa qualità professionale di molti legali, l'eccessivo
orientamento al profitto, la troppa vicinanza alla politica, ma anche la
selettività nell'accesso alla professione e la rappresentazione che ne danno i
vari media. Inoltre, per l'85% degli italiani il numero dei professionisti
forensi in Italia è eccessivo. Tutto questo ovviamente si ripercuote anche
sulle cause, tanto che il 75% ha dichiarato di rinunciare anche a far valere i
propri diritti a causa della sfiducia nel sistema giudiziario.
Quanto ai pregi, invece, nell'immaginario collettivo, l'attrattività
della professione è dovuta soprattutto alla sua dinamicità (82%); all'autonomia
nell'organizzazione (81%), alla reputazione sociale (62%). Tra gli aspetti che
invece non invogliano ad intraprendere la carriera di avvocato emergono
innanzitutto la necessità di aggiornamento continuo (per l'83% degli italiani),
l'eccessiva concorrenza (74%), la difficoltà di crescere in un sistema
percepito come chiuso (67%), oltre alla scarsa capacità di innovarsi (56%), al
poco tempo libero (55,5%) e agli scarsi margini di guadagno (28%).
A far ricorso agli avvocati, secondo il rapporto, sarebbe stato, negli
ultimi cinque anni, almeno il 42% degli italiani e il ricorso aumenta con
l'aumentare del livello di istruzione (il 24% degli italiani con la licenza
media; il 43% con un diploma, il 48% dei laureati).
Quanto all'"autopercezione", sul campione di circa 8mila
avvocati, l'indagine mostra un quadro non proprio roseo della categoria,
duramente provata dalla crisi. Soltanto il 30% degli avvocati intervistati,
infatti, ha dichiarato di essere riuscito a mantenere stabile il fatturato
negli ultimi due anni, mentre per il 44% è diminuito (la percentuale sale al
49% se si guarda solo agli avvocati del Mezzogiorno) e appena il 25% lo ha
visto aumentare.
In ordine alle specializzazioni, infine, la professione appare ancorata
a una dimensione "civilistica" (il 54% degli avvocati). Seguono: i
penalisti (11%), gli esperti di diritto di famiglia (9%), di diritto societario
(3%) e di diritto internazionale (1%), mentre solo l'11% della categoria
indirizza la propria attività verso servizi specializzati. (Fonte: M. Crisafi,
studiocataldi.it 11-03-16)
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